Precisazioni sul Gulag
mar 13th, 2010 | Di Roberto Massari | Categoria: Contributi, Storiadi Roberto Massari
SOMMARIO: 1. La terminologia – 2. Luoghi e ragioni della detenzione – 3. Date da tenere a mente – 4. Il silenzio di Trotsky – 5. La formazione del Gulag – 6. L’economia del Gulag (modo di produzione schiavistico) – 7. Declino e fine del Gulag – 8. Domande a chi ancor oggi fornisce copertura al Gulag – 9. Un’appendice brutta e una bella: a) L’Associazione Marx XXI – b) Luciano Canfora.
Avevo promesso delle precisazioni riguardo alla risposta (che dissi di condividere totalmente) di Giorgio Amico al mio breve testo sul Gulag scritto per Antonio Marchi di ritorno da Auschwitz – e finalmente trovo uno spazio di tempo per farlo.
Colgo l’occasione anche per chiarire meglio le questioni rimaste implicite (sulla cui sostanza sono certo che Giorgio concorda), nell’interesse di altri che possono leggere i testi precedenti. E poiché mi capita spesso di trovare affermazioni di persone di buona volontà ma scarso discernimento che con grande disinvoltura applicano all’analisi del passato categorie interpretative prodotte dai desideri che nutrono per l’oggi o per il domani, sono costretto a premettere che le mie precisazioni non sono il riflesso della mia attuale idea di democrazia rivoluzionaria (cioè di come vorrei che fosse la futura società rivoluzionaria anche in campo carcerario-repressivo), ma riguardano il passato repressivo dell’Urss, quel passato specifico: come andarono realmente le cose dopo l’Ottobre e quali alternative credibili vi siano state all’epoca. Magari comparirà anche, tra le righe, il mio pensiero su come mi sarebbe piaciuto che le cose fossero andate, ma di questo invito il lettore a non tener conto essendo materia storicamente irrilevante. Per quanto mi riguarda, invece, devo riconoscere che senza una mia riflessione documentata e condotta per anni su quelle vicende tragiche non sarei politicamente ciò che sono e non avrei le idee per le quali mi batto ormai da decenni. Di qui l’importanza di collocare quelle vicende nella loro reale prospettiva storica, consapevoli di quanto negazionismo si è sviluppato riguardo all’olocausto staliniano in misura esponenzialmente superiore (numericamente incalcolabile) rispetto al negazionismo verso l’olocausto nazista.
1. La terminologia
Il primo problema è il dovere di distinguere la terminologia – insieme ai concetti che vi stanno dietro – se ci si riferisce a un universo carcerario o a un universo concentrazionario (quali che siano i sinonimi nelle varie lingue e nei vari contesti storici). E questo perché in genere, quando si pensa alla prigione, viene in mente la celletta buia, umida e infestata dai topi, mentre l’idea del lagher (qui il termine va benissimo perché è lo stesso in tedesco e in russo) evoca subito la grande distesa della taiga, il gelo, le betulle o i morti sotto la neve come ce li hanno raccontati tante belle pagine letterarie e non solo russe.
Ebbene, lo stereotipo si può capovolgere, perché le celle possono anche essere ampie e luminose (o addirittura corredate da spazi aperti, come il confino per i politici italiani sulle isole in epoca fascista), mentre il lagher può essere lo spazio fangoso racchiuso da filo spinato e cani lupo, con accesso diretto alle camere a gas o ai cunicoli di una miniera. Non si tratta di stare a stabilire cosa è meglio e cosa è peggio, ma di capire che la distinzione è a monte, non è ambientale, non è logistica e nemmeno politica, ma è pur sempre di “classe” e in quanto tale importantissima. Cercherò di farmi capire, avvisando che la distinzione che segue non me la sono inventata io, ma la si ritrova nella buona letteratura sui lagher (per es. in Anne Applebaum e altri).
