Anniversario Morte Karl Marx
mar 14th, 2020 | Di Thomas Munzner | Categoria: Primo PianoPer l’anniversario della morte di Karl Marx riproponiamo un articolo di Costanzo Preve
Centoventi anni dalla morte di Karl Marx (1883-2003)
Un’occasione per una discussione a tutto campo e per una proposta di autoconvocazione
Introduzione
Alla memoria di Emilio Agazzi
di Costanzo Preve
Centoventi anni fa moriva Karl Marx (1883-2003). La liturgia cerimoniale degli anniversari non è interessante, ma resta sempre un’occasione per un bilancio storico e teorico. Ed è appunto questo che propongo in questo intervento, che per ragioni di spazio non può andare oltre al repertorio di argomenti da discutere insieme.
Inizio con una parentesi. Venti anni fa (1983) vi furono molti convegni in occasione del centenario della morte di Marx (1883-1983). Rileggendo con il senno del poi gli atti di molti di questi convegni, risulta chiaro che non ci si rendeva ancora conto della profondità della crisi del marxismo teorico e del comunismo politico. La vicina dissoluzione del comunismo storico novecentesco, consumatasi fra il 1989 ed il 1991, era allora del tutto imprevedibile ed imprevista. Alle stesse debolezze, debitamente segnalate e “registrate”, del marxismo teorico, si proponevano in genere correzioni lontanissime dal configurare una vera “rivoluzione scientifica” alla Kuhn, correzioni che erano appunto solo delle aggiunte ad hoc, ecc. Le comunità accademiche degli “specialisti” (storici, economisti, sociologi, filosofi, ecc.) si esibivano sulla base di un autismo e di una autoreferenzialità conclamati, ignare del fatto che il marxismo di Marx si autopercepiva come una scienza sociale complessiva filosoficamente orientata e non come un sapere specialistico.
Ebbi modo allora di partecipare alla preparazione di un convegno per il centenario di Marx che diede poi luogo alla rivista “Marx 101”, ed i cui atti sono forse ancora rintracciabili, sia pure con fatica (cfr. Marx 101 – Rivista internazionale di dibattito teorico, n. 1-2, 1985). Colgo l’occasione di ricordare qui la limpida figura di Emilio Agazzi, scomparso alcuni anni fa, che fu l’organizzatore di questo convegno, finanziato dal piccolo partito di Democrazia Proletaria (1976-1991). Agazzi faceva parte di quella generazione di marxisti indipendenti, di lontana origine PSI e non PCI (come del resto Raniero Panzieri, Sebastiano Timpanaro e Franco Fortini ecc.), del tutto privi di giustificazionismo ideologico e di fiancheggiamento apologetico (comuni invece all’ambiente PCI del tempo), che sono stati l’onore della generazione dei marxisti italiani fra il 1945 ed il 1991. Chi non sa nulla di Agazzi può iniziare dalla lettura di un suo breve libro di saggi (cfr. Crisi e ricostruzione del marxismo, UNICOPLI, Milano 1984). Io condividevo molto poco della sua impostazione teorica, ma la sua figura morale e la sua apertura intellettuale mi colpirono molto. Per questo dedico questo breve intervento alla sua memoria.
Detto questo, le cose sono cambiate radicalmente negli ultimi venti anni. Per chiarezza, dividerò questa mia introduzione all’anniversario dei cento e venti anni dalla morte di Marx in nove punti distinti.
1. La congiuntura storica in cui cade l’anniversario dei centoventi anni dalla morte di Marx (1883-2003). L’impero ideologico-militare americano-sionista Il centenario della morte di Karl Marx avvenne nel 1983 in un contesto storicamente molto diverso da quello di oggi, e cioè in un contesto di bipolarismo geopolitico mondiale, con la presenza di due superpotenze strategicamente paragonabili, gli USA e l’URSS. Alla luce dell’arrogante unilateralismo militare odierno degli americani e dei sionisti, si trattava di una situazione molto migliore, perché di fatto lasciava un maggiore spazio d’indipendenza a gran parte dei paesi del mondo. A distanza di soli vent’anni, sembra che siano già passati dei secoli. Negli anni Ottanta del Novecento, e questo era particolarmente visibile in alcuni paesi dell’Europa Occidentale (Italia, Francia e Spagna in particolare), la tradizionale egemonia del marxismo fra gli intellettuali, i giovani, gli studenti e le avanguardie operaie (egemonia che caratterizzò il decennio 1966-1976) stava sfaldandosi. Si stava rapidamente realizzando la geniale diagnosi del pensatore cattolico Augusto Del Noce (il più grande “marxista inconsapevole” della seconda metà del Novecento italiano, e parlo assolutamente sul serio), per cui la logica dello storicismo progressista a base filosoficamente nichilistica portava irresistibilmente ad un’adesione alla cosiddetta “società radicale” occidentalistica dei consumi. Lo storicismo di Gramsci stava evolvendo rapidamente nel Nietzsche post-moderno di Vattimo. Ogni tentativo di emancipare il marxismo dall’economicismo riduzionistico e dai miti operaistici, tentativo che personalmente svolsi in modo patetico per un decennio (con varie proposte inutili di rilettura di Lukács, Benjamin, Bloch, Althusser, ecc.) cadeva nel vuoto assoluto, mentre avanzavano invece in modo inarrestabile le tre varianti del femminismo differenzialistico, dell’ecologismo parlamentaristico e del pacifismo moralistico, che nei confronti dell’eredità marxista gettavano via il bambino (del materialismo storico) con l’acqua sporca (dello storicismo grande-narrativo e dell’economicismo riduzionistico). Sono molto fiero di essermi comportato in modo “patetico” in quel periodo, avendo sempre considerato Don Chisciotte un eroe positivo, ma vent’anni dopo non posso fare a meno di valutare in modo più “distanziato” la situazione storica. La stessa cosa si può dire per il fenomeno Gorby, il ridicolo mito della perestrojka e della glasnost e la comprensione esatta dei termini della dissoluzione del comunismo storico novecentesco (1985-1992). Da un lato, avevo assimilato nel decennio precedente le lezioni del maoismo cinese, di Paul Sweezy e di Charles Bettelheim, e non mi facevo illusioni teoriche sul carattere classistico delle società comuniste, e su come la dinamica storica dei loro gruppi dirigenti le portava irresistibilmente verso una restaurazione del capitalismo “normale”. Dall’altro lato continuavo ad avere delle illusioni emotive, e dunque non razionali, e speravo (nella dimensione psicologica che gli anglosassoni chiamano wishful thinking) nella riformabilità di questi baracconi politico-sociali in agonia. Con la comprensibile stupidità del comunista indipendente accolsi l’avvento del ridicolo Gorby con speranza messianica. Da allora ritengo di aver imparato la lezione. E’ giusto sperare, ma è sbagliato raccontar(si) delle storie. Il motto dei marxisti rimasti in questo 2003 dovrebbe infatti essere: sperare, continuare a sperare, ma senza raccontar(si) delle storie. Lo scenario di questo 2003 è ben diverso da quello del 1938. Oggi siamo in pieno imperialismo militare e neocoloniale, in una situazione di completa assenza del diritto internazionale e di unilateralismo assassino da parte degli americani e dei sionisti. Oggi la sola discriminante seria non è certamente più quella disegnata dalla dicotomia Sinistra/Destra, almeno a mio parere, ma è quella disegnata dalla dicotomia ben più importante Sostenitori dell’Impero/Avversari dell’Impero. A suo tempo, non ricordo in che anno (ma credo intorno al 1920) Lenin scrisse che l’emiro feudale dell’Afganistan poteva essere più “progressista” della socialdemocrazia tedesca. Ed infatti ora siamo nella stessa situazione di allora. Il girotondaro americanizzato è oggi molto peggiore del mullah fondamentalista. Entriamo in un mondo nuovo, e chi continua ad interpretarlo con gli schemi del 1945, del 1968 o del 1983 contribuisce a protrarre la confusione ed a rimandare le necessarie operazioni di riorientamento gestaltico radicale. Chi ritiene di poter parlare di Marx e marxismo senza comprendere bene questo punto è fuori a mio avviso da ogni ipotesi di ricostruzione di una prospettiva anticapitalistica. |
2. L’impossibilità di un “ritorno al vero Marx”
Nel 1983 era già chiaro che un “ritorno a Marx” di tipo salvifico era impossibile, ed era inoltre una parola d’ordine religiosa, come se Marx fosse stato il fondatore di una nuova religione ateo-umanistica e non uno studioso comunista della realtà capitalistica. Ogni “ritorno a Marx” è sempre e solo una interpretazione di Marx storicamente determinata, ed il “marxismo” vive esclusivamente nella forma del conflitto fra formazioni ideologiche marxiste in competizione. Certo, è possibile un serio accertamento filologico di ciò che Marx ha veramente scritto, ma questo prezioso accertamento filologico non risolve il problema della dinamica di sviluppo delle conoscenze e delle azioni intraprese alla luce del pensiero di Marx.
