I limiti del Cosmopolitismo
lug 22nd, 2019 | Di Thomas Munzner | Categoria: Dibattito PoliticoI limiti del Cosmopolitismo
La sovranità nazionale nel conflitto tra democrazia e capitalismo
di Alessandro Somma
Il cosmopolitismo mira a promuovere la pace e dunque a rappresentare un argine al ripetersi dei conflitti che hanno caratterizzato il secolo breve. L’esperienza ha mostrato come il superamento della sovranità nazionale abbia alimentato lo sviluppo di un ordine economico neoliberale, in quanto tale minaccioso per la giustizia sociale e in ultima analisi per la pace. Di qui la necessità di un recupero della dimensione nazionale non certo per affermare identità escludenti, bensì per ripristinare un accettabile equilibrio tra democrazia e capitalismo
1. Sovranità nazionale, pace ed emancipazione sociale
Il cosmopolitismo inteso come teoria e pratica relativa alla dissoluzione della sovranità nazionale, pur potendo vantare radici affondate in un tempo lontano1, assume la valenza attuale in tempi relativamente recenti: quando si combina con quanto Norberto Bobbio chiamava pacifismo attivo, ovvero con il riconoscimento che la pace non costituisce «un’evoluzione fatale della società umana», bensì «il risultato dello sforzo intelligente e organizzato dell’uomo diretto allo scopo voluto»2. È invero per effetto delle due guerre mondiali che matura la convinzione che lo Stato nazionale rappresenta un ostacolo insormontabile al perseguimento di quello scopo, e anzi costituisce un catalizzatore di insanabili conflitti. Il tutto nell’ambito di riflessioni in cui il cosmopolitismo, che pure è concetto ambiguo e poliedrico3, assume spesso e volentieri le vesti del federalismo europeo, la cui traiettoria intellettuale intreccia continuamente le tematiche pacifiste.
Certo, in ambito cosmopolita si riconosce che lo Stato nazionale era nato per liberare i popoli e che da questo punto di vista, almeno per un certo periodo, si è effettivamente rivelato essere «un potente lievito di progresso». Si aggiunge però che lo Stato ha ben presto cessato di essere strumento per la realizzazione di fini per divenire fine a se stesso, assumendo addirittura i connotati di «un’entità divina, un organismo che deve pensare solo alla propria esistenza ed al proprio sviluppo». Di qui la tendenza invincibile a provocare conflitti bellici e a vivere la pace unicamente come momento preparatorio di quei conflitti, tendenza stigmatizzata con particolare veemenza nel celeberrimo Manifesto di Ventotene:
«Lo Stato, da tutelatore della libertà dei cittadini, si è trasformato in padrone di sudditi tenuti a servizio, con tutte le facoltà per renderne massima l’efficienza bellica.
Anche nei periodi di pace, considerati come soste per la preparazione alle inevitabili guerre successive, la volontà dei ceti militari predomina ormai in molti Paesi su quella dei ceti civili, rendendo sempre più difficile il funzionamento di ordinamenti politici liberi: la scuola, la scienza, la produzione, l’organismo amministrativo sono principalmente diretti ad aumentare il potenziale bellico; le madri vengono considerate come fattrici di soldati, ed in conseguenza premiate con gli stessi criteri con i quali alle mostre si premiano le bestie prolifiche; i bambini vengono educati fin dalla più tenera età al mestiere delle armi e all’odio verso gli stranieri, le libertà individuali si riducono a nulla, dal momento che tutti sono militarizzati e continuamente chiamati a prestare servizio militare; le guerre a ripetizione costringono ad abbandonare la famiglia, l’impiego, gli averi, ed a sacrificare la vita stessa per obbiettivi di cui nessuno capisce veramente il valore; in poche giornate vengono distrutti i risultati di decenni di sforzi compiuti per aumentare il benessere collettivo»4.
Che nel corso della prima metà del Novecento lo Stato nazionale sia divenuto un’entità invadente, tanto da insidiare la sopravvivenza della società, è un fatto difficilmente contestabile. Se peraltro si approfondiscono le ragioni di questa deriva, non si può evitare di riconoscere come l’esaltazione della dimensione statuale e nazionale sia stata la reazione a una fase storica caratterizzata da processi di denazionalizzazione anch’essi decisamente minacciosi per la sopravvivenza della società. Il ritorno dello Stato nazionale fu infatti la reazione al prevalere del mercato autoregolato, ovvero governato unicamente dai prezzi e dunque desocializzato, come strumento di redistribuzione delle risorse, la cui pervasività era direttamente proporzionale al grado di contenimento della sovranità nazionale. Fu cioè la risposta alla situazione che si verificò nel corso dell’Ottocento e che rappresentò una novità assoluta rispetto alle epoche precedenti, nelle quali la redistribuzione era prevalentemente realizzata da un’autorità centrale, o in alternativa affidata alla reciprocità fondata sul dono e a monte sui legami prodotti dalle relazioni umane.
Questa lettura dei processi di rinazionalizzazione novecenteschi è stata proposta da un noto studioso nello stesso torno di anni in cui venne pubblicato il Manifesto di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli. Karl Polanyi, questo il suo nome, ha documentato come anche i processi di denazionalizzazione ottocenteschi fossero riconducibili alla volontà di assicurare un periodo di pace, ma anche che si volevano evitare conflitti soprattutto per alimentare «il pacifico commercio come un interesse universale». Era questo il compito assunto in particolare dagli operatori dell’alta finanza non certo per tensione ideale, ma perché «i loro affari sarebbero stati ostacolati se una guerra generale tra le grandi potenze avesse interferito»5.
Quella assicurata dai processi di denazionalizzazione volti all’espansione dei mercati non fu peraltro di una pace stabile, né produttrice di benessere. E ciò non stupisce, dal momento che era funzionale allo sviluppo di un ordine economico fondato sul principio per cui «tutti i redditi debbono derivare dalla vendita di qualcosa», inclusi i beni un tempo sottratti al mercato: anche «l’uomo sotto il nome di lavoro» e «la natura sotto il nome di terra erano resi disponibili per la vendita». Di qui la minaccia per la sopravvivenza della società rappresentata dal movimento verso «l’allargamento del sistema di mercato», a cui si contrappose un «opposto movimento protezionistico» destinato alla sua «limitazione»: il primo volto ad affermare «il principio del liberalismo economico», il secondo destinato a rivendicare «protezione sociale» e a monte la risocializzazione del mercato attraverso «una legislazione protettiva, delle associazioni restrittive ed altri istituti di intervento»6.
Il movimento verso la risocializzazione del mercato non era però unidirezionale, potendo assumere connotazioni differenti e al limite opposte. Poteva cioè avvenire nel rispetto dell’ordine politico democratico, come è successo con il New Deal statunitense, ma anche in combinazione con l’affossamento di quell’ordine, come si è verificato nei Paesi europei in cui ha attecchito il fascismo. Di qui la conclusione circa l’essenza di quest’ultimo, descrivibile come una combinazione di azzeramento delle libertà politiche e riforma di quelle economiche, con la precisazione che il primo ha costituito un presupposto per realizzare la seconda: non si sarebbe potuto ripristinare l’ordine del mercato senza determinare la fine della democrazia7.
Se così stanno le cose, non si può affermare che la sovranità nazionale costituisce inevitabilmente un catalizzatore di conflitti bellici. Questa è semmai una prerogativa di una certa reazione alla minaccia che i mercati rappresentano per la società, e a monte dei processi di denazionalizzazione da cui deriva la loro invadenza. La minaccia alla pace deriva insomma della desocializzazione dei mercati, dall’isolamento dell’ordine economico dall’ordine politico, e più precisamente da un alterato equilibrio tra capitalismo e democrazia. E dalla volontà di non combinare la riforma delle libertà economiche con un’estensione, piuttosto che con l’azzeramento delle libertà politiche: la volontà di sacrificare la democrazia per salvare il capitalismo.
A ben vedere gli autori del Manifesto di Ventotene considerano questo aspetto nel momento in cui rilevano che la partecipazione democratica aveva consentito ai «nullatenenti» di «dare l’assalto ai diritti acquisiti delle classi abbienti», e che questo portò queste ultime a invocare e appoggiare «l’instaurazione delle dittature che toglievano le armi legali di mano ai loro avversari». Peraltro Rossi e Spinelli finiscono per riprodurre la retorica antidemocratica precedente l’avvento dei regimi fascisti nel momento in cui osservano che questi si sono giovati del clima di sfiducia nei confronti delle istituzioni parlamentari cadute in balìa di «baronie economiche in acerba lotta fra loro»: da un lato i «complessi industriali e bancari» e dall’altro i «sindacati riunenti sotto un’unica direzione interi eserciti di lavoratori»8.
Ma i nessi con la retorica antidemocratica tipica degli anni precedenti il Ventennio non finiscono qui. Punti di contatti si rintracciano nell’avversione per il conflitto di classe, nella sua visione come vicenda da superare in quanto lotta «cui van ridotti tutti i problemi politici»: giacché «gli operai educati classisticamente non sanno allora vedere che le loro particolari rivendicazioni di classe, o addirittura di categoria, senza curarsi del come connetterle con gli interessi degli altri ceti». Trae così ulteriore conferma l’utilità di superare il livello nazionale in quanto contesto entro cui si finisce inevitabilmente per concepire il solo conflitto di classe: gli Stati hanno «così profondamente pianificato le rispettive economie» che nel loro ambito diviene assolutamente assorbente la competizione per stabilire «quale classe dovrebbe detenere le leve del comando del piano». Ecco perché senza superare il livello nazionale non si potrà sostituire l’anacronistico scontro tra fautori «della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo» con la lotta per la nascita in Europa di un «saldo Stato federale» e persino di uno «Stato internazionale»9.
