Circa, Marco Revelli, “Draghi, lupi, faine e sciacalli”. Cronache del crollo
apr 13th, 2020 | Di Thomas Munzner | Categoria: Politica internaSiamo davvero in tempi strani. Davanti all’improvviso accelerare della storia, per effetto del venire al pettine sotto l’impatto di un minuscolo organismo di tutte le catastrofi del neoliberismo e della mondializzazione senza limiti e freni di questo ultimo ventennio, tutti si sentono sollecitati. E capitano posizionamenti inaspettati. E’ la quinta volta che parlo di un testo di Marco Revelli[1], registrando via via un progressivo arruolamento sul fronte di un antifascismo di maniera e piuttosto stridente. Una posizione sempre più anti-popolare, man mano che l’abbandono della sinistra da parte di questi si faceva più evidente (sotto l’etichetta di “populismo”). Nell’ultima occasione ero stato piuttosto brusco.
Ma in questo intervento, molto politico e come sempre schierato contro i suoi due nemici preferiti, i due Matteo, ritrovo invece elementi più che condivisibili. Avevo parlato già dell’intervento di Mario Draghi in un recente post[2] ed in quella occasione mi ero soffermato su una lettura del testo dell’articolo sul Financial Times concentrata sugli elementi di discontinuità, che sono numerosi e significativi, e non sulle numerose ambiguità (che sono decisive).
Probabilmente l’esatto significato di questa lettera sarà chiaro solo a posteriori, quando gli eventi si saranno incaricati di definirla e la polvere della mischia si sarà posata. Come accadde, peraltro, in occasione del suo famoso discorso a Jackson Hall[3], o del suo più famoso “Whatever it takes”, del luglio 2012[4]. Di entrambi qualcosa è restato, qualcosa no.
Come è capitato anche a Thomas Fazi[5], anche Marco Revelli riassume, a beneficio dei distratti, l’imponente curriculum del banchiere italiano. Ripercorrendo senza alcuno sconto, che del resto non merita, la sua carriera post universitaria, dopo essere diventato ordinario ad appena 33 anni (come del resto capita, anno più anno meno, anche a Mario Monti), segno inconfondibile di una buona base di potere, il nostro dal 1991 è direttamente chiamato a ricoprire il ruolo di Direttore Generale del Ministero del Tesoro da Guido Carli[6], che era ministro del governo Andreotti VII dopo una carriera importante. Viene quindi chiamato, ripeto sempre a beneficio dei distratti, da uno dei ministri e futuri Governatori della Banca d’Italia che contribuisce alla costruzione del vincolo esterno e l’ingresso dell’Italia in Maastricht[7], direttamente in un ruolo che altri raggiungono, se mai, dopo decenni di duro lavoro. Ha 43 anni. Ben sei governi successivi lo confermeranno, incluso il governo di sinistra di Massimo d’Alema. Ma Draghi di sinistra non è mai stato. Si tratta certamente della figura più profondamente organica nella filiera di potere tecnocratica che ha concepito, organizzato ed eseguito lo smantellamento in Italia delle strutture dell’economia mista del dopoguerra, e per questo portato il paese dentro il “vincolo esterno”, al fine di impedire che l’influenza politica dei lavoratori e delle loro organizzazioni potesse mettere in discussione la cosa.
Bene fa Revelli a ricordare. Come fa bene a ricordare che fu in questa veste che un lucidissimo gran funzionario di stato, quale lui era, predispose, indirizzò, ed eseguì la campagna di privatizzazioni, dirette da grandi banche di affari estere a vantaggio del salotto buono dell’imprenditoria nazionale, (Iri, Telecom, Comit, Credit, Eni, Enel, …) per 182,000 miliardi di lire. Un patrimonio dal valore di gran lunga superiore, con ogni probabilità. Nel 1992 fu lui a tenere il famoso discorso sul Britannia. In esso, ricorda Revelli, dichiarò di sapere che avrebbe “indebolito la capacità del Governo di perseguire alcuni obiettivi non di mercato, come la riduzione della disoccupazione e la promozione dello sviluppo regionale”, ma lo riteneva “inevitabile perché innescato dall’aumento dell’integrazione europea”. Compiuta la missione, nel 2002 transitò in una grande banca d’Affari, la Goldman Sachs, impegnandosi a vendere titoli derivati a stati sovrani (tra cui la Grecia). Nel 2005 questi meriti lo portarono alla carica decisiva di Governatore della Banca d’Italia, per sei anni. Da qui alla Bce.
