La fine del lavoro. Globalizzazione o “glebalizzazione”?
apr 17th, 2020 | Di Thomas Munzner | Categoria: Cultura e società
La fine del lavoro. Globalizzazione o “glebalizzazione”?
Salvatore Bravo
La globalizzazione pone quesiti imprescindibili sul futuro dell’umanità e di ciascuno. E’ necessario filtrare i messaggi che disorientano per “riflettere sulla durezza del problema”. I trombettieri della globalizzazione rappresentano l’interconnessione planetaria come un destino a cui non ci si può sottrarre. L’operazione ideologica si ripete secondo parametri operativi sempre uguali: si osannano le potenzialità del mercato globale, le tecnologie, si sciorinano numeri e nel contempo si occulta la verità e le tragedie etiche di cui è portatrice. Non sono “convenzionali tragedie della storia umana”, ma ci si trova dinanzi a processi irreversibili che nel loro incedere graduale rischiano concretamente di minacciare ogni forma di vita e civiltà. Si assiste ad una rivoluzione antropologica, in realtà si tratta di una regressione. Il termine rivoluzione ha un’accezione positiva, si scorgono, invece, nel presente i primi segni della barbarie che verrà. Il lavoro e la sua scomparsa a causa della robotizzazione crescente ed incontenibile è parte della regressione umana che si configura. Il lavoro[1] non è una maledizione biblica, può esserlo in particolari condizioni materiali ed ambientali, ma il lavoro è parte sostanziale dei processi attraverso cui la persona ed intere classi sociali divengono consapevoli della propria condizione, e assumono il compito della lotta e dell’emancipazione per sé e per l’umanità. Senza il lavoro condiviso e simbolizzato non vi è che la tragedia dell’atomismo. Hegel nella Fenomenologia dello Spirito descrive la figura “servo-padrone”, il servo attraverso il lavoro impara a trasformare la natura, educa il proprio carattere e specialmente impara che non necessita del padrone, che la forza del padrone è la sua paura. Il lavoratore scopre di essere il motore della storia e che il signore dipende dal servo. Senza il lavoro non vi è coscienza di sé, delle proprie capacità, e non vi è, specialmente senso sociale. Il lavoro è ricchezza non solo perché permette la sopravvivenza, ma forgia il soggetto, gli dà il carattere senza il quale non sarebbe che un fuscello al traino delle tempeste della storia. In Marx il lavoro non scompare, ma nel comunismo è sostituito dalla libera espressione di sé, la quale è la forma più nobile di lavoro a cui giungere. L’estinzione del lavoro nella contemporaneità non è causato solo dal plusvalore aumentato in modo esponenziale, per pochissimi, con la sostituzione degli esseri umani con la robotica, al punto che Andrea Tagliapietra ha definito la globalizzazione “glebalizzazione”. La scomparsa del lavoro inquieta poiché ha il fine di devitalizzare i popoli, di ridurli a plebi, a consumatori senza diritti. Senza il lavoro comune non vi è politica, perché essa ha la sua genealogia nella condivisione di esperienze che permettono di rimappare i significati, di assumere una postura critica e di formulare una visione del mondo (Weltanschauung). Senza di essa non vi è possibilità di resistere, ogni dialettica della storia lascia il posto ad una massiccia glebalizzazione dell’umanità. Il cittadino è sostituito dal mendicante del consumo. Le responsabilità sono plurime, spesso sono le vittime che aiutano i carnefici, in assenza di strumenti culturali per poter decodificare il presente. Il lavoro scompare, poiché i clienti scelgono i prodotti meno costosi delle multinazionali, dietro le quali vi è robotizzazione e precarietà. Il martello dell’economia batte, è trasversale, impedisce di comprendere che ogni atto è un gesto politico, un semplice acquisto è un gesto che favorisce la proletarizzazione delle classi medie e rafforza il regno delle multinazionali che mentre offrono i loro prodotti a consumatori sempre più precari annichilisce il lavoro dei tanti e le loro coscienze:
“Come mi ha spiegato Jaron Lanier, uno dei padri della realtà virtuale fortunatamente ridisceso sulla terra, nella penombra del suo studio che è un monumento vivente al concetto di entropia: «Ci piace la musica gratis, ma poi gridiamo allo scandalo per l’orchestrale nostro amico che non ha piú fondi. Ci eccitiamo per i prezzi online stracciati, e poi piangiamo per l’ennesima serranda abbassata. Ci piacciono anche le notizie a costo zero, e poi rimpiangiamo i bei tempi in cui i giornali erano in salute. Siamo felicissimi dei nostri (apparenti) buoni affari, ma alla fine ci renderemo conto che stiamo dilapidando il nostro valore». Per tutti questi motivi, a una generazione dalla nascita della New Economy, ho pensato che era il caso di fare un viaggio, il piú laico possibile, nel lato oscuro della Forza. Non per provare a fermarla, che è impossibile e neppure auspicabile. Ma per disattivare il pilota automatico e reclamare il posto del conducente. Perché web e robot ci tolgono la terra sotto i piedi, ma non sono eventi naturali imprevedibili come i terremoti. Solo se continueremo a comportarci come se il progresso che portano sia indiscutibile, ineluttabile e ingovernabile finiremo sotto le macerie. Io, che rimango sostanzialmente entusiasta, sono convinto che possiamo ancora evitare che vada così[1]”.
