Oltre il sindacato, la vendetta
ott 28th, 2020 | Di Thomas Munzner | Categoria: Cultura e societàAppunti di inchiesta a partire dall’esperienza de «Il Padrone di Merda»
Questo articolo sull’esperienza de «Il Padrone di Merda» di Bologna, apriamo il percorso interno alla sezione Transuenze che abbiamo definito «contro-soggettivazioni» (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/pensare-il-transito) dedicati ai conflitti del lavoro. Nel presentare il percorso abbiamo chiarito come l’interesse fosse quello di interrogarci sulle contraddizioni che attraversano la società, sui comportamenti di rifiuto impliciti e di rottura della composizione sociale e sulle nuove forme d’organizzazione. L’agire politico delle maschere bianche, come si esplicita nell’articolo, va in questa direzione organizzando il precariato urbano e trasformando la rabbia dei lavoratori in vendetta contro i propri padroni.
È difficile definire in poche parole e con gli strumenti classici «Il Padrone di Merda», esperienza che nasce a Bologna nel gennaio del 2019 e si sviluppa nei mesi seguenti, estendendosi anche in altre città.
Prendiamo in prestito la descrizione che troviamo sul sito e sulla pagina Facebook: «Siamo un gruppo di precari, giovani e non, che abitando a Bologna e avendo sempre lavorato in contesti di sfruttamento hanno deciso di unirsi e farla pagare ai Padroni di casa e di lavoro scorretti, che sfruttano, che molestano e che guadagnano sulle nostre spalle». Da questa breve descrizione si evince, oltre alle caratteristiche soggettive dei protagonisti, che il principale obiettivo di chi prende parte a questa esperienza è il «farla pagare», il vendicarsi dei padroni che quotidianamente rovinano la vita a precari e lavoratori.
Effettivamente sono tante le azioni portate avanti contro i proprietari di bar e ristoranti, di centri per la cura della persona, contro agenzie che erogano servizi alle imprese, contro i direttori di festival culturali, contro professori universitari.
L’infrastruttura di cui si sono dotati è leggera ̶ niente più di una pagina Facebook ̶ la modalità d’azione è efficace nell’estrema semplicità: una volta ricevuta la testimonianza di un precario che segnala le condizioni di lavoro o particolari comportamenti di un padrone, il protagonista della vicenda si organizza con altri precari nella sua stessa situazione e, indossando delle maschere bianche, si reca davanti al posto di lavoro con un megafono e degli adesivi che raffigurano i padroni di merda, per raccontare a tutti la propria vicenda e fare cattiva pubblicità al padrone di merda.
Le maschere bianche, come spiegano sempre sulla pagina Facebook, servono a due motivi: garantiscono l’anonimato ̶ chi scrive la segnalazione a volte è ancora dipendente dell’attività che contesta ̶ e diventano un simbolo utile a rappresentare una condizione comune e dunque a favorire la riproducibilità e la moltiplicazione delle azioni.
Le azioni e l’attività della pagina hanno avuto un forte impatto nella città felsinea, attaccando e contribuendo a decostruire l’immagine costruita dalle istituzioni e dall’amministrazione cittadina, che descrivono Bologna come polo del buon governo e capitale della vivibilità.
Sin da subito l’esperienza delle maschere bianche ha polarizzato l’opinione pubblica: dopo le azioni c’è chi sta con i lavoratori, c’è chi sta con i padroni. Tertium non datur.
Ma da quali presupposti parte questa esperienza? Chi sono i padroni di merda bolognesi? Chi indossa le maschere bianche?
Proviamo ad abbozzare alcune risposte.
Oltre il sindacato
Le maschere bianche, definizione che usiamo per riferirci ai precari che organizzano le azioni e che curano la pagina Facebook de «Il Padrone di Merda», nasce in un contesto di scarsità di processi conflittuali aperti e di insufficienza delle organizzazioni politiche e sindacali odierne.
Sulla pagina Facebook è possibile trovare la testimonianza ̶ una delle tante ̶ di una lavoratrice che riassume egregiamente il ruolo e l’attività dei sindacati oggi. La ragazza, che poco prima di rivolgersi al sindacato ha lasciato il suo lavoro perché riceveva gli stipendi con notevole ritardo, si rivolge ad un sindacato confederale per informarsi sulla cassa integrazione; il sindacalista presente in sede le dice, molto chiaramente, che è necessario tesserarsi per ricevere il consulto; la ragazza paga, si tessera, ma non riceve più alcuna risposta.
