NON SOLO SETTARIO Bordiga lettore innovativo di Marx

set 27th, 2020 | Di | Categoria: Documenti storici



di David Broder 31 luglio 2020


[Una recensione di The Science and the Passion of Communism: Selected Writings of Amadeo Bordiga (1912-1965), curato da Pietro Basso]

Il 27 marzo del 1944, Palmiro Togliatti sbarcò a Napoli dopo diciotto anni trascorsi in esilio. Secondo un suo compagno, Maurizio Valenzi, al momento di incontrare i comunisti partenopei una delle prime domande del segretario del PCI fu: “Ma che cosa fa Bordiga?” Il fondatore del Partito Comunista era stato espulso dal partito clandestino nel 1930, in un momento in cui la sua organizzazione sul territorio italiano era stata pressoché schiacciata dal fascismo; tornando dall’URSS nel 1944 per costruire il suo “partito nuovo,” Togliatti voleva perciò combattere ciò che chiamava i residui di “bordighismo” nella base comunista. E come Togliatti stesso aveva insistito nel 1930, espellere Bordiga dal partito era una cosa; espellere il “bordighismo” tutta un’altra. Parallelamente, di fronte alle espressioni diffuse di “estremismo” e di “settarismo classista” tra la base comunista nelle regioni liberate (e anche all’ascesa di forze dissidenti organizzate in tutta Italia), gli agenti dell’Allied Military Government temevano la potenza sovversiva di uno spettrale Bordiga, sfuggente eppure “very popular amongst masses and especially amongst workmen”.

Che cosa faceva Bordiga, in quei mesi? I compagni di Togliatti risposero seccamente: non faceva quasi nulla, ancora non si era fatto vivo. Il segretario del PCI: “Non è possibile, cercate di capire” (o secondo un’altra versione, in tono più tetro: “Eppure con questo abbiamo un conto aperto e dobbiamo chiuderlo”.) Per lo storico Luigi Cortesi questo episodio evidenzierebbe un aspetto chiave della vicenda storica di Bordiga, che potremmo qualificare come lo scarto tra, da una parte, la presenza duratura fra la base comunista di un insieme di idee tendenzialmente “livorniste” e poco gramsciane, ma anche un po’ generiche (l’opposizione frontale al mondo borghese, la politica classe-contro-classe, l’imminenza della rivoluzione proletaria “come in Russia” ecc.), e, dall’altra, l’attività e i posizionamenti politici concreti del fondatore stesso. Negli anni della Resistenza, le opposizioni alla politica nazional-unitaria del PCI (molte delle quali rimaste su posizioni più o meno filo-staliniane, ad esempio il Movimento Comunista d’Italia, MCd’I, a Roma) avevano cercato la collaborazione di Bordiga per “ricreare il partito del 1921”: una proposta secondo lui velleitaria.

Nonostante lo slancio militante e anche la capacità d’aggregazione dei movimenti comunisti dissidenti, Bordiga vedeva solo la loro confusione politica e — era questa la vera discriminante, che condizionava anche il suo giudizio sull’attività dei comunisti “internazionalisti” — la morsa del “periodo controrivoluzionario”. Un articolo pubblicato sul bollettino interno del MCd’I nel maggio del 1944, probabilmente ad opera di Antonino Poce (già amico di Bordiga nel confino), condannò la politica nazional-unitaria del PCI insistendo che “la più brutta malattia che abbiamo contratta in questi venti anni è l’antifascismo”. Ma per Bordiga, la “situazione reazionaria” era determinata non solo dalla politica frontista dei leader del PCI, ma proprio dalla sua genesi originaria, cioè la sconfitta fondamentale subita dalla rivoluzione europea negli anni ’20.  Nel 1930 aveva negato l’opportunità di creare un’opposizione antistalinista internazionale, ipotesi difesa invece da alcuni suoi compagni quali Onorato Damen e Ottorino Perrone. E nel 1944, davanti all’affermazione piena di una nuova egemonia mondiale — l’imperialismo a stelle e strisce — era illusorio, secondo Bordiga, immaginare che le opposizioni italiane avrebbero potuto anche iniziare a superare il clima di “controrivoluzione democratica” globale.

