Uno si divide in due
mar 14th, 2020 | Di Thomas Munzner | Categoria: ContributiUno si divide in due
di Alain Badiou
In Il secolo, Cap. 6, 7 – aprile 1999
Il secolo, dunque, non è in alcun modo un secolo di “ideologie” nel senso dell’immaginario e delle utopie. La sua determinazione soggettiva principale è la passione del reale, di ciò che è immediatamente praticabile qui e ora. Abbiamo dimostrato che l’importanza della finzione non è che una conseguenza di tale passione.
Che cosa dice il secolo, a proposito del secolo? Che, in ogni caso, non si tratta del secolo della promessa, ma del compimento. È il secolo dell’atto, dell’effettivo, del presente assoluto, non quello dell’annuncio e dell’avvenire. Dopo millenni di tentativi e di insuccessi, il secolo vive se stesso come il secolo delle vittorie. È al secolo precedente, all’infelice romanticismo del xix secolo che gli attori del xx riservano il culto del tentativo vano e sublime, e quindi l’asservimento ideologico. Il xx dice: basta con i fallimenti, è l’ora delle vittorie! Questa soggettività vittoriosa sopravvive a tutte le apparenti disfatte, in quanto non è empirica, ma costituente. La vittoria è il motivo trascendentale che organizza il fallimento stesso. Uno dei nomi di tale motivo è “rivoluzione”. La rivoluzione d’Ottobre, le rivoluzioni cinesi e cubana, e poi le vittorie degli algerini e dei vietnamiti nelle lotte di liberazione nazionale valgono tutte come prova empirica del motivo e sconfiggono i fallimenti, riparano i massacri del giugno 1848 o della Comune di Parigi.
Il mezzo della vittoria è la lucidità, teorica e pratica, nei riguardi di uno scontro decisivo, di una guerra finale e totale. Dal fatto che tale guerra sia totale deriva che la vittoria sia veramente vittoriosa.
Come abbiamo detto, sotto questo aspetto il secolo è il secolo della guerra. Ma tale enunciato mette in gioco parecchie idee concernenti la questione del Due, o della scissione antagonistica. Il secolo ha decretato che la sua legge era il Due, l’antagonismo, e in questo senso la fine della guerra fredda (l’imperialismo americano contro il campo socialista), che è l’ultima figura totale del Due, è anche la fine del secolo. Il Due, tuttavia, si declina secondo tre significati:
1. Un antagonismo centrale, due soggettività organizzate su scala planetaria in un combattimento mortale di cui il secolo è la scena.
2. Un antagonismo non meno violento tra due modi diversi di considerare e di pensare l’antagonismo. È l’essenza stessa dello scontro tra comunismo e fascismo. Per i comunisti, lo scontro planetario è, in ultima istanza, quello tra classi, mentre per i fascisti radicali è quello tra nazioni e razze. Qui il Due si divide in due. Vi è un intreccio tra una tesi antagonistica e più tesi antagonistiche sull’antagonismo. Questa seconda divisione è essenziale, forse anche più della prima. In fondo gli antifascisti erano più numerosi dei comunisti ed è caratteristico che la seconda guerra mondiale si sia fatta su questo sfaldamento derivato e non su una concezione unificata dell’antagonismo, la quale ha prodotto solo una guerra “fredda”, tranne che in periferia (guerre di Corea e del Vietnam).
3. Il secolo è convocato come secolo produttore, attraverso la guerra, di un’unità definitiva. L’antagonismo verrà superato attraverso la vittoria di uno dei campi sull’altro. Possiamo quindi anche dire che, in questo senso, il secolo del Due si anima del desiderio radicale dell’Uno. Ciò che dà nome all’articolazione dell’antagonismo e della violenza dell’Uno è la vittoria come attestazione del reale.
Notiamo una volta di più che non si tratta di uno schema dialettico. Niente lascia prevedere una sintesi, un superamento interno della contraddizione. Al contrario, tutto si orienta verso la soppressione di uno dei due termini. Il secolo è una figura di giustapposizione non dialettica del Due e dell’Uno. La questione, qui, è di sapere quale bilancio fa il secolo del pensiero dialettico. Nell’esito vittorioso, la forza motrice è l’antagonismo stesso, o il desiderio dell’Uno?
