Ascesa e crisi della tecnoscienza del capitale
nov 11th, 2020 | Di Thomas Munzner | Categoria: Cultura e società
Franco Piperno
Con questo contributo proseguiamo la riflessione sul percorso «Iperindustria» della rubrica Transuenze. Il testo che segue è la trascrizione, rivista dai curatori, di un intervento di Franco Piperno, fisico accademico e intellettuale militante che su queste pagine non dovrebbe richiedere ulteriori presentazioni, alla summer school organizzata da Machina alla fine della scorsa estate. Piperno, in modo inevitabilmente sintetico, entra nel merito di alcuni nodi profondi del tardo capitalismo, che trae potenza dalla sottomissione e funzionalizzazione della scienza alla tecnica, nell’impoverimento delle capacità cognitive sociali e dello stesso sapere scientifico. Il trionfo della tecnoscienza coincide tuttavia con una crisi profonda e conclamate dei suoi medesimi presupposti epistemologici. Le implicazioni di questa riflessione sulla natura del capitalismo iperindustriale, o tecnologico come lo chiama l’autore contrapponendolo a «cognitivo», e su molti dei temi che vorremmo approfondire (innovazione, qualità del lavoro, vecchia e nuova divisione sociale del lavoro, necessità di una critica radicale e non oscurantista del progresso tecnologico), ci sembrano evidenti, e anche imprescindibili.
Fino al Rinascimento si può dire, schematizzando, che scienza e tecnica procedano separatamente. La scienza è solo uno dei saperi del mondo antico, quello teorico che, appunto, ha il fine in se stesso e lascia intatto il suo oggetto; la scienza deve rispettare delle procedure di produzione: risolversi nello svelamento delle «essenze»; dispiegarsi a partire da pochi principi fondamentali rispettando l’ordine logico; essere ad un tempo mezzo e fine – la scienza è disinteressata, non invasiva, nel senso non si propone di cambiare il mondo ma solo di conoscerlo contemplandolo. La tecnica (téchne sapere poietico nel senso etimologico del termine – poiéin = saper fare, fabbricare) mira viceversa a riprodurre, come dice Aristotele, l’analogo di un fenomeno e quindi la sua ragione è al di fuori di sé. Un altro modo per dire la stessa cosa è che la tecnica non ha bisogno, una volta realizzata, di conoscere le leggi su cui poggia. Banalmente, per guidare una macchina, non c’è bisogno di conoscere la termodinamica, nonostante il motore si basi su di essa. Come ha osservato Koyré, si possono costruire basiliche, edificare piramidi, scavare canali, gettare ponti, maneggiare la metallurgia senza possedere alcun sapere scientifico. Il fatto che la tecnica non avesse bisogno in sé della scienza è affermato fin dall’inizio della sua storia: si può fare l’esempio famoso di Archimede, che costruisce gli specchi ustori per distruggere le navi romane ferme a Porto Empedocle. È molto interessante notare che nel curriculum della sua vita, ricostruito dallo stesso Archimede, non c’è traccia delle invenzioni tecniche che lo hanno reso celebre. Questo perché alla tecnica non si attribuiva un valore conoscitivo; aveva un valore pratico, ma non era da considerare all’interno della conoscenza.
Le cose cambiano con il Rinascimento. Prima di tutto, attraverso la matematizzazione dell’idraulica, abbiamo un profondo rimescolamento del rapporto tra tecnica e scienza. Galileo è il primo esempio di scienziato che fabbrica il suo strumento, il cannocchiale, e lo vende. In realtà non fu lui ad inventarlo, ma un artigiano olandese (Galileo, quando è già a Padova, viene a sapere dell’invenzione e costruisce il suo cannocchiale, assai più potente di quello olandese) a cui serviva per vedere le navi che dovevano arrivare in porto e provvedere a tutti i lavori necessari allo scarico della merce. Galileo, una volta costruito il suo cannocchiale, che si basava sull’uso di due lenti, l’una convergente e l’altra divergente (particolare interessante poiché Galileo lavorava a Padova, legata a Venezia dove si era sviluppata in maniera straordinaria la lavorazione ottica delle lenti, sicché Galileo si giova del sapere artigiano per aggiustare le lenti) lo usa per guardare il cielo. Era una novità assoluta, malgrado Galileo fosse anche molto accorto, e infatti vendette il cannocchiale agli eserciti in tutta Europa, facendo lavorare i suoi studenti all’arsenale per impararne l’utilizzo. Da questo punto di vista Galileo è uno scienziato moderno, nel senso che pensa che tecnica e scienza debbano procedere insieme, e anche che la prima abbia un risvolto pratico dal punto di vista della vendita e del commercio. Con Galileo abbiamo dunque la formazione di uno scienziato moderno, che ha un buon rapporto con la tecnica.
