Sull’ideologia economica dello stalinismo: il “modo di produzione socialista”
dic 22nd, 2020 | Di Thomas Munzner | Categoria: Capitale e lavoro
SULL’IDEOLOGIA ECONOMICA DELLO STALINISMO: IL “MODO DI PRODUZIONE SOCIALISTA”
La categoria della proprietà socialista è la pietra angolare delle concezioni economiche (e sociali) dell’era di Stalin. In effetti, tutto il sistema teorico chiamato “economia politica del socialismo”, che la classe dirigente iniziò a elaborare a partire dal 1936 (un progetto che, d’altra parte, fu completato solo nel 1954, con la prima edizione del Manuale di economia politica dell’Accademia delle scienze), dipende e deriva da questa proprietà socialista. L’identificazione tra proprietà statale e “proprietà socialista” come “proprietà sociale” (cioè proprietà della società nel suo insieme) venne codificata solamente nel 1936, quando venne proclamata l’abolizione delle classi antagoniste. Stalin ha poi dichiarato che “la vittoria totale del sistema socialista in tutti gli ambiti dell’economia nazionale è ormai un fatto compiuto”, poiché “la proprietà socialista degli strumenti e dei mezzi di produzione è stata affermata come base incrollabile della nostra società sovietica”. Nella misura in cui lo Stato è proprietario, “la nostra classe operaia non solo non è privata degli strumenti e dei mezzi di produzione ma, al contrario, li possiede in comune con l’intero popolo”. Tuttavia, i presupposti della teoria della proprietà socialista erano già presenti negli anni ’20, quando l’identificazione del settore statale con il settore “socialista” in contrapposizione al settore dell’”economia privata” era una tesi comunemente accettata.
La nozione di proprietà socialista si basa non solo su un vero rovesciamento dei rapporti giuridici ed economici, ma anche, e soprattutto, sull’identificazione illusoria dello Stato con la società. Così, il Manuale di Economia Politica definisce “proprietà socialista” come “proprietà sociale dei mezzi di produzione” e quest’ultima come “base dei rapporti di produzione in un regime socialista”.
È vero che non si tratta di una semplice mistificazione, ma piuttosto della teorizzazione delle false apparenze del capitalismo di stato, in cui ogni classe sfruttatrice sembra, infatti, essere scomparsa. Infatti, in questo caso, gli agenti (o funzionari) del capitale sono individualmente non proprietari, mentre lo Stato è l’unico (astratto) proprietario del capitale; la classe capitalista possiede i mezzi di produzione solo collettivamente attraverso la mediazione dello Stato. Ma questa mediazione è precisamente ciò che maschera totalmente il rapporto di produzione capitalista; è inutile precisare che gli ideologi stalinisti, lungi dal sottoporre a critica questa illusione, si sono anzi presi la briga di istituirla come sistema. La “vittoria definitiva” del socialismo si trova, quindi, nella generalizzazione della “proprietà socialista” dopo la “rivoluzione dall’alto di Stalin”. Questa proclamazione è accompagnata da un capovolgimento del discorso ufficiale in cui dominerà sempre più il conservatorismo sociale attraverso il tema della “difesa” della proprietà e del sistema socialista. Questo tema, che portò Stalin ad affermare nel 1950 che il socialismo può svilupparsi solo attraverso evoluzioni graduali e in nessun modo sulla base di rivoluzioni, costituisce un indice del passaggio dal periodo di controrivoluzione a quello di stabilizzazione (relativa) del potere della borghesia di Stato. È legata a una visione profondamente giuridica del sociale che conferisce all’ideologia staliniana quel carattere sorprendente di “socialismo dei giuristi” (nell’espressione di Engels); ma è anche legata allo sviluppo del sistema repressivo destinato a “proteggere” e “difendere” il sistema socialista, cioè i frutti della “rivoluzione dall’alto”.
