Nelle tempeste d’acciaio della crisi. Il nazionalbolscevismo tra ieri e oggi

nov 17th, 2020 | Di | Categoria: Recensioni

Milis

Nelle tempeste d’acciaio della crisi. Il nazionalbolscevismo tra ieri e oggi

Nelle tempeste d’acciaio della crisi. Il nazionalbolscevismo tra ieri e oggi

Recensione di Franco Milanesi al libro di David Bernardini, Nazionalbolscevismo. Piccola storia del rossobrunismo in Europa, Shake, Milano 2020.

Sulla comprensione del significato storico e politologico del nazionalbolscevismo gravano due condizionamenti. Da una parte esso è oggetto di una sorta di damnatio memoriae da parte della sinistra di classe che fatica a prendere atto quanto l’internazionalismo proletario appartenga più alla tradizione ideologica marxiana e alla pubblicistica terzinternazionalista che alla storia effettuale dei movimenti di emancipazione. Percorrendo la storia del Novecento ci troviamo infatti di fronte a una frequente ed efficace attivazione dell’idea di nazione utilizzata come potenza mobilitante nel corso delle lotte di liberazione dal controllo e dal dominio di Stati stranieri, nei conflitti antiimperialisti, nella propaganda contro le borghesie che spadroneggiano nell’illimitato mercato-mondo. Anche nella fase di consolidamento degli stati socialisti, l’afflato internazionalista ha non di rado lasciato il posto al richiamo a forme di identità radicate nel fluido e ambiguo concetto di nazione (i lavori di Mosse, Wehler, Campi restano, sotto questo aspetto, punti di riferimento obbligati). La seconda ipoteca rimanda agli intrecci abborracciati tra neosovranismo, nazionalismo e comunismo che lo smottamento della cultura della sinistra ha lasciato come strascico melmoso dietro di sé. Con esiti spesso risibili e inquietanti non tanto sul piano del rigore teorico quanto su quello della strategia politica conseguente, non di rado orientata verso il suprematismo, il razzismo o il vero e proprio neofascismo.

Per avvicinarsi alla comprensione dell’intricata storia dei gruppi, delle riviste e delle personalità che hanno innestato su tronco della nazione ulteriori motivi teorici, gli articoli e i saggi monografici di David Bernardini, giovane professore a contratto presso l’Università di Milano, rappresentano uno strumento indispensabile. Se in Pugni proletari e baionette prussiane. Il nazionalbolscevismo nella Repubblica di Weimar, Biblion 2017, veniva studiato in particolare il momento postbellico, in quest’ultimo lavoro Nazionalbolscevismo. Piccola storia del rossobrunismo in Europa, Shake, Milano 2020, Bernardini dilata notevolmente il raggio spazio-temporale prendendo in considerazione – con un’interessante procedere a ritroso, dalla contemporaneità alle origini weimariane del fenomeno – le molteplici espressioni politiche che hanno radicato la propria strategia nel punto di congiunzione tra nazionalismo e classismo, tra l’appartenenza allo “spirito” di un popolo connotato da “sangue e suolo” e la lotta anticapitalistica. Quanto siano ossimorici questi nessi è l’interrogativo che accompagna l’intero percorso di lettura e che in ragione dell’originalità e dell’ambivalenza del fenomeno non viene mai definitivamente risolto.

Percorrendo il libro a ritroso e andando direttamente alle origini del fenomeno, si coglie come siano state le «foreste d’acciaio» (secondo la definizione di Ernst Jünger) in cui si svolse il grande macello del 1914-18 e soprattutto il diktat punitivo di Versailles a creare le condizioni per la formazione dei primi gruppi. Essi tentano di saldare e politicizzare il ribellismo antiliberale e anticapitalista, diffuso a causa della capitolazione politica (e non militare) della Germania, in una compatta ideologia in cui il risentimento verso Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti si sostanzia in un originale programma politico fortemente influenzato dalle idee che circolano e si intersecano in «quello straordinario laboratorio culturale e ideologico che è la Repubblica di Weimar» (p. 78). La sconfitta tedesca è attribuita alla responsabilità e all’ignavia delle forze liberali e socialiste che hanno svenduto agli Stati dell’Intesa un esercito “mai sconfitto sui campi di battaglia”. Per gli ideologi nazionalrivoluzionari questo “tradimento” a opera di forze interne giunge dopo ripetuti attacchi alla sovranità tedesca condotti da forze e potentati stranieri.

Secondo questa prospettiva, scrive Bernardini, «il popolo tedesco sarebbe da secoli vittima di una colonizzazione culturale e politica: prima Roma e la Controriforma, poi gli ideali della Rivoluzione francese, infine quelli dell’Europa, tutte armi per la “deteschizzazione”» (p. 159). Questo contrasto tra la latinità meridionale e il Nord germanico, tra la grande Kultur tedesca e la Civilisation illuministica e democratica è in vario modo all’origine della capitolazione del 1918 (che ha tonalità spirituali oltre che materiale) e si perpetua nel primo dopoguerra, quando il blocco capitalistico-borghese guidato dagli Stati Uniti si fa promotore di un complessivo processo di colonizzazione. Gli Usa condensano in sé tutti tratti del “male”: consumismo, individualismo, edonismo, universalismo antidentitario, materialismo, mercificazione, pluralismo etnico e linguistico. Elementi che vanno intesi non tanto come ricadute marginali di un sistema di produzione ma come qualità penetrate in profondità nel tessuto dei soggetti e assunti in interiore homine dalla Figur borghese.

