Scendete dal taxi e prendete la limousine!
nov 17th, 2020 | Di Thomas Munzner | Categoria: Politica Internazionale
PIOTR
SCENDETE DAL TAXI E PRENDETE LA LOMOUSINE!
Questo articolo viene pubblicato in contemporanea anche su Megachip
«Il Presidente Trump è solo il conducente di un taxi che porta i passeggeri che ha accettato di far salire – Pompeo, Bolton e i Neoconservatori con la sindrome dell’Iran – dovunque gli dicano di andare. Vogliono fare una rapina, e viene utilizzato come guidatore per la fuga (e lui accetta completamente il suo ruolo)»
Michael Hudson
Un’amica di sinistra mi ha suggerito di leggere un articolo sulle presidenziali statunitensi scritto da Nadia Urbinati per il quotidiano “Domani”, il giornale di De Benedetti. Cosa che ho diligentemente fatto.
Nadia Urbinati è docente di scienze politiche alla Columbia University, una studiosa che da brava signora liberal newyorchese si pone il problema teorico se il Bolivarismo sudamericano (tout-court definito “populismo”) sia fascismo. La risposta è negativa (il Bolivarismo è addirittura ossessionato dalla necessità di elezioni – però, ahi ahi, anche per ottenere conferme plebiscitarie), ma già il dilemma posto conferma che la coscienza di classe e l’ideologia sono dettate dall’essere sociale, come aveva perfettamente intuito György Lukács. Io semmai mi porrei il problema se il Bolivarismo sia socialismo. Mi porrei cioè, nel suo senso più generale, un problema di rapporti sociali.
E qui entriamo nel vivo.
L’articolo accenna alla questione razziale e ripete le usuali accuse a Trump suggerendo che con Biden e la Harris le cose cambieranno.
In realtà quello che dice l’articolo può essere riferito pari pari anche ai Democratici. È noto, ad esempio, che sotto i due mandati di Obama si è toccato un numero record di neri uccisi dalla polizia (record rinnovato sotto Trump) e molti osservatori liberal hanno registrato l’incapacità o impossibilità da parte di Obama di, non dico migliorare, ma almeno fermare il peggioramento delle condizioni economiche e sociali degli afroamericani.
Il razzismo è una costante della storia etnica e di classe americana e non bastano le belle parole così come non è bastato nemmeno il colore della pelle di Obama che pure aveva fatto sognare liberal di entrambe le sponde dell’Atlantico, affascinati da ragionamenti ideologici e incapaci di andare analiticamente alla radice delle cose.
L’autrice, prima del panegirico dei discorsi di Biden e Harris, cioè dei loro bla bla, traccia una linea di demarcazione tra il “buon populismo” del People’s Party (fine del XIX secolo), che contrastava il capitale finanziario per difendere la middle class, e il “populismo tossico”, appannaggio di Trump ma anche di Paesi latinoamericani (vedi sopra) ed europei. Con un ragionamento duale, ci domandiamo, di conseguenza, se gli avversari di tale populismo tossico siano avversari del capitale finanziario e avvocati della middle class. Ma l’articolo sorvola su questo punto dirimente per scandagliare invece ogni singolo “bla” dei bla bla del duo Biden-Harris.
La realtà, ciò che è fattualmente vero ma sottaciuto, è che la destra Dem di cui Biden e Harris sono esponenti è da decenni organica a Wall Street e complice, assieme al centro repubblicano, della concentrazione della ricchezza nelle mani di una ristrettissima oligarchia, con buona pace del peggioramento delle condizioni di vita della middle class, sia essa nera, bianca, ispanica o altro [1].
Trump, cioè l’outsider di destra, quattro anni fa spiazzò Dem e Repubblicani ergendosi proprio a difensore della middle class. Era indecente, ma come scrisse un osservatore liberal sul New York Times, «non si votava sulla decenza» ed ebbe i voti anche di quella middle class bianca che quattro anni prima era stata disposta a votare per il “nero” Obama sperando nelle sue promesse di riforma (altro che “suprematismo”) [2].