2. L’Europa unita e il cosmopolitismo borghese
Il Manifesto di Ventotene non disconosce la necessità di attuare il «socialismo», liberamente definito come «la emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita», e a monte di creare i presupposti affinché «le forze economiche non debbano dominare gli uomini»10. Ripone però le speranze di raggiungere un simile obiettivo nel mero superamento della dimensione nazionale, ovvero dell’unica dimensione che l’esperienza maturata nel corso dei Trenta gloriosi avrebbe poco dopo evidenziato essere terreno fertile per combattere il mercato autoregolato e ottenere emancipazione sociale nel rispetto dell’ordine democratico: lo vedremo tra breve11.
La cosa a ben vedere non stupisce. Lo stesso Manifesto disconosce il valore del conflitto redistributivo, non necessariamente coincidente con il conflitto di classe, come presupposto per il controllo sulle forze economiche che operano nei mercati autoregolati. E omette così di riconosce la sovranità nello Stato come catalizzatore delle lotte indispensabili a far emergere le istanze di emancipazione, a creare e sostenere i canali di collegamento tra queste ultime e la decisione politica sul modo di essere dell’ordine economico. In linea del resto con l’incapacità di vedere che i limiti alla sovranità dello Stato si sono di norma utilizzati per neutralizzare il conflitto, spoliticizzare l’ordine economico e in ultima analisi frustrare le istanze emancipatorie.
Questi aspetti sono emersi in modo esemplare sul finire degli anni Quaranta nel corso del dibattito parlamentare dedicato alla ratifica italiana dello Statuto del Consiglio d’Europa. Ci soffermeremo su alcuni passaggi utili a valutare criticamente le posizioni appena delineate: quelle che enfatizzano la necessità di superare la dimensione nazionale per costruire in tal modo un ordine fondato sulla pace e l’emancipazione sociale, e quelle che all’opposto reputano la valorizzazione di quella dimensione un passaggio obbligato per ottenere le medesime finalità.
La discussione cui ci dedicheremo ora fu evidentemente molto animata, se non altro perché venne condotta negli stessi giorni in cui si dibatté sull’adesione al Patto atlantico: organizzazione internazionale che come il Consiglio d’Europa fu fortemente voluta dagli Stati Uniti per serrare le fila nel conflitto con il blocco socialista. E perché seguì di poche settimane la nascita dell’Organizzazione per la cooperazione economica europea, pensata per coordinare gli aiuti del Piano Marshall, ma anche e soprattutto per realizzare il coordinamento delle politiche economiche dei Paesi europei coinvolti, e con ciò il loro ancoraggio all’occidente capitalista12.
La riconduzione delle tre organizzazioni internazionali al medesimo disegno politico venne rivendicata dal repubblicano Carlo Sforza, il Ministro degli esteri che contribuì in modo determinante alla loro nascita. E proprio questa circostanza venne stigmatizzata nel corso del dibattito parlamentare per l’adesione al Consiglio d’Europa dal socialista Lelio Basso, il quale sottolineò come Sforza avesse auspicato la trasformazione dell’Organizzazione per la cooperazione economica europea in una sorta di «ministero dell’economia europea», e si fosse inoltre riferito al Patto atlantico come all’«autentico inizio di una Unione europea». Il tutto in sintonia con sensibilità diffuse oltreoceano, dove si pretendeva che i Paesi europei accettassero di limitare la loro sovranità nazionale come la contropartita assicurata al «popolo americano in cambio dei sacrifici che esso consente per l’Europa occidentale»13.
A ben vedere la nascita del Consiglio d’Europa non venne ritenuta una contropartita sufficiente, dal momento che non realizzò le limitazioni di sovranità auspicate: quelle che si sarebbero ottenute con un organo esecutivo di natura sovranazionale e un organo deliberante con poteri costituenti ed elezione popolare dei suoi componenti. Per molti aspetti il nuovo organismo internazionale non aveva neppure «iniziato a scalfire quei principi di sovranità che sono alla base della passata e attuale concezione politica nazionale e dell’esercizio della sovranità degli Stati nazionali»14. Il superamento di quella concezione veniva auspicata dai federalisti, i cui auspici cedettero però di fronte alle richieste degli unionisti, i quali vollero dotare il Consiglio d’Europa di un organo esecutivo di carattere intergovernativo e di un organo deliberante con poteri meramente consultivi, i cui membri venissero semplicemente individuati dai parlamenti nazionali degli Stati aderenti15. Certo, come precisato da Sforza, in un secondo tempo il Consiglio d’Europa si sarebbe potuto trasformare in un organismo comprendente «un organo di governo supernazionale» e «un vero e proprio parlamento europeo» con competenze comprendenti persino la creazione di una «moneta europea»16. Peraltro anche nella sua versione minimale esso veniva criticato in quanto catalizzatore di effetti assimilabili a quelli che i federalisti intendevano promuovere: un ancoraggio all’ordine capitalista in un contesto segnato da un marcato anticomunismo.
Tra i sostenitori di questa tesi si distinse Basso, risoluto nel ritenere che la tensione verso il superamento della dimensiona nazionale espressa con la fondazione del Consiglio d’Europa rappresentava «la maschera progressista, idealista che deve coprire due realtà brutali: la manomissione economica che l’imperialismo, il grande capitale americano esercita sull’Europa e sulla politica del blocco occidentale in funzione antisovietica». Se peraltro «l’interesse ad annullare le frontiere» veniva posto in relazione con il proposito di promuovere i «diritti della personalità umana», esso aveva un obiettivo decisamente più prosaico, come «la libera circolazione delle merci». Di qui il senso del «cosmopolitismo» elevato dalla borghesia a orizzonte di riferimento per la sua azione politica, dopo un lungo periodo nel corso del quale aveva invece fatto affidamento sui confini nazionali come baluardo eretto a tutela dei suoi interessi. Il tutto anche e soprattutto per mettersi al riparo da un possibile esito del conflitto redistributivo, inizialmente sterilizzato promuovendo una blanda inclusione del proletariato nell’ordine proprietario17. Nel tempo le classi meno abbienti avevano infatti acquisito consapevolezza circa la loro funzione entro l’ordine economico, e con ciò coltivato aspettative e alimentato istanze decisamente incompatibili con la sopravvivenza di quell’ordine:
«La borghesia nasce con una coscienza nazionale all’origine e si pone come classe nazionale; lotta per superare le divisioni che erano retaggio della vecchia organizzazione feudale, lotta per abbattere le dominazioni straniere che erano retaggio delle vecchie contese dinastiche, e soprattutto lotta perché il capitalismo si assicuri le condizioni di un libero sviluppo sulla base di un sufficiente mercato… La situazione di questo dopoguerra è caratterizzata dal fatto che riesce impossibile alle borghesie, alle classi dominanti, indebolite dell’Europa occidentale, di conciliare la legge del profitto capitalistico con la necessità di garantire un sufficiente tenore di vita alle classi popolari, riesce impossibile difendere ancora i propri privilegi contro la pressione di classi che hanno acquistato la coscienza dei propri diritti e che non potendoli soddisfare nel quadro delle antiquate strutture minacciano di farle saltare… Ed ecco che noi assistiamo a questo punto al passaggio improvviso di quelle borghesie occidentali dal vecchio esasperato nazionalismo ad un’ondata di cosmopolitismo»18.
Se così stavano le cose, l’emancipazione del proletariato doveva passare da un percorso necessariamente opposto a quello delineato con il proposito di promuovere l’egemonia borghese: doveva passare dal consolidamento della «coscienza nazionale», ovvero dalla capacità di «strappare dalle mani della borghesia l’esercizio esclusivo del potere politico». Le classi meno abbienti dovevano cioè acquisire il controllo sulle dinamiche utilizzate dalla borghesia per neutralizzare il conflitto sociale, portare alle estreme conseguenze il tentativo di inclusione nell’ordine proprietario sino a rendere questo espediente l’evento propedeutico al suo superamento. Dovevano sottrarre lo Stato alla borghesia, impedirle di utilizzarlo come «strumento del suo dominio e del suo sfruttamento», ovvero «inserirsi sempre più vivamente nel tessuto della vita nazionale per strapparne il monopolio alla borghesia»19.
Detto questo, Basso si premurava di chiarire che simili propositi non comportavano un abbandono delle tensioni internazionaliste. Internazionalismo e cosmopolitismo erano anzi incompatibili tanto quanto gli interessi perseguiti dalle classi che se ne servivano per raggiungere i loro obiettivi:
«Così come il sentimento nazionale del proletariato non ha nulla di comune con il nazionalismo della borghesia, così il nostro internazionalismo non ha nulla di comune con questo cosmopolitismo di cui si sente tanto parlare e con il quale si giustificano e si invocano queste unioni europee e queste continue rinunzie alla sovranità nazionale»20.
La distinzione tra cosmopolitismo e internazionalismo era appena tracciata, tuttavia in termini sufficientemente netti da vanificare il tentativo di presentare il cosmopolitismo come unico baluardo contro il ripetersi delle tragedie appena sperimentate con il conflitto mondiale. Si poteva cioè smascherare la retorica secondo cui la sovranità nazionale era fonte di nazionalismo e persino di «odio razziale», e il contrasto della sovranità nazionale una condizione irrinunciabile per mantenere la pace tra i popoli europei: per avviare finalmente tra essi «un periodo di fratellanza, di comprensione, di collaborazione»21e rendere in tal modo evidente la «sostanziale unità del genere umano»22. Così come si poteva richiamare l’attenzione sulla valenza emancipatoria del conflitto redistributivo, oltre che sulla circostanza che la pace presuppone la giustizia sociale e sulla necessità del contesto nazionale come arena entro cui sviluppare il conflitto con esiti favorevoli alle classi meno abbienti.
