Deus ex machina

mar 19th, 2010 | Di | Categoria: Cultura e società

di Stefano Moracchi

Deus-ex-machina-IIQuesta, che stiamo vivendo, assomiglia molto ad una lunga attesa. Con la differenza, non da poco, che non sappiamo cosa vi sia d’attendere, ma con la certezza amara che non sia nulla di buono.

Che vi sia un personaggio politico e imprenditoriale (oramai finanziario) di cui liberarcene in fretta, anche se oramai è tardi, su questo, almeno io, non ho dubbi. Il dubbio, che nel frattempo è divenuto certezza, è la speculare attitudine di questa scellerata e beota sinistra.

La domanda, allora, è: chi ci dovrebbe liberare?

Perché, vedete, personalmente da un nemico mi aspetto di tutto e, comunque, lo riconosco come nemico: nel senso che non gli affido le sorti del mio destino.

La sinistra, nell’immaginario collettivo, è comunque la parte amica. Purtroppo le cose non stanno proprio in questi termini.

La sinistra rappresenta il perturbante (das Unheimliche), ovvero quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare e, proprio per questo, ancora più terribile nel vederlo improvvisamente come nemico. Se fosse un essere estraneo a minacciarci in casa avremmo spavento, ma quando improvvisamente la minaccia ci arriva da colui che ci è sempre stato vicino, è orrore. Heimlich, rivela Freud, significa sia familiare, domestico (da Heim, casa) ma anche nascosto, tenuto celato. È, quello che fa più paura, ciò che sta nascosto in ciò che si conosce. L’insidia che si annida in ciò in cui si crede, a coloro i quali affidiamo noi stessi.

Ecco perché nella sinistra è da snidare il lato oscuro, nascosto e, quindi, pericoloso.

Eugenio Garin, nella bellissima introduzione al libro di Johan Huizinga, Autunno del medioevo, scrive: Par riflettersi, nelle parole dello Huizinga, come un’antitesi fra l’ora autunnale da cui l’uomo cerca di evadere sfuggendo alla malinconia per rifugiarsi nella dimora del sogno (nel mondo…non c’era promessa alcuna di cose migliori), e l’esplosione gioiosa della vita nelle aurore primaverili e nei meriggi d’estate (il Rinascimento aveva ancora attinto ad altre sorgenti la sua risoluta affermazione della vita).

Mi sembrano meritevoli di approfondimento queste acute osservazioni su un tempo che si sa oramai sulla via del tramonto e la risoluzione di non volere o sapere reagire, preferendo rifugiarsi in fantasticherie che non hanno nessuna corrispondenza con la realtà.

Quando Huizinga parla di Erasmo, lo descrive come anelante al ritiro, a una segregata “accademia” di dotti amici. E l’umanesimo erasmiano è presentato a sua volta come un raffinato gioco intellettuale entro le mura di un nobile castello. Difatti, negli scritti di Erasmo, quel desiderio ideale ritorna sempre nella forma di una passeggiata in compagnia di amici, seguita da un pranzo in una casa di campagna[1].

Credevo, sinceramente credevo, che le recenti sconfitte elettorali avessero portato saggezza popolare. Specialmente a coloro che si sono ritrovati fuori dal parlamento italiano ed europeo. Invece niente, come se niente fosse accaduto. Effettivamente lo slogan di Tinto Brass, Facce da culo, ci sta tutto. Però non è che con la battuta, o raccontandoci le malefatte, o il totale immobilismo della sinistra, si fanno progressi.

E allora?

Allora bisogna capire che cosa è cambiato nel nostro immaginario collettivo.

Perché se la sinistra porta delle responsabilità di collusione e conflitto d’interessi sia con la destra, con i vari Passera (nel 1994 nel consiglio di amministrazione di MicroMecga!) ed agenti stranieri, il cosiddetto popolo della sinistra ne porta altrettanti.

Se l’indignazione viene sfogata su una farsa, come la chiamata al popolo, che si risolve tra una cantata e l’altra scandita da personaggi quali Ferrero, Bersani , Bonino, Di Pietro e compagnia cantando, con parole d’ordine che configgono tra loro, allora bisogna porsi delle domande differenti.

Una potrebbe essere: non è che il sentire[2] ha preso il sopravvento sul pensare e sull’agire?

Per sentire intendo quel tipo di conoscenza che avviene attraverso i sensi: l’udito, il tatto, lo sguardo, il sapore. Un tipo di conoscenza che non vuole mediazioni, che non intende aspettare il risultato della comprensione del testo. Un sapere che è nemico anche della memoria, del tempo che non passa mai e si risolve in un eterno presente.

