Intervista a Costanzo Preve: «Filosofia della crisi»
apr 18th, 2020 | Di Thomas Munzner | Categoria: Interviste-
Intervista a Costanzo Preve: «Filosofia della crisi»
L’altra faccia della moneta – Per una filosofia della sovranità politica e finanziaria 2013
D. Quali sono state, secondo Lei, le cause della crisi attuale? Quali strutturali? Quali episodiche?
R. C’è prima di tutto il discorso della crisi storica in cui ci troviamo, dovuta alla fine del bipolarismo russo-americano e all’avvento di un nuovo unipolarismo imperiale a cui si contrappone faticosamente un multipolarismo in fieri, per altro potenziale, i cui protagonisti sono Russia, Cina e Brasile, in realtà non ancora operativo, dal momento che l’Europa è completamente schierata con l’oligarchia americana. In secondo luogo, abbiamo il discorso economico. Questa crisi ha avuto cause contingenti, ovvero la cosiddetta crisi dei subprime americani, che ha avuto grandi conseguenze specie nel settore edile (pensiamo per esempio alle centinaia di alloggi sfitti in Spagna che hanno causato il tracollo dell’economia spagnola), ma certamente è una crisi di sovrapproduzione nella nuova fase della globalizzazione. La definirei, con terminologia marxiana, una crisi di sovrapproduzione, ovviamente in rapporto ai beni acquistabili dal mercato. Sovrapproduzione significa sottoconsumo, sono due aspetti convergenti. Ciò si presenta però in una situazione storica nuova, nella quale assistiamo al completo venir meno della sovranità monetaria dello stato nazionale e, pertanto, all’innesco di dinamiche finanziarie globalizzate non più controllabili. È una crisi di svalutazione del lavoro; essendosi l’Unione Europea basata sull’impossibilità di svalutare la moneta nazionale, in tempi di crisi si svaluta la moneta o il lavoro. O si svaluta la moneta, e questo rende possibile una maggiore concorrenzialità della moneta nazionale, come è stato per duecento anni in Europa, oppure si svaluta il lavoro. In questo momento si sta facendo questo. Ecco l’aspetto più noto della crisi per i lavoratori europei, particolarmente i giovani. Ma le cose che dico sono ben note a tutti. La causa strutturale è che con l’avvento della globalizzazione l’Europa non è in grado di sostenere il modello neo-liberale mantenendo le conquiste sociali del welfare state che hanno caratterizzato il Novecento europeo in tutte le sue varianti: comunista, fascista, socialdemocratica. Per cui, in questo momento, quando parliamo di crisi, è bene aver chiaro che non riguarda il mondo intero, perché ci sono aree che sono in fase di sviluppo, per cui preferirei che la parola crisi venisse legata ad un modello capitalistico di accumulazione legato allo stato nazionale, una volta che sia stato distrutto dalla finanziarizzazione della globalizzazione, ed è una crisi sostanzialmente dell’Europa, dei lavoratori e dei popoli europei. Certo, essa si fa sentire anche in India, Cina e Brasile, ma non presenta le medesime caratteristiche che ha in Europa.
D. Quali differenze e analogie si riscontrano tra la crisi contemporanea e altre del passato, come ad esempio quella del 1929?
R. Come in tutti i fenomeni storici, si ritrovano analogie e differenze. Occorre capire se prevalga l’aspetto analogo o la differenza qualitativa, l’aspetto di novità. Analogamente al 1929, questa è una grande crisi di sovrapproduzione, legata all’impossibilità da parte del consumo di assorbirla, crisi che nel ’29 fu superata solo dalla Seconda guerra mondiale. È ovviamente una leggenda metropolitana che sia stata superata dal New Deal. Fu superata grazie alla corsa agli armamenti e alla Guerra Fredda, che non fu altro che la prosecuzione della guerra, nel periodo che Hobsbawm definisce “dei trent’anni gloriosi”. Siamo oggi in una situazione diversa però, perché nel ’29 non avevamo ancora a che fare con dinamiche globalizzate. C’erano intere aree fuori dal modello capitalistico, come l’URSS o le zone del mondo in cui dominava un sistema di produzione precapitalistico. Fra analogia e novità, a mio avviso prevale dunque la novità, come sostiene Alain de Benoist in Sull’orlo del baratro.