Come Bordiga ha spiegato allo storico Giorgio Galli, dopo la sua sconfitta nel partito e nell’Internazionale nel 1926, egli non proseguì la sua opposizione in modo attivo perché “non c’era niente da fare.” E a fine marzo 1944, nei giorni della “svolta di Salerno,” i compagni di Togliatti avevano sostanzialmente ragione a dire che Bordiga non s’era fatto vivo. Eppure, da quell’anno in poi, cominciava un altro periodo di attività, ormai non più inserita nelle vicende politiche “di massa” o di agit-prop, ma centrata sul “recupero” di ciò che chiamava la “dottrina marxista inadulterata.” Nel 1952, durante la scissione che lo separò dai sostenitori della ricostituzione immediata del partito, avrebbe avuto modo di citare il giudizio di Engels del 1874 sui fuoriusciti della Comune parigina, secondo cui:

Dopo ogni rivoluzione naufragata, od ogni controrivoluzione, si sviluppa tra i profughi scampati all’estero una attività febbrile. Le diverse gradazioni di partiti si raggruppano, si accusano reciprocamente di aver condotto il carro nel fango, si incolpano gli uni e gli altri di tradimenti e di tutti i possibili peccati mortali. Si rimane così in istretto legame con la patria, si organizza, si cospira, si stampano fogli volanti e giornali, si giura che in ventiquattro ore si tornerà a ricominciare, che la vittoria è certa e si distribuiscono nell’attesa di già gli uffici governativi. Naturalmente i disinganni seguono ai disinganni, e poiché questi non si vogliono ascrivere alle condizioni storiche ineluttabili, che non si vogliono capire, ma ai fortuiti errori dei singoli, così si accumulano le reciproche accuse e tutto finisce in una baruffa generale.

Ormai Bordiga si dedicava alla ricerca e allo studio, volendo ripristinare e difendere la dottrina del “partito storico” (approssimativamente, la parte comunista) anche quando non era possibile ricostruire il “partito formale” concreto e organizzato.

La nuova antologia in lingua inglese degli scritti di Bordiga (curata da Pietro Basso) cerca di valorizzare soprattutto questo secondo periodo della vita di Amadeo Bordiga. Prima pubblicazione di questo tipo in lingua inglese, propone un’ottima traduzione (realizzata da Giacomo Donis e Patrick Camiller) di testi quasi sconosciuti nel mondo anglofono, al di fuori dei piccolissimi circoli legati o alla figura di Damen o (in chiave più eterodossa, meno leninista) alla parabola di Jacques Camatte e della Gauche Communiste francese postsessantottina. Infatti, sebbene il volume presenti anche 160 pagine di testi classici riguardanti il periodo “alto” della sua militanza, dal 1911 al 1926 — e viene segnalato il suo ruolo di “fondatore”, solitamente rimosso nella produzione accademica di ispirazione “PCI-ista” o gramsciana — Basso sottolinea il fatto che l’importanza di Bordiga non si limita al suo coinvolgimento diretto nelle vicende storiche del movimento operaio italiano. Infatti, anche parlando del dopoguerra, è palese l’interesse di Basso soprattutto per le capacità analitiche di Bordiga e per la sua lettura di Marx, anziché per le sue tesi sulla forma-partito e sulle questioni più prettamente organizzative.

Pubblicato da Brill proprio nel 50° anniversario della morte di Bordiga, avvenuta il 23 luglio 1970, The Science and the Passion of Communism: Selected Writings of Amadeo Bordiga (1912-1965) cerca di interrompere la congiura del silenzio contro questa figura, una rimozione ancora prevalente e pressoché totale nonostante (e in qualche senso grazie a) la canonizzazione quasi unanime di Gramsci. Al di là della loro importanza per capire il vero rapporto Bordiga-Gramsci, i testi inclusi in questa antologia affrontano temi di importanza più generale come l’ascesa dell’indebitamento personale negli USA, quale modo di formare dei proletari-consumatori; la rivoluzione nei paesi coloniali ed “I fattori di razza e nazione nella teoria marxista”; nonché la prospettiva di un comunismo ecologico e “anti-produttivista” basato sulla riduzione del tempo di lavoro, cioè un “piano di vita per la specie umana”. Nonostante il dogmatismo rivendicato di Bordiga ed il suo ripudio di ogni pretesa “innovatrice”, questi scritti avevano in realtà anche una carica anticipatrice, rimossa sia dalla storiografia PCI-ista che da gran parte dei suoi propri seguaci.