Tagliando con l’accetta, i sindacati oggi sono percepiti socialmente come fornitori di servizi di tutela legale o di pratiche burocratiche in cambio di un corrispettivo (la tessera in questo caso). Dal punto di vista della rappresentanza, sono presenti soltanto in pochi settori ̶ dove hanno il ruolo di intermediario della contrattazione, gestita e comandata da parti politiche e padronali ̶ e rinchiusi in determinati luoghi di lavoro (grandi hub industriali e logistici, pubblica amministrazione etc) ma sono quasi inesistenti nelle economie diffuse, nei servizi, nelle microimprese, nelle piccole attività commerciali.
Inoltre, soprattutto in una città come Bologna ̶ analisi estendibile altrove ̶ governata sin dal dopoguerra, quasi ininterrottamente, dalla sinistra, c’è una forte convergenza tra ceto politico, padroni, cooperative e sindacati. Quest’ultimi garantiscono consenso, l’ammorbidimento delle posizioni conflittuali sui luoghi di lavoro e un minimo di radicamento sociale, ricevendo in compenso la possibilità di poter partecipare alla gestione cittadina e, per i più importanti rappresentanti sindacali, l’opportunità di poter aspirare a ruolo politici importanti (come l’esempio di Sergio Cofferati, sindaco di Bologna dal 2004 al 2009 testimonia fulgidamente).
Non è il nostro scopo analizzare il ruolo storico del sindacato, analisi che necessiterebbe di più spazio e di penne più preparate, possiamo però affermare che se negli anni ’70 è stato uno strumento rivendicativo utile in un contesto di elevata conflittualità sociale, in seguito alle successive controriforme degli anni ’80 e ’90, si è evidenziata una continua e costante emorragia di iscritti alle sigle sindacali, risultato di una mediazione spinta sempre più al ribasso.
Se la perdita di iscritti dei sindacati viene interpretata da più parti come segno evidente dell’ arretramento nel grado di coscienza di classe, le maschere bianche, al contrario, sono partite da questa evidenza cercando di trasformare in opportunità politica la sfiducia dei precari verso le istituzioni del lavoro. È evidente che la perdita di appeal del sindacato apre alcuni ordini di problemi: la mancanza di uno strumento organizzativo sui luoghi di lavoro non facilita la comprensione dei comportamenti di rottura e dunque della politicità intrinseca dei precari; non permette di agitare le contraddizioni che si aprono tra padrone e lavoratore; rende difficile conquistare delle «mediazioni» che possano migliorare le condizioni di vita dei proletari e trasformare la rabbia verso chi sfrutta sul luogo di lavoro in vera e propria vendetta. Le maschere bianche, per rispondere a queste urgenti questioni, hanno tentato e tentano di costruire un’ «infrastruttura» che, a partire dalle rivendicazioni sui luoghi di lavoro, punti processualmente alla rottura autonoma di classe. Quest’ultima indicazione è fondamentale per capire il metodo delle maschere bianche. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un rovesciamento del rapporto tra vertenza e lotta: non è più la prima ad essere al servizio della seconda, a rappresentare l’innesco dei processi di conflitto e contro-soggettivazione, ma il contrario. Le organizzazioni che hanno gestito le vertenze lavorative hanno preferito chiuderle sé stesse piuttosto che aprirle alla massificazione dei comportamenti di rottura, hanno ricercato risultati effimeri utili all’autoconservazione della struttura stessa più che strappare soldi, condizioni migliori, vittorie per rilanciare le lotte.
Un altro aspetto è utile ad inquadrare il metodo delle maschere: chi contatta la pagina «Il Padrone di Merda» è coinvolto nel processo decisionale sin da subito ed è il protagonista nell’azione che si fa davanti all’attività del padrone di merda che ha segnalato, rompendo dunque il meccanismo della delega che spesso si instaura quando ci si rivolge al sindacato.
Bologna 2020
Si parte dall’inchiesta, due anni di lavorio sotterraneo nel centro-nord produttivo, un agglomerato di fabbriche che si susseguono nella pianura e che macinano un quarto dei lavoratori dipendenti italiani che si alterna con grandi città catalizzatrici di turismo, di servizi e di forza lavoro giovanile spesso risputata nella provincia dopo pochi anni.
