Libertà come illusione nella cultura decadente

gen 28th, 2020 | Di | Categoria: Cultura e società

Libertà come illusione nella cultura decadente

Libertà come illusione nella cultura decadente

Sono cresciute negli ultimi anni tesi a sostegno del determinismo e dell’illusorietà del libero arbitrio, supportate da recenti scoperte delle neuroscienze. Vero avanzamento del pensiero scientifico e filosofico o ideologia funzionale al mantenimento dello status quo?

In un interessante testo del 2016 [1], Andrea Lavazza, studioso di filosofia morale e di filosofia delle neuroscienze, ci offre un quadro dell’attuale dibattito inerente ad uno degli argomenti da alcuni anni più discussi, che si candida ad essere tra gli snodi più importanti della riflessione filosofica, in virtù delle sue ricadute sull’esistenza. Si tratta dell’alternativa tra la nozione di determinismo, nelle sue diverse articolazioni, e quella di libero arbitrio [2], questione che ha segnato la storia del pensiero sin dall’antichità, almeno a partire da Democrito.

La prospettiva deterministica radicale, quale in particolare quella ottocentesca, fonda il divenire delle cose e del mondo – esseri viventi e uomo compresi – su un rapporto di causa/effetto basato su leggi naturali immutabili. Tale concezione è incompatibile con il libero arbitrio, in quanto quest’ultimo presuppone uno spazio di imprevedibilità, su cui interviene la libera volontà dell’individuo che decide di agire in un senso o nell’altro. L’idea che ogni evento abbia una causa fisica preclude la possibilità di una causazione prodotta dalle facoltà mentali, cioè di nuove catene causali che non siano predeterminate dagli eventi del passato. Dunque in tale concezione gli atti mentali non causerebbero mai eventi fisici e la libertà di azione della persona sarebbe illusoria. L’uomo può solo “immaginare” di essere libero, come una pietra in caduta che prende coscienza del moto e scambia tale coscienza con la causa del movimento, affermava Spinoza nel XVII secolo in una celebre metafora. Appartiene proprio a questa tradizione di pensiero la celebre affermazione di Laplace nel Saggio sulle probabilità del 1814 secondo cui un’intelligenza che conoscesse tutte le forze da cui è animata la natura, nonché la posizione rispettiva di tutta la materia, compresi gli esseri viventi, potrebbe avere, in linea di principio, completa e certa conoscenza di tutti gli accadimenti futuri.

Questa visione è stata in buona parte superata anche all’interno dello stesso positivismo, a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo, in conseguenza degli straordinari avanzamenti della scienza: la teoria darwiniana della selezione naturale alla base dell’evoluzione delle specie viventi e, nel campo della fisica, l’abbandono del modello meccanicistico cartesiano a seguito dell’avvento della meccanica quantistica, con le leggi probabilistiche e il dominio del caso (si pensi al principio di indeterminazione di Heisenberg), hanno profondamente rivoluzionato il modo di pensare, rendendo datata la precedente posizione rigidamente deterministica.

Secondo Lavazza, nella cultura occidentale, nell’ambito delle tre grandi religioni monoteiste, pur con qualche eccezione, avrebbe prevalso la credenza nella libertà di agire da parte dell’uomo. Ma in realtà il rapporto tra libertà umana e determinismo è stato sempre un tema lungamente dibattuto e fonte di accese polemiche. Si pensi al rapporto tra la libertà umana e la grazia divina (l’opposizione tra il pensiero di Agostino e quello di Tommaso d’Aquino), al meccanicismo positivistico del ‘700 e dell‘800 da una parte e al Kant della Critica della Ragion Pratica o allo Hegel della Fenomenologia dello Spirito dall’altra, nei quali predomina invece la difesa della libertà umana. Il dibattito è proseguito nel XX secolo, in particolare con la contrapposizione tra la libertà come scelta di ciò che preferiamo (come nel pragmatismo) e la libertà che implica la capacità di scegliere anche in contrasto con le proprie preferenze, senza essere univocamente determinati dal proprio carattere e dalle circostanze (come nell’esistenzialismo sartriano). Al giorno d’oggi tuttavia sembra che il senso comune prevalentemente conservi la fiducia nel libero arbitrio e tenda a scontrarsi con le ipotesi secondo cui noi in realtà non saremmo liberi.