Originalità

Nel piccolo mondo della sinistra comunista, e anche agli occhi di Bordiga stesso, risulterebbe davvero eretico parlare del suo ruolo “innovatore.” Dal 1944 in poi non firmò i propri articoli, almeno quelli sui problemi politici; e, al di là di questo anti-individualismo, criticò aspramente ogni pretesa di rendere “la dottrina originale” del comunismo formulata da Marx più “sofisticata” o di piegarla alle domande di “condizioni speciali”, secondo lui fornendo così soltanto la base d’appoggio ad ogni tipo di rinuncia e di opportunismo. Al contrario, Bordiga ha vantato il proprio “dogmatismo”  parlando addirittura — con un affermato spirito di provocazione — delle “tavole immutabili” della teoria marxista del partito. Già nelle sue prime battaglie politiche prima della Grande Guerra, Bordiga evoca il bisogno di “tornare alle origini” per superare l’opportunismo del Partito Socialista Italiano. Ma — come ci indica la dettagliata ricostruzione proposta da Luigi Gerosa — Bordiga ha proseguito uno studio attento di Marx soprattutto dopo il 1945 e, su questa base, ha cercato di utilizzare le sue categorie per elaborare un’indagine approfondita dal capitalismo americano e della formazione sociale russa (secondo lui anch’essa capitalista).
Nonostante la negazione del proprio ruolo personale (arrivando anche all’anonimato assoluto) e l’insistenza sul fatto che non stesse facendo niente di più rivoluzionario che riscoprire la dottrina originale (un po’ come Martin Lutero, dunque…), è evidente che Bordiga ha formulato qualcosa di molto originale, rispetto non solo alle tradizioni del socialcomunismo italiano ma anche allo stesso pensiero di Marx. Indicativo in questo senso era il suo “programma per i paesi del capitalismo maturo,” abbozzato nel 1952-53. Questo documento, citato nell’Introduzione di Pietro Basso, esprime una critica molto forte dell’industrialismo staliniano e delle sue ramificazioni italiane (la “costruzione del socialismo” identificata con lo sviluppo delle forze produttive), ma allo stesso tempo una lettura di Marx più che rara fino ad allora. Contrastava anche alcuni aspetti ‘sviluppisti’ presenti nell’opera del pensatore tedesco stesso, nonché in Trockij ed altri.

Possiamo riassumere così i punti del programma abbozzato da Bordiga (Basso lo fa a p. 92 dell’antologia):

1. Disinvestimento dei capitali, destinando la produzione al consumo anziché allo sviluppo dei mezzi strumentali.

2. Innalzamento dei “costi di produzione” : salari alzati, orari ridotti.

3. Una drastica riduzione del tempo di lavoro, almeno alla metà delle ore attuali.

4. Piano di “sottoproduzione” per contrastare l’economia-spreco; controllo autoritario del consumo, abolizione delle merci di lusso, dannose, inutili ecc.