3. L’ordine economico cosmopolita e il compromesso keynesiano
Il cosmopolitismo di cui discute Basso era un’ideologia diffusa tanto quanto la retorica che era solita accompagnarla, ampiamente utilizzata nel corso del dibattito parlamentare dedicato alla ratifica dello Statuto del Consiglio d’Europa. Si distinsero in questo i repubblicani, tra i più fervidi difensori della causa federalista, i quali sostenevano con particolare enfasi che «soltanto con una società universale, aperta a tutti, si può assicurare la pace». Motivo per cui occorreva andare ben oltre il timido tentativo rappresentato dalla costituzione di un’organizzazione internazionale, e promuoverne una di carattere sovranazionale: un’organizzazione «che deve avere una parte di sovranità tolta alla sovranità dei singoli Stati»23.
Come abbiamo ricordato, proveniva dalle fila dei repubblicani anche il Ministro Sforza, che non mancava occasione di ribadire come la «limitazione alla sovranità nazionale» fosse l’unico modo per sancire «l’impossibilità di fare la guerra»24. Che la sovranità nazionale rappresentasse un ostacolo alla pace, era peraltro un mantra federalista condiviso anche in ambito unionista: costituiva un motivo comune alle due fazioni del movimento europeista.
Comuni erano anche alcune indicazioni in materia di economia, come si ricava dalla risoluzione economico sociale con cui venne chiuso il noto congresso voluto dai movimenti europeisti, tenutosi all’Aia nel maggio del 194825: lo stesso congresso la cui risoluzione politica anticipò l’assetto del futuro Consiglio d’Europa, dal momento che invitava alla costituzione di «un’assemblea europea scelta dai parlamenti delle nazioni partecipanti», cui affidare tra l’altro il compito di «fornire consulenze sulle misure pratiche definite di volta in volta per realizzare la necessaria unità economica e politica europea»26. Con la risoluzione economico sociale si voleva in effetti promuovere la libertà dei commerci, ovvero abolire gli ostacoli risultanti dai limiti all’importazione ed esportazione e in ultima analisi creare un’unione doganale. Si voleva poi promuovere la libera circolazione, oltre che delle merci, anche dei capitali e dei lavoratori, ovvero finalizzare il contenimento delle prerogative sovrane alla trasformazione degli Stati in entità politiche incapaci di ostacolare la mobilità dei fattori produttivi. Infine si intendeva coordinare le politiche di bilancio e giungere a «una unificazione delle monete», e a monte incentivare «l’equilibrio di bilancio» perché in sua assenza si determinavano scenari «incompatibile con la libertà degli scambi»27.
Si noti che in tal modo si sconfessavano convincimenti maturati solo qualche anno prima, quando si identificarono i fondamenti dell’ordine economico internazionale per il dopoguerra e si definirono la struttura e i compiti delle istituzioni preposte al suo presidio. Il riferimento è al cosiddetto compromesso di Bretton Woods, attraverso cui si volle per un verso promuovere la libera circolazione delle merci, ma nel contempo almeno limitare quella dei capitali, che dovevano al contrario essere sottoposti a controlli statuali più o meno penetranti28.
Il tutto concepito come contributo fondamentale alla causa della pace: la libera circolazione dei capitali avrebbe esposto il mondo al rischio di una nuova devastante crisi economica e finanziaria come quella di fine anni Venti, da molti considerata un contributo notevole all’avvento dei fascismi e quindi allo scoppio del secondo conflitto mondiale. Di qui l’importanza di assicurare agli Stati la possibilità di controllare il movimento dei capitali, come del resto precisato nello Statuto del Fondo monetario internazionale: lì si dice esplicitamente, con una formula ancora presente nell’articolato, che «gli Stati membri possono esercitare gli opportuni controlli per regolamentare i movimenti di capitali» (art. 6). Di qui anche l’istituzione della Banca mondiale, chiamata a fornire capitali ai Paesi bisognosi a interessi bassi, consentendo così di sottrarli alle dinamiche imprevedibili della libera circolazione dei capitali29.
In effetti, se i capitali circolano liberamente, gli Stati nazionali sono portati ad attirarli promuovendo l’abbattimento dei salari e della pressione fiscale sulle imprese, oltre alla tendenziale riduzione del rapporto di lavoro a relazione di mercato qualsiasi. Sono cioè portati ad adottare politiche economiche pensate per attirare l’investitore internazionali, figura quasi antropologica di riferimento per l’edificazione dell’ordine economico cosmopolita. Il che ha intralciato irrimediabilmente la possibilità di condurre politiche di piena occupazione: quelle fondate sul sostegno alla domanda, alla base di un incremento dei consumi, a sua volta produttivo di un aumento dell’offerta di lavoro.
Le politiche di piena occupazione erano contemplate da un ulteriore compromesso che caratterizzò i cosiddetti Trenta gloriosi, ovvero il periodo tra la conclusione del secondo conflitto mondiale e le crisi energetiche degli anni Settanta: il compromesso keynesiano, a cui si è dovuto il mantenimento di un accettabile equilibrio tra democrazia e capitalismo30. Quest’ultimo compromesso, incentrato come abbiamo detto sul sostegno della domanda, promuoveva politiche di salari elevati. Il che riguardava anche i cosiddetti salari differiti, ovvero il reddito da pensione, sia quelli indiretti, cioè i risparmi di reddito riconducibili alla presenza di un esteso sistema di sicurezza sociale.
Il compromesso keynesiano entrerà in crisi a partire dalla metà degli anni Settanta, ma solo in parte per le ricadute delle crisi petrolifere. Esso determinava un’offerta di lavoro capace di essere assorbita dalla domanda, il che si traduceva in un accresciuto potere dei lavoratori. Di qui la volontà di rovesciare il compromesso, come diremo più avanti, facendo leva proprio sul carattere cosmopolita dell’ordine economico e dunque sulla libera circolazione dei fattori produttivi, incompatibile con la volontà politica di alimentare il compromesso keynesiano: impraticabile in presenza di salari bassi e di una ridotta pressione fiscale sulle imprese, alla base di una diminuita capacità di finanziare il sistema della sicurezza sociale.
Della necessità di contrastare la libera circolazione dei capitali abbiamo già detto. Lo stesso vale però anche per la libera circolazione delle merci, che occorre limitare se non altro come strumento di politiche anticicliche direttamente votate a produrre la piena occupazione.
È lo stesso Keynes a mettere in luce questo aspetto in un contributo della prima metà degli anni Trenta significativamente intitolato «autosufficienza nazionale». Lì si spiegano le ragioni che l’hanno spinto ad abbandonare il credo secondo cui «il rispetto del libero commercio» costituisce «non solo una dottrina economica della quale un uomo razionale e istruito non poteva dubitare, ma anche parte della legge morale», in quanto tale fondata dunque su «verità fondamentali». Quel credo poteva forse essere adatto a un’epoca nella quale le migrazioni di massa avevano popolato nuovi continenti, dove i nuovi arrivati alimentavano la circolazione di beni e capitali, contribuendo così ad attenuare «le enormi differenze nel grado di industrializzazione e nelle opportunità di formazione tecnica tra i diversi Paesi». Esaurita questa fase, però, «l’uniformità di sistemi economici in tutto il mondo» era divenuta una fonte di squilibri, motivo per cui era opportuno «essere il più possibile liberi da interferenze derivanti dai mutamenti economici realizzati altrove»: la libertà di sperimentare ciò che meglio si adatta ai diversi contesti richiedeva «un movimento consapevole verso una maggiore autosufficienza nazionale e un maggiore isolamento economico». In tal senso l’autosufficienza nazionale non costituiva «un ideale in sé», ma piuttosto uno strumento per «la creazione di un ambiente nel quale altri ideali possono essere coltivati in modo sicuro e conveniente»31.
Keynes non intendeva sostenere il «nazionalismo economico», all’epoca praticato in particolare dai Paesi che avevano ripoliticizzato il mercato ricorrendo a schemi mutuati dalla dottrina fascista. Neppure invocava cambiamenti rivoluzionari, destinati a provocare «una distruzione di ricchezze», ma semplicemente indicava la direzione di marcia da intraprendere per cambiamenti meditati, per una «tendenza secolare». Comunque dichiarava oramai estinto «l’internazionalismo economico» di matrice ottocentesca, e con ciò tramontata la certezza alla base del cosmopolitismo: che «una concentrazione di sforzi nazionali per attirare commercio estero, la penetrazione di una struttura economica nazionale da parte delle risorse e delle influenze di capitali stranieri e una stretta dipendenza della nostra vita economica dalle fluttuanti politiche economiche di Paesi stranieri assicurino la pace internazionale». Di qui la conclusione che potevano circolare «le idee, la conoscenza, la scienza» e che tuttavia questo non valeva per le merci: «lasciamo che le merci siano prodotte in casa quando è ragionevole e possibile in modo conveniente, e specialmente che la finanza sia soprattutto nazionale»32.
Per molti aspetti Keynes ha previsto con largo anticipo la fine ingloriosa di un ordine legittimatosi a partire dalla sua capacità di alimentare la pace, trasformatosi invece in un catalizzatore di conflitti. Ciò nonostante le sue riflessioni in materia di libera circolazione delle merci sono notoriamente controverse e del resto l’invocazione di un controllo diffuso destinato a limitarla appare oggi anacronistico. E tuttavia occorre tenere conto che quel controllo costituisce un corollario indispensabile per le politiche di sostegno alla domanda in funzione anticiclica. L’incentivo economico ai consumi deciso da un’autorità politica deve infatti poter produrre effetti entro il contesto territoriale di riferimento per quell’autorità. Se così non fosse il sostegno alla domanda sarebbe vanificato, o peggio si tradurrebbe in un peggioramento degli indici negativi che solitamente accompagnano i cicli economici avversi: ad esempio in un aumento degli squilibri nella bilancia commerciale e con ciò nella bilancia dei pagamenti33.
