Sui modi di produzione
lug 28th, 2020 | Di Thomas Munzner | Categoria: Capitale e lavoro
SUI MODI DI PRODUZIONE
Christophe Darmangeat
Lo scopo di questa nota non è quello di presentare una scoperta – vera o presunta – su questo difficile argomento, ma quanto piuttosto esporre qualcosa che, a mio parere, potrebbe tenere impegnato qualche reggimento di marxisti. È noto che il concetto centrale, utilizzato da Marx per classificare le società di classe, è quello del «modo di produzione». Sappiamo come il concetto centrale che viene usato da Marx per classificare le società – quanto meno, le società di classe – sia quello del «modo di produzione». Ci sono due idee alla base di una tale scelta. La prima è quella secondo cui il fondamento della società – la sua ossatura, che determina (o che condiziona) fondamentalmente tutto l’insieme di quelle che sono le sue altre caratteristiche – sarebbe la struttura tecnico-economica. La seconda idea riguarda il fatto che anche se la società di classe (ivi compreso il capitalismo, malgrado i suoi ideologhi lo neghino) hanno in comune che si basano tutte sull’appropriazione unilaterale del lavoro dei produttori, da parte della classe dominante, esse differiscono tra di loro secondo quello che è il modo in cui questo «plus-lavoro» viene appropriato: il modo di produzione viene definito proprio dallo specifico modo di estorsione del lavoro eccedente. Questo brillante punto di partenza, mi appare ancora accurato ed attuale come al momento in cui è stato formulato, e costituisce la base più sicura per procedere allo studio delle società e della loro evoluzione. Tuttavia, anche se è problematico rifiutare questo punto di partenza, lo sarebbe altrettanto anche ritenere che Marx abbia avuto il tempo e la possibilità di realizzare tutto ciò che avrebbe potuto essere realizzato, e che le poche indicazioni che ha lasciato in proposito dovrebbero perciò essere considerate come se fossero l’ultima parola nella cosiddetta scienza sociale. Inoltre, un simile atteggiamento sarebbe in netto contrasto con tutto quello che sulla questione dei «modi di produzione» gli stessi Marx ed Engels, nel corso della loro vita, hanno continuato a fare, senza mai smettere di continuare ad avanzare ipotesi e a riesaminarle, approfondendone alcune ed abbandonandone altre. Di fatto, un compito così elementare – come lo è quello di fare l’inventario dei modi di produzione – è assai lontano dall’essere stato portato a termine; direi anzi che non è stato nemmeno quasi per niente intrapreso.
Qualsiasi marxista alle sue prime armi avrà senz’altro imparato che «a grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere descritti come appartenenti ad epoche progressive della formazione sociale economica.» (Marx, dalla “Prefazione alla Critica dell’Economia Politica”). Mediante qualche aggiustamento, questa prudente (e provvisoria) formulazione, sotto Stalin e nella sua forma della cosiddetta teoria dei «cinque stadi», sarebbe diventata un dogma: l’evoluzione sociale si sarebbe verificata ovunque (in maniera più o meno rapida) secondo la successione, in sequenza, del comunismo primitivo, della schiavitù, del feudalesimo, del capitalismo, e poi del socialismo moderno (o futuro). Un primo problema, evidente, relativo alla teoria dei 5 stadi, è quello che tale teoria ha fatto semplicemente e puramente scomparire il modo di produzione asiatico. Se non ricordo male, è stato durante il congresso di Tblisi del 1929, che il modo di produzione asiatico venne messo all’indice e fu bandito dall’ortodossia; indubbiamente, dovuto al fatto che esso evocava un po’ troppo da vicino quello che era il regime della burocrazia sovietica. E infatti, avviene dopo la destalinizzazione, durante gli anni ’60 e poi nei ’70, che il modo di produzione asiatico venne nuovamente discusso (il C.E.R.M. Centre d’Études et de Recherches Marxistes, gli dedica un intero volume). Peraltro, alcuni autori, come Perry Anderson (“Lo Stato assoluto“, Il Saggiatore), si sono spinti fino al punto di dubitare circa la sua validità – in ogni