Trump è riuscito a far poco, ma era evidente da subito che non sarebbe riuscito a far molto. All’indomani della sua elezione scrissi un articolo intitolato “America anno zero. La presidenza modernariato” in cui paragonavo Trump a un mangiadischi degli anni Sessanta che voleva suonare musica degli anni Sessanta. Voleva riportare indietro di decenni l’orologio della Storia, ma, ovviamente, non ci poteva riuscire, perché nessuno ci riesce. Così era destinato a incartarsi in una miriade di contraddizioni, come infatti è successo [3].
È stato anche boicottato in tutti i modi da quello che ormai viene chiamato “complesso MICIMATT” (Military-Industrial-Congressional-Intelligence-Media-Academia-Think-Tank complex), in breve la nomenklatura, ma il risultato sarebbe stato solo marginalmente diverso [4]. La pandemia Covid ha infine suggellato e sigillato con una pietra tombale queste contraddizioni e sottolineato la riprovevole caratura del personaggio Trump.
Con tutto ciò, pur avendo contro i media più influenti, tutti i democratici e la maggioranza dei repubblicani, Donald Trump ha ricevuto quasi la metà dei voti popolari. Dimostrazione che i ceti sociali che lo avevano eletto quattro anni fa non si fidano delle promesse Dem nemmeno adesso e che le contraddizioni che mordevano allora mordono ancora oggi, nonostante il refurbishing e la cosmesi post moderna e terziarizzata di qualche quartiere qua e là della Rust Belt, la cintura della ruggine. Probabilmente la delusione per Obama è stata troppo cocente e hanno avuto modo di inquadrare la natura profonda del Partito Democratico.
Trump è stato il candidato (formalmente) repubblicano più votato di sempre e se il conteggio (e non la CNN!), come probabile, decreterà la futura vittoria di Biden (la dead line per i conteggi e i riconteggi del voto popolare è l’8 dicembre) il presidente uscente diventerà il candidato sconfitto più votato di sempre [5].
Tutto questo si può motivare ipotizzando un virus che colpisce il cervello delle persone facendole sragionare. È una spiegazione molto gettonata a sinistra dove ormai quel che conta è la manipolazione linguistica e simbolica, così che “cretino” è vista come categoria più esplicativa (e consolatoria) che non “classe”.
Ma io, pur lavorando da decenni su simboli e manipolazione linguistica (lo confesso, mi occupo di quella che pomposamente viene chiamata Intelligenza Artificiale, anche se nell’ambiente non usiamo mai questa parolaccia) sono della vecchia scuola e chiamo tutto ciò “lotta di classe”, che oggi si presenta in quella versione specifica che si riproduce durante le crisi sistemiche, ovvero durante le svolte epocali: la middle class (qui comprendente la working class)- che per definizione è radicata sul territorio, e quindi è nazionale - versus i ceti finanziarizzati cosmopoliti (il proletariato al più emigra, è il capitale che si delocalizza). In questo tipo di situazione è storico ed è logico che in mancanza di una proposta credibile di sinistra, sia la destra nazionalista a vincere. In mancanza di socialismo vince il nazional-socialismo [6]. Lo abbiamo visto in Europa negli anni Venti del secolo scorso coi fascismi, e lo vediamo di nuovo adesso, dopo un secolo, coi populismi cosiddetti e sedicenti “sovranisti” ma in realtà revanscisti (in sé, come per l’appunto dimostra il Bolivarismo, rivendicare sovranità contro le élite, le oligarchie e l’imperialismo non è per nulla negativo – i revanscisti lo sanno e ci giocano sporco).
In America ogni alternativa di sinistra, come Bernie Sanders o Alexandria Ocasio-Cortez e le altre ragazze della “Squad”, cioè Ilhan Omar, Rashida Tlaib e Ayanna Pressley (a me non dispiaceva Tulsi Gabbard, ma si è persa per strada), detestate dalla Clinton e dai clintonoidi fino agli insulti, è stroncata fin sul nascere dall’establishment Dem (non voglio in questo specifico contesto entrare nei loro limiti, specialmente in politica estera: sono pur sempre esponenti di un Paese imperiale e questo influenza le loro idee in politica estera la quale retroagisce su quella interna).