a) Si deve intendere per “prigione” (carcere, penitenziario, galera ecc.) quel luogo in cui vengono rinchiuse le persone per aver compiuto qualcosa, anche se quel qualcosa può essere fittizio, pretestuoso o considerato un crimine su basi giuridicamente contestabili, mentre la persona può pur sempre essere innocente o colpevole. Ma resta il fatto che la persona che finisce in prigione intesa in questo senso (quindi nella forma fisica di cella, baracca, carcere di sicurezza, ma anche campo di lavoro), sa la ragione per cui si trova lì e della violazione di quale regola è stata accusata. La condanna in questi casi è a termine anche se può arrivare ad essere esageratamente lunga, e corrisponde a un determinato orientamento giuridico, brutto o bello che sia (anzi, brutto o bruttissimo che sia). Il prigioniero, colpevole o innocente che sia, può organizzare una propria difesa giuridica o può sperare nella clemenza del tempo trascorso e, se effettivamente colpevole, sa che avrebbe potuto evitare di finire lì semplicemente non commettendo il crimine o il reato. Se innocente, può sempre sperare in un pentimento tardivo del vero autore del crimine, in un’amnistia ecc. La nostra civiltà giuridica si regge per l’appunto sulla certezza della pena, ma anche del reato. Che poi la pena si sconti in cella o in un campo speciale è del tutto irrilevante per la discussione che qui ci interessa.
b) Si deve intendere per “campo di concentramento” (o d’internamento, o lagher, o gulag) quel luogo in cui vengono rinchiuse le persone per ciò che sono e non per aver compiuto qualcosa. Le persone vi possono essere racchiuse per ragioni etniche (è la motivazione più frequente: vedi polacchi, lettoni, lituani, ceceni, tibetani, ma anche i cittadini di provenienza giapponese negli Usa dopo Pearl Harbour, gli sloveni in Italia e gli istriani in Jugoslavia, gli zingari in Germania, gli armeni in Turchia, gli etiopi in Abissinia ecc., senza dimenticare i nativi americani nel Nord e nel Sudamerica); religiose (ebrei in primo luogo, ma anche i protestanti battisti in Urss, oltre ai cattolici, i testimoni di Gehova ecc.); sociali (gli immigrati oggi in Italia, i kulaki o presunti tali in Urss, i vagabondi o le prostitute in vari contesti); politiche (nell’Urss di Stalin tutti gli appartenenti a partiti diversi da quello al potere, sionisti compresi); sessuali (gli omosessuali nel nazismo o a Cuba nelle Umap [Unidades militares de apoyo a la producción] nel corso degli anni ‘60).
Ma per tornare all’universo concentrazionario sovietico, tutte le categorie appena indicate vi entravano senza aver commesso un crimine specifico, senza un processo che si potesse considerare tale, senza una sentenza vincolante, e con una quantificazione della condanna puramente formale, visto che poi nel lagher verrà loro moltiplicata per due, per tre, protratta anche per decenni, oppure improvvisamente interrotta (eh sì, anche questo poteva accadere nel Gulag, a seconda dei periodi e per milioni di internati inconsapevoli del destino che li attendeva).
c) Un caso a parte sono le ragioni temporanee per finire in campi di concentramento, riguardanti soprattutto i prigionieri di guerra in tutti i paesi del mondo. È l’unico caso in cui si può parlare di reclusione necessaria o inevitabile, visto che l’alternativa sarebbe lo sterminio (come fecero i russi in Polonia, a Katyn e non solo). I prigionieri da qualche parte vanno pur messi, in attesa che la guerra finisca (nel pieno rispetto, si spera, della convenzione di Ginevra). Ma il guaio con Stalin e l’Urss è stato che migliaia e migliaia di prigionieri di guerra hanno continuato a restare nei lagher ancora molti anni dopo che la guerra era finita, soprattutto se provenienti da Paesi occupati dall’Armata rossa e annessi direttamente all’Urss o inclusi nella Cortina di ferro. Ancora negli anni ‘50 se ne potevano trovare (cioè, si trovavano i sopravvissuti che non erano morti di stenti nell’inferno del Gulag). In Italia è ben nota la vicenda dei soldati dell’Armir (un’Armata italiana sciolta a febbraio del 1943…), per i quali le ricerche (con scarsi risultati) sono state bene o male compiute per molti anni dopo la fine della guerra, al contrario di ciò che è accaduto con ceceni, polacchi, tedeschi del Volga, cittadini degli Stati baltici ecc. rimasti praticamente dimenticati ed estinti di morte “naturale” nel Gulag.
d) Le motivazioni alla reclusione che ci fanno parlare di Gulag e non di prigionia sono quelle sopra indicate, che potevano anche essere mescolate fra loro.