L’ortodossia è qualcosa di impossibile sia sul piano dei contenuti che sul piano del metodo. Sul piano dei contenuti perché è chiaro che il modello astratto (e relativamente costante) del modo di produzione capitalistico si specifica storicamente in società capitalistiche diversissime, e lo stesso Marx nel 2003 non potrebbe dire le stesse cose che ha detto nel 1863. In questo senso i settari fondamentalisti di tipo bordighista sono i più lontani dallo stesso Marx. Ma anche sul piano del metodo è impossibile concordare su quale esattamente sia il “metodo”, e questo non solo per i disaccordi metodologici fra marxisti (metodo anti-hegeliano per Della Volpe e Althusser, metodo filo-hegeliano in Bloch e Lukács, ecc.), ma anche per una ragione ancora più importante, e cioè per il fatto che ad ogni variazione “contenutistica” della società capitalistica deve variare anche il metodo per analizzarla, data la profonda omogeneità fra forma e contenuto.
L’impossibilità di una ortodossia del “vero Marx” non significa però neppure arbitrarietà assoluta nell’interpretazione, per cui, per dirla alla Feyerabend, everything goes, tutto va bene. Non è così. Marx non è una casa arredata in cui si possa andare ad abitare godendoci tutto il mobilio già messo a posto, ma un cantiere in costruzione. Questo cantiere è stato a sua volta costruito per cambiare casa e progettare un insieme di nuove abitazioni, fuor di metafora per non abitare più nel capitalismo ed andare ad abitare nel comunismo. Non è dunque convincente la posizione di chi pensa che la “scienza marxista”, o meglio l’uso dei suoi concetti portanti (modo di produzione, forze produttive, rapporti di produzione, ideologia) possa essere esercitata anche da chi non è comunista, ed accetta cioè l’orizzonte economico, politico e morale del capitalismo.
Non c’è dunque marxismo senza comunismo, anche se ovviamente il problema è sempre “quale marxismo” e “quale comunismo”. Questa può sembrare un’ovvietà, ma non lo è per nulla. Esiste un “marxismo della cattedra” da più di un secolo che vive programmaticamente sulla scissione fra l’applicazione “pura” della teoria marxista (o presunta tale) ed eventuale adesione sentimentale o etica al comunismo. Questo presunto “marxismo” è quasi sempre una forma di scientismo, perché si basa sull’assunto che come si può praticare la stessa fisica e la stessa chimica anche se si è di destra, centro o sinistra, nello stesso modo si può praticare la scienza marxista sia se si è antimperialisti sia se si è favorevoli all’impero globalizzato americano.
Ritorno a Marx vuole allora dire questo: le categorie “scientifiche” che noi usiamo non vengono dal nulla o da una operazione di astrattizzazione priva di intenzionalità politica, sociale ed etica, ma vengono costruite in un contesto teorico condizionato da queste intenzionalità. Traducendo quanto ho appena detto nel linguaggio della storia recente della filosofia occidentale ne risulta che l’impostazione della fenomenologia di Husserl (che tiene conto dell’intenzionalità) è migliore dell’impostazione del positivismo di Comte e dei suoi successori (che non tiene invece volutamente conto della intenzionalità).
Con questo il problema non è certamente risolto, ma almeno è impostato evitando la trappola dell’illusione scientistica che sogna un marxismo che abbia lo stesso statuto epistemologico delle scienze della natura moderne (Galileo) oppure delle scienze sociali moderne avalutative (Max Weber). Il marxismo non può avere né uno statuto di scienza naturale né uno statuto di scienza sociale avalutativa. Solo in questo può consistere un ragionevole ritorno a Marx, e solo da questa consapevolezza possiamo aspettarci una comprensione di fondo della storia conflittuale del marxismo successivo.
3. La necessità di un approccio marxista a 120 anni di storia dei marxismi conflittuali
A quasi 120 anni dalla nascita del primo marxismo storicamente costituitosi (la sintesi sistematica di Engels nello Anti-Dühring) è impressionante, e nello stesso tempo purtroppo rivelatore, la mancanza della consapevolezza per cui anche (e soprattutto) al marxismo deve essere applicato il metodo marxista. Tutti gli psicoanalisti sanno che anche Freud si è fatto psicoanalizzare, e che in ogni caso questo passaggio era forse spiacevole, ma anche necessario. L’approccio ideologico-religioso del marxista medio è invece opposto, e si basa sul presupposto che tutti i fenomeni storici dovrebbero essere esaminati con il metodo marxista, al di fuori del marxismo stesso, cui si applica invece il metodo pretesco e sacerdotale tradizionale, e cioè: da un lato noi, che abbiamo ragione, perché siamo fedeli a Marx, alla classe operaia e proletaria, ecc., dall’altro lato gli altri, che sono via via borghesi, piccolo-borghesi, revisionisti, estremisti, ecc..
Questo approccio è demenziale nel suo settarismo e nella sua produzione di falsa coscienza identitaria. Nello stesso tempo, questo approccio demenziale non potrà mai essere superato, ed infatti fino ad oggi non è stato superato, fino a che si accetterà e si introietterà come dato inevitabile la scissione fra due mondi, il mondo militante del rapporto fra dirigenti politici e base di questi dirigenti ed il mondo intellettuale in cui viene creato una specie di zoo-parco protetto, in cui è possibile elaborare qualsiasi concezione politica, economica e filosofica con il presupposto però che sia del tutto irrilevante per l’unica cosa ritenuta realmente seria, e cioè la Linea Politica delegata a dirigenti professionalizzati ed avallata da militanti identitari e creduloni.
Bisogna comprendere bene perché ogni possibile soluzione è bloccata. Ogni soluzione è bloccata non certo perché gli intellettuali siano a priori migliori dei politici di professione (spesso è anzi vero il contrario), ma perché i dirigenti di professione elaborano una Linea Politica a partire da una Tattica, e mai da una Strategia. Naturalmente, a volte dicono a parole di avere anche una strategia (in breve, l’alleanza di classe di lungo periodo per propiziare una transizione inter-modale fra capitalismo e comunismo), ma questo non è quasi mai vero, per il fatto che il gruppo sociale specifico dei dirigenti politici deve essere anche lui indagato con metodo marxista, e da questo risulta che esso è composto da gente che vive dei privilegi offertigli dal sistema politico (parlamentare, stipendiale, pensionistico, ecc.) di tipo capitalistico. Questo fu studiato per la prima volta da Roberto Michels, ed il fatto che si finga sempre di non conoscere le conclusioni impeccabili cui Michels arrivò è un segno della rimozione, o meglio della falsa coscienza necessaria che regna nel mondo magico-mitico dei marxisti. Gli intellettuali di professione vivono molto spesso di Illusioni, mentre i politici di professione vivono quasi sempre di Tattica. Ciò appare evidente non appena si applica a questi due gruppi sociali il metodo di Marx, per cui l’essere sociale determina la coscienza.
Fatta questa premessa, destinata ad essere inglese e francese per il lettore medio, ma anche essere armeno e turco (cioè incomprensibile) per gli intellettuali e i politici di professione, è bene avere chiaro che quando si parla di marxismo si allude in realtà a tre classi di fenomeni culturali ed ideologici distinti: un evoluzionismo positivistico, un’ideologia identitaria ed una libera pratica culturale anticapitalistica. E’ necessario esaminarli separatamente per non incorrere in confusioni pittoresche.
