La sfida politica della pandemia
mar 27th, 2020 | Di Thomas Munzner | Categoria: Cultura e società
Pierre Dardot – Pierre Laval
La sfida politica della pandemia
Per Pierre Dardot e Christian Laval, autori di «Del comune o della rivoluzione nel XXI secolo» (DeriveApprodi, 2015), la pandemia Covid-19 mette alla prova la capacità delle strategie politico-economiche che dovrebbero fronteggiarla. «Quello che stiamo vivendo lascia intravedere quello che, con la crisi ambientale in atto, ci attende nei prossimi decenni se la struttura economico- politica globale non dovesse cambiare».
La pandemia di Covid-19 è una crisi sanitaria, economica e sociale globale ad un livello extra- ordinario. Poche situazioni storiche possono essere paragonate, perlomeno negli ultimi decenni. Questa tragedia, da subito, è un banco di prova per tutta l’umanità. Prova nel senso duplice della parola: dolore, rischio e pericolo in un senso; prova, valutazione e giudizio dall’altro. Quella che la pandemia mette alla prova è la capacità delle organizzazioni politico-economiche di far fronte a un problema globale legato alle interdipendenze individuali o in altri termini a tutto quello che riguarda la vita sociale nelle sue forme più elementari. Come una distopia che sarebbe diventata la realtà, ciò che stiamo vivendo lascia intravedere ciò che, con il cambiamento climatico, attende l’umanità tra qualche decennio se la struttura economico-politica del mondo non dovesse cambiare rapidamente e in maniera radicale.
Una risposta di Stato a una crisi globale?
Prima osservazione: da una parte e dall’altra, si predispongono volontari della sovranità dello Stato nazione come risposta all’epidemia globale secondo due modalità più o meno complementari e articolate nei vari paesi: da un lato, ci si affida allo Stato per prendere delle misure autoritarie di limitazione dei contatti con la messa in atto del noto «stato d’emergenza» (dichiarato o meno), come in Italia, Spagna e Francia; dall’altro lato, ci si attende che lo Stato protegga i cittadini dall’importazione di un virus che arriva dall’estero. Disciplinamento sociale e protezionismo nazionale sarebbero i due assi principali della lotta alla pandemia. Vi ritroviamo i due volti della sovranità dello Stato: dominio interno e indipendenza esterna.
Seconda osservazione: egualmente, contiamo sullo Stato per aiutare le imprese private grandi, medie e piccole a superare la prova con gli aiuti e le garanzie creditizie di cui avrebbero bisogno per non fallire e mantenere per quanto possibile la loro manodopera. Lo Stato non ha più scrupoli quando si tratta di dispensare risorse senza limiti per la «salvezza dell’economia» (whatever it takes) quando fino all’altro giorno opponeva, a tutte le richieste di aumento della forza lavoro degli ospedali e del numero di letti nei reparti di emergenza, il rispetto ossessivo dei vincoli di bilancio e dei limiti al debito pubblico. Gli Stati sembrerebbero oggi riscoprire le virtù dell’intervento perlomeno finché si tratterebbe di sostenere l’attività delle imprese private e di garantire il sistema finanziario1.
Questo brusco cambio di rotta, che, a torto, si sarebbe confuso con la fine del neoliberalismo, pone all’attenzione una questione centrale: il ricorso alle prerogative dello Stato sovrano, all’interno come all’esterno, è in grado di fornire una risposta a una pandemia che investe fino in fondo le forme elementari di solidarietà sociale? Quello a cui stiamo assistendo non smette di inquietarci. La xenofobia istituzionale degli Stati si è manifestata contemporaneamente alla presa di coscienza della letalità del virus per l’umanità intera. È secondo un ordine perfettamente dispersivo che gli Stati europei hanno dato le prime risposte alla diffusione del coronavirus. Rapidamente, la maggioranza dei paesi europei, soprattutto dell’Europa centrale, si sono arroccati dietro le mura amministrative del territorio nazionale per proteggere le popolazioni dal «virus straniero». La cartina dei paesi che si sono rinchiusi per primi ha seguito significativamente la linea della xenofobia di Stato. Orban ha acceso la miccia: «Noi conduciamo una guerra su due fronti, quello dell’immigrazione e quello del coronavirus, che esistono perché entrambi si propagano attraverso gli spostamenti»2.