La specifica attenzione per l’antropologia politica è sicuramente uno dei tratti di originalità e di suggestione del nazionalbolscevismo. Borghese non è solo o tanto colui che appartiene a una classe sociale, il soggetto che regge il sistema di produzione capitalistico: borghese è un Typus antropologico dominato dall’“economico”, fiaccato dall’arroccamento nel proprio interesse individuale, privo di “spirito” di appartenenza, indifferente pertanto a ogni dépense individuale a favore della superiore causa della comunità nazionale. È una soggetto internazionale, mercantile (le “potenze marittime” di Carl Schmitt) e per questo s-radicato: dal suolo, dal popolo che lo abita, dalla cultura che nasce sul terreno materiale delle relazioni.

A questo idealtipo si contrappone un’immagine speculare e contraria che, muovendo dalla dimensione soggettiva, proietta su scala sociale e politica l’alterità piena al blocco di dominio occidentale. Lo scenario è la Russia e in quella direzione, verso Est, la Germania e i popoli che desiderano liberarsi dal giogo del capitale devono rivolgere il proprio sguardo. L’Ost Orientirung prende le mosse dalla vittoriosa rivoluzione del 1917. Per Niekisch il merito del bolscevismo non è tanto quello di aver abbattuto lo zarismo, quanto di aver bloccato lo sviluppo capitalistico in Russia, di avere creato un baluardo contro la dilagante occidentalizzazione del mondo e di “spaventare” le borghesie internazionali. In tal senso la Russia stalinizzata completa il percorso apertosi con la rivoluzione poiché porta sulla scena della storia i tratti di uno Stato, di una società e di un tipo umano completamente nuovo. Il “milite” sovietico racchiude in sé la potenza del popolo, del barbaro-soldato e del lavoratore; egli vive il proprio impegno di lavoro come servizio politico per una comunità più ampia che ha in primis il “tono” dell’appartenenza nazionale. Lo Stato rappresenta dunque la condensazione istituzionale di un sociale omologato nello sforzo di costruzione di un Nuovo Mondo e di un inedito modo di esistenza. La Russia stalinizzata, orgogliosamente nazionale, è la realtà in atto dello spirito operaio e contadino e ha ben poco a che fare con l’ispirazione universalistica del marxismo.

Per i nazionalbolscevichi comunismo e marxismo si divaricano nettamente a causa dell’omologazione di quest’ultimo all’economicismo e al materialismo proprio del capitale. Nella Germania di Weimar essi furono pertanto critici verso i comunisti, accusati di un internazionalismo vacuo e parolaio, sprezzanti nei confronti del fiacco riformismo della Spd, ostili al montante nazismo anche per l’efficace lavoro di proselitismo della destra estrema dentro lo stesso blocco sociale di riferimento. Questa scelta di marginalità sarà pagata dal movimento in termini di impotenza operativa, di frammentazione e isolamento. Dopo l’avvento al potere di Hitler, incarnazione come scrisse Nieksich nel 1932 del «destino tedesco», si chiuse in due soli mesi la partita con tutte le opposizioni rossobrune che implosero tra dispersione, riassorbimento e repressione. Già recluso durante la Repubblica di Weimar, Niekisch verrà inghiottito nelle galere naziste da cui uscirà solo nel 1945, duramente minato nel fisico.

Nel secondo dopoguerra l’ipotesi nazionalbolscevica mantiene, come illustra Bernardini, una sua dignità teorica, pur riproducendo senza modificazioni rilevanti i caratteri sostanziali del momento weimariano. Una parte della destra estrema del dopoguerra, violentemente anticomunista, continuerà per esempio a osservare con interesse la Russia come luogo di elezione del tradizionalismo antioccidentale infatuandosi al tempo stesso per tutte le insorgenze nazionaliste e localiste – l’Iran e i palestinesi, l’indipendentismo irlandese e quello basco – interpretate come consapevoli atti di ribellione alla “messa in forma” operata dal mondialismo capitalistico. «Il nemico è ora la cancellazione della specificità dei popoli, l’omogeneizzazione globale a cui tenderebbero sia il comunismo sovietico sia il capitalismo» (p. 74) e, dopo la fine dell’Urss, il globalismo e la sua “cultura” massificante.