Quello che Francesco Cossiga, come ricorderà Revelli, chiamerà un “vile affarista”, cofirma la lettera con Trichet[8] che apre in Italia la stagione dell’austerità selvaggia ed è tra i progettisti del Fiscal Compact, idea peraltro lanciata formalmente da lui. In quella occasione disse che “Non c’è alternativa al consolidamento fiscale, il modello sociale europeo appartiene già al passato”. Assume un ruolo decisivo, insieme alle grandi banche private tedesche e francesi, nel costringere alle dimissioni Berlusconi quando interrompe l’acquisto dei titoli italiani nel bel mezzo di un attacco, facendo schizzare in alto lo spread[9]. Nel 2015 la macchia peggiore, rossa, sulla sua giacca. È Draghi che dirige, di sponda ai tedeschi e con la complicità di tutti i governi europei, Italia di Matteo Renzi in testa, il massacro greco[10]. Il momento della resa arrivò precisamente quando inopinatamente, tagliò l’Ela, ovvero le linee di liquidità di emergenza al governo che aveva osato rivolgersi agli elettori[11].
Come capita a Thomas Fazi, anche Marco Revelli ricorda tutto ciò non per rubare il mestiere agli storici, ma perché sente puzza di possibile governo tecnico di unità nazionale. Non aiutano a liberare le nostre narici dichiarazioni come quella di Renzi, Salvini, e persino Mariastella Gelmini.
Hanno sicuramente buon naso.
Facendosi guidare da questa intuizione, e dalla sicura guida del passato, entrambi seguono la linea di leggere la lettera tra le righe. Revelli è leggermente più generoso, e, un poco come avevo fatto anche io, individua anche gli elementi di innovazione. Del resto, qui non siamo al cospetto di un esecutore, ma di uno dei più creativi e consapevoli progettisti dell’ordine ordoliberale che ha stretto l’Italia e l’Europa in questi anni. Se è vero che ci sono elementi di innovazione nel testo ci sono anche ben calibrate ambiguità. Draghi dice che i debiti, privati, vanno assorbiti nel bilancio pubblico, dunque lo Stato soccorre, ma soprattutto aiuta il capitale. Dice che il debito pubblico salirà, ed in modo “permanente”, ma non specifica esattamente come sarà gestito. Dice che bisogna proteggere le persone dalla perdita di lavoro, ma non dice che il lavoro stesso andrà reso più forte, meno fragile, anzi ha sempre detto il contrario per i primi cinquanta anni della sua carriera. Dice, ancora, che le banche potranno creare denaro istantaneamente e senza coperture, aderendo alla teoria endogena della moneta, ma lo adopera per salvare le imprese, non per potenziare l’azione pubblica diretta. Dice che il debito andrebbe cancellato, eventualmente, e per questo assunto dal bilancio pubblico, ma non che per questo servizio ci dovrà essere una contropartita pubblica. Specifica che la salita del debito dovrà essere ottenuta senza aumentare i costi del servizio, ma non dice come.
Quindi lo schema è di richiedere, davanti alla mutata situazione, un maggiore livello di debito pubblico, e come “caratteristica permanente delle economie”. E un livello più alto di debito pubblico, è ovvio, implica l’assorbimento, in un modo o nell’altro, del debito privato, spingendosi fino a indicarne proprio “la cancellazione”. Ma tutto ciò resta aperto a diversi esiti e meccanismi.