Lo stesso discorso è stato utilizzato fin da subito a livello europeo e mondiale: Ogni singolo Stato deve badare a se stesso, per la grande gioia di tutte le estreme destre europee e mondiali. Ma l’abiezione maggiore è stata l’assenza di solidarietà tra i paesi più vicini. L’abbandono dell’Italia alla sua sorte da parte di Francia e Germania, che hanno estremizzato il proprio egoismo fino a rifiutare l’invio di dotazioni medicali e di mascherine di protezione, ha suonato la campana a morte per un’Europa costruita sulla base della concorrenza spietata tra paesi.
Sovranità di Stato e scelte strategiche
L’11 marzo, il direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha dichiarato lo stato di pandemia, fortemente preoccupato della rapidità di propagazione del virus e del «livello allarmante d’inazione» degli Stati. Come spiegare questo stato di inattività? L’analisi più convincente è stata quella di Suerie Moon, esperta di pandemie e co-direttrice del Centro di Salute mondiale de l’Istituto degli Studi internazionali dello sviluppo: «La crisi che stiamo attraversando mostra la persistenza del principio di sovranità nazionale negli affari mondiali. Ma non c’è nulla di sorprendente. La cooperazione internazionale è stata sempre fragile, ma lo è ancora di più da più di cinque anni con l’elezione dei leaders politici, degli Stati Uniti e del Regno Unito, che auspicano di abbandonare la globalizzazione. Senza la prospettiva mondiale fornita dall’OMS, noi corriamo verso la catastrofe (…) che ricorda ai leaders politici e della sanità mondiali che l’approccio globale alla pandemia e alla solidarietà sono gli elementi fondamentali per un’azione responsabile da parte di tutti i cittadini»3.
Nonostante tali richiami siano fondati e giusti, omettono di ricordare che l’Organizzazione mondiale della Sanità da molti decenni è stata finanziariamente affidata alle risorse dei privati (l’80% dei finanziamenti provengono dalle donazioni di imprese e fondazioni private). Malgrado questo, l’OMS avrebbe potuto fin dall’inizio fare da centro di cooperazione nella lotta alla pandemia, non soltanto perché, dopo l’inizio di gennaio, le sue informazioni a riguardo fossero affidabili ma soprattutto perché le raccomandazioni di controllo radicale e precoce dell’epidemia erano pertinenti.
Per il direttore dell’OMS, la scelta di rinunciare a un uso sistematico dei test di positività Covid-19 per tracciare i contagi, che ha avuto buoni risultati in Corea e a Taiwan, ha costituito l’errore maggiore che ha contribuito a diffondere lo sciame virale in tutti gli altri paesi. Ma dietro questo ritardo ci sono due posizioni strategiche. Paesi come la Corea hanno scelto il sistematico depistaggio, l’isolamento dei portatori del virus e il «distanziamento sociale». L’Italia ha adottato successivamente la strategia della chiusura assoluta per contenere l’epidemia, secondo l’esempio della Cina. Altri paesi hanno atteso troppo prima di avere reazioni, compiendo la scelta fatalista e cripto-darwinista della strategia dell’ «immunità di gregge» (herd immunity). La Gran Bretagna di Boris Johnson ha, in un primo tempo, seguito la strada della passività, tanto che dall’altro lato in maniera più ambigua si è arrivati ad adottare misure restrittive, come in Francia e in Germania, senza parlare degli Stati Uniti.