La maggior parte delle tesi dell’economia politica del socialismo vengono dedotte dal dogma della proprietà socialista. In particolare, e contro ogni evidenza, l’affermazione dell’abolizione del sistema salariale, dell’abolizione del capitale e dello sfruttamento. Così si afferma:
“Nella società socialista sono i lavoratori, con la classe operaia in testa, ad essere al potere. Possiedono i mezzi di produzione. Nelle imprese socialiste, la forza lavoro non è una merce poiché i lavoratori, detentori dei mezzi di produzione, non possono vendere la propria forza lavoro. Ogni possibilità di sfruttamento dell’uomo sull’uomo è quindi esclusa nelle imprese socialiste.”
Si vede qui chiaramente che l’identificazione dello Stato con la società dei “lavoratori” e la dissimulazione del rapporto capitale in quanto mediata dalla figura astratta di questo Stato sono i fondamenti dei dogmi apologetici del “socialismo” staliniano, in modo che possa essere descritto come l’ideologia del capitalismo di stato. Va sottolineato che la “proprietà socialista” come base del cosiddetto “modo di produzione socialista” è l’elemento che sostiene la tesi dell’unità economica e politica della società sovietica, delle concezioni di omogeneizzazione sociale, della definizione di questa società attraverso il suo “carattere monolitico”.
Come si legge nel Manuale: La proprietà privata dei mezzi di produzione non può non disunire gli uomini, generare rapporti di dominio e subordinazione, lo sfruttamento dell’uno da parte degli altri, provocare un’opposizione di interessi, la lotta di classe e la competizione mentre la proprietà sociale dei mezzi di produzione unisce gli uomini, garantisce una vera comunità di interessi e una cooperazione fraterna.
Nella società staliniana, e in generale in quelle in cui domina il capitalismo di stato, vige l’apparenza dell’unità, o del dominio dell’unità sulla differenza (unità della proprietà sociale, dello stato, del partito, del corpo sociale…) ma, allo stesso tempo, questa realtà non smette di mostrare che non è affatto unificata ma diversificata, contraddittoria, che è attraversata da opposizioni e antagonismi spesso violenti, che la visione (e l’apologia) dell’unità si mimetizza e si traveste a beneficio di una certa parte della società. La seconda categoria fondamentale dell’ideologia sovietica è quella dell’”economia pianificata”; si articola con quella di proprietà socialista nella misura in cui non sarebbe esagerato affermare che la definizione di socialismo è ridotta a questa doppia condizione di esistenza: proprietà statale (“socialista”) da un lato, pianificazione dall’altro. L’economia pianificata si contrappone nell’ideologia staliniana alla “concorrenza” e all’”anarchia della produzione capitalistica”, queste ultime due intese essenzialmente sotto le forme fenomeniche di circolazione. Schematicamente, si possono distinguere due fasi nella concezione della pianificazione nell’era di Stalin. Nel corso degli anni ’30 (un periodo che inizia con la vittoria dei sostenitori teologici della pianificazione), dominava un’assolutizzazione della pianificazione, legata all’estremo soggettivismo e volontarismo. La pianificazione è spesso caratterizzata in questo periodo come la legge economica del socialismo.
Questo volontarismo si esprime, tra l’altro, nella famosa formula: “Non c’è una fortezza che i bolscevichi non possano espugnare”. Porta all’elaborazione di un primo piano quinquennale apparentemente “audace” (di fatto incoerente e impraticabile), e successivamente a revisioni “crescenti” di questo piano, revisioni che tengono sempre meno conto delle possibilità oggettive, che costringe a modificare la gestione dell’economia in corso d’opera ricorrendo ad un sistema di distribuzione amministrativa dei mezzi di produzione. Tuttavia, il “volontarismo” che presiede alla “pianificazione” non è altro che un’apparenza dietro la quale operano le leggi dell’accumulazione e la tendenza a produrre surplus di capitale inerente al modo di produzione capitalistico. Il feticismo dello Stato, il volontarismo e la tendenza alla produzione di capitale in eccedenza acquisirono un’ampiezza straordinaria nel corso degli anni ’30, poiché si svilupparono in condizioni di esacerbazione della lotta di classe a causa dell’espropriazione di massa degli agricoltori. Le leggi dell’accumulazione di capitale agiscono quindi tanto più cieche nella misura in cui la loro esistenza viene negata e la loro azione è combinata con il processo controrivoluzionario in corso. Ciò porta a un aumento costante dei ritmi di lavoro, a un’intensificazione dello stesso e a una diminuzione dei salari reali. Il discorso ufficiale non ha altra scelta che negare queste realtà economiche e sociali che contraddicono le rappresentazioni ideologiche dominanti. Pertanto, il discorso ufficiale afferma che il tenore di vita delle masse è in aumento. La contraddizione tra discorso e realtà non fa che rafforzare il volontarismo e le illusioni riguardo al “controllo” dello sviluppo economico.