Bologna rappresenta il paradigma dell’amministrazione italiana nella crisi: tutta turismo e grandi opere, un fallimento azzeccato con estrema precisione da un inossidabile governo di sinistra sostenuto da una buona borghesia colta. Se i progetti faraonici hanno fallito ̶ vedasi F.I.C.O. o People Mover ̶ rimane un’estesa rete di lavoro nero nel commercio e nella ristorazione, di impieghi nell’infinita costellazione di cooperative sociali (che costituiscono la spina dorsale economica della regione) ma anche di istituti di formazione privata alla costante ricerca di neolaureati da sottopagare.
Non va dimenticato che a Bologna la «fabbrica» di maggior rilievo è l’Università, che «offre» al mercato, come lavoratori o come consumatori, decine di migliaia di studenti. Questi giovani in formazione trasformano il tessuto sociale ed economico e spingono il centro cittadino ̶ l’Unibo, nonostante negli ultimi anni sia interessata da importanti processi di decentramento, resta locata su alcune vie centrali della città ̶ sul fronte dei servizi, della ristorazione e del commercio: lo si nota dalla marcata propensione all’accentramento geografico e alla proliferazione di nuove attività intorno alla zona turistica e universitaria di Bologna. Il Comune ̶ come già dicevamo, dal dopoguerra governato quasi ininterrottamente dalla sinistra (Pci prima e avanti fino al Pd odierno), continuità che ha garantito la creazione di clientele stabili divenute parte integrante del sistema di potere ̶ ha il ruolo di promotore di questo processo, caldeggiando la costruzione della city of food tanto voluta dagli epigoni nostrani di Oscar Farinetti e compagnia. Pensiamo ai massicci investimenti pubblici per costruire il già citato «F.I.C.O», parco del cibo che per gli amministratori cittadini avrebbe dovuto rappresentare «la porta d’ingresso alla città» ma che sin da subito si è mostrato essere un’opera fallimentare in perdita e senza pubblico; oppure pensiamo alle direttive comunali che hanno consentito la riproduzione selvaggia di negozi, supermercati, bar e ristoranti, persino in palazzi di notevole caratura storica e culturale (alla faccia della cultura!). Considerato il tessuto produttivo cittadino, non è un caso che la lotta contro i padroni di merda ha immediatamente investito il settore della ristorazione, dei supermercati, delle agenzie di servizi e della miriade di microaziende gestite da arroganti padroncini del centro bolognese. Anche in questo caso la teoria non si è imposta sulla prassi, la scelta dell’obiettivo da colpire non è stata fatta a priori ma sulla base di commenti e segnalazioni dei precari.
La voglia di sperimentare e il coraggio dei lavoratori che si sono resi protagonisti delle azioni, ha reso palesi alcune contraddizioni insospettabili a primo avviso, facendo emergere i nodi fondamentali del tessuto produttivo: una volta collezionate più di venti azioni contro varie attività commerciali, è emersa in maniera chiara la saldatura tra governo cittadino e commercio, con la collaterale compravendita del sostegno politico; inoltre Lega e Partito Democratico, se divisi negli scranni del Consiglio comunale cittadino, si sono trovati uniti nel condannare pubblicamente l’azione diretta e vendicativa dei lavoratori e nel prendere le parti dei padroni più rivoltanti.
Grazie alle azioni delle maschere bianche, possiamo stilizzare due tipologie di padroncino, con particolari caratteristiche soggettive e modalità di sfruttamento diverse (ma compatibili): da un lato i commercianti «predatori» classici, dall’altro il padroncino «bio».
Nei primi sono ricompresi quei padroni che utilizzano le forme classiche dello sfruttamento, che impongono condizioni lavorative sconfinanti spesso in una vera e propria forma di caporalato urbano: molestie, paghe misere, spesso a nero, stipendi non pagati, contratti truffa, condizioni capestro, minacce, comportamenti violenti. Sono padroni sovente in odore di criminalità organizzata, scafati, con una certa esperienza nel loro lavoro; frequentemente presenti nelle vie più massificate, più trafficate da studenti e turisti, hanno una cattiva nomea tra gli avventori perché offrono pasti, bevute e servizi di pessima qualità; in più di un’occasione si sono serviti di energumeni poco raccomandabili, pagati per risolvere qualsiasi tipologia di problema. Semplificando, sono i commercianti a cui guarda la Lega, anche se non c’è una chiara sovrapposizione: non sono pochi i padroncini che votano o che organizzano vere e proprie iniziative con i rappresentanti del Partito Democratico locale. I commercianti predatori sono facilmente riconoscibili dai video delle azioni che si trovano sulla pagina Facebook delle maschere bianche perché non aspettano neanche un secondo ad uscire dal proprio locale, strappare i volantini e gli adesivi, minacciare e alzare le mani contro i lavoratori, aiutati dagli energumeni di cui sopra.