A questo proposito vorrei evocare un episodio, a suo tempo famoso e oggi dimenticato, delle rivoluzioni cinesi. Verso il 1965 in Cina si apre quella che la stampa locale, sempre inventiva nella definizione dei conflitti, chiama “una grande lotta di classe nel campo della filosofia”. La lotta contrappone coloro per i quali l’essenza della dialettica è la genesi dell’antagonismo, espressa nella formula “uno si divide in due”, a coloro per i quali l’essenza della dialettica è la sintesi dei termini contraddittori e per i quali, quindi, la formula giusta è “due si fondono in uno”. Scolastica apparente, verità essenziale. Si tratta infatti dell’identificazione della soggettività rivoluzionaria, del suo desiderio costituente. È il desiderio della divisione, della guerra, oppure il desiderio della fusione, dell’unità, della pace? In Cina, comunque, a quell’epoca vengono dichiarati “sinistrorsi” quanti sostengono la massima “uno si divide in due”, e destrorsi quanti predicano che “due si fondono in uno”. Perché?
Che la parola d’ordine della sintesi (due si fondono in uno), intesa come formula soggettiva, come desiderio dell’Uno, venga considerata destrorsa dipende dal fatto che per i rivoluzionari cinesi essa è assolutamente prematura. Il soggetto di tale massima non ha attraversato il Due fino in fondo, non sa ancora che cosa sia la guerra di classe integralmente vittoriosa. Ne consegue che l’Uno di cui nutre il desiderio non è ancora neanche pensabile, vale a dire che, sotto il pretesto della sintesi egli si richiama all’Uno antico. Questa interpretazione della dialettica è quindi restauratrice. Non essere conservatore, essere un attivista rivoluzionario al presente, significa obbligatoriamente desiderare la divisione. La questione della novità si pone subito come quella della scissione creatrice nella situazione specifica.
La rivoluzione culturale cinese, soprattutto negli anni 1966 e 1967, contrappone con una furia e una confusione inimmaginabili i sostenitori dell’una o dell’altra versione dello schema dialettico. In verità vi sono coloro che, al seguito di Mao (in quel periodo praticamente minoritario nella direzione del partito), pensano che lo stato socialista non debba essere la fine ripulita e poliziesca della politica di massa ma, al contrario, uno stimolo al suo scatenarsi all’insegna dell’avanzata verso il comunismo reale. E coloro che, al seguito di Liu Shaoqi e soprattutto di Deng Xiaoping, pensano che, essendo la gestione economica l’aspetto principale della faccenda, le mobilitazioni popolari siano più nefaste che necessarie. La gioventù scolarizzata sarà la punta di diamante della linea maoista.
I quadri del partito e numerosi quadri intellettuali vi si opporranno più o meno apertamente. I contadini resteranno nell’aspettativa. Alla fine gli operai, forza decisiva, saranno talmente frantumati in organizzazioni rivali che, a partire dal 1967-1968 e con il rischio che lo stato venga travolto dalla tormenta, si dovrà fare intervenire l’esercito.1 A questo punto si apre un lungo periodo di scontri burocratici quanto mai complessi e violenti, che non escludono irruzioni popolari e che saranno protratti fino alla morte di Mao (1976), rapidamente seguita da un colpo di stato termidoriano che riporta Deng al potere.
Questo tornado politico è così nuovo e nello stesso tempo così oscuro circa le poste politiche in gioco, che molte delle lezioni che esso senza dubbio comporta per il futuro delle politiche di emancipazione non ne sono ancora state desunte, sebbene esso abbia fornito un’ispirazione decisiva al maoismo francese tra il 1967 e il 1975, l’unica corrente politica innovatrice e coerente del dopo-maggio ’68. Certo è, in ogni caso, che la rivoluzione culturale segna la chiusura di tutta una sequenza, quella il cui “oggetto” centrale è il partito e il concetto dominante il proletariato.