Biden e la Harris sono espressione di questo establishment che, come avrebbe detto Talleyrand, non ha imparato nulla e non ha dimenticato nulla. Talleyrand si riferiva alla restaurazione borbonica. Biden può dire tutti i bla bla che vuole, assieme alla sua vice (di fatto una prevedibile e classica retorica da pochi spiccioli) ma la realtà è che è stato prescelto come garante di una restaurazione combinata neo-liberal e neo-con, dopo lo spavento per una rivoluzione mai avvenuta e che non sarebbe, con Trump, mai potuta avvenire.
Biden non sarà in grado di superare le drammatiche contraddizioni statunitensi (e mondiali). Non ne ha la stoffa, non ne ha il coraggio, non ne ha il carisma ma più che altro rappresenta interessi che fanno parte del problema e non della soluzione (come per altro Trump). I miei amici di sinistra mi hanno già accusato di essere un guastafeste perché loro voglio godersi questo momento di euforia identitaria. Sono desolato, ma io non vedo nel prossimo futuro magnifiche sorti e progressive.
Intanto Biden è espressione di un establishment che si è dedicato anima e corpo ad aggressioni imperialistiche di ogni genere, dalle guerre dirette a quelle “from behind”, dagli assassinii extragiudiziali alle rivoluzioni colorate ai golpe, coprendosi di crimini, comprese le deportazioni di immigrati e la costruzione di muri di confine, che fanno sembrare le parole di Trump rodomontate e le sue azioni bambinate [7]. Questi sono i tratti ereditari e le tare ereditarie del probabile nuovo “ticket” presidenziale Biden-Harris. Se cambiamenti ci saranno, saranno a macchia di leopardo e in realtà saranno più che altro dei ritorni al futuro, come ad esempio il rientro degli Usa negli accordi sul clima, sul nucleare iraniano e magari in quello con la Russia sui missili a corto e medio raggio, quasi obbligatorio dopo il disequilibrio strategico dovuto al formidabile riarmo russo. Se va bene, quindi, si tornerà alla situazione di quattro anni fa. E se va male si ritornerà alla situazione di quattro anni fa: guerra in Libia, in Siria, nello Yemen, in Afghanistan, in Ucraina e regime change a go-go. In più, nel frattempo la situazione mondiale è radicalmente cambiata, la crisi si è ingigantita e le posizioni e gli interessi che rappresenta Biden non promettono soluzioni ai mastodontici problemi che si sono accumulati in questi anni.
Se le cose andranno diversamente sarà per uno shock esterno, altrimenti la linea è segnata, le contraddizioni si acuiranno nel mondo e la frattura all’interno degli USA si approfondirà e tra quattro anni il populismo di destra ritornerà vincitore (ripeto: a meno di shock esterni che facciano precipitare la situazione interna). Questa dialettica la si è vista già abbondantemente all’opera, ad esempio in Turchia, col fratello musulmano neo-ottomano Erdoğan, o in India, col fascismo indù di Narendra Modi. Se le promesse di progresso falliscono e la loro retorica continua imperterrita, si volge lo sguardo al modernariato, ai cimeli dell’epoca del “possiamo fare”, del futuro che non è ancora alle spalle, delle speranze e dei primi successi, o addirittura, specialmente laddove il modernariato non è un elemento culturale, si ritorna a fedeltà premoderne, estenuati e innervositi da una retorica liberal progressista il cui estremismo è direttamente proporzionale ai fallimenti che vuole coprire.
Sarà perché dopo essermi laureato in Filosofia ho visto che era meglio dedicarsi alla Matematica, ma i bla bla mi entrano da un orecchio e mi escono dall’altro, a volte lasciando un’irritazione. Così come mi irrita il filosofare complottista, tutto assonanze, metafore e analogie, allo stesso modo e per gli stessi motivi mi irrita la retorica liberal della gauche caviar.
Non è cinismo. È il tentativo di rimanere connesso alla realtà. Per sognare aspetto la notte.
L’alternativa è un’oscurità permanente.