Schiacciati tra un’ «attenuazione» o un «ritardo» dell’epidemia attraverso l’appiattimento della curva dei contagi, questi paesi hanno rinunciato di fatto a debellarla con il controllo dei primi contagi attraverso un screening sistematico e la chiusura totale della popolazione, come nel caso di Wuhan e della provincia dell’Hubei. Questa strategia di immunizzazione collettiva presuppone di accettare che il 50% e l’80% della popolazione sia contagiata secondo le previsioni dei capi politici tedeschi e del governo francese. Dunque accettare la morte di centinaia di migliaia, se non milioni, di persone, in particolare le persone definite come «più fragili». L’orientamento dell’OMS sarebbe pertanto chiarito: gli Stati non devono rinunciare allo screening sistematico e a tracciare gli spostamenti delle persone risultate positive.
Il «paternalismo liberale» ai tempi dell’epidemia
Perché gli Stati non si sono accordati nel dare fiducia all’OMS e soprattutto perché non le hanno attribuito il ruolo nevralgico di coordinamento delle risposte strategiche alla pandemia? Sul piano economico, l’epidemia in Cina ha ricattato i poteri economico-politici tanto da fermare la produzione e gli scambi e dando inizio a una crisi economico-finanziaria di eccezionale gravità. Le perplessità di Germania, Francia e ancor più degli Stati Uniti, tengono conto del fatto che i governi hanno scelto di mantenere il più a lungo possibile l’economia di mercato, o meglio attendendosi alla volontà di calcare la mano sull’arbitraggio tra imperativi sanitari e imperativi economici in funzione di una situazione monitorata giorno per giorno, senza riferirsi alle previsioni ben più drammatiche ormai note. Si tratta delle previsioni catastrofiche de l’Imperial College, secondo le quali il laisser faire mieterebbe milioni di vittime, che hanno traghettato i governi, tra il 12 e il 15 marzo, quindi già troppo tardi, verso la soluzione della chiusura generalizzata4.
È qui che interviene l’ascendente nefasto dell’economia comportamentale e della teoria della spintarella (teoria del nudge) sulle decisioni politiche5. Sappiamo ormai che la «nudge unit» consigliata dal governo britannico è riuscita a imporre la teoria secondo la quale gli individui costretti e obbligati da norme severe si lascerebbero andare nel momento in cui risulterebbe meno necessario, cioè quando è atteso il picco epidemico. Dal 2010, l’approccio economico di Ricahrd Thaler esposto nel suo libro Nudge dovrebbe ispirare la «governance efficiente» dello Stato6. La teoria consiste nell’invitare gli individui, senza costringerli, a prendere le decisioni giuste con «spintarelle», cioè con influenze dolci, indirette, piacevoli e opzionali, su un individuo che deve restare libero nelle sue scelte. Tale «paternalismo liberale» riferito alla battaglia contro l’epidemia si è tradotto in due orientamenti: da una parte, il rifiuto del controllo sulla condotta individuale e la fiducia nelle «azioni barriera»: tenersi a distanza, lavarsi le mani, isolarsi se si tossisce, tutto svolto a tutela del proprio interesse. La scommessa dell’incitamento dolce e volontario era rischioso, non si basava su alcun dato scientifico che dimostrasse la sua pertinenza in situazione epidemica. Ha infatti condotto agli eccessi che conosciamo. Conviene ricordare che è stata la scelta dei francesi responsabili fino a sabato 14 marzo. Macron si è rifiutato di prendere misure di chiusura visto che, come affermato venerdì 6 marzo, «se si adottano misure troppo vincolanti, non potremmo sostenerle nel tempo». All’uscita del teatro, dove è andato quello stesso giorno con la moglie, dichiarava: La vita continua. Non c’è motivo, a parte per le persone vulnerabili, di cambiare le nostre abitudini. Dietro a questi discorsi che oggi sembrano irresponsabili, non si può fare a meno di pensare che l’opzione del paternalismo liberale era anche un modo di differire le misure draconiane che necessariamente avrebbero colpito l’economia.
Sovranità dello Stato o servizi pubblici?