Questo intreccio tra scienza e tecnica, andando veloci, raggiunge il suo culmine nella preparazione della bomba atomica negli anni ‘30 e ‘40 in America e Germania. In questo caso abbiamo la messa al lavoro della scienza in funzione della tecnica. Il Progetto Manhattan da questo punto di vista è un capolavoro, per la capacità di mettere insieme i centri di ricerca, le Università e l’apparato militare-industriale, che si concentrano e cooperano alla costruzione di questo ordigno. Da questa esperienza uscirà un’Università aziendalizzata. Le cose sono in realtà più complicate, poiché gli americani hanno continuato ad avere, ad esempio a Princeton o Harvard, delle Università nel senso medioevale-tradizionale, cioè Università che ponevano al primo posto la conoscenza e formavano dunque persone colte, nel senso unitario e non specialistico del termine. Effettivamente in queste Università ancor oggi nella formazione di un fisico entra l’aspetto umanistico, che rende lo studente che termina questi corsi una persona con una capacità di visione complessiva, non un idiota specializzato. Ma la maggior parte delle Università americane dopo il progetto Manhattan, e in Europa dopo gli anni ’60, si trasforma in una fabbrica di specializzati. L’originaria «filosofia della natura», coltivata nelle università da piccoli gruppi di ricercatori, se non da singoli individui, si è via via dislocata all’interno del complesso militare-industriale, divenendo appunto «Big Science»: una vera e propria fabbrica di innovazioni tecnologiche caratterizzata da costi immani e da decine di migliaia di ricercatori che lavorano in un regime di fabbrica di tipo fordista. Questo, ben inteso, non significa che non si conseguano risultati conoscitivi notevoli; ma si tratta – come negli acceleratori di particelle – di risultati legati allo sviluppo di quella specifica tecnica. Ad esempio, nell’astrofisica, chi lavora a questi progetti sono persone con una mansione assolutamente specializzata, nel senso che ognuno lavora su un frammento del problema generale e non conosce quello che fa il fisico accanto. L’esempio più lampante è Ginevra, dove ci sono quasi diecimila fisici che lavorano all’acceleratore in maniera fordista, nel senso che ognuno di loro è specializzato su un frammento del problema, come succedeva nella fabbrica fordista. Ed è patetico che mentre quest’ultima è stata ormai da tempo messa in crisi, nel mondo della ricerca il modello continua in questi termini.
Dunque, da una parte abbiamo il successo della scienza moderna e occidentale, legata alla tecnica, che ha finito per essere un modello egemone in tutto il mondo; dall’altra, ciò ha contribuito alla perdita dell’autonomia della scienza, quindi anche alla fine della sua efficacia pratica. La scienza è divenuta una forza produttiva, come avrebbe detto Marx; l’applicazione della scienza alla produzione ha il risultato importante di creare continuamente nuovi mercati, nuovi oggetti, nuovi bisogni legati ad essi, si pensi al telefonino. Sono cadute inoltre, rispetto al passato, le difficoltà a sviluppare un mercato mondiale unificato; tradizionalmente nella storia del capitalismo ci sono sempre state zone e regioni «vergini», dove il modo di produzione capitalistico non era ancora arrivato e aveva quindi possibilità d’espansione. Oggi con l’espansione planetaria dei mercati queste aree sono fortemente ridotte. L’applicazione sistematica della scienza alla produzione permette di costruire nuovi oggetti che si impongono anche perché determinano nuovi bisogni indotti. Per cui la scienza, in Occidente, è divenuta il propulsore dell’accumulazione capitalistica; occorrerebbe però parlare di tecnoscienza, perché questo è l’aspetto più interessante.