caso, hanno insistito sul fatto che il concetto originale si basava su una visione distorta di quello che era il mondo tradizionale indiano o cinese. L’idea secondo cui queste società sarebbe state segnate dall’assenza della proprietà privata della terra, e quindi dalla mancanza di una classe di proprietari fondiari capace di infrangere il potere dello Stato, è una visione occidentale che risale al 18° secolo, rispetto alla quale Marx mancava degli elementi fattuali che avrebbero potuto permettergli di staccarsene, e non avrebbe perciò corrisposto alla realtà. Ragion per cui, se ci sono state alcune formazioni sociali che hanno realmente corrisposto a quella che era la definizione del modo di produzione asiatico, allora probabilmente si è trattato più probabilmente dell’Impero Ottomano, almeno in quelli che sono stati i primi tempi della sua esistenza, o dello Stato Inca. Ma ad essere problematico, non è solo il modo di produzione asiatico. Gli specialisti di storia medievale, se è necessario mi correggeranno, ma ho come la sensazione che la definizione del modo di produzione feudale, ben lungi da ottenere consensi, viene applicato – da un autore all’altro - a delle realtà assai differenti. Se compreso in quello che è il suo senso più stretto, il feudalesimo allora sarebbe esistito solamente in una zona limitata dell’Europa occidentale, e per alcuni decenni intorno all’anno Mille. Se invece usato nel suo senso più ampio, ecco che allora la qualifica di «feudale» può essere applicata pressoché a tutte le società precapitalistiche in cui c’erano delle classi e che non erano basate sulla schiavitù generalizzata (ed è in questo senso più ampio che, per esempio, lo si ritrova regolarmente negli scritti di Lenin).
In entrambi i casi, la posta relativa alla comprensione dell’evoluzione sociale è assai grossa: se il feudalesimo non è esistito quasi da nessuna parte, come possiamo descrivere le società europee del Medioevo e del Rinascimento, per non parlare degli Stati asiatici in quella stessa epoca? E se tutte queste società devono essere denominate «feudali», come possiamo riuscire a comprendere (tra le altre cose) quell’abisso che separa la Francia dell’anno Mille da quella di Luigi XIV?
In realtà, e anche se l’affermazione che segue è un po’ provocatoria, l’unico modo di produzione realmente identificato ed analizzato da Marx è stato il capitalismo. Tutti i problemi legati ai modi di produzione del passato, avrebbero potuto essere affrontati solo all’epoca, sia per l’ampiezza del compito che per le lacune della conoscenza. Il primo punto, è perciò quello secondo cui non si deve confondere un programma di ricerca con i risultati di tale programma. Così come la formulazione della teoria darwiniana non dispensa in alcun modo dal condurre un lavoro di ricerca che consiste nell’inventariare in maniera ragionata tutte le specie presenti o passate, allo stesso modo la formulazione dei principi del materialismo storico, e del concetto di modo di produzione, non dovrebbe in alcun modo prescindere dalla necessità di studiare quali sarebbero stati questi modi di produzione; e ripeto, appare essere difficilmente contestabile il fatto che questo studio, in realtà, sia stato solamente abbozzato.
Il compito viene reso ancora più difficile dal fatto che la realtà sociale, come sempre, resiste in maniera ostinata agli approcci troppo semplicistici. Tanto per cominciare, spesso le società intrecciano e combinano i modi di produzione; così si può perciò vedere emergere un settore capitalista (o proto-capitalista) in una società che rimane feudale (se questo termine ha un significato), oppure si articola con quella che è un’economia basata sulle relazioni di parentela e sulla produzione per l’auto-consumo (come avviene negli esempi coloniali africani studiati circa 50 anni fa dagli antropologhi marxisti francesi). È questa combinazione, quella che Samir Amin aveva cercato di cogliere, credo, con il suo concetto di «formazione sociale», che in un certo senso stava ai modi di produzione come le molecole stanno agli atomi.