5. Rottura dei limiti di azienda, nuovo piano collettivo di produzione e consumo.

6. Fine delle contraddizioni fra le età dell’uomo; va abolita la cosiddetta assistenza a carattere mercantile.

7. Fine della contraddizione fra le aree urbane e il resto del territorio.

8. Abolizione della divisione del lavoro e delle gerarchie professionali.

9. Abolizione dell’informazione mercificata, oramai disciplinato dallo stato.

Si stagliano in questo documento due cose piuttosto impressionanti. Il primo è il disinteresse totale per i processi decisionali quale fondamento dell’ordine nuovo; se il Manifesto del 1848 cercò una doppia rivoluzione democratica-sociale, Bordiga considerava questa enfasi superata e ormai dannosa. Ma, soprattutto, questo sarebbe un programma focalizzato sulla pianificazione: non per sviluppare l’economia in modo più “razionale” o “coordinato”, ma per rispondere agli “autentici bisogni umani” sia nell’ambito del consumo che nel processo di produzione stesso. Contro la visione del socialismo quale industrializzazione accelerata (ciò che il primo Jacques Sapir avrebbe chiamato “l’economia di guerra permanente”) Bordiga propone delle misure fin da subito atte a smantellare i meccanismi di accumulazione capitalistica e favorire lo sviluppo libero della specie umana. Come ha scritto nel 1957, parlando de Il Capitale, “In quelle pagine di Marx fiammeggia in opposizione al concetto borghese di Libertà della Persona quello comunista del Tempo disponibile per la Specie, il suo sviluppo materiale e mentale, e la sua armonia di letizia.”

Castelli in aria? Il gruppo di Programma Comunista in cui “militava” Bordiga era un gruppo di studio anziché un partito che si indirizza alle masse, e il Programma di cui parlava non era portato avanti da un’organizzazione vera e propria. Eppure, bisogna distinguere tra la scarsa eco delle tesi di Bordiga (che pure, certo, finì con l’occultare loro carica “anticipatrice”) e l’utopismo nel senso di una visione di un futuro ordine delle cose, staccata dall’analisi delle realtà presenti. Critico assiduo non solo del Socialismo in Un Solo Paese, ma, a maggiore ragione, dei vari neo-proudhonismi e utopie autonomo/localiste (che secondo lui riproponevano vecchie formule idealiste già demolite da Marx), Bordiga sottolineava il fatto che l’ordine comunista di cui parlava dipendeva da condizioni tecniche già esistenti ma da condividere altrimenti. Invocava “un’espressione formidabile” di Marx: il “cervello sociale” per sottolineare la base tecnico-materiale su cui l’ordine nuovo potrebbe reggersi: “Il Sapere della specie, la Scienza, ben più che l’Oro, non sono per noi privati retaggi, ed in Potenza appartengono integri all’uomo Sociale.”

Qui, Bordiga ha fornito una lettura precoce, sebbene ancora poco nota, dei Grundrisse di Marx. A lungo ignorato, il manoscritto di Marx (che risale al 1857-8) era uscito a Mosca nel 1939 prima della sua pubblicazione nella DDR nel 1953. Bordiga aveva modo di studiare e commentare i Grundrisse grazie alle traduzioni private girategli dal suo compagno francese Roger Dangeville già negli ultimi anni Cinquanta, ben prima della loro pubblicazione in qualsiasi paesi occidentale (teniamo presente che anche la famosa lettura compiuta da Roman Rosdolsky è apparsa solo nel 1968). In questa chiave, Bordiga forniva un’interpretazione originale del problema dell’automazione, opponendosi già negli anni Cinquanta alla tesi secondo cui questo processo avrebbe costituito una minaccia alla prospettiva rivoluzionaria fondata sulla centralità del proletariato. Nel testo selezionato per questa antologia (con il nuovo titolo ‘Chi ha paura dell’automazione?’), Bordiga ripudia la tentazione luddista insieme a quella ‘sviluppista’ — insistendo sul bisogno di assimilare i progressi scientifici odierni proprio per cambiarne il segno:

il Mostro nemico [il capitale fisso industriale come contrapposto nella forma capitalista al lavoro umano] che incombe sulla massa dei produttori e monopolizza un prodotto, che non solo attiene a tutti, ma a tutto il corso attivo della specie nei millenni, la Scienza e la Tecnologia elaborate e depositate nel Cervello Sociale. Oggi che la Forma capitalista scende il ramo della degenerazione, questo Mostro uccide la Scienza stessa, ne fa mal governo, ne conduce l’Usufrutto in modo criminale dilapidando il retaggio delle generazioni avvenire.