L’indispensabile soccorso che solo lo Stato può prestare per riparare i danni che le risposte pubbliche al coronavirus stanno generando ovunque nel mondo in grandi linee può avvenire tramite un’enorme espansione della spesa pubblica diretta ed un processo di assorbimento degli assett privati (industrie, beni, aziende) nel patrimonio pubblico o a partecipazione pubblica. Oppure può avvenire attraverso la fornitura di garanzie pubbliche alle attività private, in modo da lasciarle operare come prima.
Draghi sceglie la seconda strada, che ha il pregio della semplicità e velocità, ma il difetto della conservazione dell’ordine esistente (è chiaro che per il nostro è un pregio).
Da progettista dell’ordine neoliberale e da uomo della finanza l’agente di questo salvataggio per lui sono le banche. Queste, scrive, devono prestare i soldi rapidamente ed a tutti, senza verifiche, perché tale è l’urgenza del momento. Fondi a costo zero e quindi necessariamente garantiti dallo Stato.
Nel nuovo mondo che prefigura, insomma, lo Stato è centrale, ma sta dietro le quinte.
Draghi si propone di guidare una sorta di ritirata tattica dall’ordine neoliberale che esso stesso ha concepito, progettato e costruito.
Questo è giustamente il passaggio che fa saltare in piedi Marco Revelli. Tutte le perdite private, attraverso le banche private, devono essere assorbite dal debito dello Stato.
Cosa ne conclude? Che:
“Nulla lascia intendere – in questo ordine del discorso – che ci sia una sia pur minima possibilità per l’apertura di canali di erogazione diretta di risorse dalle finanze pubbliche al sociale. O per l’ipotesi – sia pur estrema – di una qualche riappropriazione di risorse finanziarie, organizzative, operative da parte del settore pubblico in forma di nazionalizzazione o di partecipazione societaria (tipo Iri delle origini, o National Recovery Act roosweltiano). Il Capitale rimane integralmente privato e mantiene appunto il monopolio della distribuzione di risorse collettive. Per questo mi sento di dire che il ‘paradigma liberista’ rimane alla fine intatto, pur nel passaggio d’epoca. E che il vecchio motto proprietario: ‘privatizzare i benefici nei tempi di vacche grasse e socializzare le perdite in tempi difficili’ finisce per rivelarsi – pur nella metamorfosi del linguaggio – tutto sommato intatto”.
Decisamente corretto. Casomai si potrebbe discutere se questo sia ancora “neoliberale”, o solo “liberista”, ma sono sfumature, basta il “tutto sommato”.
Dello stesso avviso è Thomas Fazi:
“Mi dispiace deludervi, ma Draghi non è improvvisamente diventato un novello Keynes da un giorno all’altro. Più banalmente, Draghi sta invocando quella che è la strategia da manuale del buon liberista: privatizzare i profitti in tempo di “pace” (attraverso politiche di austerità a vantaggio del grande capitale ecc.) e socializzare le perdite in tempo di “guerra”, attraverso un’espansione della spesa pubblica – ovviamente a debito – per tenere a galla il grande capitale (istituti finanziari in primis), esattamente come è accaduto nel 2007-2009. Passata la bufera si potrà poi tornare allegramente a privatizzare i profitti con ancora più veemenza di prima, adducendo proprio l’aumento del debito come scusa per implementare politiche di austerità ancora più severe, esattamente come è accaduto del decennio post-2007”.
E’ vero che questa linea potrebbe per ora contare su un atteggiamento accondiscendente (se lo sia lo scopriremo prestissimo) della Bce, nel cui Board i nove firmatari della lettera di cui abbiamo parlato qualche giorno fa sono maggioranza. Ma è pur vero che le maggioranze non durano in eterno, e un monte enorme di debiti detenuti o comunque circolanti e nel perimetro regolatorio della Bce possono sempre diventare un’arma. Lo Stato che assume maggiore protagonismo resta comunque sempre sotto ricatto potenziale.
Questo è il punto dirimente per Thomas Fazi, la spesa deve essere diretta e deve essere monetizzata[12].