Se la conoscenza passa attraverso il sentire, allora tutte le speculazioni che facciamo attraverso concetti in uso nel XX secolo non ci fanno avanzare di certo nella comprensione.

Bisogna, però, per onestà di analisi (sempre per quello che può valere), dire che questa modificazione di percezione non appartiene solo all’oggi. Tutte le epoche hanno avuto il loro modo di sentire la realtà. Ma è sicuramente nella nostra attuale epoca che l’immagine, il suono e il tempo vengono percepiti in modo completamente diversa rispetto al passato.

Vi è un certo potere in questo modo di sentire. Un potere che non può essere decifrato alla stessa maniera che facevano Marx nell’ottocento, e Marcuse nel novecento.

In questo modo di sentire entrano in gioco forme sottili di conflitti, strategie, passioni e anche sentimenti, ma come sollevati dalla responsabilità personale, dalla decisione individuale ponderata attraverso la memoria, il tempo, e la decifrazione del testo. Dalla rassegnazione passiva si passa alla rassegnazione attiva, ma sempre di rassegnazione parliamo.

The Color Purple (Il Colore Viola), era il titolo di un romanzo in cui la scrittrice afroamericana Alice Walker narrava la conquista della libertà di una donna che si emancipava dalla sottomissione patriarcale. Dal libro, Spielberg, ne trasse un film. La differenza tra le due opere è incommensurabile. Nel libro i sentimenti, le passioni, la lotta della donna hanno un tempo scandito dalla continua riflessione, dal continuo rimando tra il prima e il dopo. Nel film, ben fatto, tutto questo sparisce necessariamente. La riflessione della donna diventa azione, sguardo, colore, suono, eccetera. Sappiamo della sua sofferenza dal pianto, dalle urla, dalla lotta. La descrizione del paesaggio, della casa, che nel libro è raccontata con molta cura, nel film si risolve nella scenografia.

Deus_Ex_Machina_by_Scully7491Questo non significa che il libro è meglio del film, che sarebbe non solo sciocco ma un accostamento del tutto improprio. Significa soltanto che quello che leggiamo nel libro nel film lo sentiamo diversamente, anche se si tratta della stessa realtà raccontata.

Veniamo ora al popolo viola, o popolo di internet. Non so se si è scelto questo colore ispirandosi alla Walker oppure a Spielberg. Quello che importa, in questa riflessione, è in che modo questo popolo ha assunto la sua forma, e si sia poi sostanziata nei partiti, da cui voleva tenere le distanze.

La sua forma, si dice, è nata attraverso internet. Questo può significare tutto e nulla. Tutto, in quanto un comune sentire può trovare ascolto attraverso il passaparola internauta. Operazione che ha fatto la fortuna di Beppe Grillo, e poi la sua croce, a giudicare come è finita. Lo stesso dicasi per Nanni Moretti e i suoi girotondi. Tutte espressioni di sincera indignazione prive di responsabilità individuale. Una forma che non riesce a sostanziarsi in quanto ha bisogno di deresponsabilizzarsi per crescere e continuare nel tempo. Non ha senso scegliere una forma di popolo, che si colora di viola, per tenere ferma la propria indipendenza politica dai partiti, e poi finire nella sgraziata eloquenza di un Di Pietro, o nella kermesse canora, con tutti i responsabili del disfacimento della sinistra.

È questo ciò che chiamo la supremazia del sentire. Una forma nuova di potere. Perché la libertà dello strumento (internet) non può condensarsi in forme sterili di protesta, da società civile. Non siamo una società civile, ma non siamo neppure barbari (che avevano una loro dignità). Non siamo, semplicemente. Non vogliamo essere. Siamo ancora fermi alla sterile e infantile protesta.

Per comprendere il livello d’infantilismo riporto qualche slogan: DIMETTITI, siamo teste pensanti, la storia non avrà pietà, è il miglior corteo degli ultimi 150 anni! (questo è riferito al corteo del 5 Dicembre 2009, più noto come NoBDay), le leggi ad personam non sono una cosa buona.

Sono sicuro che dietro queste forme infantili vi sia sicuramente un profondo orgoglio ferito. Ma di chi è il compito di svolgere questa forma superiore, nel senso di politica, di comprensione di un sentimento generale? Non è certo nel tam tam internettiano che si può riflettere sul che fare, e sul come farlo.