Il fallimento del paternalismo liberale ha portato le autorità politiche a una svolta che si cominciava a percepire fin dal primo discorso presidenziale del 12 marzo con l’appello all’unità nazionale, all’unione sacra, alla «forza d’animo» del popolo francese. Il secondo discorso di Macron del 16 marzo è stato ancora più esplicito nella scelta della postura e della retorica marziale: l’ora della mobilitazione generale, l’«abnegazione patriottica», poiché «siamo in guerra». Ormai è la figura dello Stato sovrano che si manifesta nel modo più estremo ma anche più classico, quella della spada che colpirà un nemico «che è là, invisibile, inafferrabile, che progredisce».
Ma c’era un’altra dimensione nel suo discorso del 12 marzo, che non ha mancato di sorprendere. Emmanuel Macron si è improvvisamente, e quasi miracolosamente, trasformato in difensore dello Stato-provvidenza e della sanità pubblica, giungendo ad affermare l’impossibilità di ridurre tutto alla logica del mercato. Numerosi commentatori e politici, alcuni dei quali di sinistra, si sono affrettati a riconoscere in questa presa di posizione una ammissione della funzione insostituibile dei servizi pubblici. Tutto sommato, si avrebbe qui una forma di reazione differita alla domanda scaturita dalla visita alla Salpêtrière del 27 febbraio scorso: al professore di neurologia che reclamava da parte del presidente un qualche intervento a favore degli ospedali, Macron avrebbe finito per dare una risposta positiva, almeno in linea di principio. Il fatto che gli annunci fatti in questa occasione siano largamente fuorvianti e non rimettano in discussione le politiche neoliberali metodicamente perseguite da anni, è stato fin dall’inizio riconosciuto7.
Ma c’è di più. Nel corso della conferenza, il Presidente ha riconosciuto che «delegare la nostra alimentazione, la nostra protezione, la nostra capacità di cura, il nostro ambiente di vita insieme agli altri» sarebbe «una follia», e che diventa necessario «riacquistarne il controllo». Questa invocazione alla sovranità dello Stato-nazione è stato salutato da diversi fronti, compreso quello dei neofascisti di RN. La difesa dei servizi pubblici si confonderebbe con le prerogative dello Stato: sottrarre la sanità pubblica alla logica del mercato rivelerebbe un’azione di sovranità, attraverso la quale correggere le fin troppo numerose deleghe consentite dal passaggio all’Unione europea. Ma è così evidente che la nozione di servizi pubblici richiama quella della sovranità dello Stato, come se la prima fosse fondata sulla seconda e le due nozioni indissociabili l’una dall’altra? La questione merita un esame tanto più serio in quanto si tratta di un argomento centrale dei sostenitori della sovranità dello Stato.
Cominciamo con la questione della natura della sovranità dello Stato. Sovranità significa propriamente «superiorità» (del latino superanus), ma nei confronti di che cosa? Rispetto alle leggi e agli obblighi di ogni genere che possono limitare la potenza dello Stato, sia nei suoi rapporti con gli altri Stati che nei suoi rapporti con i propri cittadini. Lo Stato sovrano si pone al di sopra degli impegni e degli obblighi che è libero di contrarre e revocare a suo piacimento. Ma lo Stato, considerato come persona pubblica, può agire solo attraverso i suoi rappresentanti, che dovrebbero incarnarne la continuità al di là della durata dell’esercizio delle loro funzioni. La superiorità dello Stato significa dunque di fatto la superiorità dei suoi rappresentanti nei confronti delle leggi, degli obblighi e degli impegni che possono vincolarlo durevolmente. Ed è questa superiorità che è elevata al rango di principio da parte di tutti i sovranisti. Tuttavia, per quanto sgradevole possa essere questa verità per loro, questo principio vale indipendentemente dall’orientamento politico dei governanti. L’essenziale è che essi agiscano in qualità di rappresentanti dello Stato, qualunque sia l’idea che si fanno della sovranità dello Stato.
