Astratto e concreto
giu 15th, 2020 | Di Thomas Munzner | Categoria: Contributi
Astratto e concreto
di Salvatore Bravo
L’astratto e il concreto sono sincretici, in quanto l’astratto è il movimento di astrazione dal concreto. Ogni teoria è elaborata secondo un doppia movimento: il concreto è analizzato nelle sue innumerevoli variabili in movimento, ma vi è la necessità di astrarre da esse gli elementi principali riconfigurati in strutture stabili, in tale maniere sono sistematizzati. Le categorie che un autore ci offre e dona non sono applicabili in modo pedissequo al concreto, ma devono essere curvate alle diverse condizioni socio-storiche, in cui si è situati e che differiscono dal contesto dell’autore. Vi è sempre uno scarto tra l’autore ed il lettore, il quale dev’essere attraversato con la fatica della riconcettualizzazione.
Costanzo Preve nella lettura di Marx si è posto l’obiettivo di approssimarsi all’autore giudicandolo come autore classico della storia della filosofia. Le categorie e scoperte marxiane non riassumono l’intero del reale, ma consentono di utilizzare paradigmi interpretativi astratti dal reale concreto, i quali devono essere mediati dalle contingenze, e specialmente, devono fungere da forza plastica per elaborare nuovi processi dialettici e di significato. Non pochi marxisti, rileva Preve, nel loro dogmatismo hanno trasformato la parola di Marx in formule da applicare al reale concreto con l’effetto inevitabile di sclerotizzare la pluralità dei modelli organizzativi viventi nella storia in categorie insufficienti alla lettura del reale, la conseguenza è stata una scissione tra partito e storia reale, tra intellettuali e popoli, tale contraddizione adialettica ha favorito il fallimento dell’esperienza comunista:
“In Marx non c’è praticamente mai la parola “capitalismo”, che nasce ai primi del Novecento (Sombart, ecc.). Marx infatti non intendeva essere un analista della società capitalista, anche perché sapeva che di queste “società” ce ne erano già parecchie decine (ed ora sono parecchie centinaia). Egli intendeva essere, ed è effettivamente stato, il costruttore di un modello teorico astratto, il modello del modo di produzione capitalistico, un modello che in quanto tale non esiste da nessuna parte del mondo e certamente non esisterà mai. In nessuna parte del mondo, infatti, vi è stata e vi sarà mai una società divisa in due classi esclusive, la Borghesia ed il Proletariato, in cui si sviluppa un meccanismo automatico di aumento della composizione organica del capitale e di proletarizzazione progressiva dei ceti medi. Questo modello astratto, che pure è indispensabile, deve sempre essere “incrociato” con la conoscenza delle concrete società capitalistiche. Ed è appunto questo che i marxisti non fanno mai. E non lo fanno mai, perché confondono il riduzionismo economicistico e l’approccio sindacalistico ai problemi sociali con la fedeltà allo sguardo “strutturale” del vecchio Marx e dei suoi primi seguaci. La conseguenza di questa miseria metodologica è stata la seguente, che praticamente tutte le scoperte sul funzionamento reale della società capitalistica sono state fatte fuori dalla sfera politica ed organizzativa dei gruppi e delle correnti che si autodichiaravano “marxiste” (senza peraltro esserlo). La scuola di Francoforte ed il movimento situazionista francese, due correnti del tutto estranee ed esterne al movimento operaio organizzato, hanno analizzato quelle “sovrastrutture” ideologiche collettive senza le quali non può esistere la riproduzione sociale. C’è voluto un sociologo americano liberale, Benjamin Barber, per chiarire ciò che è peraltro evidente ad occhio nudo, e cioè che vi sono oggi purtroppo due modelli culturali contrapposti nel mondo, il Mc World e la Jihad, e cioè l’orribile modello americanizzato dei Mc Donald e l’orribile contromodello del suicidio religioso. E potremmo continuare a lungo1”.