In quanto evoluzionismo positivistico, sorto fra il 1875 ed il 1890 e poi mai più veramente riformato ma sempre e soltanto aggiornato, il marxismo è una concezione del mondo ormai sorpassata, incorreggibile ed improponibile, e che per poter essere mantenuta nelle sue due intenzioni critiche (anticapitalistica e comunista) deve essere “rivoluzionata”, e non solo riformata o riaggiornata. Nel linguaggio dell’epistemologo Kuhn, che personalmente approvo ed adotto, il marxismo è dentro una crisi scientifica tale che non ne uscirà senza una vera rivoluzione scientifica. Questo evoluzionismo positivistico si basa su tre fondamenti tutti e tre insostenibili: una forma di economicismo (centralità della teoria del valore-lavoro e non dei rapporti sociali complessivi di produzione e riproduzione); una forma di storicismo (grande-narrazione progressista di tipo unilineare, e pertanto eurocentrico allargato a macchia d’olio); una forma di utopismo (e cioè una concezione naturalistica ed organicistica del comunismo, più esattamente una concezione naturalistica dei bisogni ed organicistica del rapporto fra società ed individuo).
Questo evoluzionismo positivistico rifiuta la conoscenza filosofica, unica alternativa dialogica alla religione ed alla ideologia, ritenendola del tutto “assorbita” nella scienza e nella conoscenza scientifica, e connota con la dicitura impropria di “materialismo” (storico e/o dialettico) la somma di economicismo, storicismo ed utopismo. Un simile pasticcio non può più essere solo aggiornato e riformato, ma deve essere radicalmente rivoluzionato. Le speranze di farlo in un tempo ragionevole sono a mio avviso minime, per la triplice resistenza delle comunità universitarie, che vogliono solo specialismi accademici e non un sapere sociale unitario incompatibile con i loro specialismi, dei gruppi dirigenti dei politici di professione, che vogliono un’ideologia identitaria di mobilitazione facilmente spendibile sul mercato politico, ed infine della stragrande maggioranza dei militanti di base, che vogliono mantenere illusioni religiose totalmente false che nutrano però orizzonti a breve termine capaci di dare un senso ai sacrifici della militanza.
In quanto ideologia identitaria di gruppetti di “comunisti” di vario tipo (trotzkisti, maoisti, bordighisti, operaisti, togliattiano-stalinisti, confusionario-eclettico-noglobal-newglobal, ecc.) il marxismo non ha nessun valore conoscitivo, ma solo di bandiera organizzativa. Dal momento che il pesce puzza dalla testa e non dalla coda, e questa metafora acquatica vale anche per il marxismo, è bene ricordare che la responsabilità principale di questa degradazione ideologica ed identitaria del marxismo non va addebitata principalmente ai gruppetti fondamentalisti prima ricordati, che senza paranoia identitaria si scioglierebbero come gelati al sole, ma deve essere ricondotta alla corrente principale del comunismo storico novecentesco, staliniana nel mondo e togliattiana in Italia. Fu questa corrente principale fino dagli anni Venti a trasformare il marxismo in bandiera ideologica identitaria connotando come “nemico del popolo” ogni dissenziente razionale.
In quanto libera pratica culturale anticapitalistica il marxismo ovviamente è vivo, è stato vivo, sarà vivo e non potrà mai morire, almeno fino a quando non sarà sostituito da una sintesi complessiva più convincente. Ne siamo ancora lontani. Chiunque abbia un senso delle proporzioni ed una consapevolezza epistemologica sana sa perfettamente che una somma di critiche, anche convincenti e pertinenti, non fa ancora una teoria migliore. Chi scrive, ad esempio, ne è perfettamente consapevole, e per questo non si illude affatto di essere “oltre Marx”, ma ritiene semplicemente di trovarsi criticamente dentro la prospettiva aperta da Marx e non ancora veramente superata.
4. Una parentesi su Lenin e il leninismo
Nel clima retorico di un generico “ritorno a Marx”, sempre invocato e mai veramente concretizzato, emerge la tendenza a rimuovere completamente Lenin, il cui nome è frettolosamente associato all’intero ciclo fallimentare del comunismo storico novecentesco (1917-1991). Si tratta di uno stupido errore, dal momento che oggi un bilancio equilibrato di Lenin è forse ancora più importante di un bilancio generale di Marx.
Hanno dunque perfettamente ragione coloro che non si stancano di richiamare ad un bilancio storico di Lenin (cfr. Lenin e il Novecento, a cura di Ruggero Giacomini e Domenico Losurdo, La Città del Sole, Napoli 1997). Esso è però reso molto difficile da alcuni pregiudizi pregressi e consolidati, che finiscono con il costituire ostacoli di fatto per ora insormontabili.
Il primo ostacolo sta nel dilettantismo storiografico. A mio avviso la grande rivoluzione russa del 1917, mai abbastanza lodata e rivendicata, si giustifica integralmente da sola some risposta legittima al bagno di sangue del 1914. In quanto risposta legittima al 100% alla guerra di spartizione imperialistica del mondo la rivoluzione del 1917 si autogiustifica, e non ha bisogno di contorsioni ideologiche per autolegittimarsi.
Ma ecco arriva subito l’inutile contorsione ideologica a dire che nell’epoca dell’imperialismo, data la “corruzione” delle aristocrazie operaie pagate con i sovraprofitti imperialistici, le rivoluzioni “proletarie” non possono più partire dai punti alti dello sviluppo capitalistico (come diceva inequivocabilmente Marx), ma devono partire dagli anelli deboli della catena mondiale imperialistica. Si tratta solo di una ideologia di copertura ex post, priva di qualsiasi base scientifica. Essa non “corregge” Marx, ma lo seppellisce, perché senza la teoria della formazione del lavoratore collettivo cooperativo associato alleato con il general intellect nei punti alti dello sviluppo delle forze produttive di Marx resta effettivamente pochissimo. Lo ripeto ancora, con il rischio di essere noioso e sgradevole: la rivoluzione del 1917 si giustifica integralmente da sola su basi russe ed anti-imperialistiche, e non ha bisogno di contorsioni ideologiche ex post, punti alti, anelli deboli, aristocrazie operaie, corruzioni da sovraprofitti, eccetera.
Sgombrate queste contorsioni, la grandezza di Lenin appare maggiore, non minore. Personalmente, tuttavia, ritengo che la sua eredità debba essere per così dire disaggregata e riaggregata in tre parti: una parte da respingere esplicitamente, una parte da problematizzare radicalmente, una parte da accettare e da sviluppare criticamente. Chi invece pensa a Lenin come ad un “pezzo unico” fuso in una sola colata non fa che coltivare un dogmatismo religioso, e ci allontana così da ogni bilancio critico.
La parte di Lenin che deve essere respinta esplicitamente è la sua catastrofica concezione della filosofia come “partiticità”, cioè come filosofia di partito (partjnost’). Si tratta di una integrale riduzione dello spazio filosofico, che è uno spazio di razionalismo dialogico pubblico, in spazio ideologico, che è uno spazio aperto a tutte le illusioni in buona fede ed a tutte le manipolazioni in malafede. Questa riduzione consegna il dibattito filosofico al controllo di cialtroni in giacca di pelle e stivali da mugicco, esattamente come la riduzione dello spazio filosofico a spazio teologico nel Medioevo consegnava il dibattito filosofico ad inquisitori puzzolenti con tenaglie roventi. Lenin fece certo questa riduzione in perfetta buona fede, ma gli alberi si giudicano purtroppo dai loro frutti.
La parte di Lenin che deve essere problematizzata radicalmente è quella sul partito leninista dal Che fare? in poi. Questa forma organizzativa parte sempre con veri e propri apostoli della rivoluzione come Lenin, Gramsci e Mao e finisce regolarmente con ceffi come lo Zhivkov che nel 1990 ammette di aver smesso di credere nel comunismo nel 1953, il Gorbaciov che con aria ebete pubblicizza la pizza Hut ed il D’Alema che con un sorrisino cinico rivendica la guerra del Kosovo seduto accanto all’assassino bombardatore americano Clark. Gli esempi sono migliaia, ed il fatto che vengano costantemente rimossi con la ridicola categoria pretesca del “tradimento” ce la dice lunga sulla volontà di autoinganno dei militanti fideisti ed identitari. Ma la questione del partito leninista merita un’indagine più seria. A mio avviso, si tratta di una questione che rivela una contraddittorietà insanabile. Da un lato, tutta la teoria leniniana del partito prende atto del fatto che la classe operaia e proletaria non può accedere da sola ad una coscienza anticapitalistica globale, ma solo ad una coscienza rivendicativa di tipo salariale. Giusto e sacrosanto, ma anche in opposizione frontale ed in piena discontinuità con la teoria di Marx della formazione di un lavoratore collettivo cooperativo associato alleato con il general intellect, che Marx a suo tempo non collegò mai ad una teoria del partito.