Tra parentesi, va oggi di moda, tra i restauratori del servilismo imperiale e capitalista, qualificare tale episodio senza precedenti come una bestiale e sanguinosa “lotta per il potere”, ossia come il tentativo di Mao (allora in minoranza nell’ufficio politico) di risalire a ogni costo la china. Rispondiamo anzitutto che qualificare come “lotta per il potere” un episodio politico di questo tipo equivale a rendersi ridicoli, sfondando una porta già spalancata. I militanti della rivoluzione culturale non hanno cessato di citare Lenin, quando dice (magari non è proprio quanto ha fatto di meglio, ma questo è un altro problema) che, in definitiva, “il problema è quello del potere”. La posizione minacciata di Mao era una posta esplicita ed era stata indicata dallo stesso Mao. Le “trovate” dei nostri interpreti sinologi2 non sono che i temi immanenti e pubblici della quasi- guerra civile in corso in Cina tra il 1965 e il 1976, guerra la cui sequenza propriamente rivoluzionaria (nel senso dell’esistenza di un pensiero politico nuovo) non ne è che il segmento iniziale (1965-1968). Del resto, da quando mai i nostri filosofi politici considerano orrendo il fatto che un dirigente in pericolo tenti di riacquistare la propria influenza? Non è forse ciò di cui parlano dalla mattina alla sera, giudicandolo l’essenza dilettevole e democratica della politica parlamentare? In secondo luogo va detto che il significato e l’importanza di una lotta per il potere si giudicano dalle poste in gioco. Soprattutto quando i mezzi di tale lotta sono classicamente rivoluzionari, nel senso che faceva dire a Mao che la rivoluzione “non è un pranzo di gala”, ma una mobilitazione senza precedenti di milioni di giovani e di operai, una libertà di espressione e di organizzazione praticamente inaudita, manifestazioni gigantesche, assemblee politiche in tutte le sedi di studio e di lavoro, discussioni schematiche e brutali, delazioni pubbliche, uso ricorrente e anarchico della violenza, ivi compresa la violenza armata ecc. Chi, oggi, può mai negare che Deng Xiaoping (qualificato dagli attivisti della rivoluzione culturale come il “secondo dei massimi responsabili impegnati, pur all’interno del partito, nella via capitalista”) si trovasse in effetti su una linea di sviluppo e di costruzione sociale diametralmente opposta a quella, collettivista e innovatrice, di Mao? Non lo si è forse visto (dopo essersi impadronito del potere con un colpo di stato burocratico alla morte di Mao) attuare in Cina, per tutti gli anni ottanta e fino alla sua morte, una sorta di neocapitalismo selvaggio, corrotto e tanto più illegittimo in quanto, oltretutto, manteneva il dispotismo del partito? In tutte le questioni, e soprattutto nelle più importanti (rapporti tra città e campagne, tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, tra partito e masse ecc.) si ritrovava quello che i cinesi, nel loro colorito linguaggio, chiamavano una “lotta tra le due classi, le due vie e le due linee”.
Ma le violenze, così spesso estreme? E le centinaia di migliaia di morti? E le persecuzioni, in particolare contro gli intellettuali? Ripeteremo la stessa cosa detta a proposito di tutte le violenze che nella Storia hanno accompagnato fino a oggi i tentativi allargati di politica libera, di ribaltamento dell’ordine eterno che sottomette la società alla ricchezza e ai ricchi, alla potenza e ai potenti, alla scienza e agli scienziati, al capitale e ai suoi servi, senza tenere conto né di ciò che la gente pensa, né dell’intelligenza collettiva operaia né di qualsiasi pensiero non omogeneo all’ordine perpetuante l’ignobile regola del profitto. Il tema, oggi praticato, dell’emancipazione totale nell’entusiasmo del presente assoluto, è sempre situato al di là del Bene e del Male in quanto, nelle circostanze dell’azione, l’unico Bene conosciuto è quello con cui l’ordine stabilito dà il nome prezioso alla sua sussistenza. A quel punto, l’estrema violenza ha il suo corrispondente nell’estremo entusiasmo, dato che, in effetti, si tratta di trasmutare tutti i valori. La passione del reale non ha morale. La morale, come ha ben visto Nietzsche, ha statuto solo come genealogia. E un residuo del vecchio mondo. Di conseguenza, la soglia di tolleranza per ciò che, visto dal nostro vecchio e pacifico presente, è