L’altro elemento importante è la crisi interna alla scienza, che discende dai limiti della matematica. Il processo di cui parlavo prima, partito dal Rinascimento, ha implicato anche, cosa che ad esempio non accadeva per la scienza antica, una «matematizzazione» della scienza: il linguaggio della scienza ha perso progressivamente i connotati di senso comune e si è trasformato in un’articolazione del linguaggio matematico. Si può pensare al calcolo infinitesimale oppure al calcolo tensoriale. Sono sviluppi della scienza prodotti e verificati dalle matematiche. Negli anni ’30 succede che Gödel, logico e matematico ebreo scappato dalla Germania di Hitler e approdato a Princeton, intellettuale di grande interesse, lavorando sulle matematiche e dunque affrontandole dal punto di vista della logica (la differenza tra logica e matematica è che la seconda è un aspetto e un’applicazione della prima), arriva ad un risultato che poteva apparire bizzarro, ma che fu esplosivo per la comunità scientifica che usa la matematica. Un sistema formale (in altre parole un sistema in cui tutti gli oggetti sono definiti formalmente; il linguaggio comune ad esempio non è formale perché usa concetti che non vengono definiti a priori ma dall’uso) non può essere allo stesso tempo completo e coerente. Completo vuol dire che tutte le verità provate dal sistema sono ottenibili grazie agli strumenti del sistema; coerente vuol dire che non c’è contraddizione tra le cose trovate all’interno del sistema e gli stessi fondamenti del sistema. La conclusione dell’impossibilità di avere una matematica coerente e completa scava nei fondamenti stessi interni alla disciplina. Nel corso dei secoli, a partire dal Rinascimento, ci sono state critiche intellettuali, penso per ultimo ad Alexander Koyré, all’astrattezza della matematica rispetto al senso comune e alle sue cognizioni. Ma non era mai successo che dall’interno della disciplina arrivasse una critica così radicale, che mettesse in dubbio la validità della matematica nell’esprimere le verità della teoria fisica, ad esempio. Quindi questo, unito al fatto che alcune delle affermazioni di Gödel hanno avuto una controprova sperimentale – è cioè stato messo in rilievo che la matematica usata nella fisica quantistica comporta una contraddizione rispetto al principio detto di separabilità (ossia, che gli oggetti nello spazio siano separati l’uno dall’altro e che qualsiasi segnale impiega del tempo ad andare da uno all’altro) che mette in discussione la velocità della luce in quanto velocità massima in natura. Ho cercato di accennare a questo rapporto tra Gödel e la quantistica, poiché è alla base della critica profonda che investe la scienza e la fisica in particolare. Un fisico-epistemologo italiano, Rovelli, dichiara che la quantistica, cioè la forma più alta raggiunta dalla fisica, è sostanzialmente «incomprensibile»: è impossibile da comprendere poiché mette in discussione verità che diamo per scontate, come la separazione degli oggetti o il fatto che affinché un’influenza partita da un oggetto arrivi ad un altro oggetto ci vuole del tempo. Si prova invece che la trasmissione è istantanea e questo, come dicevo prima, scuote il senso comune.