Dall’altro, la teoria leniniana del partito presuppone organicamente come sua premessa la concezione della classe operaia e proletaria come unica classe veramente rivoluzionaria, cioè inter-modale (teoria che peraltro non risale a Marx, e che quindi non è per nulla “ortodossa”). Chi rivendica il modello leniniano di partito, dunque, non può fingere di ignorare anche il suo presupposto. Ma chi accetta il presupposto, però, ha l’onere della spiegazione del perché da un secolo e mezzo la classe operaia e proletaria è sempre regolarmente sconfitta. Il dire che questo è finora sempre avvenuto per una triplice ragione (immaturità, errore e tradimento), ma non avverrà certamente in futuro è però a mio avviso sostituire il metodo di Marx con la teoria della scommessa (pari) di Pascal, in cui semplicemente al posto dell’esistenza di Dio ci sta la rivoluzionarietà della classe operaia.
La parte di Lenin che deve essere sviluppata criticamente sta invece a mio avviso nelle due teorie delle alleanze di classe e della centralità dell’imperialismo. Non bisogna però nasconderci la difficoltà di far passare questi due punti di vista in un ambiente intellettualmente degradato come quello attuale, sia in Italia che in Europa.
La teoria delle alleanze di classe in Lenin deriva dalla sua preliminare scelta teorica, e cioè dal fatto che egli non parte come Marx dai modi di produzione, ma dalle formazioni economico-sociali, miste per loro intrinseca natura. Questa teoria è da noi di difficilissimo accoglimento, per due ragioni schizofrenicamente opposte. In primo luogo, perché l’operaismo da circa quarant’anni ha abituato a concepire il problema del soggetto sociale rivoluzionario non come costruzione culturale e politica di alleanze fra diversi, ma come proletarizzazione a macchia d’olio di soggetti, e quindi come loro omogeneizzazione organica. In secondo luogo, perché il togliattismo per mezzo secolo ha abituato a pensare le alleanze di classe sotto l’erroneo marchio del “keynesismo, prima tappa del socialismo”, e quindi come alleanza della classe operaia (Togliatti, Longo, Berlinguer) con la borghesia di stato (Vanoni, Mattei, Prodi). E dal momento che la somma spregevole di togliattismo e di operaismo fa il 100% della cultura politica italiana realmente esistente è estremamente difficile, per non dire impossibile, propiziare un riorientamento gestaltico soddisfacente sulla questione delle alleanze di classe.
La teoria dell’imperialismo è il gioiello che Lenin ci ha tramandato. A più di ottanta anni di distanza occorre certo riverificare la presenza o meno dei cinque elementi che a suo tempo Lenin indicò come caratteristiche dell’imperialismo, ed anche tener conto del fatto che oggi l’alleanza militare fra l’impero americano, i suoi servi anglosassoni insulari ed i suoi padroni sionisti è fortemente squilibrata rispetto a tutti gli altri centri di potere militari. Ma questa teoria resta nell’essenziale valida, ed ogni sua frettolosa liquidazione appare a un tempo ridicola e fastidiosa. Non penso tanto alla sua liquidazione pomposamente futuristica (cfr. A. Negri-M. Hardt, Impero, Rizzoli, Milano 2002).
Essa è talmente infondata, dilettantistica, settaria e ridicola da autoescludersi da sola. Penso piuttosto al suo accoglimento frettoloso da parte di settori maggioritari del movimento no-global e degli intellettuali-giornalisti che lo fiancheggiano, ed anche da parte del ceto politico professionale di partitini massimalisti privi di orientamento e di serietà teorica (tanto per non fare nomi, del partito della Rifondazione Comunista in Italia). In un momento di sbandamento teorico come questo, ogni frettoloso rifiuto della teoria dell’imperialismo è puro veleno. Questa teoria, infatti, è la sola teoria che l’establishment politicamente corretto integrato nel sistema non può accettare (ogni altra forma di pauperismo gli è invece congeniale e benvenuta), ed appunto per questo il ceto politico che annusa istintivamente questo fatto (come il cane da tartufi, pur essendo analfabeta, annusa il tartufo) si legittima con i suoi alleati moderati mettendo bene in chiaro che con la teoria dell’imperialismo non ha nulla a che fare e che invece persegue un ritorno a Marx al 50% con Wojtyla ed al 50% con Pannella (più esattamente, al 50% con Wojtyla per quanto riguarda il pauperismo terzomondistico, la polemica contro il consumismo e il generico rifiuto della guerra ed al 50% con Pannella per quanto riguarda il costume radicale e l’entusiastica accettazione della cultura della droga).
In sintesi telegrafica, la questione dell’imperialismo è oggi, a 120 anni dalla morte di Marx, di gran lunga la più importante. Nessuna altra questione le può essere seriamente paragonata. Non esiste cartina di tornasole migliore della teoria dell’imperialismo e dello sdegno verso gli omicidi degli assassini americani e sionisti. Il problema, ovviamente, sta nel trasformare questo sdegno impotente in programma politico e culturale di opposizione. Ma qui siamo oltre l’occasione dei 120 anni dalla morte di Marx.
5. Il marxismo e la scienza cento e venti anni dopo la morte di Marx
Ho già chiaramente detto in un paragrafo precedente che è illusorio, fuorviante, menzognero ed insostenibile continuare in modo diretto o indiretto a far credere che il marxismo, comunque lo si voglia formulare e coerentizzare, possa essere una “scienza” nel senso delle scienze naturali moderne (Galileo Galilei) o nel senso delle scienze sociali unificate avalutative (Max Weber). Eppure questo obbrobrio è stato maggioritario nella storia del marxismo teorico, dall’illusione dell’avvenuto passaggio dall’utopia alla scienza di Engels al “comunismo scientifico” del marxismo sovietico, dal “galileismo morale” di Galvano Della Volpe ai ridicoli e fastidiosi tentativi dell’althusserismo universitario (ma non certo di Althusser) di eliminare ogni componente filosofica dalla sguardo marxista sul mondo. Alla fine del paragrafo, proporrò una mia formulazione provvisoria. Prima, però, farò una serie di osservazioni per chiarire al lettore il perché di una certa conclusione.
In primo luogo, è vero che esistono moltissimi studi sul concetto di “scienza” in Marx, ma la maggior parte di questi studi passa sempre a lato di due enormi problemi. Primo, Marx da giovane ha una socializzazione teorica hegeliana, non positivistica, pur rifiutando il “pezzo” più importante e decisivo di Hegel, e cioè il riconoscimento del valore conoscitivo autonomo della conoscenza specificatamente filosofica (senza cui parlare di “hegelismo” è semplicemente ridicolo), eredita pur sempre da Hegel l’idea che la “scienza” deve fondarsi su di un fondamento in qualche misura filosoficamente presupposto, e cioè una certa idea del rapporto fra totalità e verità. Secondo, è vero che Marx non ha mai sistematizzato le sue osservazioni critiche verso la concezione di scienza del positivismo, ma le sue critiche (in particolare a Comte ed a Darwin) sono sempre talmente ripetute, insistenti ed a volte quasi ossessive da non lasciare dubbi sul fatto che egli personalmente respingeva questo modello epistemologico, in cui il “concreto” dell’empirismo si rovesciava sistematicamente nell’“astratto” del razionalismo.