il peggio, è estremamente alta, qualunque sia il campo in cui si milita. È questo, evidentemente, che induce certuni a parlare oggi della “barbarie” del secolo. Tuttavia non è giusto isolare questa dimensione della passione del reale. Anche nel caso della persecuzione degli intellettuali, per disastrosi che ne siano lo spettacolo e gli effetti, occorre ricordare che, a renderla possibile, è il fatto che non sono i privilegi del sapere a determinare l’accesso politico al reale. Come disse Fouquier-Tinville durante la rivoluzione francese giudicando e condannando a morte Lavoisier, creatore della chimica moderna: “La Repubblica non ha bisogno di scienziati”. Parole barbare se mai ve ne furono, estremiste e irragionevoli quant’altre mai, ma che bisogna intendere, al di là di loro stesse, nella forma assiomatica abbreviata di: “La Repubblica non ha bisogno”. Non è dal bisogno, dall’interesse o dal sapere privilegiato (suo correlato) che deriva la cattura politica di un frammento di reale, ma dalla presenza, e solo da essa, di un pensiero collettivizzabile. In altri termini: la politica, quando esiste, fonda il proprio principio di realtà, e non ha bisogno di nient’altro se non di se stessa.
Ma forse, oggi, viene considerato barbaro ogni tentativo di sottoporre il pensiero alla prova del reale, politico o meno che esso sia? La passione del reale, alquanto raffreddata, cede (provvisoriamente?) il campo all’accettazione, ora gioiosa, ora scialba, della realtà.
È vero, e credo di averne chiarito il meccanismo, che la passione del reale si accompagna a una proliferazione della finzione, e che quindi occorre ricominciare sempre daccapo l’epurazione, la messa a nudo del reale.
Quello che oggi vorrei sottolineare, è che epurare il reale significa estrarlo dalla realtà che lo avviluppa e lo occulta. Da cui il gusto violento della superficie e della trasparenza. Il secolo tenta di reagire contro la profondità. Instaura felicemente una forte critica del fondamento e dell’aldilà, promuove l’immediato e la superficie sensibile. Propone, sulla linea di Nietzsche, di abbandonare i “retro- mondi” e di stabilire che il reale è identico all’apparire. Il pensiero, proprio perché ciò che lo anima non è l’ideale ma il reale, deve cogliere l’apparire come apparire, o il reale come evento puro del suo apparire. Per arrivare a ciò occorre distruggere ogni spessore, ogni pretesa sostanziale, ogni asserzione di realtà. È la realtà che fa ostacolo alla scoperta del reale come superficie pura. In ciò consiste la lotta contro la finzione. Ma poiché la finzione-di-realtà aderisce al reale, la distruzione della finzione si identifica con la distruzione pura e semplice. Alla fine della sua epurazione, il reale come assenza totale di realtà è il nulla. Tale via, imboccata durante il secolo attraverso innumerevoli tentativi politici, artistici e scientifici, verrà chiamata la via del nichilismo terrorista. Poiché la sua animazione soggettiva è la passione del reale, non si tratta di un consenso al niente, ma di una creazione, e conviene riconoscervi un nichilismo attivo.
A che punto siamo oggi? La figura del nichilismo attivo è considerata completamente obsoleta. Ogni attività ragionevole è limitata, limitativa, ristretta dal peso della realtà. La cosa migliore da fare è quella di evitare il male, e la via più breve per arrivarci è di evitare ogni contatto con il reale. In sostanza, si ritrova il nulla, il nulla-di-reale e, in questo senso, si è sempre nel nichilismo. Ma poiché si è soppresso l’elemento terrorista – il desiderio di epurare il reale -, il nichilismo è disattivato. E diventato nichilismo passivo, o reattivo, vale a dire ostile a ogni azione come a ogni pensiero.
L’altra via abbozzata dal secolo, quella che tenta di mantenere la passione del reale senza cedere al fascino parossistico del terrore, l’ho definita, come già sapete, la via sottrattiva: esibire come punto reale non la distruzione della realtà, ma la differenza minima. Epurare la realtà non per annientarla nella sua superficie, ma sottraendola alla sua apparente unità per scoprirvi la differenza minuscola, il termine evanescente che ne è costitutivo. Ciò che ha luogo differisce appena dal luogo in cui ciò ha luogo. L’affetto sta tutto nell’”appena”, in questa eccezione immanente.