Economia “smart”
La velocità e l’efficienza degli acquisti online consente alle multinazionali di presentarsi come “smart”. Il consumatore dinanzi alla velocità ed alla possibilità di un’agile restituzione intravede negli acquisti online un servizio insostituibile che gli garantisce la soddisfazione dei suoi desideri quotidiani in modo veloce, senza il fastidio di recarsi in negozio, di dover attendere, semplicemente con un clic può soddisfare se stesso e sentirsi per un attimo onnipotente: le frustrazioni quotidiane, la malinconia di vivere per un attimo trova il suo balsamo. Il clic è un farmaco[2] nel senso etimologico della parola, il clic ripetuto trasforma “la cura in veleno”, poiché distrugge il tessuto economico della classe media a cui appartiene, per cui la gioia immediata di clic in clic diventerà la sua disgrazia, gli sottrarrà il suo lavoro facendone un precario sempre sulla soglia della miseria. La New economy non è compresa, non è conosciuta, e non è un caso. Nelle scuole si insegna l’uso delle tecnologie, ma non il contesto economico e di potere del loro uso ed i suoi effetti. Non si sollevano dubbi, si hanno solo certezze, il futuro sarà digitale, per cui non resta che adattarsi. Si cela la verità, “l’apparir del vero”. L’avanzare celere della nuova economia non trova resistenza, e specialmente non incontra che un’umanità abituata a ragionare secondo l’immediato. L’immaginazione creativa è sepolta tra clic ed il martello dell’economia. La politica in generale non accoglie l’urgenza del problema, non risponde ai popoli, ma semplicemente si appiattisce agli ordini delle multinazionali che finanziano le campagne elettorali:
“La New Economy, ormai è ufficiale, non l’abbiamo capita. Me ne rendo conto adesso, con circa venti anni di ritardo. O meglio, ci siamo entusiasmati di fronte ai suoi vantaggi (chiunque avesse una buona idea poteva diventare ricco, con trascurabili investimenti iniziali) e abbiamo trascurato gli svantaggi collegati alle dinamiche delle tante compagnie internettiane, da Netscape ad Amazon, che fecero spettacolari quotazioni in Borsa a partire dalla metà degli anni ’90. Eravamo tutti troppo presi a favoleggiare intorno alle stock option delle segretarie di Yahoo! che le avrebbero presto trasformate in milionarie in dollari per fermarci a ragionare intorno a un fastidioso effetto collaterale di quella fenomenale e sin troppo rapida creazione di ricchezza. L’effetto collaterale, la caratteristica essenziale di cui parlo, è che tutti quei soldi venivano generati grazie a una minima porzione di lavoratori rispetto al passato. Quando il 9 agosto 1995 Netscape si quota e viene valutata 2,9 miliardi di dollari ha una trentina di dipendenti. In Italia, dove gli eccessi sono stati molto minori che negli Stati Uniti, quando Tiscali si quota nell’ottobre del ’99 arriva a essere valutata 35 mila miliardi di lire, ovvero quasi quanto Fiat. Che però dava lavoro a oltre 221 mila persone, ovvero 63 volte tanto il service provider sardo. Per non dire che la prima aveva creato quella ricchezza in cento anni, mentre la seconda in uno. Si capiva che c’era qualcosa di anomalo, ma quasi nessuno segnalò il cambiamento di piú vasta gittata. Ossia: nella Vecchia Economia i lavoratori erano consumatori e i consumatori erano lavoratori. Se aumentava il salario dei primi, i secondi spendevano di piú e qualche altro lavoratore doveva produrre di piú per saziare i nuovi acquirenti. E cosí via. A quell’epoca gli uomini, un discreto numero di loro, erano ancora necessari per produrre ricchezza. Nella Nuova Economia no, perché i siti e le piattaforme che la incarnano si prestano benissimo a essere scalabili, ovvero a servire un pubblico dieci, cento, mille volte piú ampio solo aggiungendo dieci, cento, mille computer in piú. Chi ha memoria ricorderà cosa successe allora. Lo sboom del marzo 2000 fece pulizia di tante illusioni, nella maniera piú cruenta possibile[1]”.