Le deleghe successivamente accordate dai rappresentanti dello Stato francese a favore dell’UE lo sono state sovranamente, poiché la costruzione dell’UE ha proceduto sin dai primi passi dell’attuazione del principio della sovranità dello Stato. Allo stesso modo, il fatto che lo Stato francese, come tanti altri in Europa, si sia sottratto ai suoi obblighi internazionali in materia di difesa dei diritti umani, rientra in una logica di sovranità: la dichiarazione dei difensori dei diritti umani impone agli Stati di creare un ambiente sano e protettivo, ma le leggi e le pratiche degli Stati firmatari, in particolare quelle della Francia alla frontiera che condivide con l’Italia, impone violare tali obblighi internazionali. Lo stesso vale per gli obblighi in materia di clima, per i quali gli Stati si comportano allegramente secondo i loro interessi attuali. Anche in materia di diritto pubblico, lo Stato non è rimasto indietro. Così, per attenerci al caso francese, i diritti dei nativi americani della Guyana vengono negati in nome del principio della «repubblica una e indivisibile», espressione che ci rinvia ancora una volta alla sacrosanta sovranità dello Stato. In definitiva, quest’ultima è l’alibi che consente ai rappresentanti dello Stato di esonerarsi da qualsiasi obbligo che legittima un controllo da parte dei cittadini. Tenendo presente questo punto, esso ci aiuterà a esplicitare il carattere pubblico dei servizi cosiddetti «pubblici».
È il senso della parola «pubblico» che deve richiamare qui tutta la nostra attenzione. Troppo spesso ci si accorge che, in questa espressione, «pubblico» è assolutamente irriducibile a «statale». Perché il publicum qui designato rinvia non alla sola amministrazione statale, ma all’intera collettività in quanto essa è costituita dall’insieme dei cittadini: i servizi pubblici non sono i servizi dello Stato nel senso che lo Stato potrebbe disporne a suo piacimento, non sono neppure una proiezione dello Stato, sono pubblici in quanto sono «al servizio del pubblico». Essi rientrano in questo senso in un obbligo positivo dello Stato nei confronti dei cittadini. In altre parole, sono dovuti dallo Stato e dai governanti ai governati, lungi dall’essere un favore che lo Stato farebbe ai governati, come la formula di «Stato-provvidenza», polemica perché di ispirazione liberale, dà a sentirla. Il giurista Léon Duguit, grande teorico dei servizi pubblici, lo aveva fatto notare fin dall’inizio del XX secolo: è il primato dei doveri dei governanti verso i governati che costituisce il fondamento di quello che si chiama il «servizio pubblico». A suo avviso, i servizi pubblici non costituiscono una manifestazione della potenza dello Stato, ma un limite del potere governativo. Essi sono ciò per cui i governanti sono i servi dei governati8. Questi obblighi che si impongono ai governanti, si impongono anche agli agenti dei governanti e sono loro che fondano la «responsabilità pubblica».
Per questo motivo i servizi pubblici rientrano nel principio della solidarietà sociale, che si impone a tutti, e non nel principio della sovranità che è incompatibile con quello della responsabilità pubblica. Questa concezione dei servizi pubblici è stata certamente repressa dalla finzione della sovranità dello Stato. Ma è lei che continua a farsi sentire attraverso il fortissimo rapporto che i cittadini intrattengono con ciò che ritengono un diritto fondamentale. Il fatto è che il diritto dei cittadini ai servizi pubblici è la stretta contropartita della garanzia dei servizi pubblici spetta ai rappresentanti dello Stato. Ecco perché i cittadini dei vari paesi europei colpiti dalla crisi hanno voluto manifestare in varie forme il loro attaccamento a questi servizi impegnati nella lotta quotidiana contro il coronavirus: i cittadini di numerose città spagnole hanno così applaudito dai i loro balconi le équipe dei servizi sanitari, indipendentemente dal loro atteggiamento nei confronti dello Stato unitario centralizzato. Le due cose devono essere distinte con cura. L’attaccamento dei cittadini ai servizi pubblici, in particolare ai servizi ospedalieri, non è affatto un’adesione all’autorità o al potere pubblico nelle sue varie forme, ma un attaccamento a servizi che hanno come finalità essenziale quella di soddisfare le esigenze del pubblico. Lungi dal manifestare un ripiegamento identitario sulla nazione, questo attaccamento testimonia un senso dell’universale che attraversa le frontiere e ci rende tanto sensibili alle prove vissute dai nostri «concittadini in pandemia», siano essi italiani, spagnoli e, infine, europei e non.