Il feticismo di stato e il volontarismo sono componenti fondamentali dell’ideologia staliniana. Tuttavia, quando le condizioni della lotta di classe cambiano, queste componenti cessano di svolgere lo stesso ruolo dell’inizio degli anni ’30. Una volta consumata la massiccia espropriazione dei contadini, la tendenza all’accumulazione di eccedenze viene imposta con meno brutalità. Da quel momento in poi, i “piani economici” diventano più realistici e nuove figure ideologiche occupano il primo piano della scena, in particolare le cosiddette “leggi economiche del socialismo”. Il volontarismo non scompare per questo, ma assume nuove forme. A partire dal 1943, iniziò una svolta importante nella teoria sovietica, con la critica della precedente negazione dell’oggettività delle leggi economiche nel socialismo. All’inizio degli anni ’50, la pianificazione è preferibilmente definita come un’attività cosciente dello Stato la cui funzione è quella di applicare una legge oggettiva: la “legge dello sviluppo armonioso (proporzionato) dell’economia nazionale”. Questa distinzione mira a giustificare, sulla base di “errori” o “inadeguatezze” nella pianificazione, i ritardi riscontrati nella vita concreta tra la “possibilità di sviluppo armonioso e la realtà. Ma il cambiamento di pianificazione in semplice mediazione più o meno contingente di “disposizioni” o “richieste” di una legge (mistica) necessaria, non è altro che un trasferimento al modo di produzione socialista delle qualità nascoste attribuite allo Stato, come nel periodo volontarista. La natura fondamentalmente soggettiva della presunta “legge economica” (sia esso il caso della pianificazione o la legge dello sviluppo armonico) è identica in entrambi i casi. Va notato che l’attività progettuale dello Stato in generale (o dei trust , dei monopoli) nel capitalismo, sembra in grado di creare di per sé la possibilità (se non la realtà) di un “controllo” dello sviluppo economico e di un “controllo sociale” delle condizioni di produzione. Qui c’è la base delle concezioni del “capitalismo organizzato”: l’”economia politica del socialismo”, da parte sua, teorizza a suo modo quell’illusione che viene portata alle sue conseguenze finali, quando la proprietà statale sul capitale è dominante.