In quelle pagine [dei Grundrisse] si vede l’odierno fenomeno della Automazione scontato e teorizzato per il lontano avvenire. Quello che ci permettemmo di chiamare Romanzo del lavoro oggettivato, ha per epilogo la sua palingenesi, con cui il Mostro diviene Forza benefica dell’umanità tutta cui consente di non estorcere sopralavoro inutile, ma di ridurre a minimi il lavoro necessario, “a tutto vantaggio della formazione artistica, scientifica, ecc., degli individui”, ormai elevati all’Individuo Sociale. Vogliamo qui trarre dagli autentici materiali, oggi assai più validi ed evidenti dell’epoca in cui nacquero, un’altra non meno autentica formulazione. Fermata dalla rivoluzione proletaria la dilapidazione della Scienza opera del Cervello Sociale, compresso il tempo di lavoro ad un minimo che ne fa tutta gioia, esaltato a forme umane il Capitale fisso mostro di oggi, ossia soppresso, non conquistato all’uomo o alla Società, il Capitale, transeunte prodotto storico, l’industria si comporterà come la terra, una volta liberati da ogni proprietà di chicchessia gli impianti come il suolo.

Sulla base del capitalismo

Sebbene esistano in Marx alcuni spunti adatti a ispirare una simile visione (e anche aspetti ecologici, rilevati di recente anche da autori quali John Bellamy Foster), tutto questo non era solo un ripristino della “dottrina originale del marxismo” contro i suoi falsificatori. Anzi, spesso Bordiga entra in contraddizione con la nozione marxiana dei rapporti capitalistici che diventerebbero “catene” per l’espansione delle forze produttive (soprattutto se questa espansione viene vista come necessaria e/o auspicabile). Questa specificità di Bordiga venne sottolineata da Loren Goldner in un articolo che qualifica le posizioni di Bordiga come un ripudio del socialismo concepito quale  “succedaneo della rivoluzione borghese” Qui, Goldner parla di una nozione inerente alla “rivoluzione permanente” (ma anche al pensiero dei vari Kautsky, etc…) secondo cui il proletariato dovrebbe portare a buon fine i “compiti” della rivoluzione borghese tralasciati dalla borghesia stessa. Vediamo questo approccio già in Gramsci (sul Risorgimento ecc.) ma radicalizzato dal PCI togliattiano attraverso il discorso della modernizzazione economica e democratica dell’Italia, la ricostruzione anche capitalistica nel secondo dopoguerra ecc.

Senz’altro Bordiga aveva sempre condannato tale approccio, con l’accento messo sulle “élite incapaci” anziché sulla tendenza inerente nel capitalismo a produrre distruzione e miseria accanto alla ricchezza sterminata. E prendeva le distanze non solo da chi ripudiava la presa del potere (secondo Bordiga il binomio partito-stato era centrale per ogni azione politica, il resto solo “astensionismo” anarchico) ma anche da chi vorrebbe un’amministrazione migliore o più partecipativo-democratica del capitale. Esprimeva ciò nella critica dell’“affinismo” sin dalle sue prime battaglie politiche a Napoli, così come nel suo ripudio della politica “culturalista” della gioventù socialista che voleva impartire la cultura borghese agli operai. Contro chi voleva evocare l’arretratezza del mezzogiorno quale pretesto per ogni tipo di alleanza interclassista (i riformatori sociali buonisti, i partigiani dell’”anticorruzione”, i laicizzanti della massoneria ecc.), Bordiga riconosceva un rapporto più complicato tra la miseria di Napoli, le isole  industriali, e l’evoluzione del capitalismo italiano nel suo insieme.