In entrambe le vie, la questione cruciale è quella del nuovo. Che cos’è il nuovo? Una questione che ossessiona il secolo visto che, fin dai suoi albori, il secolo si è posto come figura dell’inizio. E, innanzitutto, come (re-)inizio dell’Uomo: l’uomo nuovo.
Questo sintagma ha due sensi opposti.
Per tutta una serie di pensatori, soprattutto dalle parti del pensiero fascista e senza eccettuare Heidegger, “l’uomo nuovo” è in parte la restituzione di un uomo antico, obliterato, scomparso, corrotto. L’epurazione è in realtà un più o meno violento processo di ritorno di un’origine svanita. Il nuovo è una produzione di autenticità. In sostanza, il compito del secolo è la restituzione (dell’origine) attraverso la distruzione (dell’inautentico).
Per un’altra serie di pensatori, in particolare dalle parti del comunismo marxistizzante, l’uomo nuovo è una reale creazione, qualcosa che non è mai esistito, in quanto sorge dalla distruzione degli antagonismi storici. E al di là delle classi e dello stato.
L’uomo nuovo è sia restituito, sia prodotto.
Nel primo caso, la definizione dell’uomo nuovo si radica in totalità mitiche quali la razza, la nazione, la terra, il sangue, il suolo. L’uomo nuovo è una collezione di predicati (nordico, ariano, guerriero ecc.).
Nel secondo caso, invece, l’uomo nuovo si declina contro tutti gli avviluppamenti e tutti i predicati, in particolare contro la famiglia, la proprietà, lo stato-nazione. È il programma del libro di Engels L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. Marx sottolineava già che la singolarità universale del proletariato è di non portare alcun predicato, di non avere niente e, in particolare, di non avere, in senso forte, alcuna “patria”. Tale concezione antipredicativa, negativa e universale dell’uomo nuovo attraversa il secolo. Un punto molto importante è l’ostilità verso la famiglia, come nucleo primordiale dell’egoismo, del radicamento particolare, della tradizione e dell’origine. Il grido di Gide: “Famiglie, vi odio”, partecipa dell’apologetica dell’uomo nuovo così concepito.
Colpisce molto il vedere che, in questa fine secolo, la famiglia è ridiventata un valore consensuale e praticamente tabù. I giovani adorano la famiglia, in seno alla quale si attardano peraltro sempre più a lungo. Il partito tedesco dei Verdi, considerato contestatario (ma tutto è relativo, vista la sua presenza al governo…), voleva a un certo punto autodefinirsi il “partito della famiglia”. Perfino gli omosessuali, portatori nel secolo, come lo si è visto con Gide, di una parte della contestazione, oggi reclamano il loro inserimento nel quadro familiare, nell’eredità, nella “cittadinanza”. Questo per dire il punto a cui siamo. Quando si era progressisti, essere un uomo nuovo, nel presente reale del secolo, significava innanzitutto sfuggire alla famiglia, alla proprietà, al dispotismo di stato. Oggi sembra che la “modernizzazione”, come si compiacciono di dire i nostri maestri, sia quella di essere un buon papà, una buona mamma, un buon figlio, diventare un dirigente competitivo, arricchirsi il più possibile e giocare al cittadino responsabile. Adesso lo slogan è: “Denaro, Famiglia, Elezioni”.
In effetti il secolo si chiude sul tema della novità soggettiva impossibile e del conforto della ripetizione, tema appartenente alla categoria dell’ossessione. Il secolo si chiude nell’ossessione garantista, all’insegna della massima, alquanto abietta, del: “Non si sta poi così male: da altre parti c’è e c’è stato ben di peggio”. Mentre, a partire da Freud, la sostanza di questi cent’anni si era posta sotto il segno dell’isterismo devastatore: che avete di nuovo da farci vedere? Di che cosa siete creatori?
Ecco perché sarà bene addentrarsi nel secolo anche attraverso la psicoanalisi.