Formalmente, il controllo dell’uso dei mezzi di produzione e del plusvalore da parte degli agenti del capitale statale viene esercitato attraverso la “pianificazione economica” che sembra dipendere dalle “decisioni di partito”, decisioni che sono esse stesse adottate “in nome della classe operaia”. In realtà, il controllo della borghesia di Stato sull’uso dei mezzi di produzione e del plusvalore passa per altri canali e non porta in alcun modo ad un “dominio” dello sviluppo delle forze produttive. In ogni caso, il posto occupato dalla pianificazione nell’attività del partito e dello Stato dà luogo all’illusoria immagine del “predominio” dello sviluppo economico attraverso il piano statale. Questa immagine è illusoria, poiché le condizioni reali di produzione (che si sviluppa sulla base del rapporto salariale e dei rapporti di mercato, che la sottopone a contraddizioni capitalistiche e alle richieste di valorizzazione del capitale) non consentono in nessun modo un tale “dominio”. Pertanto, il vero movimento economico è lontano dall’obbedire ai “piani” e la produzione e la distribuzione non ne sono affatto dominate. Le attività dei diversi centri produttivi, infatti, sono svolte sostanzialmente indipendentemente l’una dall’altra. Proprio questa indipendenza delle diverse produzioni, unita alla separazione dei produttori diretti dai loro mezzi di produzione, assicura la riproduzione dei rapporti mercantili e capitalistici. Questo fatto è negato dall’ideologia staliniana, che accetta l’illusione che l’esistenza di piani economici e della proprietà statale siano sufficienti per sradicare le relazioni mercantili e sostituirle con “relazioni economiche pianificate”. Questa illusione è necessaria anche per il dominio della borghesia di Stato, poiché la rappresentazione di un’economia soggetta a pianificazione fa parte dell’ideologia del “modo di produzione socialista”. Consente alla classe dirigente di difendere i propri privilegi in nome della “difesa del socialismo”. L’articolo-programma sull’insegnamento dell’economia politica, pubblicato nel 1943 e generalmente attribuito all’economista Leontiev, è un testo di capitale importanza, che segna il passaggio da un periodo essenzialmente volontaristico a un periodo prevalentemente deterministico. Il decennio successivo sarà dedicato all’elaborazione del sistema delle “leggi economiche” del socialismo, che sarà sistematizzato nel Manuale del 1954, il cui nucleo è la teoria del “modo di produzione socialista”. Il momento culminante di questo processo è segnato dall’intervento di Stalin nel 1952 (con il suo Problemi Economici del socialismo in URSS), che risolve la discussione tra le posizioni contraddittorie emerse nei dibattiti tra gli economisti.
Così, all’interno della formazione ideologica stalinista, si assiste a una sorta di estensione ed estrapolazione del modello meccanicistico e deterministico del “materialismo storico”, elaborato nel corso degli anni ‘30 e sintetizzato nel famoso testo di Stalin del 1938, “Il materialismo storico e il materialismo dialettico” presente sia in Storia del partito comunista bolscevico dell’URSS e in Questioni di leninismo, al modello del “modo di produzione socialista”. Il primo periodo dell’ideologia staliniana è, infatti, segnato, da un lato, da un forte contrasto tra una teoria chiaramente evolutiva della storia, in cui si esprime l’eredità della teoria delle forze produttive dell’Internazionale, e, dall’altro, da una concezione estremamente volontaristica del sistema “socialista” in cui domina il momento dell’attività cosciente (anche della “violenza dall’alto”), il ruolo decisivo della sfera giuridica, politica e ideologica, in relazione a quella dell’economia e in cui lo Stato pianificatore tende a diventare il soggetto libero e creativo dello sviluppo sociale. Gli ideologi staliniani cercano di riassorbire questo contrasto derivato dalle condizioni storiche e sociali in cui la borghesia di stato ha portato avanti la sua “rivoluzione dall’alto”, dal momento in cui si stabilisce definitivamente questo dominio di classe: dopo la guerra. Così come la storia era stata ridotta nel marxismo staliniano all’azione di leggi eterne (la legge dello sviluppo delle forze produttive, la legge della necessaria corrispondenza dei rapporti di produzione con il carattere delle forze produttive… ) si vedrà che il “modo di produzione socialista” stabilizzato attribuisce un gran numero di leggi “oggettive”, immanenti alla sua “essenza” e il cui sviluppo sociale si suppone rappresenti la progressiva incarnazione nel reale. Ma bisogna sottolineare che, nonostante ciò, la miscela di volontarismo e determinismo nell’ideologia sovietica non è soppressa. Infatti, è irriducibile, in quanto il modo di produzione socialista resta comunque definito dalla sovrastruttura (proprietà socialista e stato socialista): la sua integrazione in uno schema fondamentalmente deterministico ed economicistico non è fonte di contraddizioni.