E’ assolutamente vero, ma, attenzione, nel breve termine questa alternativa, nazionalizzazioni in una nuova Iri o erogazioni da parte di una banca pubblica, creazione diretta di lavoro, investimenti diretti e massivi, ha due problemi. Tutto questo è totalmente necessario ma contemporaneamente è obiettivamente più complesso da implementare (ci vogliono mesi per concepirlo, progettarlo, eseguirlo) e soprattutto nell’immediato è molto più costoso (mentre le garanzie diventano spesa alla scadenza, poniamo 24 mesi, l’intervento diretto lo diventa subito).
Abbiamo davanti un dilemma con forti implicazioni politiche e pratiche. Le implicazioni politiche vanno in una direzione (valorizzando il potenziamento dell’azione pubblica democratica e del ruolo dei lavoratori), le esigenze pratiche in un’altra (la rapidità dell’azione nel quadro giuridico e di potere esistente). Bisogna, in altre parole, prestare aiuto concreto ed immediato ed al contempo non perdere l’occasione per cambiare effettivamente il quadro esistente. Senza il quale cambiamento saremo sempre a ricadere negli stessi problemi. Un modo per quadrare il cerchio, senza ricadere nell’errore dei “due tempi”[13], può essere di modificare lo schema base in un punto decisivo, come piace dire ai neoliberali: nelle “condizionalità”. Mentre si modificano le norme che, con grande accuratezza e pervasività, ostacolano la creazione di una finanza realmente pubblica e un maggior protagonismo diretto dello Stato, bisogna agire qui ed ora per fornire soccorso. Al contempo, non in un secondo momento, bisogna modificare la struttura del mercato (quel che in un mio post di qualche giorno fa ho chiamato “riorganizzazione”[14]) e i rapporti tra le classi. Quasi tutti i paesi del mondo, Cina inclusa, hanno messo nella cassetta degli attrezzi una notevole espansione del credito a garanzia pubblica. Perché si fa prima ad usare quel che c’è. La differenza è nelle condizioni. Ad esempio, se il prestito garantito dallo Stato fosse accompagnato (da una certa soglia in su) da un pegno sulla proprietà, o su sua quota parte, da collocare in un veicolo esistente (Cdp o Invitalia) potrebbe essere accettabile? In questo modo quando lo Stato fosse chiamato ad onorare la garanzia, per insolvenza della controparte, allo stesso tempo a fronte dell’erogazione avrebbe la proprietà o un “golden share” con il quale avviare le politiche industriali necessarie. A quel punto sarebbe utile, per implementarle, aver preparato una banca pubblica e riguadagnato la sovranità monetaria (al contempo retrocedendo la separazione tra Banca Centrale e Tesoro). Naturalmente questo stesso meccanismo dovrebbe valere per le banche se fossero esse ad aver bisogno di credito garantito dallo Stato.
Se non affronta il tema indicato, però, Marco Revelli nel finale mi sorprende. L’indefettibile difensore dell’Europa (certo “altra”) ora si accorge di cosa è diventata, ed usa parole dure. Addirittura, qualifica i paladini nordici di quella austerità che in altre vesti il nostro ha proprio progettato, come “infinitamente peggiori di lui”.
“fautori dell’austerity a oltranza, i difensori oltre tempo massino del fiscal compact e dei suoi annessi, il Fronte del Nord, Cancellerie e Banchieri centrali tedeschi, olandesi, finlandesi, austriaci, catafratti nella loro arcigna difesa di un effimero rigore nei conti fatti senza osti. Un branco di lupi travestiti da mezzemaniche: miopi, cinici, avari, privi di visione e di ragione, sempre col regolo calcolatore a portata di mano come l’ “uomo senza qualità” di Musil, incapaci di imparare da storia e filosofia chiusi come sono nelle ragionieristiche piccole regole che un microscopico corpuscolo ha già travolto”.
Anche questi sono riposizionamenti.
[1] - Si veda: Marco Revelli, “Poveri noi”, 2010; “Dentro e contro, quando il populismo è al governo”, 2016; “Populismo 2.0”, 2017; “Turbopopulismo”, 2019.