Ma cosa ancora più importante non ci si può scordare che coloro che oggi raccolgono la protesta del popolo viola sono gli stessi del fu governo Prodi.

E qui si passa dal sentire al già sentito. Ma con la tragicomica pantomima del far finta che non vi sia mai stato un prima. Tutto è indistintamente nuovo e vecchio allo stesso tempo. Nel senso che la rassegnazione attiva (la protesta delegata) è figlia si, del sentire, ma in quanto già sentito, ovvero qualcosa di vecchio, incapace di mobilitazione. Ecco allora che il sentimento di mascheramento fa in modo che il popolo viola, oggi ( ieri i grillini, domani chissà) si possa dotare  di novità perché, potere della tecnica, da virtuale diventa reale, in carne ed ossa.

Ma questa non è politica. È lo stupore infantile di un gruppo di persone, uomini e donne, che chattano, e ogni tanto si radunano in qualche albergo di una città italiana, in cerca di emozioni nuove.

Queste forme infantili hanno sicuramente l’origine nelle ideologie del novecento. L’ideologia che ha accompagnato il novecento non aveva bisogno di teste pensanti, ma di uomini e donne fedeli ai riti che venivano consumati e scanditi. Era semplice aderire a questa ideologia, perché vi erano già confezionati opinioni e dottrine, che per ignoranza dei presupposti assomiglia a una fede religiosa.

Per troppo tempo si è rinunciato a pensare e a delegare ad altri il nostro destino.

Ma non sarà l’illusione di una piazzata a farci fare il salto di qualità.

E siamo giunti al risentimento. Quando non si sono coltivati sentimenti è inevitabile che si arrivi al risentimento. Il risentimento è una specie di anestetico del pensiero. Si evita di riflettere sulle cause che hanno portato a stare male, in quanto si scarica il malessere su un capro espiatorio. Anche il risentimento si nutre di già sentito, di qualcosa che è stato ma non è più.

Al pensiero e alla riflessione non si sfugge.

E siamo giunti alla seconda domanda probabile: quale rapporto c’è fra l’abituale e il mondo aperto, ovvero a quel processo che non si lascia ingabbiare in gesti convenzionali, a percorsi rigidi, a rituali risaputi?

Qui, entra in gioco l’indifferenza. Indifferenza generata dalla conoscenza di essere dei semplici strumenti in mano di altri. Siamo comparse necessarie all’interesse altrui. In realtà chi oggi grida non sa nemmeno dove si stia svolgendo la battaglia di cui immagina di essere il protagonista. È proprio questa assuefazione corrosiva a lasciare che sia l’indifferenza ad emergere. Colui che deve abbattere il tiranno è esso stesso tiranno. È il gioco delle parti che l’indifferenza sceglie senza discernere. Entriamo nel campo delle opinioni, indifferenti per costituzione a qualsiasi idea, permettono la distruzione di qualsiasi valore, costruzione, verità.

Quando nel suo lavoro l’operaio raggiunge l’assuefazione, la ritualità del gesto meccanico, elude ogni alienazione. L’operaio, a quel punto, è schiavo della sua opera. Quando si raggiunge una tale assuefazione, l’operaio e l’opera scompaiono, rimane soltanto il prodotto medio. In questo modo, nello spirito della produzione seriale, che obbliga l’operaio a rifugiarsi nella sua opera quotidiana, si raggiunge la mediocrità del prodotto. Non vi è nessuna originalità, nessun imprevisto o scarto dal susseguirsi del gesto sempre uguale a se stesso.

Allo stesso modo, il mostrarsi in piazza a comando, senza nessuna possibilità di far emergere la propria personalità, il proprio essere irripetibile, si finisce inevitabilmente per esaltare l’utilità di essere presenza: e poiché l’esaltazione dell’utilità, per altri che non siamo noi, significa che ogni altro valore rimane scartato.

Questo rapporto tra la piazza e gli oratori è un rapporto mortificante, perché uccide lo spirito vitale che sottintende alla stessa piazza convenuta. Vi è un’attesa taciuta, mortificata, appunto.

Quello che veramente emerge da queste piazze è il non-detto, il taciuto. Quello che si sente, invece, è un’enorme tautologia, non dice niente, è un dire che assomiglia a un non-detto. È il tacere su ciò di cui non si può parlare.


[1] Johan Huizinga, Autunno del medioevo, 1987, Sansoni, Firenze.

[2] È utile a tal proposito Del sentire, Mario Perniola,  Einaudi, 1991

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