Dunque, abbiamo una crisi del rapporto peculiare tra tecnica e scienza affermatosi nella formazione economico-sociale del capitalismo, che abbiamo chiamato tecnoscienza, in altre parole l’autonomizzarsi della tecnica rispetto alla scienza, con la seconda che non fa che seguire i bisogni della prima. Questo si vede, ad esempio, anche quando si esaminino gli ultimi premi Nobel in fisica, che spesso sono degli ingegneri che hanno costruito queste macchine acceleratrici che hanno un fascino tecnico ma che dal punto di vista cognitivo ci dicono niente o quasi. Si può riassumere ciò dicendo che mai erano stati stanziati tanti soldi dai governi nella ricerca, come è invece accaduto a partire dal progetto Manhattan, e contemporaneamente mai i risultati sono stati così scarsi: si può dire che nell’ultima metà di secolo non è stato scoperto niente di veramente nuovo dal punto di vista scientifico, mentre dal punto di vista tecnico tutti gli oggetti che ci circondano hanno un’età di mezzo secolo. C’è questa corruzione tecnica del capitalismo; a dispetto di una opinione tanto fallace quanto diffusa, non esiste né può esistere un «capitalismo cognitivo»; semmai v’è, in formazione, un «capitalismo tecnologico», un modo di produzione che promuove una furiosa applicazione della scienza alla valorizzazione del capitale.
Da una parte vediamo una iper-presenza della scienza; la vediamo ogni giorno, ad esempio, nei discorsi sull’intelligenza artificiale (IA). Paradossalmente, oggi la tecnica dimostra che per fare certe cose non occorre essere intelligenti (per esempio saper contare o calcolare), perché la macchina lo fa meglio dell’uomo, e ciò dimostra che calcolare è una cosa da sciocchi perché è la ripetizione dello stesso algoritmo. Quando si parla di IA bisogna mettere in luce gli aspetti in cui non c’è intelligenza, piuttosto c’è la scoperta di procedimenti mentali che come civiltà occidentale abbiamo tenuto in grande considerazione, sono progetti di mera ripetizione che la macchina fa meglio di noi perché la macchina sa ripetere meglio di noi, ma questa non è una grande virtù. Dall’altra, all’interno del discorso scientifico alto, autonomo, e cioè all’interno di questo interrogarsi della validità che ha la matematica nel rappresentare i fenomeni della natura, c’è una crisi epistemologica di tutt’altro aspetto, rispetto all’invasione negli usi e costumi della società della tecnica. La critica epistemologica mette in discussione la validità di rappresentare la natura tramite linguaggio matematico, quindi è una crisi fondamentale che anticipa un cambiamento di indirizzo dopo secoli ed un ritorno all’idea che la scienza deve essere fondata prima di tutto sul senso comune, cioè che le verità scientifiche possono essere dette senza farsi cinque anni di studi matematici. Se le verità scientifiche non possono essere trasmesse attraverso il senso comune vuol dire che sono verità che hanno una validità parziale, anche se questo è un problema non da poco che richiederebbe molto tempo anche solo per essere delineato. Si può dire che siamo arrivati, da una parte, attraverso l’invasione della tecnoscienza, dall’altro attraverso la crisi dei fondamenti della fisica e in generale della scienza della natura, siamo arrivati ad un punto di svolta dove ci si può aspettare che nasca un tipo di scienza che usi anche la matematica, ma che non si discosti dalla possibilità del senso comune di capire le leggi senza la matematica.
Lo sviluppo scientifico nei paesi capitalisticamente avanzati è strettamente legato alla organizzazione del lavoro. Nella misura in cui la ricerca scientifica è organizzata, pianificata, sovvenzionata, essa dipende dal potere politico e dai suoi fini. L’alternativa alla concezione della scienza come sapere neutrale ed assoluto è relativizzare la razionalità alla società e all’epoca che l’ha prodotta. Ma negare la neutralità della scienza contemporanea non è possibile senza proporre un’altra razionalità, che resta però una norma vuota se non riesce a produrre una altra scienza, che recuperi l’autonomia della conoscenza rispetto al complesso militare-industriale. Se vi fosse un mutamento nella qualità del progresso tale da rompere il legame tra la razionalità della tecnica e quella della divisione sociale del lavoro, vi sarebbe un cambiamento nel progetto scientifico, in grado di far sì che l’attività di ricerca, senza perdere la sua qualità razionale, si svilupperebbe in una esperienza sociale del tutto differente.
Machina/DeriveApprodi