L’anima del comunismo

mar 15th, 2010 | Di | Categoria: Dibattito Politico

di Stefano Moracchi

comunismoDietro la storia di una parola c’è l’intero corso storico dell’uomo, di popoli, genti e valori che il tempo ha trasformato, trasformando così l’antico significato per cui è stata concepita e trasmessa la parola.

Solo ricostruendo il senso antico delle parole possiamo trovare il senso profondo della storia degli uomini tra loro intimamente interconnessa.

La parola è necessariamente inclusiva, lega il concetto al segno, un segno che rimane a dispetto dei posteri e dei poteri. È  sull’intreccio di significato e significante che possiamo leggere l’arduo percorso che l’umanità ha percorso e con essa storie individuali e collettive che molto hanno da dirci a noi “moderni”.

Una parola è viva quando racchiude in sé il concetto che l’ha resa possibile come determinazione collettiva e ancorata alla logica esistente.

A questo proposito vorrei proporre un parallelismo tra la parola comunismo e la parola anima.

Scelgo questo accostamento anche perché, in qualche modo, un comunismo senz’anima finisce per essere un residuato storico.

Il comunismo è sempre stato animato dal concetto materiale di sfruttamento, che trovava la sua origine nel modo in cui la produzione veniva resa possibile, ovvero in chi deteneva i mezzi di produzione e, al contrario, in chi non aveva altro che la propria forza lavoro.

La materia, che stava alla base della concezione comunista, era materia viva e animata, tanto è vero che il soffio vitale che l’aveva concepita ha generato un movimento politico a livello mondiale, e rivoluzionato le stesse discipline del sapere.

Nel mentre scrivo queste riflessioni, un carattere oligarchico, autoritario e reazionario si è impossessato di questo regime che, sebbene non sia mai venuto meno alla difesa degli interessi di una parte della popolazione, tuttavia l’assenza di una coscienza comunista organizzata, sta favorendo la definitiva resa dei conti.

La gestione  politica della crisi si sta traducendo in licenziamenti, disoccupazione, taglio dei servizi e aumento dei morti sul lavoro.

È importante sottolineare che tutta una serie di fatti politici non possono essere separati dalla materialità dello sfruttamento capitalista. Purtroppo, questa separazione è alla base del riformismo che contraddistingue la sinistra, la quale ha paura delle lotte per le loro caratteristiche dirompenti e, di conseguenza, venendo meno al patto scellerato che ha sottoscritto con il regime imprenditoriale.

Le contraddizioni che esprime il capitalismo vengono ridotte a questioni di destra e di sinistra, mentre sono contraddizioni di chi non ha più nessun tipo di tutela sociale, lavorativa e politica e chi invece ha la strada favorita a perpetuare i propri interessi grazie alla massa di persone gettate sul mercato del lavoro come fossero esseri inanimati.

Vorrei soffermarmi un momento nella riflessione del lavoratore come oggetto, ossia come essere che deve, necessariamente, perdere momentaneamente la sua parte animata, quella parte cioè che lo distingue dagli oggetti che è chiamato a produrre e ai quali viene infuso quel valore che al lavoratore non viene riconosciuto.

Per poter svolgere il ragionamento dobbiamo analizzare le parole anemos, animae, animus, anima.

Quattro “parole” che ci possono dire molto sul mondo greco, latino, cristiano e anche sul mondo moderno.

Anemos nel greco antico e classico stava ad indicare il  “vento”, e “vento” indica tuttora nel greco moderno che trova corrispondenza nella voce latina: “animae” che indica i “soffi del vento”. Nello scorrere del tempo, “anemos” non cambiò di significato come fece “animae” che venne sostituita dalla voce “ventus”.

Nel linguaggio comune il singolare prese il sopravvento sul plurale così che “animae” diventava “anima”. Il passaggio dal plurale al singolare segnava il mutamento di significato subito dalla parola e il cambiamento che avveniva nella società romana. Di fatti, “anima”, continuando a mantenere il suo significato aborigeno di “soffio”, che la riallacciava al greco “anemos”, passava a significare il “soffio vitale” dando vita alla voce : “animal = animale”, se “animato” è ogni essere vivo che respira, e viceversa “inanimato” ogni essere che non respira.