“Fabbriche ed imprese”
La fabbrica è il luogo ideale nel quale era possibile mettere in atto la solidarietà comunista, la comunione dei destini all’interno di processi di disalienazione dal feticismo delle merci. E’ prevalsa la confusione tra fabbrica ed impresa, quest’ultima è espressione della società dei consumi, in essa ciascun lavoratore a prescindere dal ruolo che occupa, ambisce unicamente alla soddisfazione di bisogni inautentici segnati dalla dismisura. Nell’impresa prevale il lavoratore specializzato, l’esecutore passivo, mentre nella fabbrica l’intermodalità potenziale dei lavoratori consente di trascendere i ruoli per riorganizzarsi in modo trasversale secondo progettualità condivise. L’attualità è interna all’impresa e non alla fabbrica. La disponibilità della rete internet, la tecnologia che potenzialmente produce senza limiti non necessariamente implicano il comunismo, poiché esse sono espressione dell’impresa con annessi “valori” e non del paradigma della fabbrica. La cultura dell’impresa è lo strumento ideologico della conservazione e della sussunzione. La confusione lessicale e significante ha permesso l’affermarsi di teorie operaiste che proclamavano il diritto delle moltitudini ad avere e desiderare tutto senza limiti. In tal modo si è organici al codice dell’impresa e non della fabbrica con l’inevitabile effetto di sostenere il totalitarismo della merce, per il quale non vi sono limiti etici o naturali al godimento ed al consumo. L’impresa con la sua “cultura” è il nichilismo realizzato che rende interscambiabile “la sinistra con la destra”. Il capitalismo assoluto fagocita ogni posizione al di là delle apparenti differenze politiche, le quali propongono lo stesso modello d’impresa, in cui “la bestia del mercato” governa gli individui atomizzandoli e dominandone l’immaginario. “Il capitalismo totalitario” mercifica la vita, la riduce a pezzi da vendere sul mercato come qualsiasi altro ente: tutto si omologa in nome del plusvalore:
“Il modello marxiano di modo di produzione capitalistico, invece, presenta una attualità che deve essere compresa nei suoi termini esatti. Da un lato, questo modello ipotizza un processo di progressiva socializzazione delle forze produttive che non si è affatto verificato, e cioè la formazione di un lavoratore collettivo cooperativo associato, che per Marx era l’unico presupposto scientifico del comunismo da lui apertamente segnalato. In proposito, nessuno è ancora riuscito a fornire una spiegazione veramente soddisfacente di questo fatto (o meglio, non-fatto), ma a mio avviso l’ipotesi migliore resta quella di Gianfranco La Grassa, per cui l’ipotesi di Marx sarebbe stata corretta se si fosse basata sulla generalizzazione della nozione di fabbrica, mentre non lo è più se è basata sulla nozione di impresa, che non è affatto semplicemente l’addizione di più fabbriche. Non a caso, la corrente operaista nelle sue varie metamorfosi successive, basandosi proprio sulla nozione di fabbrica (e di conseguenza sulla confusione fra fabbrica ed impresa), considera questa socializzazione “virtuosa” già avvenuta, ed infatti (stra)parla di moltitudini desideranti già in grado di socializzare in modo anarchico-consumistico le ricchezze dell’impero deterritorializzato. E’ proprio vero che nessuno impara mai niente, e che la vanità e l’ostinazione rendono ciechi e sordi. Dall’altro lato, però, il modello marxiano ipotizza una cosa che si è verificata, e cioè la generalizzazione e l’approfondimento della merce capitalistica. Dico merce capitalistica, e non semplicemente merce, perché si tratta di merce che non viene prodotta in un (inesistente) sistema mercantile semplice, che è l’ipotesi (inesistente) di partenza di tutta l’economia politica, ma è una merce che viene prodotta in un contesto di crescente spossamento dei produttori diretti di tipo artigiano (nel linguaggio di Marx, di un aumento della sottomissione reale dei produttori). La manipolazione televisiva e l’ingegneria genetica rappresentano i due elementi dominanti di questa mercificazione totalitaria che non potevano ancora essere visibili a Marx. La manipolazione televisiva mercifica l’immaginario umano, distruggendo le precedenti culture (borghesi, contadine, operaie, eccetera), mentre l’ingegneria genetica, il cui stadio supremo è la clonazione umana, intende mercificare la stessa riproduzione della vita umana. Si tratta di un vero “capitalismo totalitario”, e solo l’uso della nozione di Marx permette di capirlo veramente al di là delle retoriche pauperistiche2”.
Quale comunismo?
Il comunismo totalitario è il comunismo ridotto a formule calate dall’alto che insegue utopie di perfezione. La violenza rischia di moltiplicarsi, se si esige di rendere la realtà concreta simile all’astratto. In alternativa a questa visione, Preve propone di ascoltare le esigenze autentiche delle comunità, di fondare il comunismo dal basso, dalla consapevolezza della reale natura dell’essere umano. Il comunismo dev’essere fondato sulla verità, ma ciò non può che avvenire attraverso un processo storico, in cui le comunità pensano gli effetti del capitalismo per elaborare percorsi di consapevolezza collettivi, nei quali dev’essere definita la natura umana. Solo, così, è possibile costituire un sistema a misura dell’essere umano e rispettoso della pluralità culturale entro cui tale natura si concretizza. Nel comunismo-comunitarismo democratico di Preve ciascuna persona vive l’esperienza comunitaria, desidera la vita in comune e la condivisione, ma conserva spazi di autonomia, in tal modo l’universale vive in feconda tensione con il particolare, l’astratto con il concreto. Se si rescinde tale legame è inevitabile che il comunismo imposto per sistema, sia destinato ad essere impopolare e specialmente a fallire. E’ necessario, affinché ciò non avvenga dare al comunismo il fondamento veritativo filosofico che possa limitare la frammentazione in conventicole in lotta tra di loro e possa riportare all’interno del comunismo il metodo filosofico incentrato sul dialogo e l’ascolto:
“In primo luogo, questi primi comunisti non mettevano in comune tutto, ma solo il momento comunitario della mensa comune. Molto sobrio, molto intelligente e molto giusto. Al di fuori della mensa comune c’erano poi altre sfere della vita che non si mettevano affatto in comune, come ad esempio la vita familiare. Nessuna sciocchezza sull’abolizione della famiglia, irrefrenabile desiderio della cultura radicale (nel senso di Pannella-Bonino, non di Marx). Nessun mito della trasparenza assoluta dei comportamenti, sogno totalitario del controllo totale fatto passare per fraterna comunità organica. La mensa comune permette la vita di tutti, ma si ferma prima di quell’utopia negativa dell’irreggimentazione comune che resterà sempre il principale (e giustificato) argomento contro il comunismo. In secondo luogo, la mensa comune (il simposio greco, il convito latino) presuppone se non proprio la fraternità, almeno l’amicizia (filia) dei partecipanti. Il comunismo, infatti, può essere definito secondo due coordinate fondamentali: una società di amici, che si dicono (o cercano di dirsi) la verità, una verità che ovviamente non può essere una Cosa eterna staccata dal mondo ed autosufficiente come il Dio di Aristotele e l’Essere di Parmenide (e di Severino). Ma chiunque abbia frequentato nel Novecento i gruppi che si dicono “comunisti” può testimoniare che vi regna sempre la massima potenziale inimicizia ed antipatia reciproca, non solo fra i ridicoli capi-politicanti divisi da antagonismi elettorali ma anche fra i membri subalterni delle cordate concorrenti. Questa litigiosità ed inimicizia dei comunisti non è mai casuale, ma è un segnale di un deficit antropologico specifico, che rimanda a sua volta alla fragilità della propria teoria di riferimento, una mescolanza instabile di pauperismo e di sindacalismo, su cui non è possibile costruire nessuna egemonia3”.
Inquietudine e dialogo
Il fondamento veritativo filosofico si struttura mediante processi dialettici, per Preve è l’unico modo per sperare nel comunismo democratico. Quest’ultimo può superare settarismi ideologici, solo riportando la verità al centro dell’indagine filosofica per dare al comunismo il fondamento veritativo, senza il quale si è accelerata la disintegrazione del comunismo con le lotte interne e gli integralismi. L’assenza del dialogo filosofico ha consentito di applicare all’avversario le categorie marxiane, le quali devono, invece, essere applicate a tutti gli attori del dialogo. I dialoganti possono ritrovare un comune accordo, se la comunicazione si svolge tra pari che si confrontano con la forza argomentativa del logos :
“E’ infatti necessario dire apertamente, senza vergognarsene come di un inconfessabile peccato piccolo-borghese o idealista, che bisogna ispirarsi alla concezione della filosofia degli antichi greci. Atene, non Gerusalemme. Atene significa la verità come oggetto di un pacifico agone dialogico veritativo, Gerusalemme significa la verità come rivelazione divina che si tratta sempre e solo di chiosare interminabilmente cercandone l’impossibile (ed illusoria) vera interpretazione. Non si tratta dunque di tornare a Hegel. Questa sarebbe solo una mezza misura opportunistica. Si tratta di tornare ai greci. Un riorientamento mentale cui oggi i marxisti non sono assolutamente preparati, rincoglioniti come sono da un secolo di diffamazione sistematica della filosofia, sempre ridotta a religione per colti, ad epistemologia sussidiaria per scienziati, ad ideologia per militanti e militonti. Certo, alcuni possibili equivoci devono essere chiariti subito. Primo, non si tratta di un ritorno ad una scuola filosofica greca particolare (platonismo, aristotelismo, epicuerismo, stoicismo, eccetera), ma di un ritorno ad un modo unitario di fare filosofia, il mettere in mezzo (es meson) la ragione umana (logos) attraverso un dialogo (dia-logos), solo modo di ottenere la concordia (omonia) e l’equilibrio (isorropia) non solo dei propri cittadini (polites), ma di tutti i cittadini del mondo (cosmopolites). Secondo, non si tratta di rinunciare alle conquiste irreversibili del pensiero moderno da Spinoza a Hegel a Marx, dalla storicità dello sviluppo umano alla teoria dei modi di produzione, eccetera, conquiste in buona parte ignote ai greci antichi, ma di riportare queste conquiste nel loro giusto ambito, che è quello dialogico e razionale4”.
Il comunismo nell’ottica di Preve è un modello culturale e di vita altro rispetto all’impresa, poiché “pone al centro” il dialogo, quale momento imprescindibile per condividere la concretezza della vita nei suoi atti, nei suoi oggetti, e specialmente nei suoi gesti e comportamenti. Porre al centro il dialogo inquieta, perché il politicamente corretto “dell’impresa” inibisce le domande, esige solo quesiti rassicuranti, la cui risposta è di ordine retorico. Chi pensa al discorso previano come pacifico, erra, Socrate è paragonato alla torpedine marina, le sue domande immobilizzano, perché disorientano. Preve, egualmente, vuole essere la torpedine marina che destruttura rendite di posizione che inibiscono le potenzialità individuali, collettive e la prassi storica.
Note
1 Costanzo Preve Alla memoria di Emilio Agazzi kelebek paragrafo 8