Il commerciante «bio» è il padroncino che ha legami con le varie declinazioni della sinistra cittadina e sostiene convintamente il governo Pd contro la barbarie fascista; è allo stesso tempo prodotto e fautore di un’idea di città «moderna», basata su innovazione, ecologia, turismo «sostenibile», convinti del valore sociale del proprio lavoro. È il tipo di commerciante che ha lentamente infestato coi propri bar, ristoranti, negozi i centri delle grandi città italiane; oppure è l’organizzatore di festival culturali promossi dal Comune e dall’Università. La maggior parte dei locali, locati nelle vicinanze delle vie più massificate, spesso sono i primi agenti della «riqualificazione» di alcune zone; propongono cibo «bio, equo e solidale» che costa uno sproposito; sono il riferimento della nuova borghesia cittadina che cerca posti alternativi. Guardandoli con gli occhi dei lavoratori sono quei padroni che rivendicano l’utilizzo dei tirocini formativi per i giovani o per i migranti, convinti di dar loro delle opportunità (a 2 euro l’ora!) giocando sulle loro aspirazioni e pretendendo fedeltà e sacrifici. Dalle testimonianze pubblicate sulla pagina viene fuori come i tirocini vengano utilizzati per i lavori più banali, come sistemare le cassette di frutta, pulire le cucine, staccare i biglietti di ingresso.
Il commerciante «bio» è molto attaccato al proprio locale e al proprio lavoro ̶ che servono a costituire lo status e l’identità del padrone ̶ da difenderlo costi quel che costi: in alcuni casi, dopo le azioni delle maschere bianche, hanno organizzato delle azioni di rappresaglia invitando amici, conoscenti e familiari a commentare sotto tutti i post della pagina per attaccare i lavoratori ̶ anche facendo riferimento a dettagli personali.
Ai due tipi di padrone descritti in precedenza, si aggiunge un terzo macro-padrone che ricomprende le società che offrono servizi per le imprese ̶ ben esemplificato da una delle holding (il cui presidente ha da poco ha acquistato una squadra di calcio di serie B investendo massicciamente nel calciomercato) contestate dalle maschere bianche che fornisce illegalmente, in tutta Italia, manodopera a basso costo per commercio, ristorazione, uffici e il cui profitto è direttamente proporzionale ai contributi e al TFR non versato sistematicamente ai dipendenti ̶ e vari tipi di cooperative, tra cui quelli che offrono servizi di cura e assistenza.
Questi pilastri del tessuto produttivo si sono saldati nella lotta bipartisan contro le maschere bianche svelando l’inconsistenza del bipolarismo e chiarendo come tra padrone «predatore» e «bio» non ci sia differenza.
Chi indossa la maschera bianca?
A dispetto di quanto può suggerire una prima lettura del contesto bolognese, non è soltanto lo studente-lavoratore a mobilitarsi; spesso chi lo fa, con continuità o soltanto per qualche azione, è inserito esclusivamente nel mondo del lavoro, fuori dai circuiti della formazione.
Si può dire che uno dei limiti delle maschere bianche è proprio quello di non esser riuscito a intervenire in maniera più decisiva all’interno della stessa Università e nella composizione studentesca; sicuramente difetto di comunicazione e credibilità, ma per afferrare il problema è necessario fare alcune riflessioni sulla natura della soggettività studentesca nel campo dell’Università-città-azienda. La maggior parte degli studenti costretta a lavorare ha investito, probabilmente ancor più delle generazioni precedenti, la sua vita, le sue speranze e le poche risorse familiari nella carriera universitaria. Per effetto, tra le altre cose, delle pressioni sociali e familiari, il cammino universitario diventa un obbligo formativo da affrontare a denti stretti in vista di un futuro migliore. Per questo motivo il lavoretto, qualunque esso sia, diventa una tappa di questo difficoltoso percorso da accettare, con l’autoconvinzione che non ci siano altre scelte, che sia uno sforzo passeggero verso l’agognata laurea; altre volte il lavoretto è ricercato dagli stessi studenti: fare il cameriere a cinque euro l’ora o il rider a cottimo è preferibile per flessibilità e orari, dando la possibilità allo studente-lavoratore di gestire il restante tempo di vita dividendolo tra studio e svago.