In secondo luogo, non vi sono dubbi che il vero ed unico “fondatore” del marxismo inteso come sistema organicamente coerentizzato (consistent, per usare il corretto termine dell’epistemologia anglosassone), e cioè Engels, non poteva che adottare il modello positivistico (con qualche irrilevante aggiunta di pseudo-dialettica, comunque non “hegeliana”) dominante nel ventennio 1875-95. E questo per il semplice e nudo fatto che il solo committente politico-sociale storicamente interessato ad adottare il “marxismo” (ovviamente nella forma ideologicamente depotenziata dell’evoluzionismo progressistico tranquillizzante sulla sua prossima vittoria), e cioè la classe operaia organizzata della seconda rivoluzione industriale, voleva ed esigeva questa formulazione positivistica, per il semplice fatto che essa era la stessa della borghesia. Dalle caverne ad oggi, per discutere con qualcuno bisogna parlare una stessa lingua. Il modello positivistico di scienza, almeno dal 1875 al 1895, era l’unico modello in cui si fosse disposti a discutere. Quando arriva la cosiddetta “crisi delle scienze”, e cioè solo un decennio dopo, il marxismo aveva già perso il treno e si portò dietro per tutto il Novecento questo penoso modello deterministico, necessitaristico e riduzionistico. I conti sono stati saldati fra il 1989 ed il 1991. Errare è umano, perseverare è diabolico.
In terzo luogo, vi è spesso una penosa incapacità a capire che il concetto di scienza non può essere ricavato né dalle esigenze identitarie di compattamento di microorganizzazioni a dominanza ideologica né tanto meno dalle varie e contrastanti nozioni di “scientificità” elaborate fisiologicamente dalle corporazioni universitarie. Si tratta di un punto cruciale da capire, e finché non lo si è capito non si caverà un ragno dal buco.
Le microorganizzazioni militanti a dominanza ideologica hanno sopra ad ogni altra cosa un’esigenza identitaria di compattamento che impedisca lo scioglimento del gruppo ed il ritorno a vita privata dei suoi membri attivi. Questo vale ovviamente per tutte le possibili varianti (bordighiste, trotzkiste, maoiste, anarchiche, operaiste, neo-staliniste, anti-imperialiste, confusionario no-global, eccetera), e nessuno deve essere tanto presuntuoso da credersene escluso. Fra la verità disincantata e la menzogna edificante sceglieranno sempre (su questo ho un’esperienza personale di quarant’anni, e non intendo rimuoverla per raccontar(mi) delle storie) la menzogna edificante, ed in un certo senso fanno bene. Si tratta di strategie di rimozione notissime, dai coniugi che si sanno traditi ma non vogliono rompere, ai malati gravi che decidono di non cadere nella prostrazione, eccetera. Sia ben chiaro che io non condanno moralisticamente questo atteggiamento, anche perché per me la “verità” in sé e per sé non è il valore etico primario (se devo sceglierne uno sceglierei la giustizia, o la carità). Ma è chiaro che, applicato al marxismo, questo atteggiamento non ci porta fuori dalla crisi.
Le corporazioni universitarie non hanno assolutamente la stessa nozione di scientificità, ma fanno come se la propria nozione specialistica fosse la sola e l’unica esistente. A proposito del marxismo, faccio qui brevemente l’esempio delle tre corporazioni universitarie degli economisti, dei filosofi e dei sociologi. Per la corporazione universitaria degli economisti il punto “scientifico” fondamentale del marxismo è la correttezza o meno della cosiddetta trasformazione dei valori di scambio fondati sul lavoro in prezzi di produzione, laddove per i filosofi ed i sociologi questa trasformazione è quasi del tutto priva di interesse, anche se a volte fingono una cortese disattenzione. Per la corporazione universitaria dei filosofi le questioni fondamentali sono l’applicabilità o meno della categoria giovane-marxiana di alienazione oppure la differenza fra contraddizione dialettica (A-non A) ed opposizione reale (A-B), laddove per i sociologi e gli economisti tutto questo è chiacchiera insensata per chi non ha nulla di meglio da fare. Per la corporazione universitaria dei sociologi la questione scientifica fondamentale è la possibilità di conciliare o meno lo schema dicotomico rigido del modello classistico marxista (Borghesia versus Proletariato, e stop) con tutta la ricca stratificazione strutturale e funzionale e la sua dinamica ascendente e discendente, laddove gli economisti ed i filosofi vi gettano sempre al massimo uno sguardo distratto di cortesia, ma non se ne sentono realmente interpellati. Tutto questo era già tragicomico un tempo, ma oggi con la mania dei workshops, cioè dello spezzettamento del dibattito in gruppi di specialismi incomunicanti, si è giunti a livelli che Borges e Kafka non avrebbero mai immaginato.
E allora, qual’è lo statuto del marxismo? Il lettore non deve certo illudersi che io lo sappia e glielo dica. Se pensa veramente questo si vede che non ha la minima percezione della gravità della crisi in cui il marxismo è caduto, e da cui non potremo risollevarci se non nell’arco di decenni (come minimo) e con un dibattito collettivo su scala mondiale (da non confondere con il turismo politico presenzialistico dei no-global professionali, i cui viaggi sono pagati da ONG di dubbio finanziamento). Tuttavia, per non sembrare ipocrita ed opportunista, dirò egualmente la mia opinione.
Il marxismo potrà ricostituirsi come una forma di sapere sociale dotato di due dimensioni, e cioè la conoscenza e l’interpretazione. Queste due dimensioni sono legate insieme organicamente, possono essere distinte solo con un procedimento temporaneo di astrattizzazione intellettuale, e non consentono dunque né la soluzione matematico-sperimentale di Galileo Galilei né la soluzione avalutativa-idealtipica di Max Weber. L’elemento conoscitivo si basa sull’applicazione al concreto reale dell’apparato concettuale marxiano originario (modo di produzione, forze produttive, rapporti di produzione, ideologia) e delle sue aggiunte posteriori (imperialismo, formazione economico-sociale, bilancio delle cause strutturali del fallimento del comunismo storico novecentesco 1917-1991, eccetera). L’elemento interpretativo, impossibile da ridurre a ricaduta epistemologica o ideologica dell’elemento scientifico preventivamente assolutizzato, consiste in una visione del mondo di tipo “comunista”, e cioè in una sorta di intuizione del mondo, di per sé assolutamente non scientifica, che respinge la totalità riproduttiva del modo di produzione capitalistico su basi inevitabilmente morali, etiche, estetiche (che anzi giocano a mio avviso un ruolo primario), umanistiche, eccetera. Ogni critica all’umanesimo, in proposito, assomiglia alla scelta di chi, per aumentare la propria virilità, si autoinfligge una rasoiata sui coglioni.
Abbiamo sopportato per decenni la diffusione di idiozie intollerabili, che nessun altra comunità avrebbe mai sopportato. Ci vuole un’inversione di tendenza. Se puoi qualcuno mi vuole chiedere in privato se sono ottimista risponderò in modo telegrafico: assolutamente no. Ci vorrà gente nuova, giovani, nuove generazioni, eccetera. E senza nessuna garanzia. Ci vorrà molto più di Giorgio Gaber, e molto meno di Dario Fo.
6. Il marxismo e la filosofia cento e venti anni dopo la morte di Marx
Da più di un secolo il problema del rapporto fra il marxismo e la filosofia è intorbidato da un pessimo approccio preliminare, che lo riduce sempre di fatto al rapporto fra la dialettica in Marx e la dialettica di Hegel, che Marx avrebbe in qualche modo rovesciato e messo sui piedi. Questo approccio è doppiamente demenziale, perché da un lato riduce di fatto Hegel ad un idiota, che a suo tempo pensava che il mondo andasse avanti sulle idee (assimilate ad opinioni) ignorando che prima di opinare gli uomini dovessero mangiare, bere e vestirsi, e dall’altro sembra ridurre lo stesso contributo innovatore di Marx a questa trionfale scoperta dell’acqua calda.
Vergogna. Vergogna. La questione, in realtà, sta solo al 20% nel rapporto fra Marx e Hegel (o Feuerbach, eccetera). Il rimanente 80%, e mi tengo basso sulla percentuale, sta esclusivamente nel fatto se noi riteniamo oppure no che esista una specifica conoscenza filosofica di tipo veritativo, distinta e non coincidente con la conoscenza scientifica, o se noi invece riteniamo che scienza e conoscenza siano sinonimi, perché tutto ciò che può essere in via di principio conosciuto deve essere conosciuto scientificamente.