È opportuno accennare al fatto che questo argomento si collega – senza però ridursi ad esso – al problema del dualismo tra mente e cervello, ovvero a quello tra spirito e materia della tradizione filosofica. In particolare, nel campo della ricerca nelle neuroscienze, si sta tentando di studiare in che modo il pensiero cosciente possa tradursi in modifiche biofisiche (attivazione di potenziali di azione di natura elettrica in determinate reti neurali). Ad oggi il problema rimane aperto. Vale la pena ricordare il dualismo anima-corpo in Cartesio, in cui, nella versione più radicale, il cartesiano e religioso Malebranche per risolvere l’antinomia fa ricorso alla dottrina mistica dell’occasionalismo [3]. Superare questo dualismo senza appiattire il pensiero alla materia o la materia allo spirito è un tema affrontato da Lukacs nell’Ontologia dell’Essere Sociale, mediante il ricorso alle categorie del lavoro e della prassi, le quali implicano il rapporto uomo-natura e uomo-uomo.

Nonostante quanto si è detto, negli ultimi anni il filone del pensiero deterministico ha ripreso vigore nella riflessione scientifica e filosofica, fino a prevalere in alcuni settori delle neuroscienze e della filosofia morale. Alcuni esperimenti divulgati recentemente dai mass-media – che hanno utilizzato le nuove tecniche di neuroimaging funzionale, quali la PET (tomografia ad emissione di positroni), la risonanza magnetica funzionale e l’EEG – sono diventati noti anche ai non addetti, proprio in quanto supporterebbero l’inesistenza del libero arbitrio. In particolare, i famosi esperimenti del neurofisiologo Benjamin Libet [4] avrebbero condotto a un risultato controintuitivo: le nostre azioni prenderebbero avvio prima che il soggetto ne abbia la consapevolezza.

In alcuni di questi esperimenti lo scienziato invitava i partecipanti a muovere il polso della mano destra quando avessero voluto e contemporaneamente a riferire esattamente l’attimo in cui avessero avuto l’impressione di aver deciso di avviare il movimento, in maniera da stimare l’istante esatto della consapevolezza rispetto all’inizio dell’azione stessa e contemporaneamente veniva misurato il potenziale di azione mediante l’elettroencefalogramma: il momento soggettivo della decisione è risultato in questi studi posteriore rispetto a quello cerebrale da cui prendeva avvio l’impulso nervoso motorio e quindi il movimento. Dunque, si concluse, non sarebbe la coscienza, con la sua libertà di decidere, ad avviare l’azione e pertanto il libero arbitrio sarebbe un’illusione. Questo risultato, secondo cui gli sperimentatori possono prevedere le scelte prima che i soggetti ne siano consapevoli, appare del tutto paradossale e richiama, per analogia, la situazione dell’epoca prescientifica in cui i teologi si chiedevano se l’uomo fosse veramente libero, dal momento che a Dio (anziché agli sperimentatori) era noto in anticipo il futuro.

Lavazza, del tutto a ragione, dà poi conto di alcune possibili obiezioni riguardanti le interpretazioni degli esperimenti di Libet: tra queste, innanzitutto, evidenzia che piegare il polso non può considerarsi una vera scelta. Ritengo infatti che il senso di tali esperimenti sia fuorviante, e le relative deduzioni infondate. A mio avviso la vera decisione morale, consistente in una scelta di vita (si pensi al teatro di Sartre, ad esempio, in “Morti senza tomba”, in cui il drammatico dilemma della scelta determina profondamente l’esistenza stessa dell’individuo), si colloca su un piano diverso, con processi completamente differenti rispetto alla decisione priva di significato di muovere o meno un polso (d’altra parte la prima, cioè la vera decisione, ovviamente non sarebbe riproducibile in condizioni sperimentali).