L’urgenza di beni comuni globali
Non si può prestare fede alla promessa di Macron secondo la quale lui sarà il primo a mettere in discussione «il nostro modello di sviluppo» dopo la crisi. Si può persino legittimamente pensare che le misure drastiche in materia economica ripeteranno quelle del 2008 e mireranno ad un «ritorno alla normalità», cioè alla distruzione del pianeta e alla crescente disuguaglianza delle condizioni sociali. Si deve piuttosto temere fin d’ora che il conto per «salvare l’economia» venga nuovamente presentato ai salariati e ai contribuenti più poveri. Eppure, grazie a questa emergenza, è cambiato qualcosa che fa sì che nulla possa più essere come prima. Il sovranismo di Stato, con il suo riflesso sicuro e il suo tropismo xenofobo, ha dato prova del suo fallimento. Lungi dal contenere il capitale globale, ne modifica l’azione esacerbando la concorrenza.
Due cose sono ormai chiare a milioni di persone. Da un lato, la necessità di trasformare i servizi pubblici in istituzioni del comune capaci di mettere in opera la solidarietà vitale tra esseri umani. D’altra parte, il bisogno politico più urgente dell’umanità, l’istituzione di beni comuni globali. Poiché i rischi sono globali, l’aiuto reciproco deve essere globale, le politiche devono essere coordinate, i mezzi e le conoscenze devono essere condivisi, la cooperazione deve essere la regola assoluta. Salute, clima, economia, istruzione, cultura non devono più essere considerate proprietà private o beni di Stato: devono essere considerati beni comuni mondiali ed essere istituiti politicamente come tali. Una cosa è ormai certa: la salvezza non verrà dall’alto. Solo le insurrezioni, le rivolte e le coalizioni internazionali di cittadini possono imporla agli Stati e al capitale.
Traduzione dal francese di Viviana Vacca.
OperaViva
NOTE
1. | ↩ | Uno dei piani di rilancio tra i più ambiziosi ad oggi è quello della Germania, che rompe brutalmente con i dogmi ordo- liberali in vigore dopo la nascita della RFA. |
2. | ↩ | In Nelly Didelot, «Coronavirus: les fermetures de frontière se multiplient en Europe», Libération, 14 mars 2020 |
3. | ↩ | Entretien avec Suerie Moon: «Avec le coronavirus, les Etats-Unis courent au désastre», Le Temps, 12 mars 2020 |
4. | ↩ | L’équipe di Neil Ferguson ha modellizzato il propagarsi del virus mostrando che il «laisser faire» avrebbe provocato la morte di 510 000 e 2,2 milioni di persone rispettivamente nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Cf. Hervé Morin, Paul Benkimoun et Chloé Hecketsweile, «Coronavirus : des modélisations montrent que l’endiguement du virus prendra plusieurs mois», Le Monde, 17 mars 2020. |
5. | ↩ | To nudge significa dare una gomitata, o una spintarella. È un incentivo o uno stimolo che mira ad agire senza costrizione sull’individuo. |
6. | ↩ | Richard H. Thaler et Cass R. Sunstein, Nudge: Improving Decisions about Health, Wealth, and Happiness, Yale University Press, 2008. Cfr. anchd Tony Yates, «Why is the government relying on nudge theory to fight coronavirus?» |
7. | ↩ | Cfr. Ellen Salvi, «Emmanuel Macron annonce une rupture en trompe-l’œil», Mediapart, 13 mars 2020. |
8. | ↩ | Léon Duguit, Souveraineté et liberté, Leçons faites de l’Université de Columbia (New-York), 1920-1021, Felix Alcan, 1922, Onzième Leçon, p. 164.
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