La salivazione per gli acquisti
L’impero della globalizzazione ha la sua forza nella fragilità dialettica dei servi. A tale debolezza si è giunti dopo decenni di smantellamento dei corpi medi della democrazia: partiti, sindacati, associazioni nei quali l’incontro era il fondamento per capire e progettare azioni di lotta. Ai corpi medi non si è sostituito nulla, il vuoto ha permesso l’avanzata del nichilismo nella forma degli ipermercati, dove si impara a condividere la “salivazione” per gli acquisti ed a sostituire il concetto, la parola che unisce con l’esame merceologico. Solo in questa cornice è possibile occultare dati anche palesi, ed il più evidente è che la globalizzazione erode mestieri e professioni per sostituirli con il nulla, con la disoccupazione perenne e senza speranza:
“Lo studio si intitola The Future Of Employment: How Susceptible Are Jobs To Computerisation?, è datato 17 settembre 2013 e lo firmano Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne. I due ricercatori analizzano il mercato statunitense del lavoro e lo suddividono in 702 diverse occupazioni. Poi valutano la probabilità che, entro il ventennio successivo, un determinato mestiere venga rimpiazzato da una macchina. Il risultato è spaventoso: il 47 per cento dei mestieri analizzati ricade nella categoria ad alto rischio di sostituzione da parte di robot o algoritmi. Tra i sostituibili figurano la maggior parte degli addetti ai trasporti e alla logistica, i lavori d’ufficio e amministrativi di basso rango nonché quelli nelle linee di produzione dell’industria. Quelli piú a rischio di tutti sarebbero gli addetti al telemarketing, assicuratori, riparatori di orologi e preparatori di dichiarazioni dei redditi[1]”.
Impossibile competizione
Non è secondaria la mortificazione con cui la globalizzazione infetta i popoli: il servo deve competere con algoritmi e macchine, deve constatare la sua nullità, ogni giorno deve verificare che essere ”umani” è uno svantaggio, perché le macchine possono ciò che per ciascuna persona è possibile solo nelle fantasie di onnipotenza senza freno. Il nuovo servo introietta che ogni competizione con la macchina non può che scoprirlo vulnerabile e perennemente sconfitto, per cui è facile rassegnarsi alla condizione di servi:
“Avvistamenti non dissimili sono stati fatti in altre fabbriche americane, comprese quelle della Honda, della General Motors, della Nissan o della Toyota in cui a molti robot sono stati dati nomi di animali. E non è un vezzo solo statunitense. Nello stabilimento Nissan di Kyushu, nel sud del Giappone, i grossi robot che saldano e assemblano sono stati chiamati come personaggi di anime. Minsoo Kang, un professore di lettere all’università del Missouri a St Louis, ha scritto un libro dal titolo Sublime Dreams of Living Machines e si è interrogato sul perché di questa tendenza umanizzante. Dice: «Non diamo un nome alle forbici, ma quando cominciano a fare azioni da umani, lo facciamo». Da una parte c’è il rispetto, dall’altra la paura. «Nel profondo questi lavoratori sono impauriti. Se le macchine non sono controllate, potrebbero risultare estremamente pericolose». Già dar loro un nome le fa sentire meno aliene. Per quanto riguarda le scelte di Rethink Robotics, Baxter era il termine inglese arcaico per indicare una fornaia mentre Sawyer era il nome desueto di colui che tagliava il legno[2]”.