D. A quali conseguenze andiamo incontro?
R. Non lo so. Ho abbandonato la pretesa del marxismo classico di prevedere la storia. Facendo un’ipotesi dilettantistica, credo che la crisi dell’euro si approfondirà. L’euro è stata un’idea sbagliata, un azzardo. È un fallimento che non potrà trascinarsi a lungo e provocherà una divaricazione ancora più forte tra le due Europe, quella del centro-nord e quella del centro-sud. Altra conseguenza prevedibile è il peggioramento della situazione geopolitica in Medio Oriente, probabilmente con il tentativo di distruggere il governo della Siria di Assad e il governo dell’Iran. La tendenza alla guerra è evidente, ma questo non necessariamente comporta una vera e propria guerra come quella contro la Libia o la Serbia.
D. Crede si possano dare risposte filosofiche a questa crisi?
R. Dal punto di vista della globalità filosofica, e degli orientamenti culturali di fondo (degli anni decisivi, per usare le parole di Spengler), io direi che non vedo forze socio-politiche in grado di dare una risposta adeguata alla crisi. Ma, dal punto di vista filosofico, la risposta esiste sempre. La possibilità di restaurare il metron greco, una economia non crematistica, una tradizione equilibrata del rapporto tra economia e politica in teoria c’è. Ma perché questa teoria possa prendere gambe e braccia, avere un fallout per così dire, sono necessarie forze socio-economico-politiche in grado di assumere la sfida di questa crisi. Non ne vedo. Non penso che sia sufficiente il movimento di Marine Le Pen in Francia, o quello di Sirisa in Grecia, che pure sono migliori di altri e tantomeno Grillo può dar soluzioni ai problemi di identità storica dell’Italia, che è in caduta libera perché è in declino sia il modello progressista ex-comunista, del PD, sia il modello berlusconiano. Lo dimostra la consegna del potere a un gruppo di banchieri da parte di ambo gli schieramenti. Questi tecnici seguono una forma di teologia economica neoliberale che è forse ancora più dogmatica della teologia religiosa, che almeno fa riferimento a una spiritualità. La mia risposta è aldilà del pessimismo e dell’ottimismo: non vedo soluzioni. In realtà, l’umanità come specie è sempre in grado di trovarne, ma dal punto di vista del medio termine, specie italiano, non ne scorgo.
D. A suo parere come può una crisi finanziaria divenire economico-reale?
R. Con la finanziarizzazione spinta dell’economia non esiste più separazione tra economia reale e virtuale-speculativa. Due dimensioni che, per la verità, furono sempre intrecciate, sin dall’Ottocento. Ma da circa trent’anni si è stabilito un netto dominio del capitale finanziario, il che ha causato la fine della separazione tra l’aspetto speculativo e quello reale. La conseguenza è che l’economia reale è completamente dipendente dalla finanza, come dimostra l’egemonia del concetto di spread e il potere delle agenzie di rating sugli Stati. Se ancora esiste, l’economia reale come fatto indipendente si trova al massimo nei Paesi in via di sviluppo, come ad esempio la Cina. L’Italia ha venduto e decentrato tutto, per cui non vedo quale economia reale ci potrebbe essere.
D. Cosa accadrà sul piano geopolitico? Da quale tipo di ideologia è supportata l’attuale egemonia globale?
R. Gli USA hanno vinto due guerre mondiali e la Guerra Fredda, o Terza Guerra Mondiale. Questa vittoria ha permesso di estendere il dominio sui Paesi dell’Europa dell’Est e adesso, con la cosiddetta Primavera Araba, fenomeno completamente occidentalizzante, anche in Medio Oriente. Queste sono due gigantesche vittorie geopolitiche. Non vi sono potenze avversarie e quelle emergenti (Brasile, Russia Cina e India) non hanno intenzione di opporsi in modo strategico. Molto pericolosa è l’ideologia che gli USA portano con sé, un’ideologia puritano-protestante, di origine veterotestamentaria, che li spinge a ritenersi il popolo eletto. Persino i non credenti si considerano parte di questo popolo, eletto dalla Storia e da Dio. È una concezione che si arroga il diritto di portare il bene del mondo attraverso gli interventi militari. Questo capitalismo messianico ha ereditato alcuni aspetti del vecchio messianesimo comunista, ridipingendoli in forma ultracapitalista, ed è un fattore di instabilità permanente. Per citare il mio amico De Benoist, è il nemico principale. L’Europa deve staccarsi da questa pretesa egemonico-imperiale, o non c’è futuro spirituale per essa. È necessario che l’Europa riacquisti una sua autonomia, culturale, militare e politica, rispetto all’America; il che non vuol dire necessariamente antiamericanismo, quanto piuttosto recupero di un’indipendenza strategica.