[3] - Il 22 agosto 2014, Mario Draghi, Presidente della BCE, pronunciò a Jackson Hall, davanti ai banchieri centrali di tutto il mondo, un discorso importante, che riaffermò e precisò la linea da seguire. La mia prima reazione fu affidata al post “Il pollo di Trilussa e Mario Draghi”. Ciò che fece Draghi in quella occasione fu di riconoscere che la crisi si orientava verso la deflazione, che dipendeva da una insufficienza cronica di domanda, dei fallimenti della politica monetaria normale, e che a fianco delle politiche strutturali dell’offerta è necessario trovare uno spazio a politiche fiscali di stimolo. Si può vedere anche “Francesco Saraceno, “Europa germanizzata”, ed il commento quasi in tempo reale di Martin Wolf, “Come salvare il capitalismo da se stesso”.
[4] - Le parole whatever it takes furono pronunciate da Mario Draghi il 26 luglio 2012 durante un suo intervento alla Global Investment Conference tenutasi a Londra, con una platea formata da investitori e dirigenti d’azienda. La frase è “within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough”.
[5] - Thomas Fazi, “Draghi contro Draghi”.
[6] - Guido Carli (1914-1993) è stato una delle figure chiave della prima repubblica. Nella sua lunga carriera, il figlio di una importante figura tecnica del fascismo sociologo ed autore del libro che pose le basi teoriche dello stato corporativo, tenne sempre una posizione di supporto convinto e determinante della trasformazione liberale della società italiana. Iniziò la carriera sotto il fascismo stesso come funzionario dell’Iri, poi nel Fondo Monetario Internazionale ai suoi esordi, nel 1953 è Presidente del Mediocredito e subito, a 43 anni diventa Ministro del Commercio con l’Estero, e dal 1959 Direttore generale della Banca d’Italia, dal 1960 Governatore. Resta nella carica fino al 1975, l’anno successivo è Presidente di Confindustria nella quale tiene rigorosamente una posizione di scontro con le rivendicazioni operaie. Nel 1983 è senatore con la Dc e diventa Ministro del Tesoro con i governi VI e VII di Andreotti. E’ ora che chiama Draghi. È a capo della delegazione che negozia Maastricht. Si veda Giuseppe Berta, “Oligarchie. Il mondo in mano a pochi”, 2014.
[7] - Come ricorda Berti nel libro citato nella nota precedente, Carli conduce la trattativa nella convinzione, maturata da lungo tempo, che l’Italia non potrà “riformarsi” da se stessa, secondo le auspicate linee liberali, senza essere costretta a ciò da vincoli istituzionali indisponibili alle pressioni sociali. Per questa ragione è per lui assolutamente necessario creare “un vincolo giuridico internazionale” per ripristinare una “sana finanza pubblica”. Secondo la sua visione, ancora oggi fortemente condivisa, lo stato dei conti e la stessa nazione ha bisogno di assoggettarsi ad un’autorità sovranazionale, “per sottoporre a disciplina i comportamenti di partiti e società” (come scrive Berti). La società italiana gli appare, infatti, in quegli anni “frammentata, lacerata, disorganica”, con una vita politica bloccata e indifferente. Partendo da questa analisi Carli vede nel Trattato di Maastricht lo strumento per dare il necessario “scossone violento” che altrimenti solo un regime autoritario, come quello fascista, potrebbe dare (risposta dello stesso a chi lo invitava a maggiore azione nel suo ruolo di Ministro, p.100). Lucidamente Carli vede quindi che la ‘posta in gioco’ del Trattato è ‘la riforma del potere’; cioè “la drastica riduzione del potere dei governi nazionali” alla quale, in una delle più incredibili e illuminanti affermazioni riportate nell’utile libro di Berta, Carli fa corrispondere nella sua valutazione “un accrescimento del potere decisionale dei singoli cittadini”.