C’è un altro aspetto da considerare: iscriversi all’Università non significa soltanto seguire alacremente le lezioni e proseguire gli studi, nella scelta rientrano tanti elementi tra cui quella, importante, di fare esperienza in una città nuova che offre svariate opportunità di svago e di socialità, lontano dai vincoli familiari. Gli studenti consumano esperienza e capacità, la forte migrazione verso la città ̶ interna ed esterna alla regione ̶ accentua ancor di più questa cosa, implicando una maggiore valorizzazione sui luoghi di lavoro e un consumo vorace di merci.
D’altro canto, dalle testimonianze emerge come in tanti hanno rotto con questa linea di pensiero, testimoniando le condizioni lavorative e vendicandosi contro i propri padroni di merda.
Alla figura, brevemente tratteggiata, degli studenti-lavoratori s’aggiunge quella dei giovani provenienti da fuori provincia ̶ attratti dalla retorica costruita intorno a Bologna che imparano sulla propria pelle che la «terra delle opportunità» è un grosso incubatore di sfruttamento ̶ che si mischiano con chi nella città felsinea abita da tempo. Spesso i loro miseri stipendi coprono a malapena le spese quotidiane e il costo dell’affitto ̶ cresciuto negli ultimi anni in maniera considerevole ̶ determinando, per molti, l’abbandono del percorso universitario. La differenza tra lavoratori e studenti si nota nella modalità di coinvolgimento alle azioni delle maschere bianche: i primi scrivono alla pagina a partire dalla propria condizioni di vita per vendicarsi dei padroni di merda; i secondi, spesso, sono interessati agli aspetti organizzativi.
Dalle testimonianze vengono fuori delle condizioni comuni a tutti coloro che vengono coinvolti dalle maschere bianche. Ad esempio, chi scrive alla pagina per raccontare la sua vicenda, ha esperienze lavorative simili in precedenza, conti in sospeso con vecchi padroni di merda e rabbia accumulata: dunque ha la contezza che il suo non è un caso isolato, che la situazione che vive è comune a tanti altri; molto spesso ha lasciato il lavoro protagonista della testimonianza; sono giovani avulsi da contesti politici, fuori da dinamiche di «lotta» già sedimentate in città, con un certo grado di disillusione e sfiducia verso le istituzioni. È molto significativo il fatto che molte segnalazioni riguardano casi di ragazze che hanno subito le molestie dal proprio datore di lavoro ̶ su alcuni padroni di merda le testimonianza raccolte in questo senso sono più di una decina.
Tanti altri soggetti hanno contattato le maschere bianche: indisponibili, combattivi ed esasperati neo-adulti talvolta con figli piccoli e nonostante la famiglia in costruzione ancora nel vortice del precariato, con una significativa presenza di persone provenienti dall’estero.
Questi segmenti sociali si scontrano quotidianamente con un mondo del lavoro sempre più turbinoso e incomprensibile, tra truffe, porta a porta che vengono presentati come lavori ben retribuiti, sussidi inarrivabili, incertezza da pandemia, estenuante smart working (ma solo per chi ha gli «strumenti formativi») e richieste curriculari fuori da ogni raziocinio. Ragionieri reinventatisi corrieri che dopo nove ore iniziano turni da rider, badanti immigrate senza titoli di studio che in totale autonomia ribaltano i tavoli dei capi sfruttatori, commessi truffati che incatenarsi davanti al negozio del padrone che non paga, ma anche tanti giovani intimoriti e poi galvanizzati dalla maschera, dall’anonimato, dal gruppo e dalla gioia della vendetta, dal vedere il padrone balbettare e difendersi inutilmente dalle accuse dei lavoratori.