Come possiamo vedere, la parola vento, se prima indicava un concetto che apparteneva alla natura, ossia alla materia, successivamente si sposta sulla parte immateriale dell’essere, cioè su ciò che anima il corpo (materia).

In questa prima fase non abbiamo però la dicotomia tra corpo e anima, perché nell’antichità i due concetti non sono ancora stati pensati come due entità.

Osservando la natura si poteva vedere che i soffi del vento animavano le acque, facevano ondeggiare le grandi querce. Oggetti, cose che senza il vento non si sarebbero potute muovere.

Così si è potuto pensare che anche gli uomini e gli animali fossero mossi da un soffio vitale.

Questo rapporto tra materia e anima è stato, è, e sarà sempre al centro delle riflessioni umane.

È stato declinato come rapporto tra mente e corpo, idea e materia, corpo e anima, divinità e uomo.

Il rapporto è sempre tra materia e pensiero.

Se la materia è costretta a subire delle influenze che la determinano necessariamente, le stesse determinazioni saranno ciò che la animano, ovvero che la rendono ciò che è.[1]

Queste determinazioni possono essere il vento che ingrossa i mari oppure l’uomo che fabbrica degli oggetti: in entrambi i casi la materia prende forma, non è più la stessa di prima.

Nel caso del vento il rapporto è tra cose, mentre nel secondo è tra uomo e cose.

Entrambi i rapporti sono naturali in quanto sono animati dallo stesso principio: uomo/natura.

La differenza risiede sul concetto di anima.

Ciò che anima la natura è la natura stessa: il vento spinge le onde sugli scogli.

Ciò che anima l’uomo è l’uomo stesso, ovvero il suo principio risiede su se stesso, in quanto non è il vento a farlo a muovere.

L’idea che il principio dell’uomo risieda nell’uomo stesso, implica che l’uomo non può essere assoggettato da nessun altro uomo.

L’uomo accetta di essere oggetto di altri uomini solo nel momento in cui non trova in se stesso il proprio principio.

Galilei ha separato la scienza dalla teologia scolastica, Descartes dalle teorie animistiche della magia rinascimentale, Kant dalla metafisica razionalista, fino alle posizioni fiscaliste di Carnai (allo scopo di distinguere le proposizioni scientifiche dagli asserti dell’ontologia metafisica) e al falsificazionismo di Popper (separare l’enunciazione scientifica da tutti i discorsi pseudoscientifici di tipo tautologico e solistico).

Il problema dello scontro tra fede e scienza è stato quello di impostarlo sul principio di libertà, come se dalla vincita dell’uno o dell’altro l’uomo potesse trovare finalmente se stesso.

La fede aveva assoggettato l’uomo ad un altro uomo in nome di un dio. La scienza voleva liberare l’uomo da quella dipendenza per consegnarlo nelle mani della razionalità tecnica.

Entrambe le posizioni erano funzionali al proprio potere.

Solo grazie a Marx è stato possibile uscire da queste false posizioni. Marx ha ricondotto l’uomo al suo principio: l’uomo non può essere oggetto di un altro uomo, e l’ha spiegato partendo dal problema vitale della materia, ovvero spiegando l’origine della sua schiavitù.

Marx ha dovuto spiegare scientificamente l’oggetto della disputa filosofica al fine di rendere razionale e reale la necessaria astrazione.

Usare scientificamente il discorso filosofico ha spiazzato, e reso inutile, millenni di ragionamenti che viaggiavano separatamente perché strumentali e finalizzati al mantenimento del potere costituito.

Se è stato possibile assorbire la parola comunismo a quella di sinistra, con tutto ciò che comporta, è il venir meno del concetto vitale di realtà materiale, ovvero delle concrete condizioni che rendono possibile ancora esprimere un punto di vista alternativo a questa società fondata sullo sfruttamento.

L’anima del comunismo non risiede nell’elaborazione concettuale, ma l’elaborazione concettuale risiede nella lotta e nel soffio vitale che tutte le lotte intendono infondere al comunismo.