Se questa visione presentava punti di contatto con lo “sviluppo diseguale e combinato” trockijsta, non condivideva il giudizio del dissidente russo secondo cui nell’URSS del 1936 “il socialismo [poteva ormai] confrontarsi con il capitalismo in tonnellate di acciaio e di calcestruzzo…”. Per Bordiga, l’industrialismo sovietico era un’accumulazione di capitali, sebbene questi fossero nazionalizzati. Goldner ci dice che il Bordiga degli anni ’50-60 si interessava sempre di più all’economia rurale, considerando il capitalismo “anzitutto la rivoluzione agraria, la capitalizzazione dell’agricoltura” e  tratto dominante dei kolkhoz sovietici lo sviluppo di un capitalismo di piccoli imprenditori. Ma fu anche uno degli esponenti della Komintern che più difese la Nep e le posizioni di Bucharin all’epoca, constatando che sarebbe in ogni caso impossibile “costruire il socialismo” in Russia: sebbene Lenin avesse “sacrificato” elementi di economia socialista per difendere la testa di ponte della rivoluzione mondiale, “Con lo stalinismo si è rinunciato alla rivoluzione internazionale intensificando la transizione al grande industrialismo, nella Russia e anche nell’Asia. Elementi proletari da un lato, feudali dall’altro, tendono al capitalismo.”

Pertanto ripudiava l’idea korschiana secondo cui la rivoluzione di ottobre sarebbe stata solo borghese ma anche l’ipotesi che l’economia nazionalizzata rappresentasse in qualche modo la base del socialismo. Anzi, la rivoluzione proletaria al livello politico si abbinava alla rivoluzione sociale borghese nella Russia rurale; determinante per l’ascesa degli elementi socialisti sarebbe non la contesa tra proprietà privata e statale, bensì l’avanzata della rivoluzione proletaria nei paesi di capitalismo maturo. Anche l’azienda nazionalizzata accumulava capitale costante, estraeva plusvalore e dava luogo a reti di manager aziendali all’interfaccia tra l’azienda ed il mercato (mondiale). Questo indicava non un capitalismo di stato nel senso di una “fase ultima”, ma una società transitoria in tendenza verso il pieno capitalismo. Questo capitalismo interstiziale stava superando i lasciti del feudalesimo e ogni vestigia del potere proletario e, avendo sviluppato l’infrastruttura dello sfruttamento capitalistico su questa base, infine si sarebbe liberata anche della finzione del socialismo per integrarsi pienamente al capitalismo mondiale.

Contro l’indifferentismo

Bordiga condannava a chiare lettere il ruolo controrivoluzionario dello stalinismo sul piano politico, in quanto nemico dell’internazionalismo e sottomesso agli interessi dello stato-nazione russo. La politica di industrializzazione non rappresentava una via al socialismo e la russificazione del Komintern aveva rapidamente minato la pretesa di un “partito della rivoluzione mondiale”, facendo della politica dei partiti comunisti una mero eco dei disegni russi. Eppure, qui l’essenziale stava nella razionalità economica sottogiacente dell’URSS (lo sviluppo capitalistico di un paese arretrato) e non nelle sue forme politiche effimere. Bordiga smentiva l’approccio trockijsta ossessionato dai problemi del “burocratismo” (e dalla difesa della democrazia) attribuendo allo stalinismo anche un certo ruolo rivoluzionario… proprio perché  borghese, superando pertanto ciò che sarebbe stato possibile sotto l’ancien regime zarista. Come l’ha spiegato in una lezione del 1951:

Lenin intravide la possibilità del suo partito di essere portatore della rivoluzione politica proletaria nel mondo e frattanto anche della rivoluzione sociale capitalista in Russia: solo con le due vittoriose premesse la Russia poteva divenire economicamente socialista. Stalin dice che il suo partito attua il socialismo economico nella sola Russia; in effetti, il suo Stato – e partito – si è ridotto ad essere il portatore della sola rivoluzione sociale capitalista in Russia e Asia. Tuttavia al di sopra degli uomini queste forze storiche lavorano per la rivoluzione socialista mondiale. Non diversa valutazione deve darsi alla rivoluzione cinese. Anche lì operai e contadini hanno lottato per una rivoluzione borghese, in varie fasi, ed oltre non possono andare. L’alleanza di quattro classi: operai, contadini, intellettuali e industriali riproduce l’alleanza, che ha piene carte in regola col marxismo in dottrina e tattica, della Francia del 1789 e della Germania del 1848. Tuttavia la distruzione della millenaria impalcatura feudale orientale è un dato acceleratore della rivoluzione proletaria mondiale, sol che questa abbia ragione delle metropoli europee e americane.