Dagli anni ’20 in poi, è emersa l’immagine ideologica dell’”accumulazione originaria socialista”. Respinta ufficialmente dal partito, riemerge sotto una nuova forma: quella del “tributo”, che Stalin dichiarò nel 1928, doveva essere imposto ai contadini. Questa immagine gioca un ruolo transitorio. Serve come giustificazione per la collettivizzazione forzata e le massicce confische effettuate sulla produzione agricola. Alla fine degli anni ‘20 emerge la tesi della necessità di uno sviluppo prioritario dell’industria pesante e del primo settore dell’economia (settore della produzione di mezzi di produzione). Questa tesi è praticamente accettata dal partito nel Plenum del 1928. In seguito sarebbe stata “teorizzata” e addirittura attribuita a Lenin (“dimenticando” che – proprio secondo Lenin – questo tipo di sviluppo costituisce una delle leggi del capitalismo). Questa tesi enuncia in forma dogmatica una delle leggi dell’accumulazione capitalistica. Fu proclamato con particolare brutalità nel corso degli anni ’30, quando fu lanciato lo slogan: “I ritmi decidono tutto”. Questo aspetto dell’ideologia staliniana è, quindi, costituito dalle esigenze della riproduzione allargata del capitale. Queste rivendicazioni, trasformate fantasiosamente in quelle dell’”edificazione del socialismo” e, più tardi, del suo “sviluppo”, diventano un’arma ideologica diretta contro la classe operaia che si oppone al super-sfruttamento. I sindacati sono ridotti al ruolo di strumenti per la “realizzazione dei piani e la lotta per la produzione”: ai lavoratori vengono imposti ritmi di lavoro sempre più estenuanti e il ricorso a “stimoli materiali” assume dimensioni senza precedenti e la repressione di massa colpisce coloro che si oppongono a tali sviluppi.
Infine, il sistema classico dell’economia politica del socialismo, del Manuale, contiene un certo numero di “leggi economiche” che differiscono, in realtà, per natura e funzione, pur essendo considerate, allo stesso tempo, come “leggi economiche oggettive”. Così, si potrebbero distinguere leggi ideali del modo di produzione socialista come la “legge economica fondamentale del socialismo” o la “legge dello sviluppo armonico (proporzionato) dell’economia nazionale”. Queste sono leggi puramente mistiche per quanto riguarda la loro determinazione teorica. Sono introdotti come postulati nonostante si basino solo su illusioni proprie del capitalismo di stato (vale a dire, l’idea che la proprietà universale dello stato e la pianificazione da sole autorizzino la soddisfazione dei bisogni della “società” considerata nel suo insieme e uno sviluppo armonioso della produzione). Il piano statale si presenta come una mediazione nell’effettiva attuazione delle “leggi”. D’altra parte, ci sono leggi reali del “modo di produzione socialista”: infatti, sono leggi della produzione capitalistica (come concepita dall’economia politica sovietica) trasfigurate in leggi economiche del socialismo. La trasposizione può essere diretta (legge di accumulazione socialista, legge di sviluppo prioritario del settore uno rispetto al settore due, legge dell’aumento necessariamente maggiore della produttività in relazione all’aumento dei salari..), o indiretta: in alcuni casi, è la forma fenomenica e illusoria della relazione capitalista che è dichiarata la legge del modo di produzione socialista (quindi, la “legge di distribuzione secondo il lavoro”, che non è altro che la teorizzazione della falsa rappresentazione generata dal capitalismo del salario come “prezzo del lavoro”). In breve, dobbiamo menzionare le leggi mercantili, ed essenzialmente la legge del valore. Quest’ultima è considerata una legge effettiva ma limitata (anzi trasformata) da condizioni “socialiste”. In realtà, subisce un ribaltamento totale poiché, lungi dall’esprimere che le relazioni sociali sono fuori dal controllo dei produttori – come ha mostrato Marx – la legge del valore diventa nell’economia politica del socialismo uno strumento “usato” dallo Stato per pianificare e “controllare” la produzione sociale. Quando gli ideologi staliniani affermano l’esistenza oggettiva di queste diverse leggi economiche e la necessità di rispettarle, oltre che di “applicarle” con giudizio, stanno di fatto operando un amalgama il cui scopo non è difficile da intuire. Il sistema delle leggi economiche del socialismo è senza dubbio l’ambito in cui appaiono più chiaramente le varie funzioni ideologiche dello stalinismo: occultamento e allo stesso tempo riconoscimento della realtà sociale effettiva, teorizzazione di apparenze reali che contraddicono l’essenza delle relazioni sociali di produzione, sviluppo di un’apologia per lo stato di cose esistente e, contemporaneamente, discorso con scopi pratici.