Un comunismo senza lotta è come un vaso senza fiori, e finisce che prima o poi qualcuno possa pisciarci.

La materia è vitale se aiuta lo sfruttato a rendersi cosciente che la sorgente dei suoi mali risiede nell’economia industriale e finanziaria dominante. Facendo la diagnosi sulla miseria del proletariato, Marx dimostra come essa sia cagionata dal processo capitalistico di industrializzazione. La produzione capitalistica (separando il capitale dalla forza lavoro) consente la vittoria dell’uomo sulle necessità naturali, ma diffonde miseria tra i proletari. Marx investe il proletariato di una funzione vitale in quanto individua nella materia l’anima del problema.

A differenza della chiesa che invece si adoperava con la creazione di istituzioni assistenziali cristiane che non facevano altro che umiliare il salariato desideroso di giustizia, giustificando il sistema vigente.

La cosa particolare è che il sostantivo “anemos” maschile della II declinazione greca, spiega l’invasione e il predominio degli elleni sulla popolazione indigena cretese-micenea giunta al culmine del suo sviluppo. Ci dice pure che gli eroi elleni appartenevano all’Iliade mentre gli altri appartenevano all’Odissea e, di conseguenza, che l’Iliade è più recente dell’Odissea.

Il passaggio da “anima” a “animus” dimostra i mutamenti intervenuti nella società romana nella quale se “anima” continuava a significare “il soffio vitale”, “animus” indicava la “forza”, il “coraggio” e il “valore” e non è un caso se “animus” è il maschile della II declinazione latina e che i sostantivi maschili superano di gran lunga i sostantivi femminili. Prevalendo nella società romana le braccia sulla mente e i muscoli sull’intelletto, “anima” passava ad indicare la “sensibilità” sparsa nelle membra di tutto il corpo mentre “animus” passando ad indicare l’ “intelligenza”, veniva collocato nella sua propria sede: nel capo e nel cervello come in una rocca inespugnabile. Difatti, nella filosofia greca, “animus” traduceva il “nous” greco, mentre “anima” traduceva la “psiche” con tutte le conseguenze che ne derivavano nel pensiero latino.

Da questa concezione ebbe avvio il pensiero cristiano che, spostando le categorie romane, operava un radicale mutamento nella società. La dottrina cristiana condannando le passioni e celebrando la vittoria sui sensi, non toccava l’ “animus” che manteneva il suo significato, ma sovvertiva il significato di “anima”.

Se prima significava “soffio, soffio vitale, sensibilità” passava ad indicare lo “spirituale” dell’uomo, la “parte eterna” contrapposta alla “parte effimera”: il corpo, dando luogo allo spaccamento, alla divisione, alla dicotomia dell’individuo che nella mente romana risultava “individuum” perché non divisibile.

Dalla divisione dell’individuo ne è testimonianza “Date a Cesare quel che è di Cesare; date a Dio quel che è di Dio”.

Nel luglio 1968 Gustavo Gutiérrez teneva a Chimbote (Perù) una conferenza, che verrà pubblicata con il titolo Verso una teologia della liberazione. Parte dalla constatazione che teologia, appresa in Europa (Lovanio e Lione), non serve per chi dimora presso le orribili bidonvilles dei sobborghi di Lima. Bisogna parlare la lingua dei poveri[2].

La teologia della liberazione ritiene che, dato il cinismo sadico delle classi dominanti, non si deve sperare nelle riforme progressive: l’unica risposta adeguata è l’impazienza dei poveri.

Questa teologia non si basa su dei presupposti astratti e rompe con la dicotomia date a Cesare quel che è di Cesare; date a Dio quel che è di Dio, ma affronta tre elementi indissociabili: non ideologia astratta, ma partecipazione alle lotte degli oppressi per una loro liberazione; rilettura della sacra scrittura nella pre-comprensione della praxis della liberazione; formulare una teologia pratica partendo dal popolo stesso che vive la fede nella propria storia. Non vi è un infuturamento della storia ma una attualità della storia. L’anima è ricondotta alla materia e la materia all’anima. Il filo conduttore è la lotta. E qui veniamo all’analisi della filosofia della storia dove la materia è materia vivente. Marx vedeva nell’economia classica una debolezza centrale, ovvero l’incapacità di vedere il capitalismo nella prospettiva storica, di collocarlo nel debito contesto storico. Proprio la ricerca dello schema di analisi appropriato portò Marx a ciò che Engels coniò con materialismo dialettico.

