Il sorriso dei proci e il consumismo
apr 7th, 2020 | Di Thomas Munzner | Categoria: Cultura e societàIl sorriso dei proci e il consumismo
Dopo 20 anni di avventure militari e di peregrinazioni sul mare, il Re di Itaca Ulisse torna nella sua isola e deve prendere atto che il vuoto di potere dovuto alla sua lontananza ha provocato conseguenze spaventose. Durante la sua assenza, infatti, 109 giovani aristocratici, residenti ad Itaca e ad altre isole vicine, in virtù del dovere di ospitalità a cui era soggetto l’ethos greco, si erano trasferiti in pianta stabile nella reggia, avanzando ciascuno pretese di sovranità su Itaca. Nel loro progetto delirante, avrebbero dovuto conseguire tale sovranità attraverso il matrimonio con la regina Penelope, la moglie del Re. La donna però non aveva mai smesso di aspettare il marito e li aveva tenuti a bada per anni con un espediente semplice ma efficace: avrebbe preso una decisione sul suo matrimonio soltanto quando avesse ultimato una tela che, però, tesseva di giorno e disfaceva di notte.
Ad Itaca, non soltanto era assente il sovrano. C’era di più: si attentava continuamente alla vita di Telemaco (etimologicamente: colui che combatte lontano, ossia lontano dal padre), il figlio di Ulisse, il simbolo della continuità del potere sovrano. Nel corso di uno dei viaggi dell’erede al trono alla ricerca del padre, infatti, il capo dei proci Antinoo, il più sfrontato ed arrogante fra tutti, cercò addirittura di ucciderlo ma non vi riuscì e il potere sovrano poté così conservare a se stesso la promessa di una propria, futura restaurazione.
La saggia Penelope, intanto, conduceva il suo lavoro sulla tela. Era certamente anche questo un lavoro politico (nel senso che consentiva il differimento del matrimonio) ma non poteva certo dirsi una prerogativa sovrana. La sovranità legittima e la dignità che costituisce quest’ultima appariva del tutto separata dal lavoro pur politico di tessitrice del differimento – portatrice quest’ultimo semmai di ansia e angoscia per il futuro. Più che ad una attività politica, il lavoro di Penelope somiglia piuttosto a quello che oggi compie la tecnica. Quest’ultima infatti, serve soltanto a spostare la responsabilità degli uomini su dispositivi macchinali frutto pur sempre dell’ingegno dell’uomo ma che, proprio con la loro presenza diffusa, ricordano agli essere umani che sanno ascoltarli che qualcosa è stato rimandato, dislocato, demandato ad altro e che da un momento all’altro dovrà pur fermarsi per permettere il ritorno della verità (politica) nel mondo.
Il nostro tempo somiglia al vuoto di potere determinatosi nel tempo mitico in cui Ulisse si allontanò da Itaca. Il mondo occidentale appare oggi abitato in larga misura da Proci che aspirano tutti ad una sovranità di cui si mostrano quotidianamente indegni. Fuor di metafora, è la autorevolezza a mostrarsi assente, così come scarseggiano le figure dei leader. Sono invece abbondanti – come nella reggia di Ulisse – le immagini, continuamente reiterate dai media, dei tanti narcisi che ridono sguaiatamente mentre il mondo viaggia con ordini sigillati verso una meta sconosciuta. Nel nostro tempo, ciò che è essenziale è soltanto un consumo senza limiti (e senza un limite che lo connoti in quanto consumo desiderato) e compulsivo di merci, di immagini, di emozioni, di corpi. Senza che tutto ciò costituisca un insieme legato da una visione del mondo, oppure, per dirla con un linguaggio più consono, da un senso umano. Senza che tutto ciò muova da un desiderio nato all’interno di una legge che lo attiva proprio mentre lo limita: non c’è desiderio senza limite e un desiderio illimitato è soltanto un sonno della ragione che può diventare in qualsiasi momento un incubo. Come i Proci, gli abitatori dell’Occidente si mostrano oggi aggregati in una massa informe, priva di differenziazioni interne e di identità stabili. Essi non smettono di rivendicare per sé il ruolo del principe deputato a sedere sul trono sovrano. Nel libro XXesimo dell’Odissea, Omero afferma che i Proci gozzovigliando dalla mattina alla sera con vivande che non sono le loro, e ridono con stoltezza e sfrontatezza smisurata. Era Minerva che aveva instillato nei Proci un riso vuoto, vorrei dire con linguaggio contemporaneo, un riso insensato, nichilistico. Un riso che, nelle intenzioni della Dea, avrebbe dovuto consentire ad Ulisse di affrontare con buone possibilità di successo lo scontro che si preannunciava.
Accadde un giorno, quando nessuno se lo aspettava. Ulisse tornò ad Itaca e, con l’infinità prudenza ed acume che lo avevano sempre caratterizzato, si fa riconoscere soltanto dai pochi che gli erano rimasti fedeli: il figlio Telemaco, la moglie Penelope, la vecchia nutrice e pochi altri servitori.
Fu così che Ulisse uccide tutti i Proci presenti nella sua casa. L’ordine simbolico della legge e della sovranità (che quella legge rappresentava) fu ripristinato.
Antonio Martone