Per quanto riguarda la produzione mercantile e la natura delle categorie economiche, si possono anche distinguere due fasi distinte: nel corso degli anni ’30 è stato spesso affermato che le categorie mercantili e capitaliste sono state abolite oppure che esiste una forma apparente semplice, necessaria per ragioni tecniche. Così, l’esistenza della riproduzione mercantile e della legge del valore è generalmente negata. All’inizio del primo piano quinquennale -quando l’accumulazione originaria era estremamente estesa-, la negazione dell’esistenza reale dei rapporti monetari porta a rifiutare ogni significato all’inflazione che si sviluppa. Le cose cambiano una volta che questo periodo è finito. Dal 1932 al 1933 si riconosce che l’esistenza della moneta, anche come forma semplice, deve comportare importanti conseguenze pratiche. Da allora, Stalin e i responsabili dell’economia hanno insistito sulle “richieste” del calcolo monetario e su quelle della redditività. Questa svolta nel discorso è il prodotto di contraddizioni oggettive il cui approfondimento non consente di negare indefinitamente le richieste di valorizzazione del capitale. Nonostante ciò, l’affermazione di queste esigenze pratiche non trovò la loro traduzione a livello teorico negli anni ‘30.
È nel 1943 che avviene un importante cambiamento teorico (il citato articolo-programma afferma la persistenza della legge del valore nel socialismo); ma, nonostante tutto, le tesi ufficiali sulle categorie economiche non saranno veramente modificate, ma piuttosto specificate ed elaborate in modo più completo. Gli autori di questo articolo fanno una distinzione radicale tra produzione di merci e produzione capitalistica; E, pur affermando che il lavoro nelle imprese socialiste ha un carattere direttamente sociale, cercano di fondare la necessità delle merci e della legge del valore sull’esistenza di “differenze di lavoro” e su bisogni pratici di contabilità. Questa tesi fu abbandonata dopo i Problemi economici di Stalin (1952), per riapparire invece in alcuni economisti verso la fine degli anni ‘50. Per Stalin, la persistenza della produzione di merci e della legge del valore nel “socialismo” si basa su una premessa giuridica: l’esistenza di due forme di proprietà socialista. Le categorie mercantili (merce, valore, moneta) sono considerate efficaci in relazione ai rapporti tra Stato e kolchoz, oppure a livello di prodotti di consumo industriale (ma anche qui ci troviamo di fronte a una inversione dell’analisi di Marx, poiché Stalin presuppone un lavoro immediatamente sociale e non privato); al contrario, all’interno del settore statale queste categorie sono caratterizzate da una “vecchia forma”, necessaria per ragioni tecniche (contabilità), a cui corrisponde un “nuovo contenuto”, socialista, determinato dall’esistenza della proprietà socialista. Così, dichiarò Stalin
“Nel campo del commercio estero, i mezzi di produzione fabbricati dalle nostre aziende mantengono la proprietà delle merci sia nel contenuto che nella forma, mentre negli scambi economici all’interno del paese i mezzi di produzione perdono la proprietà della merce, cessa di essere merce, esce dalla sfera di azione della legge del valore e conserva solo l’aspetto esteriore della merce.”