Un tale giudizio potrebbe sorprendere chi conosce Bordiga solo come il critico “estremista” dei compromessi interclassisti del PCI togliattiano. Infatti, assai spesso i critici di Bordiga ci raccontano che la sua intransigenza avesse un carattere prettamente “morale,” astorico e capace solo di proclamare il proprio “purismo.” In particolare, è la critica bordighiana della democrazia ad alimentare tale preconcetto: e la sua posizione fu certamente caratterizzata da (1) [come ha rilevato Perry Anderson] una critica della forza conservatrice e controrivoluzionaria della democrazia nei paesi dell’Occidente, molto più capace di produrre consenso (ma anche di esercitare la forza repressiva) che ogni regime despotico o zarista e (2) [come  sottolinea Basso], un rifiuto di riconoscere il bisogno di difendere lo spazio in cui organizzarsi, conquistato dal movimento operaio attraverso lunghe battaglie. E Bordiga ha in effetti promosso una visione identitaria del partito comunista, definito e reso coerente proprio dalla sua opposizione al mondo della democrazia borghese: nozione questa poi radicalizzata dal suo atteggiamento assecondante verso  Jacques Camatte (il quale vedeva il partito comunista quale Gemeinwesen in formazione).

Eppure, nei suoi scritti negli anni ‘50, Bordiga ha criticato l’idea secondo cui la situazione mondiale (a maggior ragione, qualsiasi situazione nazionale) si limitasse alla contesa diretta tra socialismo e capitalismo: sarebbe stato puro idealismo immaginare che i russi o i cinesi potessero scegliere tra l’uno e l’altro. Al Secondo Congresso della Komintern nel 1920 Bordiga (così come Serrati) dubitava dell’importanza che Lenin attribuiva al mondo coloniale; ma a partire dagli anni Cinquanta questa problematizzazione influenza la sua concezione del rapporto tra lo stalinismo e la rivoluzione mondiale. Lo aveva irritato la demagogia del Congresso di Baku, quando Grigory Zinoviev  invocò la “guerra santa ai capitalisti francesi e inglesi” per cercare alleati dello stato russo tra i vari movimenti nazionalisti islamici. Ma, se ripudiava le ideologie terzomondiste, Bordiga riconosceva il “movimento gigantesco di emancipazione” nel mondo coloniale. Sarebbe stato impossibile costruire il socialismo nel Ghana o nel Congo degli anni Sessanta, così come lo era stato nella Russia del 1917. Ma queste rivoluzioni — pienamente borghesi — hanno gettato le basi per ulteriori sviluppi.

Secondo Basso, “la connessione proiettata ai congressi di Mosca e di Baku [nel ‘20] tra i proletari del mondo ed i popoli oppressi rimaneva un orizzonte lontano [ma] Bordiga ha indicato il valore liberatorio straordinario delle rivolte e rivoluzioni anticoloniali per il movimento proletario mondiale”, aggiungendo che oggi sarebbe anche più facile stabilire quelle connessioni. Considerando il carattere unitario del capitalismo mondiale, Bordiga insistette nei suoi interventi all’esecutivo allargato del Komintern nel 1926 sul fatto che anche i problemi “interni” fossero un problema per tutta l’Internazionale. Nel 1953 riconoscerà il carattere interconnesso dei problemi occidentali e (post)coloniali — rifiutando ogni tipo di “indifferentismo” — nei suoi testi su I fattori di razza e nazione nella teoria marxista e Le rivoluzioni multiple. Secondo Bordiga, Stalin avrebbe rovesciato l’internazionalismo di Lenin, negando il carattere unitario del capitalismo mondiale e postulando la coesistenza pacifica tra diversi centri di capitalismo e poteri militari costituiti. La vedeva come una riformulazione della teoria “piccolo-borghese sull’uguaglianza giuridica delle nazioni in regime capitalistico” bollata nelle tesi leniniane di 1920 (un’idea risalente anche a Mazzini).