Marx pensò di esaminare le società umane di qualsiasi epoca per trovarvi un insieme di credenze, atteggiamenti, principi morali, istituzioni, eccetera. Ma per fare questo vi è bisogno di astrazioni necessarie altrimenti non si riesce a trovare il filo conduttore: l’astrazione è una semplificazione di cause ed effetti in modo da renderli più comprensibili. Marx trova così che l’elemento dominante delle vicende umane è sempre stato la necessità di assicurare le condizioni materiali della sopravvivenza fisica. Marx trova nel modo di produzione la produzione dei rapporti sociali. Quindi per la concezione materialistica della storia, i cambiamenti storici consistono nella sostituzione di un modo di produzione con un altro. Questo è l’elemento vitale, l’anima del comunismo!


[1] Rimando a Il pensiero attuazionista, Unicopli, 1997

[2] S. Torres così si dice: le chiese e la teologia dell’occidente erano legate alla classe dominante; il loro discorso ignorava i poveri e gli oppressi. I loro teologi non hanno denunciato la schiavitù; durante la rivoluzione industriale non hanno contestato lo sfruttamento degli operai da parte della borghesia; all’epoca del colonialismo, del neocolonialismo e dell’imperialismo, sono stati complici di un sistema internazionale avido di profitti.

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  1. Ciao Emilio. Per come l’ho scritto in efeftti sembra che su quel punto si potrebbe anche cercare una sintesi. La grande differenza tra Chomsky e Dennett perf2 sta nel fatto che il primo ritiene il linguaggio una propriete0 unica della specie umana che non e8 spiegabile in termini evoluzionistici e rifiuta per questo la teoria darwiniana ( questo e8 il travaglia del pensiero chomskiano) , il secondo naturalmente no. Chomsky parla della facolte0 del linguaggio, come uno dei domini della struttura della mente/cervello biologicamente determinata. Qui sono contenuti i principi della grammatica universale. A contatto con i dati dell’esperienza la facolte0 del linguaggio produce una lingua specifica. Il bambino arriva nel mondo con uno schema concettuale innato molto ampio che lo guida nell’acquisizione della lingua( Chomsky usa la metafora di parametri e valori) . Dennett ritiene che non ci sia una facolte0 del linguaggio, ma che questo sia un prodotto pragmatico, della cultura, dell’autostimolazione, dell’abitudine, che ha riutilizzato dal punto biologico luoghi del cervello adibiti ad altri scopi ( quindi forniti dall’evoluzione). Se il linguaggio non e8 pif9 il ricordo di una vita passata, le sue strutture potrebbero davvero essere pensate come “geni”, memi linguistici – e8 qui la plasticite0 avrebbe spazio . No! Per Chomsky la cultura non ha nessun ruolo. Non ne tiene proprio contro.Sul fatto del centro di controllo, qui sta tutto il problema. Dennett e8 sicuro non ci sia: “Il guaio con i cervelli e8 che quando ci guardi dentro scopri che non c’e8 nessuno a casa” e8 un po’ la frase che sintetizza la sua posizione a riguardo . Gli esperimenti di Libet, per quanto non sono esperto in materia, sono stati contestati perche9 condotti in maniera un po’ arbitraria, in ogni caso mi pare perf2 che Dennett nel testo affronti alla grande anche questi problemi. Alla fine veramente non c’e8 un centro di controllo biologico, materiale, cerebrale. E qui echi wittgensteiniani: T 5.64 Appare qui che il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide con il realismo puro. L’Io del solipsismo si contrare in un punto inesteso e resta la realte0 ad esso coordinata ; 5.641 …. L’Io filosofico e8 non l’uomo, non il corpo umano o l’anima umana della quale tratta la psicologia, ma il soggetto metafisico, che e8 non una parte, ma limite del mondo . Infine domanda secca: ma questa teoria dei memi e8 convincente?

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