Abbiamo ricordato che il congresso dei movimenti europeisti tenutosi all’Aia nel maggio del 1948 aveva auspicato, oltre alla libera circolazione di merci e capitali, anche quella dei lavoratori, affermando di volerla promuovere «nella massima estensione possibile». Nel merito si è precisato che la misura doveva essere adottata «assicurando ai lavoratori migranti e alle loro famiglie gli standard prevalenti nei Paesi di provenienza quanto a salari, sicurezza sociale, condizioni di vita e condizioni di impiego»34. Alla conclusione del secondo conflitto mondiale si ricorse in effetti ampiamente all’impiego di manodopera straniera, in massima parte proveniente dai Paesi sudeuropei su richiesta dei Paesi nordeuropei35. E fu subito evidente il risvolto di questa misura, destinata a essere ricompresa tra le misure incentivate nell’ambito della costruzione europea. Essa costituisce uno stimolo al dumping salariale, fonte di conflitti tra lavoratori disponibili a percepire livelli inferiori rispetto a quelli assicurati dalla legge o dal contratto collettivo, e lavoratori che invece difendono quei livelli e magari aspirano a incrementarli: conflitti destinati a minare alle fondamenta il compromesso keynesiano.
4. Il neoliberalismo, Hayek e il federalismo interstatuale
Risale agli anni Trenta, precisamente alla conclusione del decennio, uno scritto dal quale ricavare il senso del cosmopolitismo in quanto teoria e pratica destinata a beneficiare i mercati autoregolati, e con ciò a minacciare la società e a mettere in moto le strategie difensive di cui abbiamo parlato in apertura. Prima di darne conto occorre dire che gli anni Trenta è anche il periodo in cui si gettano le fondamenta del neoliberalismo36, di cui si discute per la prima volta nel corso di un colloquio tenutosi a Parigi nel 1938.
Il colloquio venne dedicato alla figura di Walter Lippmann, giornalista e commentatore politico statunitense, autore di un fortunato volume divenuto noto come tentativo di riformare l’ordine economico individuando una terza via tra liberalismo tradizionale e collettivismo37. Quest’ultima richiedeva innanzi tutto di funzionalizzare le libertà e i diritti assolutizzati dai teorici della mano invisibile, la libertà contrattuale e diritto di proprietà in testa, per adattarli alle trasformazioni dell’ordine economico e alla necessità di una sua eterodirezione da parte di una mano visibile. Si doveva cioè edificare uno «Stato forte e indipendente» cui attribuire compiti di «severa polizia del mercato», come ebbe a dire durante il colloquio colui il quale coniò l’espressione «neoliberalismo»: per impedire la «disintegrazione» sociale cui preludeva il «rispetto delle regole puramente razionali del gioco della concorrenza», e realizzare così «la coincidenza dell’interesse particolare egoista e l’interesse generale». E per ripristinare «l’inquadramento volontario e naturale della gerarchia» in luogo dell’«ideale falso e sbagliato dell’uguaglianza» e dell’«ideale parziale e insufficiente della fratellanza», con il quale i fondatori del liberalismo avevano erroneamente sostituito «l’inquadramento artificiale e forzato della signoria feudale»38.
Quello neoliberale era insomma uno Stato di polizia economica, che per un verso valorizzava la libera iniziativa individuale, ma per un altro la costringeva entro schemi organicistici, utilizzati per sciogliere l’individuo entro l’ordine economico. Si sarebbe così prodotta quanto nello stesso periodo altri definivano in termini di «sinfonia sociale», per imporre la quale il potere economico doveva subire una sorte opposta a quella del potere politico. Se il secondo doveva essere concentrato e dunque statalizzato, il primo doveva essere azzerato, spoliticizzato, ridotto all’irrilevanza quale forza centrifuga in danno al funzionamento dell’ordine proprietario: per ridurre le condotte individuali a mere reazioni automatiche agli stimoli del mercato. E soprattutto per disinnescare la lotta di classe, demonizzata in quanto violazione di un «dovere giuridico» e trasgressione di un imperativo «sociale fondato sull’onore»39.
Si inizia così a intravvedere la trama dell’ordine economico cui rinvia il cosmopolitismo tanto caro ai fautori del mercato autoregolato.
Quest’ultimo sacrifica la sovranità statale sull’altare della libera circolazione dei fattori produttivi, ma nel contempo attiva una drammatica frizione tra l’estrema volatilità dei «flussi di segni di valore, merci, servizi, informazioni e membri delle élite che li governano» e l’irrimediabile radicamento nello spazio dei «corpi di coloro che chiedono cibo, casa, lavoro e affettività»40. Il tutto aggravato dalla costrizione di quei corpi entro schemi olistici, quelli derivanti dalla funzionalizzazione delle libertà economiche, destinati a incrementare il pericolo per la sopravvivenza della società rappresentato dallo sviluppo del mercato autoregolato.
Di qui l’alterazione dell’equilibrio tra capitalismo e democrazia come effetto ineliminabile del cosmopolitismo e della sua articolazione secondo i dettami dell’ortodossia neoliberale. Quest’ultima ha in effetti condotto alla crisi del liberalismo politico, attento a tenere insieme istanze libertarie e istanze egualitarie, e al trionfo del liberalismo economico, impegnato a promuovere le prime a scapito delle seconde: fino a produrre la commistione di riforma del mercato e affossamento della democrazia che abbiamo sottolineato rappresentare l’essenza del fenomeno fascista. Un effetto come si sa messo in conto dai custodi dell’ortodossia neoliberale, che non a caso discutono apertamente dei contrasti tra il loro credo e la tradizione democratica41.
Che il conflitto tra capitalismo e democrazia sia un risvolto inevitabile del cosmopolitismo lo possiamo ricavare dal contributo di fine anni Trenta, poco sopra richiamato, confezionato da un padre del neoliberalismo: Friedrich von Hayek42. Il contributo muove da una considerazione fondativa del pensiero cosmopolita, ovvero che il superamento della sovranità nazionale costituisce una condizione imprescindibile per promuovere la causa della pace. Il superamento non doveva però portare solamente a un’unione politica, bensì anche e soprattutto a un’unione economica, entrambe da realizzare nell’ambito di una «federazione interstatale»: una costruzione fondata su vincoli di intensità intermedia tra la mera «alleanza» e la «completa unificazione», ovvero tra la «federazione di Stati» e lo «Stato unitario». Compito di questa costruzione era realizzare la libera circolazione dei fattori produttivi, sul presupposto che solo abolendo le barriere economiche si sarebbero eliminate le occasioni di conflitto tra Stati nazionali: i membri della federazione disporrebbero di un «meccanismo efficace per la risoluzione di ogni controversia», e inoltre la federazione nel suo complesso sarebbe «tanto forte da eliminare qualsiasi rischio di attacco dall’esterno». Se invece ci si limitasse a realizzare «l’unità politica», ovvero si rinunciasse a «una politica fiscale e monetaria comune», rimarrebbe spazio in ciascuno Stato per «una solidarietà di interessi tra tutti i suoi abitanti», fonte di conflitti certi con gli «abitanti di altri Stati»43.
Anche per Hayek, come per i federalisti di cui ci siamo occupati, la pace non costituiva un valore fine a se stesso. Essa era funzionale a promuovere un ordine economico incentrato sulla libera circolazione dei fattori produttivi, celebrata in quanto capace di spoliticizzare il mercato: di vanificare l’azione dei pubblici poteri volta e influenzare la formazione dei prezzi e a ostacolare con ciò lo sviluppo del mercato autoregolato. Precisamente:
«L’assenza di barriere tariffarie e la libera circolazione di uomini e capitali tra gli stati della federazione ha alcune importanti conseguenze sovente trascurate. Esse limitano in massima parte le finalità delle politiche economiche dei singoli Stati. Se merci, uomini e denaro possono muoversi liberamente attraversando le frontiere interstatali, diviene di tutta evidenza impossibile influenzare i prezzi dei diversi prodotti con azioni dei singoli Stati. L’Unione diventa un mercato unico, e nel suo territorio i prezzi si distingueranno solo in base al costo di trasporto. Qualsiasi mutamento in qualsiasi parte dell’Unione nelle condizioni di produzione di qualsiasi merce che può essere trasportata influenzerà ovunque i prezzi. Similmente, qualsiasi mutamento nelle opportunità di investimento, o nella remunerazione del lavoro in qualsiasi parte dell’Unione, influenzerà più o meno tempestivamente l’offerta e il prezzo del capitale e del lavoro in tutte le altre parti dell’Unione»44.
Hayek celebra insomma il vincolo esterno rappresentato dalla forza condizionante di un mercato unico, che trasforma la circolazione incondizionata dei fattori produttivi in un catalizzatore di misure neoliberali, come quelle di cui ci siamo occupati con riferimento alla libertà di movimento dei capitali. Di qui la sintesi efficace di Wolfgang Streeck, secondo cui «una federazione comporta inevitabilmente la liberalizzazione»45.
Altrimenti detto il vincolo esterno impedirà agli Stati di promuovere forme di emancipazione diverse da quelle cui prelude l’equazione che identifica l’inclusione sociale con l’inclusione nel mercato: «sarà difficile produrre persino le discipline concernenti i limiti al lavoro dei fanciulli o all’orario di lavoro». Il tutto mentre occorreva evidentemente evitare che la stessa possibilità fosse accordata al sistema delle relazioni industriali, o peggio trasferita a una qualche autorità federale. Del resto, a quest’ultimo livello, incidono contrasti tra operatori economici sconosciuti a livello statale, tanto da rendere estremamente difficile, se non impossibile, la conclusione di accordi di matrice protezionistica o comunque di intralcio per il funzionamento di un mercato autoregolato. Se non altro perché «la diversità di condizioni e i diversi gradi di sviluppo economico raggiunti dai diversi membri della federazione faranno sorgere seri ostacoli alla produzione di regole federali»46.