Bisogna tuttavia, credo, andare ancora più lontano nel riconoscere che i modi di produzione in sé, anche se «puri», non si dispongono di certo seguendo una semplice lista, a causa del fatto che alcuni di essi (la maggior parte?) posseggono delle caratteristiche ibride. Nel migliore dei casi, queste caratteristiche richiedono l’adozione di una classificazione ad albero, dove le categorie più generali vengono suddivise, a livelli diversi, in categorie più specifiche. Anche in questo caso, Samir Amin aveva aperto questa strada, proponendo il suo modo di produzione (o la sua famiglia di modi di produzione) cosiddetto «tributario», il quale ingloba i diversi sistemi in cui il prelievo di plus-lavoro veniva effettuato per autorità politica. Ma non può essere scartata a priori, la possibilità che la struttura ad albero non riesca a riflettere la realtà in maniera soddisfacente, e che la classificazione debba formare una sorta di rete, con alcuni modi di produzione che appartengono contemporaneamente a due diverse categorie «madri».
Per meglio illustrare questa difficoltà, penso ad esempio al tipo di relazioni economiche che regnavano negli Stati meridionali del Nord America nel 18° secolo e nella prima parte del 19°. La relazione che legava sfruttatori e lavoratori era la schiavitù. Ma gli stessi sfruttatori erano del tutto inseriti nel sistema capitalistico mondiale, di cui erano parte, se non una componente. Ragion per cui, bisogna collegare un tale sistema allo schiavismo, col rischio di equipararlo indebitamente alle società antiche (o ad alcune società asiatiche o africane) in realtà assai differenti? Oppure dev’essere considerata come una variante del capitalismo, a rischio di minimizzare l’importanza delle relazioni di sfruttamento? Possiamo vedere come questa scelta implichi una presa di posizione per quel che riguarda il posto che occupa nella classificazione il rapporto di sfruttamento. Se lo si considera come fondamentale (seguendo alla lettera gli scritti di Marx), ecco che allora gli Stati del Sud rientrano nel modo di produzione schiavista, e devono perciò essere considerati, a partire dalla loro struttura economica, come più vicini all’antica Atene che alla Londra della rivoluzione industriale. Se, al contrario, si sceglie di privilegiare le relazioni tra la classe dominante locale ed il sistema mondiale, e considerare che il rapporto di sfruttamento costituisce quello che è solo un carattere secondario di un modo di produzione, allora quello degli Stati del Sud dovrebbe essere considerato come un capitalismo deviante.
La mia intuizione (che per il momento non pretende essere niente di più) è che di fronte a questo genere di dilemma, la classificazione per struttura ad albero costituisce un vicolo cieco. Contrariamente agli esseri viventi, le società non sono il prodotto di un’evoluzione attraverso la specializzazione e l’estinzione. I fenomeni di obbligazione, di diffusione e di convergenza determinano delle combinazioni dei diversi elementi che non possono e non devono essere ricondotti ad una qualche filiazione, o ad una origine unica. I modi di produzione formano in tal modo una traccia, una griglia che è inutile cercare di voler scomporre in quelli che sono i suoi distinti sottoinsiemi; la scelta di un criterio primario, piuttosto che un altro, conducono ad una suddivisione differente, ma necessariamente priva di un qualche aspetto. In ogni caso, la cosa peggiore sarebbe credere che la questione sia stata risolta, laddove invece, per dogmatismo, in primo luogo, e per mancanza di forza, in secondo luogo, essa non è mai stata studiata, se non in maniera marginale.
- Christophe Darmangeat - Pubblicato il 25/6/2020 su La Hutte des Classes -