Seguendo i percorsi biografici dei militanti rossobruni, Bernardini disegna un continuo sconfinamento in Francia, Italia e Germania tra fascismo, nazismo e rossobrunismo. Il francese Thiriart fondatore della Jeune Europe è un’ex SS; stessa provenienza ha Arthur Ehrhardt in Germania, mentre Eichberg, ancora nella Repubblica Federale, autore di testi e manifesti in cui critica marxismo sovietico e universalismo capitalista, radica la strategia della sua organizzazione nel pensiero e nelle azioni di Maurras, Barrés e La Rochelle, gli stessi numi tutelari del fascismo francese. Anche in Austria, Belgio, Portogallo sorgono esperienze nazionalrivolzionarie che «avendo riconosciuto la nazione come soggetto rivoluzionario, sfoceranno nel fascismo» (p. 87).

Il caso italiano assume tratti rilevanti sul piano qualitativo e quantitativo. Già nel 1946 appaiono riviste come «Rivolta ideale», «Rosso e nero», «Pensiero nazionale». Siamo nell’alveo della sinistra fascista dalla quale i vari soggetti del socialismo nazionale usciranno ed entreranno con fluidità anche nei decenni successivi, mentre assai più sporadici e difficoltosi saranno le intersezioni con la sinistra. La svolta atlantista e l’istituzionalizzazione definitiva dell’Msi portano all’allontanamento di molti attivisti e a nuove organizzazioni: Giovane Europa e soprattutto Lotta di Popolo che arriva a sommare qualche centinaio di militanti. Negli anni Settanta troviamo altre sigle legate a personaggi costantemente presenti nelle cronache del neofascismo nazionale: Freda, Fiore, Adinolfi.

Se l’esperienza rossobruna in Italia ha radici nell’esperimento fiumano, nel “diciannovismo” e nel presunto carattere “sociale” della Rsi, lo scavo minuzioso di Bernardini nel nazionalbolscevismo europeo mostra, in ultimo, una «profonda convergenza ideologica» (p. 154) tra i diversi movimenti che ci permette di racchiudere un fenomeno apparentemente sfuggente a ogni tipologizzazione in una cornice concettuale abbastanza precisa. Già nel testo precedente Bernardini aveva chiarito, in sede di bilancio storiografico, come un ipotetico accredito “di sinistra” delle esperienze storiche e ideologiche del nazionalbolscevismo naufragasse di fronte alla sostanza di «un modello di società autoritaria, marziale, sessista e razzista (anche se l’antisemitismo giocava un ruolo del tutto secondario) nella quale gli individui dovevano essere ridotti a ingranaggi di una nazione mobilitata e militarizzata» (Pugni proletari e baionette prussiane, p. 213). Un profilo che attraverso aggiornamenti e modificazioni si conferma anche nelle storia delle formazioni nazional-rivoluzionarie negli anni Sessanta e Settanta che, in ultimo, non esprimono pochi gradi di originalità rispetto alle elaborazioni originarie prodotte dai “padri fondatori” nel primo dopoguerra. Insomma, se leggiamo il Manifesto nazionalbolscevico di Karl Otto Paetel ritroviamo quasi tutti i tratti caratterizzanti di un movimento tanto articolato (c’è da perdersi tra sigle di micro-organizzazioni e il proliferare delle riviste) quanto “ripetitivo” nelle sue ossessioni teoriche.

Ma va anche detto che la crisi delle grandi “case” politiche novecentesche e l’emergere di una potente corrente populista – per quanto siano sfrangiati i suoi contorni semantici – riporta alcune intuizioni nazionalbolsceviche su un terreno di potenziale riattivazione. Il popolo disegnato nelle campagne mobilitanti dei populisti di sinistra ha gli stessi connotati antiborghesi e comunitari del blocco sociale cui fanno riferimento le numerose riviste del fronte nazionalrivoluzionario nella sua versione neobolscevica. La rappresentazione semplificata di un “basso” contro l’“alto”, che ha caratterizzato le recenti campagne elettorali in tutto il mondo, è sempre stata percorsa da un sotterraneo e raramente esplicitato richiamo alla nazione come elemento unificante di un popolo organicamente disegnato, compattato dentro un’identità di volta in volta costruita (il «significante vuoto» di cui parla Laclau), senza divisioni o striature.

Ciò detto, il lavoro complessivo di Bernardini serve anche a mettere in guardia ada attualizzazioni o torsioni interpretative. È evidente, per esempio, quanto la figura del “milite del lavoro” come atomo di un’organica società comunista alternativa in ogni suo tratto (economico, politico, antropologico) a quella borghese sia consegnata alla storia del “secolo degli estremi”. Un tempo percorso da militanti che aderivano appieno alla tipologia del totus politicus, marcando così la cesura da una attualità striata in ogni sua espressione da quell’antipolitica che gli stessi movimenti populisti sembrano cavalcare, identificando il potere e il “male” nello Stato e nei partiti piuttosto che nei potentati economici.

Tra memoria della militanza e potenziali attualizzazioni, originalità teoriche e vacui slogan antisistema, il nazionalbolscevismo sconfina in ogni caso dalla mera ricostruzione storiografica e, come ben dimostra questo testo, interroga il presente e la sua incerta configurazione politica e sociale.

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