5. Segue: la democrazia spoliticizzata e senza demos
Che il vincolo esterno si traduca inevitabilmente in una diminuzione degli spazi assicurati alla decisione democratica, costituisce dunque un risvolto ineliminabile e comunque voluto della costruzione federale. Per Hayek il livello statale era oramai in balìa della volontà di realizzare forme di redistribuzione delle risorse alternative a quelle assicurate dal mercato, e questo era dipeso dall’invadenza delle istituzioni democratiche. E solo affidandosi al livello sovrastatale si poteva ovviare all’inconveniente: «se il prezzo da pagare per lo sviluppo di un ordine democratico internazionale è la restrizione del potere e delle funzioni del governo, è comunque un prezzo non troppo alto»47.
Si badi che la democrazia di cui parla von Hayek, quella da realizzare a livello internazionale, era del tutto priva degli attributi tipici di quella di norma teorizzati per il livello nazionale. In quest’ultimo essa attiene all’esercizio della sovranità popolare, e a monte al riconoscimento di due fondamentali contrapposizioni: per un verso quella di governanti e governati, da cui l’affermazione per cui lo Stato governo è subordinato allo Stato società48, e per un altro quella tra componenti del popolo in conflitto con riferimento a specifici interessi, come quelli riconducibili al ruolo ricoperto entro il sistema produttivo. La sovranità popolare è cioè radicata in una comunità comprendente entità distinte e contrapposte, come i partiti e le formazioni sorte o emerse dalla loro crisi, tutte investite del diritto di concorrere alla formazione dell’indirizzo politico ben oltre il momento elettorale. E siccome l’esito della contrapposizione dipende in ultima analisi dalla differente forza sociale delle diverse entità, l’esercizio della sovranità richiede, oltre alla libertà, anche l’uguaglianza dei cittadini: uguaglianza sostanziale, collegata cioè a un ruolo attivo dei pubblici poteri, chiamati a bilanciare la debolezza sociale con la forza giuridica e in tal senso a redistribuire le armi del conflitto sociale49.
Certo, questo modo di intendere la sovranità popolare matura in anni successivi al contributo di von Hayek in materia di federalismo interstatuale: allora essa era ancora considerata un concetto dalla valenza meramente simbolica, incapace di mettere in ombra il dogma secondo cui la sovranità per antonomasia è quella dello Stato. Ciò detto, però, la concezione neoliberale della democrazia non si è nel frattempo aggiornata, se non altro in quanto risente della volontà di neutralizzare il riconoscimento della società in quanto vicenda funzionale a prevenire l’autofagia del mercato. Per questa la concezione continua a potersi sintetizzare ricorrendo a un ossimoro, ovvero all’idea di democrazia spoliticizzata: chiamata a sterilizzare il conflitto sociale, a disattivare le cinghie di trasmissione tra questo e le scelte dei pubblici poteri. A impedire che l’esercizio della sovranità popolare corregga l’ambiguità di fondo della democrazia borghese, incapace di fornire gli strumenti indispensabili a realizzare una «partecipazione continua»50.
Tutto ciò trova puntale riscontro nella produzione di von Hayek e in particolare in un contributo scritto sul finire del secondo conflitto mondiale. Lì si precisano le prerogative del livello interstatuale, che evidentemente non doveva ereditare quelle all’epoca riconosciute in capo agli Stati nazionali, bensì semplicemente impedire a questi ultimi di esercitare poteri diversi da quelli dello «Stato ultraliberale del laissez faire». La federazione interstatuale doveva cioè semplicemente «tenere a freno gli interessi economici», ridurre «le relazioni economiche internazionali» a «relazioni fra individui» e non anche «fra intere nazioni». Consentendo così di vanificare i meccanismi alla base dell’accettazione di politiche redistributive o comunque diverse da quelle volte unicamente a sostenere il mercato autoregolato e dunque il libero incontro di domanda e offerta:
«Il popolo di un qualsiasi Paese può essere facilmente persuaso a fare un sacrificio per sostenere quella che considera come la propria industria o la propria agricoltura, o per fare in modo che nel suo Paese nessuno scenda sotto un certo livello… Ma basta considerare i problemi sollevati dalla pianificazione economica di un’area come l’Europa occidentale per vedere che mancano completamente le basi morali per una simile impresa. Chi potrebbe immaginarsi che esista qualche comune ideale di giustizia distributiva tale da indurre il pescatore norvegese a rinunciare alla prospettiva di un miglioramento economico per aiutare il suo compagno portoghese, o l’operaio olandese a pagare di più per la sua bicicletta allo scopo di aiutare il meccanico di Coventry, o il contadino francese a pagare più tasse per sostenere l’industrializzazione dell’Italia?»51.
Peraltro il cosmopolitismo non si limitava a produrre un rifiuto delle politiche redistributive dal punto di vista morale. Consentiva anche di rimpiazzare i conflitti tra Stati nazionali con una sana «lotta per la concorrenza», e soprattutto la lotta di classe con il conflitto tra poveri:
«Per il lavoratore che vive in un Paese povero, la richiesta fatta da un suo collega più fortunato di essere protetto contro la concorrenza a salari bassi da una legislazione di salari minimi, si suppone nel suo interesse, è spesso niente più che un mezzo per privarlo della sua sola occasione di migliorare la propria condizione: quella di superare gli svantaggi che gli sono naturali, lavorando a salari più bassi rispetto ai suoi compagni degli altri Paesi… È quasi certo che in un sistema di pianificazione internazionale le nazioni con maggior benessere e quindi più potenti verrebbero odiate e invidiate dalle nazioni povere molto più che in un’economia libera: e queste ultime, a ragione o a torto, sarebbero tutte convinte che la loro posizione potrebbe migliorare molto più in fretta se fossero libere di fare ciò che vogliono. In realtà, se si arriva a considerare come un dovere per l’autorità internazionale attuare la giustizia distributiva fra i diversi popoli, lo sviluppo coerente e inevitabile della dottrina socialista farà in modo che la lotta di classe diventi una battaglia tra le classi lavoratrici dei diversi Paesi»52.
Si potrebbe a questo punto osservare che il cosmopolitismo di von Hayek è cosa diversa da quello promosso dal Manifesto di Ventotene, come sappiamo combinato con il proposito di emancipare le classi lavoratrici, seppure attraverso modalità inadatte a valorizzare i conflitti prodotti dal funzionamento del mercato autoregolato. La lettura del Manifesto dei federalisti europei, confezionato da Spinelli a metà anni Cinquanta e ritenuto una sorta di ideale completamento di quello di metà anni Quaranta, induce però a ridimensionare di molto le differenze tra i due testi.
Il Manifesto dei federalisti europei invoca l’edificazione di «un sistema di giustizia e di sicurezza sociale» capace di assicurare «a tutti i lavoratori un insieme di garanzie corrispondenti a un’economia incomparabilmente più ricca e più possente di quelle attuali». Ciò passa peraltro dall’identificazione dell’inclusione sociale con l’inclusione nel mercato: «imprenditori e lavoratori» risulterebbero «avvantaggiati dall’apertura di grandi mercati», e lo stesso varrebbe per «i consumatori che dall’abolizione delle frontiere vedrebbero aumentare il loro livello di vita». Di qui l’enfasi con cui si invoca la fine del «feudalesimo economico che si è sviluppato all’ombra degli Stati nazionali» e l’istituzione in sua vece di «un mercato comune fondato su una moneta unica e sulla libera circolazione degli uomini, delle merci, dei capitali, dei servizi»53.
Ma non è tutto. Si afferma di voler intervenire sulle disparità sociali, e tuttavia si valorizzano solo quella «provocate dalle divisioni nazionali» e non anche quelle riconducibili all’appartenenza di classe. Quest’ultima viene del resto screditata in quanto fonte di intralci al funzionamento della democrazia, secondo lo schema di cui ci siamo prima occupati discutendo dei passaggi del Manifesto di Ventotene in cui si formulano critiche alle istituzioni parlamentari non distanti da quelle tipiche del Ventennio. Le divisioni riconducibili all’appartenenza di classe sono infatti presentate come la ricaduta di un ordine incentrato sulla sovranità nazionale, in quanto tale inevitabilmente votato a fornire sostegno a «interessi particolari»: siano essi quelli di «gruppi capitalistici» o di «gruppi di lavoratori» tutti accomunati dalla «brama di guadagni sicuri ed elevati». Di qui ulteriori conferme dell’utilità di assecondare il libero gioco delle forze del mercato e comunque di adottare un punto di vista interclassista: i federalisti si rivolgono «a lavoratori e a imprenditori, a intellettuali e a gente semplice, a comunità locali e a gruppi professionali, a gruppi religiosi e a gruppi laici, a gente di sinistra e a gente di destra»54.
Questo schema veniva sostenuto da retoriche più o meno scontate, come quelle che oppongono le «vecchie generazioni» ancora affezionate alla lugubre e stantia dimensione nazionale alle «giovani generazioni per le quali lo Stato nazionale è sinonimo di immobilità politica e sociale, di umiliazione e impotenza internazionale, di chiusura complessiva di orizzonti ideali». Forse meno scontata, ma non meno fumosa, la retorica impiegata per identificare la comunità chiamata a incarnare l’ideale interclassista posto a fondamento della costruzione europea: il «popolo europeo erede di una comune civiltà, legato a un destino di comune rinascita o di comune decadenza»55.