Qui c’è il nodo ideologico, ed operativo, della costruzione della nuova Europa. Carli intende esattamente che l’indebolimento del potere dei Governi Nazionali (e dunque dei Partiti e dei Parlamenti democratici, ma anche delle organizzazioni sociali che influenzano la sfera pubblica nazionale) sia bilanciato da un maggiore ‘potere’ dei ‘singoli’ cittadini abilitati a ‘decidere’. Cosa? Cosa possono ‘decidere’ i “singoli” che restano tali, cioè che non si organizzano o associano, che non partecipano a processi politici? Lo dice lui stesso, con impareggiabile chiarezza di pensiero e franchezza, il potere residuale è nel diritto di investire i propri soldi nel debito pubblico o altrove. È chiaro dunque cosa rende realmente ‘cittadino’ per il nostro, il possesso di una significativa quantità di denaro e lo rende in modo proporzionale ad esso. In altre parole, la democrazia che resta è quella “dei mercati” e l’azionabilità è per censo. Con le sue parole: la “sintesi politica” è data dal “permanere del debito pubblico nei portafogli delle famiglie italiane, per una libera scelta, senza costrizioni, [cosa che] rappresenta la garanzia per la continuazione della democrazia” (p. 100, da G.Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Laterza 1993, p. 386-7).
[8] - L’elenco, riportato da Fazi, è: “una profonda revisione della pubblica amministrazione”, compresa “la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali”, “privatizzazioni su larga scala”, “la riduzione del costo dei dipendenti pubblici, se necessario attraverso la riduzione dei salari”, “la riforma del sistema di contrattazione collettiva nazionale”, “criteri più rigorosi per le pensioni di anzianità” e persino “riforme costituzionali che inaspriscano le regole fiscali”. Tutto ciò, si sosteneva, era necessario per “ripristinare la fiducia degli investitori”. Si veda “Mario Draghi e Jean-Claude Trichet, Lettera al governo italiano, 5 agosto 2011”.
[9] - Per una sintetica descrizione, ma di parte non sospettabile, di quel passaggio si vedano le dichiarazioni di Hans-Werner Sinn in “Spirale verso il basso dell’Italia”.
[10] - Per farsene un’idea si veda il documentario Piigs. The Movie.
[11] - Si veda “L’accordo cartaginese e la Grecia”.
[12] - Scrive: “Il senso dell’intervento di Draghi sta tutto qui. Tra l’altro, l’invito di Draghi a “fare tutto il debito di cui c’è bisogno” è ancora più inquietante nella misura in cui l’Italia, come gli altri paesi dell’eurozona, si indebita in quella che di fatto è una valuta estera, il che significa che un domani i cittadini italiani saranno chiamati a compiere sacrifici immani per ripagare ogni singolo centesimo, non potendo contare su una banca centrale pronta a monetizzare una parte del debito all’occorrenza. Tutto ciò è inaccettabile. Come sostenuto persino in un editoriale di qualche giorno fa uscito sempre sul Financial Times, serve un radicale cambio di paradigma: tutte le spese necessarie per fronteggiare l’emergenza COVID-19, invece di essere finanziate a debito, dovrebbero essere monetizzate direttamente dalle banche centrali dei rispettivi Paesi, cioè non dovrebbero prevedere un rimborso futuro da parte degli Stati. Il senso è chiaro: questa guerra i cittadini la stanno già combattendo in prima linea, è inaccettabile che siano chiamati anche a pagarla di tasca propria.
Questa è la soluzione che dovremmo reclamare a gran voce – traendone le dovute conclusioni nel caso in cui la BCE dovesse rifiutarsi di farlo – invece di farci incantare dalle pericolosissime sirene di Draghi”.
[13] - La politica dei “due tempi” fu scelta dal Pci nell’immediato dopoguerra. Prima ricostruire il paese, garantendo che gli operai sarebbero stati responsabili e il processo di riproduzione del capitale salvaguardato, in modo da poter avere investimenti, poi, avuta una qualche ricchezza, procedere alla redistribuzione. Ovviamente il secondo tempo non venne mai e furono necessari i cicli di lotta degli anni sessanta e settanta per strappare qualcosa. Esattamente quei cicli che la coppia Carli-Draghi ha provveduto a neutralizzare.