Ridurre completamente il pensiero umano a meri dati quantitativi rilevabili mediante strumentazioni, per quanto sofisticate possano essere, è una pretesa scientistica, ovvero un forzare “ingenuamente” differenti livelli di complessità di fenomeni all’interno di evidenze scientifiche circoscritte, allorché occorrerebbero ben più raffinate e ampie interpretazioni dei dati ottenuti prima di trarne conclusioni. La teoria dell’assenza del libero arbitrio rientra a mio avviso tra le pseudo-scienze, non potendo soddisfare neppure il criterio popperiano di falsificabilità, in quanto non sottoponibile a prove di confutabilità. “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, avrebbe ben detto Wittgenstein a tal proposito.

Peraltro, quanto alle scelte di modesto significato, quale può ipotizzarsi quella della marca di detersivo da acquistare al supermercato, da alcuni anni si sente parlare di neuromarketing, neologismo che designa l’applicazione al marketing pubblicitario delle conoscenze acquisite nelle neuroscienze e nelle scienze del comportamento. Questa disciplina si trova a suo agio con il determinismo, se non altro in quanto deve prevedere comportamenti probabilistici medi nell’ambito delle scelte di acquisto dei consumatori e, avendo come obiettivo l’ottimizzazione dei costi aziendali in marketing e pubblicità, si disinteressa dei casi particolari, quali le eventuali scelte libere, mediate dalla coscienza, di individui pensanti che intendano riflettere sui condizionamenti ricevuti.

Il filosofo italiano prende poi in considerazione le particolari implicazioni in campo etico e sociale di queste nuove concezioni, tra le quali il fatto che, venendo meno la credenza nella libertà di agire individuale, esse metterebbero in discussione la nozione di responsabilità individuale e quindi ad esempio il principio del sistema penale retributivistico (basato cioè su ciò che l’individuo ha compiuto in precedenza), come noto difeso da filosofi quali Kant ed Hegel. Anche per questa materia di studio è stato coniato un altro neologismo: il neurodiritto [5].

Viene quindi riportato il punto di vista in ambito di politica sociale di vari studiosi contemporanei, tra cui Waller [6] e Caruso [7] – con cui l’autore italiano sembra concordare -, i quali sostengono l’idea che, abbandonando la responsabilità morale, in quanto basata su una libertà inesistente, verrebbe meno anche la giustificazione dell’assetto esistente delle disuguaglianze in ambito sociale, con i successi e i fallimenti individuali che ciascuno si sarebbe meritato con le proprie “scelte” e il proprio impegno (o mancato impegno). La rinuncia al presupposto della responsabilità, secondo questi studiosi, permetterebbe di assumere un atteggiamento di benevolenza individuale, di abbandonare la politica del “merito”, del self-made man, di abbracciare il “principio di umanità” e dare quindi maggior spazio alle politiche di giustizia sociale.

Queste posizioni mi sembrano insostenibili. Esse per prima cosa rimangono sempre ristrettamente basate sulla premessa che la responsabilità individuale sia finalizzata al successo e che al merito corrisponda l’arricchimento personale. In altre parole questi pensatori non riescono a vedere oltre l’ideologia dell’attuale epoca del capitalismo avanzato, in cui l’essenza del comportamento virtuoso è necessariamente circoscritto al puro vantaggio personale ed alla competizione, per cui essi sono costretti ad eliminare il libero arbitrio per spezzare il legame tra successo personale e merito, dimenticando persino strade classiche percorse nella storia del pensiero sin dall’antichità, in cui il senso dell’agire virtuoso aveva ben altro significato (si pensi all’etica da Socrate a Platone, da Aristotele ad Epicuro o a quella cristiana, solo per fare alcuni esempi).