L’economia politica del socialismo si rivela qui come una forma dell’economia volgare. La sua originalità deriva, da un lato, dal fatto che le apparenze su cui si basa sono quelle del capitalismo di stato, e, dall’altro, che si riferisce alla teoria marxiana del feticismo, trasformando la funzione critica che aveva per Marx in una funzione grossolanamente apologetica. Questa trasformazione è presupposta dal dogma della “proprietà socialista”. Quest’ultima serve anche a giustificare la negazione dell’esistenza di categorie capitalistiche, cioè di rapporti di produzione capitalistici, come plusvalore, capitale… C’è solo un’eccezione a questa negazione: il salario considerato come la forma secondo la quale ciascuno riceve “secondo il suo lavoro” e non in base al prezzo della sua forza lavoro. Ma questo “salario socialista” ha, se crediamo agli ideologi stalinisti, in una certa misura l’originalità di essere un salario basato sull’abolizione del sistema del lavoro salariato.
In termini generali, le categorie economiche nella teoria di Stalin tendono a subire un mutamento radicale: da forme sociali di produzione, espressione di determinati rapporti di produzione, diventano forme tecniche, “usate” o “controllate” dallo Stato-società, soggetto progettuale, nella sua gestione della produzione.
Le forme esterne delle categorie di valore nascondono nel proprio principio un diverso contenuto sociale; il destino di queste categorie è radicalmente modificato. Moneta, commercio, credito sono ormai strumenti della pianificazione socialista. La personificazione dei rapporti di produzione, insiti nella produzione mercantile e capitalistica in generale, ma portati all’estremo nel capitalismo di stato, serve quindi, un substrato immediato per l’ideologia economica dello stalinismo: secondo queste concezioni, il socialismo diventa socialismo di Stato concepito come capitalismo organizzato. Una tale formazione ideologica (le cui caratteristiche essenziali sopravvivono nella successiva ideologia ufficiale) costituisce una sorta di forma finita di quella tecnologia sociale che molti teorici degli anni ’20, e prima di tutto Bukharin e Preobrazhenski, immaginavano come la futura scienza dell’economia organizzata”, di una “società-fabbrica “immaginaria. Ma nell’economia politica del socialismo staliniano questa “tecnologia sociale” non è altro che l’economia volgare, con un vocabolario “marxista”, del capitalismo di stato. Attraverso un linguaggio segnato dalle condizioni storiche della rivoluzione russa e della controrivoluzione staliniana (che spiega la sua forma “marxista” e “leninista”), l’ideologia dello stalinismo riflette – allo stesso tempo nasconde – le relazioni sociali così come sono stabilite e riprodotte quando la proprietà generale dello Stato è imposta al capitale. Da un lato, le illusioni proprie del modo di produzione capitalistico – feticismo della merce, del denaro, del capitale- vengono osservate, rafforzate, allo stesso tempo integrate nel feticismo dello Stato. Da qui la copertura contraddittoria dell’illusione politica (secondo la quale è lo Stato che unifica la società) e giuridica (che incoraggia la considerazione delle leggi sociali ed economiche sul modello di diritto dettato dal soggetto che sarebbe lo Stato-società sovrano), e il feticismo del capitale (dove appare come agente cosciente e attivo, personificato, dello sviluppo sociale, come portatore di tutte le forze produttive esistenti e potenziali in relazione al lavoro). Ma, d’altra parte, il capitalismo di stato produce un’inversione radicale di certe forme di rappresentanza poiché alla fine è il capitalismo stesso che sembra essere abolito. Scompare infatti la reciproca autonomia dei diversi rapporti di produzione, delle diverse forme funzionali di capitale o delle diverse forme di plusvalore (profitto, rendita, interesse). Così, la figura dell’unità del capitale sociale, del capitale universale, sotto forma di proprietà statale si impone in modo molto diretto ma questa “unità” si presenta non come realmente è, come unità del capitale, ma come il suo opposto: come il ricongiungimento dell’unità della società con se stessa.
Bollettino Culturale