La quotidiana mortificazione, l’impossibile competizione è sostenuta dalla propaganda del capitale che magnifica la sostituzione umana nel lavoro come un traguardo finalizzato a rendere le vite di tutti “più umane”, meno faticose e noiose. Si utilizza il linguaggio marxiano della liberazione dalla fatica, in realtà si punta ad indebolire le capacità critiche ed organizzative. Vi sono umanoidi che già collaborano nelle redazioni, erodono il lavoro dei giornalisti, l’utile immediato rischia di essere pagato a caro prezzo in futuro, in assenza di norme che limitano “le collaborazioni umanoidi”. L’evoluzione degli umanoidi potrebbe in futuro sostituire i giornalisti, i docenti, i traduttori ecc. in questo modo il potere globale si libererà delle idee e della coscienza umana sostituendole con docili umanoidi. E’ indispensabile conservare la visione olistica degli eventi, vedere con gli occhi della mente ciò che potrebbe accadere in futuro per potersi opporre in modo costruttivo “al mondo nuovo che avanza” con i suoi dispositivi di controllo e sostituzione delle coscienze:
Prima di congedarsi Hammond insiste sul punto che gli sembra dirimente: «Mettiamo che un giornale abbia un corrispondente dalla Germania che, come tutti gli esseri umani, non può leggere ogni giornale locale e coprire tutto. Mettiamo adesso che gli affianchiamo Quill che legge anche i giornali online di quartiere e riassume, secondo le regole che gli abbiamo dato, le storie piú interessanti perché statisticamente anomale. A quel punto il corrispondente potrà prendere il testimone e magari fare uno scoop di cui altrimenti non si sarebbe nemmeno accorto. Questo è il nostro scopo: liberare i giornalisti dalle occupazioni banali per consentire loro di dedicarsi a quelle piú creative. Piú in generale la nostra ambizione sarebbe quella di far sí che gli esseri umani possano risparmiare tempo per reinvestirlo nelle relazioni, in ciò che li rende davvero umani». È un programma elettorale che non fa una piega. Liberare gli uomini dalla catene della noia e della ripetizione. Solo un folle potrebbe dirsi contrario. Eppure, come tanti progetti utopici, il rischio di virare in distopia va tenuto in considerazione. Perché, come l’apprendista stregone disneyano, una volta che abbiamo aperto le porte della redazione allo scrivente automatico quello non si ferma piú. Inizia con le brevi, e a forza di scriverle, le scrive sempre meglio. A quel punto, con un po’ di aggiustamenti dei parametri, l’algoritmo diventerà bravo anche nel mettere insieme articoli veri e propri. E poi ancora, istruendolo su come allargare il tiro e migliorare lo stile, sarà la volta degli editoriali. Magari mi preoccupo anzitempo, ma non posso fare a meno di pensare al celeberrimo sermone del pastore Martin Niemöller sull’ignavia degli intellettuali tedeschi di fronte all’ascesa del nazismo, reso popolare da Brecht: «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare[1]».