Nell’ideologia capitalistica il merito e la responsabilità individuale in ultimo sono infatti ridotte al perseguimento del vantaggio personale, anziché, ad esempio, al bene pubblico e ai valori tradizionali quali la giustizia, la lealtà, la difesa della vita, del pianeta, oppure l’amore per il sapere, la scienza, ma anche il sacrificio per l’altro e via dicendo. Così, invece di prospettare una più nobile scala dei valori, in cui l’etica possa coincidere con la giustizia ed il bene della collettività, questi studiosi plaudono all’inesistenza della libertà individuale e della responsabilità morale, in quanto la nuova consapevolezza dell’irresponsabilità di tutti gli uomini consentirebbe di considerare questi ultimi in modo più compassionevole, meno competitivo, inducendo un effetto di “umanizzazione” che giustificherebbe l’adozione di politiche più egualitarie.

Senonché, non si capisce chi, e a qual fine, si batterebbe per delle politiche di giustizia sociale: eliminato il libero arbitrio e prospettata una logica deterministica radicale, perde di significato anche qualsiasi azione finalizzata al “bene” e pertanto le affermazioni di questi pensatori appaiono, a mio avviso, autocontraddittorie. L’uomo è ridotto a mera natura e ogni ambizione di superamento di essa diviene impensabile: l’io di Fichte, che lottava per allargarsi e conquistare gradualmente il non-io, viene al contrario totalmente riassorbito nel non-io.

In tale prospettiva, per fare un esempio, scompare dalla storia umana persino la figura dell’eroe. La possibilità di costruire una società diversa, di trasformare il mondo ed i rapporti sociali, di lottare contro lo sfruttamento capitalistico, il suo sistema e la sua ideologia diviene semplicemente impensabile. Come pure diviene impossibile aspirare ad un miglioramento culturale dell’uomo: ad esempio la Teoria dell’Uomo Novo di Che Guevara come base dell’eticità viene privata di qualsiasi senso. Al più, questa eliminazione della sfera della libertà e responsabilità personale è compatibile con un atteggiamento pragmatico. Del resto lo stesso Lavazza opportunamente prospetta il rischio che si affermi una pressione a modificare le situazioni di disagio personale mediante il ricorso a psicofarmaci, spegnendo la spinta alla mobilitazione individuale o collettiva per rimuovere le condizioni che tale disagio creano.

Sebbene la maggior parte dei pensatori della posizione deterministica rifiuti espressamente il nichilismo, prospettando una visione umanistica libera da illusioni, ciononostante ritengo che questa weltanschauung sia coerente con il pensiero decadente del postmodernismo, che rinuncia alla reale autodeterminazione umana a favore di posizioni deboli e con orizzonte limitato. Il meccanicismo puro, la teoria della coscienza illusoria della libertà umana, la soppressione della responsabilità individuale conducono, in ultima analisi, all’inazione e, in questo senso, ad ideologie nichilistiche, fatalistiche, al più allo stoicismo volgare, fino alla negazione della stessa volontà di vivere della riflessione dell’irrazionalista di Schopenhauer, vicino alla tradizione mistica orientale. Con l’eliminazione della responsabilità e della libertà individuale si può finanche prefigurare una società totalitarista in cui gli individui, incapaci di agire e di progettare e completamente controllati, seguono percorsi già tracciati, senza alcun grado di libertà, subendo qualsiasi imposizione e rinunciando ad ogni possibile emancipazione umana.