L’individuazione di un demos per le costruzioni cosmopolite costituisce forse un aspetto secondario, se per esse si prevedono compiti minimali. È il caso delle costruzioni evocate da von Hayek, che discute del carattere democratico del livello sovranazionale e tuttavia ha in mente un contesto ostile all’esercizio della sovranità, un contesto spoliticizzato: ha in mente una democrazia senza demos. Del resto, come sappiamo, l’economista austriaco invoca la dimensione sovranazionale per ridurre le relazioni economiche tra Stati e mere relazioni tra individui, e dunque evita accuratamente di riconoscere l’esistenza di entità intermedie tra questi e il mercato. Se così fosse si intralcerebbe il funzionamento del meccanismo per cui il comportamento degli operatori economici viene ridotto a mera reazione automatica agli stimoli del libero incontro di domanda e offerta diretto dal meccanismo dei prezzi.
Diverso è però il discorso ove riferito alle costruzioni sovranazionali entro cui si identificano i medesimi poteri che si intendono sottrarre al livello statuale, incluso evidentemente quello legislativo. Qui è difficile prescindere dall’individuazione di un popolo di riferimento, almeno se si reputa che quest’ultimo potere debba essere riconosciuto in capo a un’assemblea di eletti con suffragio diretto: come in tema di unificazione europea si è realizzato alla fine degli anni Settanta, sulla scia di una richiesta in tal senso che sappiamo essere un punto fermo della tradizione federalista. Altrimenti detto, se si invoca democrazia a livello sovranazionale, non è dato sfuggire alle conseguenze direttamente riconducibili al significato etimologico dell’espressione.
A questo punto il ragionamento si fa però fumoso e in qualche modo condannato ad avvitarsi su espedienti retorici, come quelli utilizzati da chi valorizza «dal punto di vista giuridico» ma non anche «socio politico» l’esercizio della sovranità entro «un’unione sempre più stret-
ta tra i popoli dell’Europa»56, o di chi enfatizza la centralità del diritto come fondamento della costruzione europea in qualche modo chiamato a supplire alla mancanza di legittimazione popolare57. Questi espedienti sono apprezzabili nella misura in cui evitano di incentrare la riflessone sul popolo europeo attorno all’identificazione di tratti identitari ancestrali di matrice premoderna, il che esporrebbe al rischio di derive difficilmente compatibili con un progetto democratico. Ciò non porta tuttavia la riflessione sul demos europeo al riparo da un suo utilizzo come catalizzatore di idealità neoliberali, quelle che pretendono «di fare dell’individualismo competitivo l’unica identità collettiva possibile»58.
Proprio questo è però accaduto concependo la costruzione europea come vincolo esterno destinato a consentire il funzionamento del mercato autoregolato, a spoliticizzare l’area disegnata dal suo raggio di azione, sterilizzando in tale ambito il conflitto sociale. Si è in tal modo impedito di accedere a un’idea di popolo come «assemblea che decide»59, come «comunità solidale che stabilisce come distribuire la ricchezza prodotta in quel territorio», a prescindere dalla riconduzione al medesimo «gruppo etnico o religioso»60. A riprova di come non sia lecito «sperare che i popoli degli Stati… adattandosi alle leggi del mercato si uniranno grazie alla giustizia del mercato in un popolo ideale»61.
6. L’Unione europea come dispositivo neoliberale
Che l’Unione europea abbia in qualche modo ricalcato lo schema indicato da Hayek per promuovere le condizioni di un ordine internazionale di matrice neoliberale, è un fatto difficilmente contestabile62. Anch’essa venne concepita come argine opposto al riproporsi di conflitti bellici, ovvero come un presidio di pace, e si trasformò ben presto in un catalizzatore di riforme destinate a promuovere il mercato autoregolato: un mercato spoliticizzato, messo al riparo del conflitto sociale e in quanto tale alimentato dalla compressione del meccanismo democratico63.
Questo schema si appalesò al più tardi con il varo del percorso che ha condotto all’Unione economica e monetaria, ovvero con l’Atto unico europeo del 1986. Si deve a quest’ultimo lo stimolo decisivo alla liberalizzazione della circolazione dei capitali, prevista dal Trattato di Roma del 1957 ma inizialmente accantonata per una sorta di ossequio nei confronti del menzionato compromesso di Bretton Woods. Fu però con il Trattato di Maastricht che gli obiettivi della costruzione europea divennero manifesti, come del resto evidenziato da Guido Carli: Ministro del tesoro e rappresentante dell’Italia nei negoziati per la definizione dei contenuti del Trattato. All’epoca si evitò di stigmatizzare questo aspetto, se non altro perché le forze politiche critiche con il cosmopolitismo borghese avevano rimpiazzato l’internazionalismo crollato assieme al Muro di Berlino con l’europeismo incarnato dalla moneta unica. Con la precisazione, fornita da Claudio Petruccioli nel corso del dibattito parlamentare per la ratifica del Trattato, che prima si dicevano cose diverse solo perché la Guerra fredda impediva di riconoscere apertamente come «l’idea di Europa» fosse «implicita non solo nelle origini internazionaliste, ma anche nella coscienza dell’antifascismo e della Resistenza»64.
Ma torniamo a Carli, e al suo stupore per la diffusa incapacità di riconoscere le implicazioni dell’Unione economica e monetaria. Mentre era chiaro che la prima tappa di quell’Unione, a cui si deve il rovesciamento del compromesso di Bretton Woods, avrebbe condotto a ribaltare anche il compromesso keynesiano:
«È stupefacente constatare l’indifferenza con la quale in Italia è stata accolta la ratifica del Trattato di Maastricht, rispetto al clamore e al fervore interpretativo che si è potuto registrare in Francia, nel Regno Unito, in Germania, in Danimarca, nella stessa Spagna. La cosa è tanto più difficile da comprendere se si considera che per l’Italia, più che per tutti gli altri Paesi membri della Comunità, il trattato rappresenta un mutamento sostanziale, profondo, direi di carattere costituzionale.
L’Unione europea implica la concezione dello Stato minimo, l’abbandono della programmazione economica, la ridefinizione delle modalità di ricomposizione della spesa, una redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari ed aumenti quelle dei governi, l’autonomia impositiva per gli enti locali, il ripudio del principio della gratuità diffusa (con la conseguente riforma della sanità e del sistema previdenziale), l’abolizione della scala mobile (con la sconfessione del principio del recupero automatico dell’inflazione reale passata e l’aggancio della dinamica retributiva all’inflazione programmata), la drastica riduzione delle aree di privilegio, la mobilità dei fattori produttivi, la riduzione della presenza dello Stato nel sistema del credito e nell’industria, l’abbandono di comportamenti inflazionistici non soltanto da parte dei lavoratori, ma anche da parte dei produttori di servizi, l’abolizione delle normative che stabiliscono prezzi amministrati e tariffe»65.
È certamente lecito chiedersi se il cosmopolitismo europeo sia concepibile come fenomeno capace di produrre esiti differenti dalla diffusione virale dell’ortodossia neoliberale. Tanto più che fino al momento in cui si è avviato il percorso verso la moneta unica, ovvero prima dell’atto unico europeo, sembrava esserci spazio per esiti di altro tipo. E questi potevano trovare un appiglio testuale nei Trattati di Roma, che per un verso furono fin da subito concepiti come compendio di ortodossia neoliberale, ma per un altro mostrano tracce evidenti dell’epoca in cui ciò avvenne: l’epoca in cui ancora dominava il compromesso keynesiano.
Al principio dell’avventura europea si riteneva infatti che la politica monetaria comune dovesse emergere come riflesso di una politica economica e di bilancio condivisa, le cui finalità erano in un certo senso aperte. Nel merito i Trattati individuavano due priorità contrastanti, la prima fondamento di politiche keynesiane, la seconda espressione di un orientamento di matrice monetarista: rispettivamente «un alto livello di occupazione» e «la stabilità del livello dei prezzi» (art. 104). Solo dopo aver stabilito una gerarchia tra queste priorità si sarebbe individuata una politica monetaria coerente, ovvero incentrata sul sostegno della domanda se si trattava di promuovere l’occupazione, o al contrario sul controllo dell’inflazione se si intendeva privilegiare il profilo della stabilità dei prezzi. Inoltre si pensava che la politica di bilancio dovesse evitare «centralismi eccessivi», per tenere conto «della situazione congiunturale e delle particolarità strutturali di ogni Paese», e che si dovessero evitare «movimenti speculativi di capitali» al fine di preservare «l’autonomia delle politiche nazionali di congiuntura». Soprattutto si riteneva che il trasferimento di sovranità dal piano nazionale a quello europeo dovesse maturare di pari passo con lo sviluppo di forme di democrazia sovranazionale: con il «trasferimento di una corrispondente responsabilità parlamentare dal piano nazionale a quello della Comunità»66.
Ben presto, però, si è assistito a una netta inversione di rotta: come è noto, non solo la politica economica è divenuta il mero riflesso della politica monetaria, ma la seconda ha anche finito per incentrarsi sul tema del contenimento dell’inflazione. Il tutto presidiato dalla libera circolazione dei capitali, che come abbiano ricordato ha rappresentato il primo passo verso la costruzione dell’Unione economica e monetaria, a questo punto concepita come dispositivo neoliberale inutilizzabile per politiche economiche non contemplate dalla relativa ortodossia.
Ma non è tutto. Sulla scia di quanto ha rappresentato il Piano Marshall, la costruzione europea si è nel tempo sviluppata attorno a una sorta di mercato delle riforme che l’ha rafforzata nella sua irriformabilità, l’ha resa incapace di scrivere storie di successo diverse da quelle che contemplano il suo consolidamento in quanto dispositivo neoliberale. Nel tempo si è infatti affermato lo schema per cui l’assistenza finanziaria a qualsiasi titolo fornita dalle istituzioni europee costituisce la contropartita per l’adozione di riforme concernenti l’allineamento ai fondamenti dell’Unione economica e monetaria: è legata a filo doppio a un ferreo regime di condizionalità.