La parte e il tutto
Per difendere l’umano e l’umanesimo necessitiamo di immaginazione collettiva, della capacità di non lasciarsi ammaliare dall’immediato per poter prevedere possibili scenari futuri e prevenirli. Spetta a chiunque mettere in campo idee e progettualità senza le quali ogni possibilità di curvare le conoscenze al servizio degli esseri umani è persa. Perché tale obiettivo possa essere raggiunto si deve rimettere al centro la politica ed i corpi medi e specialmente un’istruzione che formi alla consapevolezza dei pericoli insiti nel mondo che verrà. Non è un destino che gli esiti esiziali si concretizzino, la responsabilità decisionale è ancora dei popoli e delle classi dirigenti. Il fascino degli algoritmi sta lasciando il posto alla verità della precarietà, della disoccupazione, del nichilismo senza speranza. La verità ha il potere di liberarci dal pericolo, anzi più grande è il pericolo maggiore è la possibilità di divergere da esso: “Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva” (Friedrich Hölderlin). Il senso del pericolo deve indurci a pensare, a riattivare le nostre energie politiche: ciascuno può dare il proprio contributo e favorire la rinascita contro la barbarie che avanza. Affinché vi possa essere il progetto alternativo è indispensabile il riorientamento gestaltico su due punti: l’economicismo e la rivoluzione passiva. L’economicismo, il nuovo integralismo totalitarismo dell’occidente, dev’essere abbandonato per integrare l’economia all’interno di una cornice epistemica ed ideologica, in cui è posta al servizio della politica. Alla rivoluzione passiva bisogna sostituire la partecipazione attiva e reale. La rivoluzione passiva oggi è nella forma della partecipazione mediatica, nella perenne dipendenza dell’apparire rappresentata come “rivoluzionaria”, perché espressione del progresso tecnologico, del dominio dell’individuo, della parte sul tutto. La rivoluzione autentica deve saper discernere le tecnologie dalla consapevolezza delle logiche strutturali e sovrastrutturali di cui è organica. Il riorientamento gestaltico non può che avvenire in modo comunitario, per comunitario si intende ogni luogo nel quale la parola è veicolo di significato critico e non di manipolazione conservatrice. Il tutto viene prima della parte, e la parte ha il suo senso nel tutto. La politica è la consapevolezza di questa relazione che si radica nella storia. I classici ci sono di ausilio. Possono indicarci da dove iniziare, e il punto primo è che nessuno si salva da solo, perché siamo all’interno di un intero che attende risposte, senza le quali rischiamo di scivolare in una furiosa barbarie:
“Invero la città secondo l’ordine naturale viene prima della famiglia e di ciascuno di noi. Perché necessariamente l’intero viene prima della parte: in effetti, tolto l’intero, non vi sarà più né piede né mano, se non per omonimia, come nel caso in cui ci si riferisca a una mano di pietra – sarà infatti in una tale situazione quando sarà morta; tutte le cose sono definite dalla funzione e dalla capacità, sicché non bisogna dire che sono le stesse, quando non sono più tali, ma solo che hanno lo stesso nome. È chiaro dunque che la città è per natura e viene prima di ciascun individuo; se infatti un individuo, isolato, non è autosufficiente, sarà rispetto all’intero nella stessa relazione delle altre parti; e allora chi non è in grado di far parte di una comunità o in virtù della sua autosufficienza non manca di nulla, non è parte di una città, e quindi è o una belva o un dio[1]”.
Se il cittadino si autopercepisce solo come consumatore non si integra con la totalità, la conseguenza è l’impossibilità della politica e della comunità. Politica e filosofia hanno il compito di rifondare la relazione tra la parte ed il tutto, quale verità fondativa da cui riprendere il cammino interrotto. Alla trasmissione di dati e calcoli senza fondamento bisogna sostituire la comunicazione mediante la quale non solo i dati divengono oggetto della lettura collettiva, ma specialmente la comunicazione[2] implica la messa in comune della dialettica della progettualità, in assenza di questo, il potere non trova limite alcuno, ma prolifera e si installa nell’anomia generale. Ci si deve riappropriare della pratica della comunicazione e smascherare le forme orwelliane della stessa, senza tale operazione dialettica ci si consegna ad un mondo senza storia, regno degli algoritmi.
[1] Lavoro dal latino labor: fatica
[2] Riccardo Staglianò Al posto tuo Cosí web e robot ci stanno rubando il lavoro Einaudi Torino pag. 9
[3] Farmaco dal greco phármakon ‘medicamento’ o ‘veleno’
[8] Aristotele La Politica l’Erma di Bretschneider Roma 2011 pp. 147
[9] Comunicare dal latino: [communicare], mettere in comune, derivato di [commune].
http://www.linterferenza.info/contributi/la-fine-del-lavoro-globalizzazione-glebalizzazione/