È interessante cercare di capire come si arriva a contattare le maschere bianche. Spesso esse rappresentano l’ultima chance di riprendere i proprio soldi e di farla pagare al padrone: chi scrive alla pagina si è già rivolto al sindacato, all’ispettorato del lavoro e alle altre istituzioni senza ricevere alcuna risposta, per questo motivo, per certi versi, «usano» le maschere bianche con un mix di rabbia e opportunismo.
C’è da considerare che non tutti coloro che scrivono alla pagina poi si organizzano contro i proprio padroni: uno dei limiti che si riscontrano nell’agire delle maschere bianche è la difficoltà a trasformare le denunce in azioni, la rabbia in vendetta.
Per quale motivo alcune volte non avviene il passaggio dal virtuale al reale? C’è una percezione troppo alta del rischio? È complicato rompere il sentimento di vergogna che prova chi è stato truffato dal proprio padrone di merda? Come coinvolgere i lavoratori ancora presenti sul proprio posto di lavoro? Sono alcune delle domande aperte che il lavorio delle maschere bianche pone.
Parlando dei limiti, è importante ribadire la già citata difficoltà di radicarsi all’interno della composizione degli studenti-lavoratori e dunque di aver intercettato pochi giovani sotto i 25 anni (per inadeguatezza della pagina Facebook, social poco usato da questa composizione? Per un certo fatalismo dei giovanissimi? Se sì, come lo si decostruisce?).
Al di là di queste domande, resta il punto di forza delle maschere bianche: la capacità di ricercare la potenzialità, la forza, l’indisponibilità, i comportamenti di rottura per quanto ambigui e incomprensibili senza alcun attaccamento all’ideologia e a certi dogmi teorici.
Dentro il precariato: punti di forza e limiti
Sul precariato sono state spese tante analisi negli ultimi decenni, ma scarsi sono stati i tentativi di sviluppare un intervento politico. Nonostante sia ben lontano dall’essere riuscito a dare continuità organizzativa al suo progetto, il «Padrone di Merda» ha avuto capacità di concretizzare, di identificare in carne e ossa il precariato, di ricostruire il suo ruolo e la sua importanza nella «divisione del lavoro» cittadina, di renderla protagonista nelle azioni, di individuare delle tendenze soggettive su cui scommettere.
C’è riuscito partendo dall’inchiesta, momento di comprensione ma, allo stesso tempo, strumento organizzativo. Dal lavorio quotidiano è venuto fuori come il sentimento prevalente in questa composizione è la volontà di «farla pagare» al padroncino di turno, a colui che sfrutta, mal paga, rovina la vita ai precari. Un’esigenza profondamente politica e che ha permesso alle varie figure frammentate del mondo lavorativo di riconoscerci in una stessa condizione, di organizzarsi insieme per vendicarsi.
La sperimentazione delle maschere bianche ha cristallizzato un fatto semplice e facilmente riproducibile: la vendetta, per quanto sporca, ambigua, immorale, è anche un vettore di forza collettiva se ha un preciso riferimento verso cui scagliarsi, se individua e si organizza contro un nemico chiaro. Sembra banale ma basta partire da qui per capire il portato de «Il Padrone di Merda». È questo lo strumento che i lavoratori dietro la maschera bianca hanno adottato per cambiare senso alla violenza, all’odio di classe, per rispedire al mittente molestie e sfruttamento, organizzando oltre quaranta azioni contro attività commerciali, ditte, cooperative e creando un clima di paura tra le varie fazioni del padronato cittadino che ha reagito unitamente alla politica cittadina e alla magistratura. Le maschere bianche hanno comunque lasciato un segno e a Bologna continua a marciare la vendetta dei lavoratori.
La spinta al discredito pubblico e all’interruzione dell’attività viene dagli stessi lavoratori, fenomeni già diffusi nel precariato giovanile: sono tanti i lavoratori che si rendono protagonisti individualmente recensendo negativamente su Google ̶ commentando sotto le pagine Facebook ̶ i locali dei padroni di merda e, talvolta, attuando vere e proprie vendette private. Comportamenti sociali già esistenti, che le maschere tentano di rendere collettivi e indirizzare utilizzando l’anonimato, la segnalazione, la diffamazione mass mediatica, l’azione diretta, usando delle semplici maschere senza alcuna connotazione politica per costruire un’identità collettiva e proteggere il singolo. Fenomeni inevitabili nella guerra al salario promossa dalla controparte padronale in Italia, perché a mostrare totale disinteresse verso questo frammento di composizione non è soltanto il sindacato, ma anche le istituzioni come l’ispettorato del lavoro ̶ che non ha nessuno strumento per far valere il diritto dei lavoratori contro le società a responsabilità limitata e che si muove in ritardo e in maniera confusa ̶ che portano ogni legittima richiesta dei lavoratori sul terreno dei concordati negando la piena retribuzione ai dipendenti.