Filologicamente parlando, è possibile affermare che i fondatori del marxismo, e cioè Marx ed Engels, indipendentemente dal fatto rilevato nel precedente paragrafo per cui Marx non aveva una concezione positivistica di scienza, non credevano più, o non avevano mai creduto, in una specifica conoscenza filosofica di tipo veritativo. Marx lascia perdere la filosofia dopo il 1846, non ne parla più, e la considera di fatto integralmente riassorbita nella critica dell’economia politica, a sua volta fondata sulla teoria storica dei modi di produzione. Engels invece di filosofia ne parla a lungo, ma per ucciderla meglio, e cioè per ridurla a concezione del mondo di tipo ideologico-identitario ed a inutile scienza del ragionamento logico in generale.
Da questa impasse, che dura da più di un secolo, se ne esce a mio avviso solo in modo radicale. Dicendo cioè, apertamente, che Marx ed Engels sbagliavano, bisogna ammetterlo apertamente, e cambiare strada. Ogni mezza misura di tipo filologico non porta ormai a niente. Questo provocherà urla scomposte nei dogmatici, sorrisini di scherno negli althusseriani universitari, borbottii e vari borborigmi nei dilettanti, eccetera. Ma è un prezzo da pagare, e bisogna pagarlo.
E’ infatti necessario dire apertamente, senza vergognarsene come di un inconfessabile peccato piccolo-borghese o idealista, che bisogna ispirarsi alla concezione della filosofia degli antichi greci. Atene, non Gerusalemme. Atene significa la verità come oggetto di un pacifico agone dialogico veritativo, Gerusalemme significa la verità come rivelazione divina che si tratta sempre e solo di chiosare interminabilmente cercandone l’impossibile (ed illusoria) vera interpretazione. Non si tratta dunque di tornare a Hegel. Questa sarebbe solo una mezza misura opportunistica. Si tratta di tornare ai greci. Un riorientamento mentale cui oggi i marxisti non sono assolutamente preparati, rincoglioniti come sono da un secolo di diffamazione sistematica della filosofia, sempre ridotta a religione per colti, ad epistemologia sussidiaria per scienziati, ad ideologia per militanti e militonti.
Certo, alcuni possibili equivoci devono essere chiariti subito. Primo, non si tratta di un ritorno ad una scuola filosofica greca particolare (platonismo, aristotelismo, epicuerismo, stoicismo, eccetera), ma di un ritorno ad un modo unitario di fare filosofia, il mettere in mezzo (es meson) la ragione umana (logos) attraverso un dialogo (dia-logos), solo modo di ottenere la concordia (omonia) e l’equilibrio (isorropia) non solo dei propri cittadini (polites), ma di tutti i cittadini del mondo (cosmopolites). Secondo, non si tratta di rinunciare alle conquiste irreversibili del pensiero moderno da Spinoza a Hegel a Marx, dalla storicità dello sviluppo umano alla teoria dei modi di produzione, eccetera, conquiste in buona parte ignote ai greci antichi, ma di riportare queste conquiste nel loro giusto ambito, che è quello dialogico e razionale.
Incompatibili con questo programma minimo sono le due concezioni egemoni fra i marxisti, e cioè le due concezioni che riducono rispettivamente lo spazio filosofico a spazio epistemologico ed a spazio ideologico. Per decenni si ha avuto troppa pazienza verso questi due riduzionismi. Ma oggi essi ci soffocano, e bisogna liberarsene in piena convinzione.
La riduzione dello spazio filosofico a spazio epistemologico ha una lunga storia, da Engels a Althusser. Proposta sicuramente in buona fede e con ottime intenzioni, ha mostrato a poco a poco il proprio incosciente nichilismo ontologico ed assiologico. Prendiamo ad esempio il caso della clonazione umana. Personalmente, ritengo che essa debba essere considerata un crimine contro l’umanità, e che i suoi praticanti debbano essere incarcerati (in proposito, condivido gli argomenti del medico francese Israel Nisand, in “La Stampa”, 3-1-03). Ma questa è solo una mia opinione personale. Ho fatto questo esempio solo per far capire che senza una riflessione filosofica non si può arrivare ad una valutazione di questa novità tecnologica, per il semplice fatto, noto ai bambini ma non agli althusseriani universitari, che la pratica scientifica non può strutturalmente interrogarsi sui propri presupposti e sulle proprie conseguenze. A suo tempo Gunther Anders lo ha chiarito in modo quasi insuperabile. Ciò che vale per l’ingegneria genetica vale ovviamente anche per il marxismo, che senza uno spazio filosofico veritativo è sordo, cieco e muto con gli altri e con se stesso. Detto questo, non ritengo oggi questo riduzionismo veramente pericoloso, perché so bene che è limitato a piccolissimi gruppi di epistemologi maniaci del tutto autoreferenziali.
La vera peste è invece la riduzione dello spazio filosofico a spazio ideologico. Le sue colpe le ha ovviamente anche Lenin, di cui ho già ricordato il carattere catastrofico della teoria della “partiticità della filosofia”. Ma sono passati ormai più di ottant’anni, e Lenin conviene lasciarlo stare. Un movimento culturalmente sano può fare anche gravi errori, inevitabili nel processo contraddittorio della autocorrezione scientifica, ma ciò che scandalizza è la stabile incapacità di superarli in un tempo ragionevole. Ad esempio, credere di poter superare la religione con un’ideologia, cioè con una forma instabile e degradata di religione, è un tale abbaglio, una tale sciocchezza che viene da chiedersi come è stata possibile.
Non riuscirò mai ad esprimermi su questo punto in modo sufficientemente duro. Nello stesso tempo, non credo affatto che la forma ideologica delle rappresentazioni umane sia eliminabile, e possa essere in un futuro integralmente sostituita dalle due forme trasparenti di coscienza scientifica e filosofica. Così come il corpo umano si esprime anche attraverso le malattie, che rivelano la sua strutturale ed ineliminabile finitezza e temporalità, nello stesso modo la conoscenza umana esprime la sua strutturale finitezza con l’illusione ideologica, che proietta l’elemento immaginario della nostra coscienza fissandolo di tanto in tanto nell’elemento simbolico. Non si tratta allora di “eliminare l’ideologia”, ma di riconoscerla come momento necessario e nello stesso tempo del tutto instabile ed insufficiente. Il movimento del comunismo storico novecentesco (1917-1991) non poteva strutturalmente esercitare questa autoanalisi necessaria, perché era nato sulla base di una falsa coscienza che erigeva la propria particolarità inevitabile in universalità fittizia. Se dunque vogliamo che il comunismo possa avere una “seconda stagione”, e siamo consapevoli del fatto che non potrà mai averla riproponendo le vecchie forme ideologiche (ma il 95% dei comunisti oggi ancora empiricamente esistenti sono lontanissimi da questa comprensione elementare e preliminare, e quindi la situazione è tragica), dobbiamo giungere alla consapevolezza del fatto che non si può più continuare come prima.
Questo è dunque il nodo essenziale. Basta con l’illusione di essere già in possesso di una “scienza” alla Galileo Galilei o alla Max Weber. Questa scienza nessuno l’ha mai vista, tanto è vero che i burocrati l’hanno sempre oscenamente piegata alle loro convulsioni tattiche. Basta con la riduzione dello spazio filosofico, veritativo e conoscitivo, all’ideologia. Su questa due cose non si possono più fare sconti.
7. La questione del capitalismo cento e venti anni dopo la morte di Marx
Può sembrare vagamente ridicolo ricordarlo qui, ma è chiaro che la vera ed unica ragione d’essere per la sopravvivenza dei marxisti è la lotta per il superamento del capitalismo. Ora, si ammetterà che per poter superare il capitalismo bisogna prima conoscerne con esattezza i meccanismi riproduttivi, in ciò che hanno di forte e di debole. Qui la situazione è appunto particolarmente disperata, anche se comunque non è mai seria.
In Marx non c’è praticamente mai la parola “capitalismo”, che nasce ai primi del Novecento (Sombart, ecc.). Marx infatti non intendeva essere un analista della società capitalista, anche perché sapeva che di queste “società” ce ne erano già parecchie decine (ed ora sono parecchie centinaia). Egli intendeva essere, ed è effettivamente stato, il costruttore di un modello teorico astratto, il modello del modo di produzione capitalistico, un modello che in quanto tale non esiste da nessuna parte del mondo e certamente non esisterà mai. In nessuna parte del mondo, infatti, vi è stata e vi sarà mai una società divisa in due classi esclusive, la Borghesia ed il Proletariato, in cui si sviluppa un meccanismo automatico di aumento della composizione organica del capitale e di proletarizzazione progressiva dei ceti medi. Questo modello astratto, che pure è indispensabile, deve sempre essere “incrociato” con la conoscenza delle concrete società capitalistiche.