Da tempo si riconosce che il Piano Marshall non è stato solamente un «impulso esterno che ha innescato l’avvio di confusi movimenti di aggregazione degli Stati europei», bensì «qualcosa di molto più rilevante sotto il profilo dell’imprinting politico e economico»67. Meno diffusa è la consapevolezza che il meccanismo alla base di questo utilizzo del piano è stato adottato in altri momenti fondativi del processo di costruzione dell’unità europea: come possiamo ricavare innanzi tutto con riferimento ai principali allargamenti della costruzione europea.
Il primo fu quello verso sud, deciso per accogliere Paesi europei liberatisi da un regime fascista solo a metà anni Settanta, i quali avevano inteso prevenirne il ritorno con una ricetta diversa da quella di matrice cosmopolita: attraverso costituzioni che, oltre a ripristinare il sistema delle libertà politiche, promuovevano la democrazia economica. I pubblici poteri si sarebbero cioè occupati di mercato, tuttavia non semplicemente per rimediare ai suoi fallimenti, bensì anche e soprattutto per promuovere l’emancipazione individuale e sociale, se del caso contro il funzionamento della concorrenza. Di qui la frizione con l’ortodossia neoliberale, che proprio in quel torno di anni si preparava a prevalere sulle impostazioni di taglio keynesiano: frizione particolarmente accentuata nella carta fondamentale portoghese, nata in un clima ancora condizionato dagli eventi rivoluzionari che portarono alla sconfitta della dittatura fascista. A preparare il Paese per l’adesione ci pensò allora il Fondo monetario internazionale, che per l’occasione ricevette dalle autorità europee una sorta di incarico neppure tanto tacito a farsi carico della questione68. Di qui la concessione di due prestiti condizionati, con i quali si incentivò lo smantellamento delle partecipazioni statali nell’economia, si impose un contenimento della spesa pubblica nei settori della previdenza e dell’assistenza sociale, della sanità e dell’educazione, oltre a riforme in materia lavoristica finalizzate per un verso a ostacolare gli aumenti salariali, e per un altro a produrre una marcata «flessibilità nell’utilizzo della manodopera»69.
Il mercato delle riforme fu più esplicito in occasione dell’allargamento a est, quando esso venne affidato alla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, creata appositamente per assistere finanziariamente la transizione al capitalismo dei Paesi dell’Europa centro orientale e dell’Asia centrale un tempo appartenuti al blocco sovietico, e per questo celebrata come «la prima istituzione del nuovo ordine mondiale»70. L’accordo costitutivo della Banca contiene indicazioni molto chiare circa i suoi compiti e dunque circa il regime delle condizionalità affiancato all’assistenza finanziaria: essa promuove l’economia di mercato, quindi «l’iniziativa privata», lo «spirito imprenditoriale» e le «riforme strutturali» necessarie «allo smantellamento dei monopoli, al decentramento e alla privatizzazione». Nel Preambolo dell’accordo si operano riferimenti anche alla democrazia e ai diritti umani, che tuttavia devono essere letti alla luce di una precisazione da cui si ricava la funzione attribuita al ripristino delle libertà politiche, ovvero il loro essere connesse alla promozione delle libertà economiche così come concepite dal credo neoliberale: «il nesso tra aspetti politici ed economici» implica «un’attenzione primaria per i diritti civili», sicché i diritti sociali semplicemente «possono essere presi in considerazione», non però «nella valutazione dei progressi» fatti dal Paese assistito71.
Più recentemente il mercato delle riforme si è alimentato attraverso le modalità scelte per affrontare la cosiddetta crisi del debito, in deroga al cosiddetto divieto di bail out: il subentro da parte dell’Unione o degli Stati membri negli impegni assunti da soggetti pubblici (art. 125 TfUe). Del resto non si tratta qui di beneficiare direttamente il Paese assistito, bensì di evitare il cosiddetto effetto domino, ovvero che la sua condizione si riverberi sugli altri Paesi: si tratta di «salvaguardare la stabilità della Zona Euro nel suo insieme», motivo per cui l’assistenza finanziaria viene sottoposta a «una rigorosa condizionalità» (art. 136 TfUe). Il che è avvenuto e avviene sulla base di un medesimo schema: si impongono impegni a diminuire le uscite, a incrementare le entrate e a liberalizzare i mercati, incluso quello del lavoro. Tra gli impegni del primo tipo spiccano le misure volte a contenere la spesa pensionistica e sociale, compresa ovviamente quella per la sanità e l’istruzione, a congelare o ridurre le retribuzioni dei pubblici dipendenti, e in genere a ridimensionare la Pubblica amministrazione. Gli impegni destinati a incrementare le entrate si traducono invece in un programma di privatizzazioni, a cui affiancare un piano di liberalizzazioni, in particolare nei settori dell’energia, delle telecomunicazioni e delle assicurazioni, oltre che nei servizi pubblici locali in genere. Quanto alle riforme del mercato del lavoro, è costante l’impegno a ripristinare più elevati livelli di libertà contrattuale, utili fra l’altro a rimuovere gli ostacoli alla flessibilizzazione e precarizzazione del rapporto di lavoro da un lato, e alla sua svalutazione dall’altro. Il tutto completato dal vincolo a incidere sul sistema di relazioni industriali per limitare il potere dei sindacati dei lavoratori, ad esempio promuovendo la possibilità per gli accordi a livello di singola impresa o territoriali di derogare agli accordi conclusi a livello centrale. Da notare infine gli impegni a incentivare la partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa, misura capace di indurre cooperazione e collaborazione nelle relazioni tra capitale e lavoro e dunque a pacificare e spoliticizzare l’ordine economico72.
Peraltro il mercato delle riforme non ha interessato solo i principali allargamenti della costruzione europea e la ristrutturazione del debito sovrano. Come abbiamo detto, è oramai divenuto la modalità con cui si redistribuiscono le risorse entro l’Unione europea, come possiamo ricavare in modo esemplare considerando la disciplina dei fondi strutturali. Un regolamento fissa il principio per cui occorre collegare la loro efficacia a una «sana governance economica», ovvero a tutto quanto sia stato intrapreso a livello europeo nell’ambito del coordinamento delle politiche economiche nazionali: «occorre stabilire un legame più stretto tra politica di coesione e governance economica dell’Unione onde garantire che l’efficacia della spesa nell’ambito dei fondi strutturali e di investimento europei si fondi su politiche economiche sane»73.
E il mercato delle riforme è protagonista assoluto nel dibattito sul futuro delle finanze europee. In tale ambito si discute di un non meglio definito «strumento di convergenza e competitività» destinato a «fornire sostegno all’attuazione tempestiva delle riforme strutturali», in particolare delle «riforme difficili» da realizzare «nel quadro della procedura per gli squilibri macroeconomici»74. Si tratta di una nuova forma di assistenza finanziaria condizionata, in quanto tale non destinata a produrre benefici per il Paese assistito: lo strumento intende «sostenere riforme importanti con potenziali ripercussioni su altri Stati membri, sulla Zona Euro e sull’Ue considerata nel suo insieme»75. Discorso analogo per la proposta di istituire un fondo per la «stabilizzazione macroeconomica per reagire meglio agli shock che non si possono gestire al mero livello nazionale, a cui attingere in funzione del ciclo economico». Nel merito si esclude un utilizzo del fondo come strumento attraverso cui realizzare forme di sostegno alla domanda o anche solo di redistribuzione della ricchezza in qualche modo accostabili a quelle contemplate dal compromesso keynesiano. Di qui la precisazione per cui la stabilizzazione macroeconomica non intende «compromettere gli incentivi a condurre una politica di bilancio sana a livello nazionale, né gli incentivi a rettificare le debolezze strutturali nazionali»: al contrario esso vuole indurre la «conformità con il quadro complessivo di governance dell’Ue»76.
7. Cosmopolitismo, pace e giustizia sociale: il punto di vista del costituzionalismo
Il cosmopolitismo di cui ci siamo fin qui occupati non nasce come fine a se stesso, bensì come strumento destinato a realizzare finalità ben precise: promuovere la pace e dunque rappresentare un argine al ripetersi dei conflitti che hanno caratterizzato il secolo breve. Si trattava evidentemente di un fine nobile, che l’esperienza ha tuttavia mostrato non potersi raggiungere: lo abbiamo visto in modo esemplare considerando la costruzione europea, esperimento cosmopolita particolarmente sofisticato e avanzato. Invero, oltre la cortina fumogena rappresentata dalla retorica secondo cui l’assenza di conflitti militari tra Paesi europei si deve all’avventura iniziata con i Trattati Roma, emerge una realtà costellata di insidie alla pace: quelle riconducibili al tradimento delle istanze di giustizia sociale, tanto più nocive quanto più la costruzione europea si perfeziona nella sua essenza di dispositivo neoliberale attrezzato a respingere qualsiasi tentativo di invertire o anche solo correggere il segno politico della sua ispirazione di fondo.
I fautori del cosmopolitismo hanno inizialmente pensato di poter edificare un ordine economico sconfinato e nel contempo assecondare la domanda di giustizia sociale, ma si sono trovati di fronte a lampanti dimostrazioni di quanto le loro aspettative fossero destinate a essere frustrate. Se infatti il cosmopolitismo attiene alla libera circolazione dei fattori produttivi, come nello schema del federalismo interstatuale voluto da von Hayek ma promosso anche da Spinelli, la giustizia sociale è destinata a soccombere. Essa, infatti, presuppone forme di redistribuzione della ricchezza alternative a quelle riconducibili al funzionamento del meccanismo concorrenziale, che a loro volta richiedono la dimensione statuale per potersi sostenere. A riprova di come sia la dimensione sovranazionale, e non anche quella statale, a costituire il preludio di scenari caratterizzati dall’«assenza di limiti e di regole»77.