In conclusione tale concezione appare funzionale al mantenimento dello status quo e forse non è un caso che essa si diffonda proprio in un’epoca di decadenza, in cui l’alternativa al capitalismo appare sconfitta e l’uomo sembra non essere più padrone di se stesso. Si tratta però di una posizione confutabile, basti osservare le vicende storiche, nelle quali gli attori si sono trovati di fronte a possibili scelte ed hanno operato in un certo modo e non in un altro, provocando conseguenze, anche di grande portata, sullo stesso corso storico. L’idea del determinismo non ha fondamento. La libertà umana, per quanto condizionata da vincoli biologici, storico-culturali, nonché dai rapporti sociali ed economici in essere, lascia ciò nondimeno aperte delle opzioni che rendono conto del fattore umano decisivo nel processo storico.

Note

[1] Lavazza A., Marraffa M., La guerra dei mondi – Scienza e senso comune, (a cura di), 2016 Codice edizioni: cap. 12 Lavazza A., Libertà come illusione e un ribaltamento del senso comune, pag 231- 260.

[2] Libero arbitrio: designa la libertà della scelta, ovvero, in generale, lo stato in cui un soggetto può agire senza costrizioni o impedimenti e possedendo la capacità di determinarsi secondo un’autonoma scelta dei fini e dei mezzi adatti a conseguirli. Essendo i condizionamenti sempre presenti, maggiore è la consapevolezza, da parte del soggetto, di questi condizionamenti, maggiore è la libertà di scelta. Rispetto a ciò, la tecnica psicoanalitica, facendo emergere nella coscienza del soggetto i condizionamenti presenti nell’inconscio, promuove un aumento della libertà di agire.

[3] Dottrina elaborata nel decennio 1660-70 da alcuni seguaci di Cartesio di cui il più noto è il filosofo e scienziato francese Nicolas Malebranche (Parigi 1638-1715). Questa dottrina comporta che le creature sono del tutto impotenti, e solo Dio agisce, come sovrano assoluto che non delega niente del suo potere.

[4] Benjamin Libet (Chicago 1916 – Davis 2007), neurofisiologo e psicologo statunitense. E’ stato pioniere nelle ricerche sulla coscienza, ricercatore e docente presso la University of California , San Francisco

[5] Neurodiritto: designa un settore emergente di studio interdisciplinare che analizza gli effetti delle scoperte nel campo delle neuroscienze sulle norme giuridiche. Tra le nuove discipline e tecnologie più importanti per lo studio del cervello troviamo il Neuroimaging Funzionale (TC, fMR, PET, SPECT, DTI, MEG, ecc.), in grado di studiare le variazioni del metabolismo cerebrale in tempo reale e mettere in relazione l’attività di determinate aree cerebrali e specifiche funzioni cognitive e comportamentali.

Nei paesi anglosassoni si assiste con sempre maggior frequenza ad indagini neuro-scientifiche i cui esiti assumono un peso preponderante nella fase processuale e tali da far scemare o eliminare la responsabilità penale dell’imputato. E’ facile perciò prevedere che in un futuro non tanto lontano, non sarà più tollerato il fatto che molte decisioni dei Tribunali sulla capacità di intendere e di volere, siano adottate soltanto sulla base di valutazioni soggettive facendo affidamento sulla intuizione diagnostica degli psichiatri che tradizionalmente si avvalgono unicamente di test psicologici e del colloquio clinico. Ma la questione è preoccupante dal momento che non tutte le lesioni e anomalie cerebrali indicano uno stato mentale compromesso rilevante per la capacità di intendere e di volere al momento della commissione del fatto reato.

Nelle varie discipline nate grazie al prefisso “neuro” si segnala perciò il rischio di una visione scientistica secondo cui la mente è ridotta ai dati rilevati sul cervello dai nuovi strumenti tecnici, i quali spiegherebbero tutti i comportamenti umani

[6] Waller B.N., Against Moral Responsability, The Mit Press, Cambridge 2011

[7] Caruso, G.D., Free Will and Consciousness: a Determinist Account of the Illusion of Free Will and Moral Responsibility, Lexington Books, Lanham 2012; Exploring the Illusion of Free Will and Moral Responsibility –a cura di- Lexington Books, Lanham 2013.

 di   23/02/2019

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