Sarebbe un errore “assolutista e metafisico” vedere solo “un duello tra le forze pure del capitale moderno e degli operai di azienda, dal quale sorgerà la rivoluzione proletaria, negando ed ignorando l’influenza sulla lotta sociale di ogni altra classe e di ogni altro fattore”. Anzi, le rivoluzioni anticoloniali costituiscono per l’appunto un tale fattore, nonostante il loro carattere pienamente borghese. “Per quei paesi dell’Asia, ove ancora domina l’economia locale agraria dei tipi patriarcali e feudali, la lotta anche politica delle ‘quattro classi’ è un elemento di vittoria nella lotta internazionale comunista, pur quando ne sorgano in via immediata poteri nazionali e borghesi, sia per la formazione di nuove aree atte alla posizione delle rivendicazioni socialiste ulteriori, sia per i colpi portati da tali insurrezioni e rivolte all’imperialismo euroamericano.” Ma così come la strategia di Lenin nel 1917 era incentrata sulla vittoria rivoluzionaria nell’Occidente, anche le sorti della rivoluzione nei paesi della periferia negli anni ’50-60 dipenderebbero da questa. In questo caso, “il proletariato, padrone in Occidente del potere e dei mezzi moderni di produzione, ne [potrebbe fare] partecipe l’economia dei paesi arretrati con un “piano” che, come quello cui già tende il capitalismo di oggi, è unitario, ma a differenza di quello non vuole conquiste, oppressione, sterminio e sfruttamento.”

Conclusioni

Questo volume è un’antologia, per forza di cose incompleta; e qui – anche rispondendo alle scelte editoriali di Basso – ho dedicato poco spazio all’attività più direttamente politica di Bordiga in Italia dal 1910 al 1926. Senz’altro, si potrebbero anche stabilire collegamenti tra la sua attività di “fondatore” del comunismo italiano ed i suoi scritti del dopoguerra, anche considerando il radicamento territoriale e di classe del primo PCd’I (la presenza debole di contadini, quella forte di artigiani e di operai in unità di produzione piccole fuori delle grandi fabbriche; il dibattito sulle cellule di fabbriche o territoriali, ecc.). Considerando l’ipotesi di Cortesi riguardante lo scarto tra il pensiero di Bordiga e un più diffuso ‘livornesismo’, si potrebbe anche indagare su quanto le tesi del fondatore fossero davvero capite nella base del PCd’I neonato dal 1921 al 1926, al di là delle sue capacità di capo carismatico e interprete intransigente dell’anti-interventismo e dello spirito del bolscevismo “pianta in ogni clima”. Si potrebbe anche riflettere su altri temi “anticipatori” presenti in questa antologia, quali un suo pezzo sulle Watts Riots di Los Angeles del 1965, o i suoi commenti sull’importanza dell’addebitamento personale nella società benessere negli Stati Uniti.

Questo libro esce alla vigilia del centenario del congresso di Livorno, e non ci sono da aspettarsi grandi iniziative per ricordare il fondatore del PCd’I, neanche quale figura rappresentativa della sinistra della Terza Internazionale. Nonostante le ricerche più valide degli ultimi decenni, dal lavoro di Liliana Grilli sugli scritti bordighiani sulla Russia, agli Scritti di Amadeo Bordiga 1911-26 curati da Luigi Gerosa, fino alle opere storiche dei compianti Sandro Saggioro e Arturo Peregalli, prevale nella produzione accademica e nella pubblicistica una visione impoverita e mal informata di Bordiga quale il presunto “antagonista settario e dogmatico” di Gramsci, e nient’altro. Sarebbe utile combattere questo mito, anche solo valorizzando i legami tra questi due uomini negli anni di confino e carcere, nel periodo dopo le loro lotte più aspre. Ma soprattutto, va presa sul serio la grandezza e la carica anticipatrice di Bordiga stesso. Non sarà mai un santino alla Gramsci, in cui tutti vedono ciò che vogliono vedere, rendendo il suo pensiero consensuale e quindi inefficace. Ma se si cominciasse almeno a leggere Bordiga, integrandolo nella storia del comunismo italiano, saremmo forse in grado di capire meglio i fallimenti che il marxista napoletano seppe presagire.

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