Si badi che anche la dimensione statuale, esattamente come quella cosmopolitica a detta dei suoi sostenitori, non è fine a se stessa. È al contrario uno strumento in ultima analisi invocato per produrre il medesimo risultato che altri reputavano e reputano ottenibile con il superamento della sovranità dello Stato: pace e giustizia sociale. Anche e soprattutto perché la sovranità dello Stato costituisce il presupposto per l’esercizio della sovranità nello Stato, ovvero della sovranità popolare nelle forme indispensabili a preservare un accettabile equilibrio tra capitalismo e democrazia. Lo stesso equilibrio alterato invece dal cosmopolitismo, di cui pure si invoca l’attitudine a contrastare l’invadenza del mercato78, che però combatte anche le prerogative politiche statuali e si rende così, inevitabilmente, funzionale allo sviluppo di un ordine economico fonte di insidie alla sopravvivenza della società.
Se così stanno le cose il mutamento di rotta non può derivare dall’intensificazione del vincolo esterno, come pure chiedono coloro i quali osservano come sovranità monetaria e sovranità di bilancio e fiscale non possano essere disgiunte: motivo per cui occorre rafforzare la collocazione sovranazionale della prima e invocare la medesima soluzione per la seconda79. Il completamento dell’Unione economica e monetaria avverrebbe infatti sul terreno dell’ortodossia neoliberale: consoliderebbe lo stato di cose e finirebbe per esporre la società a rinnovati rischi per la sua sopravvivenza. Il che finirebbe per vanificare lo sforzo di alimentare quanto si usa definire in termini di dimensione sociale della costruzione europea80, irrimediabilmente frustrata dal segno politico della sua dimensione economica. Anche se nel contempo si intensificasse il controllo democratico sul funzionamento delle istituzioni europee: ad esempio consentendo l’elezione diretta del Presidente della Commissione o del Consiglio Europeo81, o affiancando al Parlamento europeo un’assemblea composta da membri provenienti dai parlamenti nazionali e dal parlamento europeo82.
E lo stesso vale per le altre istituzioni di governo dell’ordine economico internazionale, che secondo alcuni potrebbero trasformarsi in vincoli esterni all’invadenza del mercato, se solo gli Stati nazionali cedessero loro la sovranità necessaria a sviluppare un ordine democratico sovranazionale83: se solo si accordasse «una maggiore legittimazione giuridica dell’interferenza negli affari interni degli Stati sovrani» e si consentisse così lo sviluppo di un «progetto di democrazia cosmopolitica»84.
Più sopra abbiamo indicato nell’assenza di un demos sovranazionale un impedimento allo sviluppo della democrazia cosmopolitica, o meglio uno stimolo a spoliticizzarla e dunque a negarne l’essenza. Altri impedimenti sono quelli evidenziati da chi ha riflettuto sui limiti di un sistema di tutela dei diritti fondamentali collocato un livello ultrastatuale, da molte parti presentato come un efficace contrasto degli effetti derivanti dagli sconfinamenti riconducibili ai processi di globalizzazione: in particolare quelli legati alla diffusione virale di un ordine incentrato sulle libertà economiche, in quanto tale destinato a confliggere con il sistema delle libertà politiche85.
I fautori di un sistema di tutela dei diritti fondamentali radicato fuori della cornice statuale reputano che esso potrebbe trarre fondamento da uno spazio giuridico globale oramai affollato di entità pubbliche e private la cui interazione è governata da regole, oltre che da istituzioni chiamate a farle rispettare, idoneo pertanto a renderlo efficace86. Quel sistema di tutela sarebbe anzi capace di soddisfare istanze emancipatorie in misura maggiore rispetto a quello radicato a livello statuale: una «pluralità di soggetti ormai tra loro connessi da reti planetarie» avrebbe alimentato e in parte soddisfatto «un innegabile bisogno di diritto e di diritti», i quali riprendono e ampliano il catalogo delle posizioni rivendicate dai «soggetti storici della grande trasformazione moderna»87.
Insomma, l’assenza dello Stato non sarebbe solo irrilevante, ma potrebbe addirittura divenire un fattore positivo: essa alimenterebbe la centralità dei diritti, i quali «fanno guardare al diritto dal basso dei portatori di diritto, invece che dall’alto dei comandi legislativi»88.
Un’osservazione del medesimo tipo si ritrova anche nel dibattito sul senso della governance in quanto forma di partecipazione ai processi decisionali alternativa al government: la prima celebrata come modalità cooperativa di risoluzione dei problemi incentrata sulla persuasione, e il secondo stigmatizzato perché rinvia agli schemi gerarchici tipici dello Stato nazionale, avvezzo ad operare attraverso divieti e imposizioni. Del resto l’idea di un sistema di diritti tutelati a prescindere dallo Stato e l’esaltazione della governance sono ingredienti di una medesima ricetta retorica: quella che per un verso demonizza il ruolo dei pubblici poteri in quanto intralcio allo sviluppo del mercato autoregolato, e per un altro occulta il loro contributo a quello sviluppo, come sappiamo indispensabile a rendere il capitalismo storicamente possibile. Anzi, la governance è lo strumento attraverso cui il sostegno dello Stato al funzionamento del mercato viene spoliticizzato, tenuto al riparo dal conflitto distributivo. È non a caso l’espediente utilizzato per cedere porzioni di sovranità a entità formalmente prive della competenza a riceverle, la cui invasione di campo viene ciò nonostante ammessa in quanto formalmente fondata su processi decisionali di tipo negoziale, come quelli cui rinvia la governance, e non anche sui meccanismi impositivi tipici del government. Il che vale innanzi tutto per la l’Europa unita, entro cui gli Stati nazionali conservano la competenza esclusiva in materia di politiche fiscali e di bilancio, e ciò nonostante devono sottostare alle scelte assunte nell’ambito della governance economica europea89.
Se così stanno le cose, il cosmopolitismo costituisce un catalizzatore di trasformazioni che riducono il livello nazionale a luogo nel quale si rinuncia a prescrivere e semplicemente si delinea «la forma giuridica delle decisioni politiche autonomamente assunte»90. Il che si traduce in una frustrazione del costituzionalismo in quanto teoria e pratica relativa alla legittimazione ma anche alla limitazione del potere. E lo stesso vale per un’ulteriore finalità di questa teoria e pratica, ovvero la tutela dei diritti: anch’essa frustrata dal cosmopolitismo, con ripercussioni da valutare alla luce di una massima ereditata dalla Rivoluzione francese: quella per cui «ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata… non ha una costituzione» (art. 16 Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino)91.
Occorre cioè riconoscere che i diritti fondamentali sono destinati a restare sulla carta, se ci si limita ad ancorarli a «uno spazio non politico o a bassa intensità politica»92: se l’implementazione di quei diritti non viene assistita da un articolato apparato anche coercitivo capace di assicurare alle disposizioni in cui sono disciplinati attributi ulteriori rispetto alla mera validità. Da un simile punto di vista, sebbene sia opportuno tenere a mente i «limiti del binomio statualità democrazia»93, e sebbene si possa considerare il nesso tra costituzionalismo e dimensione nazionale come l’esito di una «introversione statalista», occorre comunque riconoscere che questa ha poi inciso positivamente sull’efficacia della tutela dei diritti fondamentali. E che allo stato dell’arte i «diritti senza sovrano» sono «eteri», o in alternativa efficaci solo nella misura in cui la loro implementazione viene in ultima analisi assicurata da entità direttamente o indirettamente riconducibili al perimetro della statualità94.
Non bisogna allora invocare il ridimensionamento dei poteri statuali, bensì riorientare la loro azione. Occorre cioè impedire il loro utilizzo in quanto sostegno al mercato autoregolato, che non esclude e anzi richiede un intervento dei pubblici poteri indispensabile a renderlo storicamente possibile95, restituendo loro la funzione di mediatori nel conflitto redistributivo e dunque di catalizzatori di partecipazione democratica. Si colloca su questo terreno l’analisi di coloro i quali, in numero sempre crescente e dai punti di vista più disparati, salutano con favore il ritorno dello Stato e «un recupero non nazionalista della dimensione nazionale»96, accompagnato cioè dalla sottolineature della radicale differenza tra simili auspici e quelli di chi invoca confini al solo fine di promuovere identità violente e premoderne97: buone solo, come abbiamo detto, a sostenere la modernità capitalista e la sua ostilità nei confronti della democrazia.
Insomma, smontando la retorica della volatilità dei pubblici poteri, si contribuisce a mostrare il vero volto del cosmopolitismo, a metterlo a nudo in quanto fondamento di vincoli esterni e non certo fonte di libertà e uguaglianza. E nel contempo si riscatta la sovranità statale rispetto alla sua immagine di concetto «odioso perché presuppone uno stare sopra» e dunque implica «subordinazione»98. La si fa finalmente emerge come dispositivo indispensabile ad affermare il primato e l’autonomia della sfera politica rispetto alla sfera economica, con buona pace di chi osserva come il cosmopolitismo rifletta un dato di realtà: è «la realtà stessa che è diventata cosmopolita», che «sfugge allo sguardo nazionale»99. Invero, non solo il declino della sovranità non riguarda «il modello Stato» bensì alcune sue «specifiche e concrete realizzazioni»100, ma anche in quest’ultimo caso non ci troviamo di fronte a fenomeni naturali o comunque sottratti alla disponibilità della politica: non vi è nulla di spontaneo nello sviluppo dell’ordine economico alimentato dal cosmopolitismo, frutto come abbiamo detto di interventi anche incisivi dei pubblici poteri, il cui operato deve tornare a sintonizzarsi con la sovranità popolare in quanto fondamento dello stare insieme come società.