Ed è appunto questo che i marxisti non fanno mai. E non lo fanno mai, perché confondono il riduzionismo economicistico e l’approccio sindacalistico ai problemi sociali con la fedeltà allo sguardo “strutturale” del vecchio Marx e dei suoi primi seguaci. La conseguenza di questa miseria metodologica è stata la seguente, che praticamente tutte le scoperte sul funzionamento reale della società capitalistica sono state fatte fuori dalla sfera politica ed organizzativa dei gruppi e delle correnti che si autodichiaravano “marxiste” (senza peraltro esserlo). La scuola di Francoforte ed il movimento situazionista francese, due correnti del tutto estranee ed esterne al movimento operaio organizzato, hanno analizzato quelle “sovrastrutture” ideologiche collettive senza le quali non può esistere la riproduzione sociale. C’è voluto un sociologo americano liberale, Benjamin Barber, per chiarire ciò che è peraltro evidente ad occhio nudo, e cioè che vi sono oggi purtroppo due modelli culturali contrapposti nel mondo, il Mc World e la Jihad, e cioè l’orribile modello americanizzato dei Mc Donald e l’orribile contromodello del suicidio religioso. E potremmo continuare a lungo.
A cento e venti anni dalla morte di Marx siamo di fronte ad un curioso ed istruttivo paradosso, che cerco qui di sintetizzare. Da un lato, l’odierna società capitalistica (ridotta ad una “media“ mondiale, più o meno come fa con i prezzi l’ISTAT) è diversissima da quella che c’era ai tempi di Marx, e di fatto pressoché irriconoscibile. Dall’altro, in modo solo apparentemente contraddittorio, il modello astratto di modo di produzione capitalistico marxiano è applicabile oggi in modo molto maggiore di allora. Riuscire ad impostare correttamente questo paradosso significa partire con il piede giusto. Vediamo allora le due cose separatamente.
La società capitalistica contemporanea (ammesso che questo termine geograficamente “unificato” abbia un senso) è diversissima da quella che c’era ai tempi di Marx. Non si tratta solo della sua “mondializzazione”, anche se ovviamente quest’ultima è importante. Si tratta del fatto, per essere provocatoriamente e scandalosamente chiari, che oggi il destino della classe operaia di fabbrica e dei gruppi sociali ad essa variamente assimilabili, sembra essere lo stesso della classe contadina un secolo fa, e cioè un destino non certo di “sparizione” (chi parla di “fine” della classe operaia è uno sciocco storico e sociologico), ma di diminuzione graduale di peso strutturale e politico.
Non bisogna infatti confondere la “salarializzazione” (che è in aumento statistico mondiale) con la “proletarizzazione”, termine che rimanda ad una sorta di omogeneizzazione sociale, che invece non si verifica per nulla, mentre le odierne stratificazioni si sviluppano in modo assolutamente imprevisto dai fondatori e dai classici del marxismo. Negli anni Venti Antonio Gramsci era pienamente giustificato nella sua impostazione “egemonica”, in cui i valori produttivi ed organizzativi della classe operaia erano messi alla base della sua legittimazione rivoluzionaria globale, ma oggi questa impostazione non può essere seriamente rilanciata, ed il continuare a farlo in modo rituale rimanda soltanto la rivoluzione teorica dentro il marxismo che siamo chiamati a propiziare. Come i contadini cento anni fa, gli operai sono oggi una classe in declino storico. O i marxisti ne prendono atto e si liberano di un tabù un tempo tragico ed oggi solo ridicolo oppure noi continuiamo a perdere tempo ed a raccontarci delle storie, e fra trent’anni saremo qui a dirci ancora le stesse cose nell’anniversario dei cento e cinquanta anni dalla morte di Marx.
Il modello marxiano di modo di produzione capitalistico, invece, presenta una attualità che deve essere compresa nei suoi termini esatti. Da un lato, questo modello ipotizza un processo di progressiva socializzazione delle forze produttive che non si è affatto verificato, e cioè la formazione di un lavoratore collettivo cooperativo associato, che per Marx era l’unico presupposto scientifico del comunismo da lui apertamente segnalato. In proposito, nessuno è ancora riuscito a fornire una spiegazione veramente soddisfacente di questo fatto (o meglio, non-fatto), ma a mio avviso l’ipotesi migliore resta quella di Gianfranco La Grassa, per cui l’ipotesi di Marx sarebbe stata corretta se si fosse basata sulla generalizzazione della nozione di fabbrica, mentre non lo è più se è basata sulla nozione di impresa, che non è affatto semplicemente l’addizione di più fabbriche. Non a caso, la corrente operaista nelle sue varie metamorfosi successive, basandosi proprio sulla nozione di fabbrica (e di conseguenza sulla confusione fra fabbrica ed impresa), considera questa socializzazione “virtuosa” già avvenuta, ed infatti (stra)parla di moltitudini desideranti già in grado di socializzare in modo anarchico-consumistico le ricchezze dell’impero deterritorializzato. E’ proprio vero che nessuno impara mai niente, e che la vanità e l’ostinazione rendono ciechi e sordi.
Dall’altro lato, però, il modello marxiano ipotizza una cosa che si è verificata, e cioè la generalizzazione e l’approfondimento della merce capitalistica. Dico merce capitalistica, e non semplicemente merce, perché si tratta di merce che non viene prodotta in un (inesistente) sistema mercantile semplice, che è l’ipotesi (inesistente) di partenza di tutta l’economia politica, ma è una merce che viene prodotta in un contesto di crescente spossamento dei produttori diretti di tipo artigiano (nel linguaggio di Marx, di un aumento della sottomissione reale dei produttori). La manipolazione televisiva e l’ingegneria genetica rappresentano i due elementi dominanti di questa mercificazione totalitaria che non potevano ancora essere visibili a Marx. La manipolazione televisiva mercifica l’immaginario umano, distruggendo le precedenti culture (borghesi, contadine, operaie, eccetera), mentre l’ingegneria genetica, il cui stadio supremo è la clonazione umana, intende mercificare la stessa riproduzione della vita umana. Si tratta di un vero “capitalismo totalitario”, e solo l’uso della nozione di Marx permette di capirlo veramente al di là delle retoriche pauperistiche.
8. La questione del comunismo cento e venti anni dopo la morte di Marx
Nella tradizione marxista il comunismo è stato sempre evocato in modo volutamente confuso, con la scusa che lo stesso Marx non ne voleva parlare, per non “scrivere ricette per le osterie del futuro”. Al massimo, si evocava o un generico (e demenziale) movimentismo, il famoso “movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti”, oppure una prescrizione vuota ed indeterminata, “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, senza peraltro mai chiarire di quali “bisogni” si stesse parlando, al di fuori di quelli detti “naturali” (e cioè riprodursi).
In questa voluta genericità potevano poi regnare i più terribili arbitri burocratici. Lo ripeto, questa genericità non è mai stata un sobrio rifiuto della vecchia abitudine utopistica di prescrivere maniacalmente le forme di convivenza, o quanto meno non è mai stato questo l’aspetto principale, ma è sempre stata la corazza ideologica del dispotismo di ceti politici cinici e nichilisti. Messo “alla fine della storia”, il comunismo è sempre stato l’equivalente ateo dell’aldilà cristiano, senza peraltro avere neppure la scusante di quest’ultimo, e cioè quella di essere rivelato. Chi si appella ad una razionalità, e poi non l’applica a se stesso, è mille volte peggiore di chi non fa neppure finta di farlo, e si appella al figlio di Dio incarnatosi e nato da una vergine ebrea del tempo di Augusto. Costui, almeno, non si nasconde dietro alla cosiddetta “scienza”.