Le maschere bianche hanno parzialmente affrontato questo aspetto: alcuni lavoratori hanno ripreso i propri soldi dopo aver pressato e «smerdato» i propri padroni, dimostrando che mettersi in gioco, screditare, fare azioni davanti ai luoghi di lavoro funziona. Non sempre ci sono riuscite però: i padroni, infatti, sono tutelati da decenni di leggi a favore della libertà d’impresa (e contro i lavoratori), dalla burocrazia, dalle stesse istituzioni del lavoro che impostano trattative private per mercanteggiare sul dovuto; sono liberi di ricavare milioni dalla loro attività e di scomparire con un fallimento senza vedere intaccato il proprio patrimonio personale.
Anche in questo caso evidenziamo dei limite: l’uso politico della vertenza deve fare passi in avanti.
Se è vero che la lotta non va sottoposta alla vertenza, è vero anche che è necessario raggiungere risultati materiali e immediati per far progredire la lotta, superando gli scogli della giustizia padronale e dello squilibrio che esiste nei mezzi di tutela tra datore e lavoratore. Inoltre se il desiderio di vendetta è il motore che spinge i lavoratori a mobilitarsi, cosa succede una volta che essa si è compiuta? In altri termini: la vendetta rischia di bruciarsi in fretta, non consentendo di instaurare una certa continuità organizzativa.
L’obiettivo che le maschere bianche si pongono è sicuramente molto impegnativo ̶ ovvero sviluppare processi di contro-soggettivazione partendo dalle condizioni materiali di ciascun precario, superando i limiti della forma-sindacato ̶, e, come abbiamo provato a delineare nell’articolo, permangono dunque delle criticità, dei problemi aperti da affrontare: come muoversi per recuperare i soldi dovuti dai padroni di merda se l’ispettorato del lavoro non agisce e le leggi sul lavoro favoriscono la parte padronale? Come favorire la ricomposizione tra le diverse figure considerando l’estrema frammentazione dei luoghi di lavoro? Come massificare la vendetta?
Sono solo alcune delle domande da affrontare.
Resta il fatto che raramente un’organizzazione di lavoratori riesce a concentrare su di sé un tale tran tran mediatico intercettando un’ampia fetta di pubblico ̶ solitamente affine più ai like sulla pagina di qualche opinionista che a solidarizzare con organizzazioni di lavoratori combattivi. Questo fatto assume oggi un’importanza fondamentale nel cambio di passo sempre più necessario per le organizzazioni rivoluzionarie: assumere il post-ideologico come dato e rivoltarlo contro il nemico.
Ad esempio, la macchina del consenso, mediatico unendosi al radicamento sociale, ha premiato i lavoratori, che hanno ricevuto una grossa solidarietà da tutta Italia quando la magistratura, su pressione dei politici del PD e della Lega, ha accusato le maschere bianche di praticare estorsione. Allargare il terreno del consenso per praticare il conflitto è un passo sempre più determinante e una sfida che attende le maschere bianche ancora lontane dalla generalizzazione del loro metodo e della loro lotta. La realtà delle maschere bianche contro i padroni di merda ha quindi saputo, senza pretesa di rappresentare o sintetizzare il conflitto di classe italiano, interpretare i comportamenti di una composizione sociale variegata, trasformando quei fenomeni vendicativi individuali in un percorso collettivo che, nonostante i problemi aperti, ha inciso e continua ad incidere sullo scenario politico di una città importante e paradigmatica come Bologna. La flessibilità tattica, la capacità di tenere dentro tante contraddizioni, la propensione offensiva, la rinuncia a qualsiasi intento ecumenico e meramente rivendicativo, l’utilizzo della vertenzialità sono punti di forza delle maschere bianche e sono le risorse migliori con cui oltrepassare alcuni e limiti e allargare il terreno del conflitto.
Machina