La cosa migliore è invertire l’approccio abituale, e risalire alla genesi storica occidentale della nozione di “comunismo” (non parlo qui di India, Cina, eccetera). Il comunismo è un comunità di compagni, nel senso di persone che spezzano il pane insieme (cum-pane). La matrice storica e simbolica del comunismo occidentale è stata la mensa comune dei primi cristiani, sull’esempio di Gesù e dei suoi apostoli, che cenavano sempre insieme (e non solo nella famosa “ultima cena” leonardesca). La mensa comune era soltanto il momento culminante della “vita comune” (koinovion), che era già un collaudatissimo modello delle culture precedenti, modello che ad esempio l’epicureismo aveva sempre consigliato. Il comunismo è dunque una comunità che vive una vita comune, il cui momento culminante è la mensa comune dei compagni (in greco antico e moderno syn-trofoi, coloro che si nutrono insieme).
Riflettiamo. Il marxismo tradizionale in proposito dice che questo comunismo metteva in comune solo il consumo e non la produzione, per il semplice fatto che nelle condizioni tecnologiche del tempo, in assenza della produzione meccanizzata di massa moderna, ed in presenza della piccola produzione artigianale ed agricola, il comunismo era pensabile e praticabile solo come comunismo del consumo, e non come comunismo della produzione.
Giustissimo, ma anche insufficiente, se riflettiamo sul fatto che il comunismo continua ad essere simbolicamente connotato come società amicale di compagni e non di colleghi, cioè di persone con cui si mangia in comune, e non con cui si lavora in comune. Questo dettaglio etimologico rivelatore, se sappiamo leggerlo spregiudicatamente, ci rivela che di per sé la semplice comunità produttiva di lavoro non è ritenuta sufficiente per fondare un nuovo legame sociale, ma che ci vuole proprio il rimando all’antica vita comune, che trovava nell’amicizia e nella fraternità comune la solida base della stabile aggregazione. Vorrei che il lettore riflettesse bene su questa questione del comunismo come “mensa comune”, perché da essa trarrò subito spunto per due ordini di osservazioni.
In primo luogo, questi primi comunisti non mettevano in comune tutto, ma solo il momento comunitario della mensa comune. Molto sobrio, molto intelligente e molto giusto. Al di fuori della mensa comune c’erano poi altre sfere della vita che non si mettevano affatto in comune, come ad esempio la vita familiare. Nessuna sciocchezza sull’abolizione della famiglia, irrefrenabile desiderio della cultura radicale (nel senso di Pannella-Bonino, non di Marx). Nessun mito della trasparenza assoluta dei comportamenti, sogno totalitario del controllo totale fatto passare per fraterna comunità organica. La mensa comune permette la vita di tutti, ma si ferma prima di quell’utopia negativa dell’irreggimentazione comune che resterà sempre il principale (e giustificato) argomento contro il comunismo.
In secondo luogo, la mensa comune (il simposio greco, il convito latino) presuppone se non proprio la fraternità, almeno l’amicizia (filia) dei partecipanti. Il comunismo, infatti, può essere definito secondo due coordinate fondamentali: una società di amici, che si dicono (o cercano di dirsi) la verità, una verità che ovviamente non può essere una Cosa eterna staccata dal mondo ed autosufficiente come il Dio di Aristotele e l’Essere di Parmenide (e di Severino). Ma chiunque abbia frequentato nel Novecento i gruppi che si dicono “comunisti” può testimoniare che vi regna sempre la massima potenziale inimicizia ed antipatia reciproca, non solo fra i ridicoli capi-politicanti divisi da antagonismi elettorali ma anche fra i membri subalterni delle cordate concorrenti. Questa litigiosità ed inimicizia dei comunisti non è mai casuale, ma è un segnale di un deficit antropologico specifico, che rimanda a sua volta alla fragilità della propria teoria di riferimento, una mescolanza instabile di pauperismo e di sindacalismo, su cui non è possibile costruire nessuna egemonia.
9. Alcune considerazioni conclusive ed una modesta proposta senza illusioni
In chiusura di questo contributo ribadisco che gli anniversari sono sempre date artificiali ed estrinseche, da cui non è mai possibile aspettarsi qualcosa. Ma essi restano delle occasioni, e siamo oggi “conciati” talmente male da non poterci permettere di perdere nessuna occasione, neppure la più piccola e la più artificiale. Termino dunque con una modesta proposta, avanzata peraltro senza nessuna illusione.
Sarebbe opportuno che entro la fine di questo 2003 i marxisti italiani, o quanto meno coloro che si occupano seriamente degli studi marxisti, riescano ad autoconvocarsi, o a cercare almeno momenti parziali di autoconvocazione. Un simile progetto dovrebbe escludere sia l’autoconvocazione accademica (e cioè mega convegni workshops di specialisti murati nella propria specializzazione) sia soprattutto l’autoconvocazione gruppistico-militante (riservata cioè ai propri parrocchiani fedeli, DS, PDCI, PRC, correnti varie più o meno ufficiali, ecc.). L’autoconvocazione dovrebbe essere aperta a tutti, con la sola precauzione di non lasciare troppo spazio a fanatici fondamentalisti che non intenderebbero comunque entrare nel merito teorico di posizioni diverse dalle loro, e si limiterebbero a sbavare veleni ringhiosi contro gli eretici, i piccolo-borghesi, ecc. Con costoro, calci nel sedere. Con tutti gli altri, indipendentemente dal fatto che votino o non votino, che credano nel correntone o in Cofferati (e non è certo il mio caso), che credano in Rifondazione variante partitica o variante movimentistica, che credano nella teoria del valore oppure no, ecc., porte aperte. Le porte devono sempre essere aperte a chi accetta il terreno del confronto dialogico razionale.
Si tratterebbe solo di verificare lo “stato dell’arte” a 120 anni dalla morte di Marx. Naturalmente, non mi aspetto nulla di veramente importante. So bene che i salti in avanti (o all’indietro) dei paradigmi teorici non possono avvenire per autoconvocazione, così come il barone di Munchausen non può salire in cielo tirandosi su da solo con il proprio codino. Non sono tanto ingenuo. Si tratterebbe soltanto di una “mossa” simbolica, caratterizzata dal rifiuto di essere “convocati” da consorterie universitarie e/o da ceti politici interessati all’immagine.
Apro qui una piccola parentesi personale, anche se è sempre antipatico parlare di sé. Dicono che i filosofi hanno la testa nelle nuvole, ma nel mio caso ho semmai il difetto opposto, quello cioè di avere talmente i piedi per terra da non nutrire più nessuna illusione. Personalmente, non mi faccio nessuna illusione sulla accettazione anche solo parziale delle proposte che sviluppo ormai da un ventennio, ed infatti non è questo il mio scopo, palese o recondito. Sono perfettamente cosciente del fatto che la parte fondamentale delle mie proposte (superamento esplicito ed integrale della dicotomia Destra/Sinistra, accettazione della questione nazionale in modo non solo strumentale ma radicale, abbandono della teoria della capacità rivoluzionaria inter-modale della classe operaia e proletaria, rifiuto di identificazione della spazio filosofico con lo spazio ideologico classista, ecc., ecc.) non può essere accettata, e certamente non lo sarà. Ritengo che l’etica del teorico e del ricercatore debba essere la separazione più netta fra ciò in cui si crede e ciò che può “passare” attraverso il doppio insuperabile filtro del cinismo dei dirigenti e della credulità dei militanti. Cercare popolarità, lisciando il pelo alle platee, è la negazione più radicale dell’etica del teorico e del ricercatore. Dunque, sia ben chiaro che non mi aspetto nulla per me, e questo non solo dagli avversari, ma anche dai (pochissimi) estimatori, che comunque si fermeranno sempre davanti al muro invisibile del senso comune di sinistra politicamente corretto.
Chiusa questa parentesi, e chiarito che non mi aspetto assolutamente nulla di personale, ritengo che sia comunque opportuno proporre una autoconvocazione di studiosi di marxismo, con l’unica condizione del rispetto dell’etica della comunicazione razionale argomentata. Ne verrà fuori certamente pochissimo, ma almeno sarà stato fatto un gesto simbolico contro l’autoreferenzialità e contro quelli che al posto del dibattito concepiscono soltanto o insulti rabbiosi o sorrisini di scherno. Tentar non nuoce. Abbiamo da perdere soltanto non le nostre catene, ma la nostra autoreferenzialità.