Una dimostrazione della tesi che ciò che rende “lagher” il lagher non è lo spazio fisico o l’edilizia carceraria, bensì la condanna a starvi dentro per ragioni di status e non di reati effettivamente commessi, è data dal fatto ben noto che in tutti i campi del Gulag vi era la compresenza di “politici” e delinquenti “comuni”. Nel concetto di “politici” rientrava quasi tutto, mentre i “comuni” erano veramente tali, per lo più organizzati in bande di criminali e quasi sempre disponibili a compiere i lavori sporchi per conto delle autorità carcerarie. Là dove la distinzione non era operativa vi furono lotte con alterne vicende per ottenere la distinzione. Ancora oggi c’è chi muore di sciopero della fame in altre parti del mondo per ottenere il riconoscimento dello status di “politico” (come Bobby Sand in Irlanda del Nord od Orlando Zapata recentemente a Cuba)
Se si accetta la distinzione terminologica che qui ho riassunto, dobbiamo tenere a mente che nell’universo concentrazionario (nel Gulag) ci si va per ciò che si è, mentre in prigione ci si va per ciò che si è fatto (o si è accusati di aver fatto). La differenza è grande, grandissima. E i luoghi della segregazione vanno esaminati alla luce di questa differenza, tralasciando per il momento il fatto che dovrebbero anche essere luoghi dignitosi e umanamente accettabili in entrambi i casi. Ma non è questo aspetto umanitario e sanitario l’oggetto della nostra riflessione.
(Tuttavia, per dare una lontana e pallida idea di come veniva affrontato l’aspetto sanitario nel Gulag mi limiterò a ricordare che nei lagher delle Solovki non si amputavano gli arti nei casi di cancrena per non avere degli invalidi improduttivi all’interno dei campi. Lascio immaginare come venissero curati altri infermi non-recuperabili all’attività “produttiva”. Foto e testimonianze d’epoca ci descrivono un livello subumano nel trattamento dei forzati che nulla aveva da invidiare al nazismo in quanto a ferocia. Eppure ho qui davanti a me una foto del lagher di Vorkuta, sul cui cancello d’ingresso campeggiava la scritta “In Urss il lavoro è una questione di onore e di gloria”, che va alla pari con quella arcinota di Auschwitz: “Arbeit macht frei”.)
2. Luoghi e ragioni della detenzione
Tutta questa lunga premessa perché bisogna chiarire di cosa stiamo parlando. Se si fa di tutt’erba un fascio, non si capisce più nulla. Ed è proprio ciò che accade in molta brutta letteratura che vuole far ricadere la responsabilità del Gulag sulle spalle di Lenin e Trotsky (ma di fatto sulla Rivoluzione dei Soviet, in modo da poter dire che tutte le rivoluzioni vanno a finire così e che le differenze tra i rivoluzionari del ‘17 e Stalin sono solo d’ordine quantitativo). Questa procedura di omologazione della prima repressione bolscevica con la successiva repressione staliniana è storicamente infondata e politicamente tendenziosa. Non a caso questo tipo di letteratura si dilunga nel descrivere i luoghi della detenzione, ma non le ragioni per le quali ci si finiva (con le relative statistiche ormai tutte disponibili). Alla fine, il lettore più ingenuo si lascia andare alla considerazione banale per cui in fondo anche i bolscevichi della prima ora costruirono i campi di concentramento e quindi erano degli staliniani in pectore. E a questo proposito la confusione tra lagher come normali prigioni (luoghi di detenzione) e lagher come universo concentrazionario giunge provvidenziale.
Ma qualcuno crede veramente che all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre si sarebbero potute abolire le prigioni e non vi sarebbero più state ragioni per mettervi dentro la gente? Che sarebbero scomparsi di colpo il crimine dalle strade, i furti, gli omicidi, le violenze e il tutto in un contesto di guerra civile? Che non vi sarebbe stato bisogno di imprigionare anche ex membri della polizia zarista, agenti delle potenze straniere che aggredivano la giovane repubblica dei soviet, residui di forze repressive come i famigerati “Centoneri” ancora in circolazione, o i nuovi nemici della Rivoluzione d’Ottobre, pericolosi non per le loro idee ma per la loro azione pratica? Se così fosse stato, resterebbe da spiegare come mai fu necessaria una sanguinosa guerra civile e chiarire poi quale sorte sarebbe dovuta toccare a chi lottava dalla parte dei Bianchi.
Ma c’era anche il problema dei “Rossi” e dei “Neri”, cioè rispettivamente quei terroristi socialrivoluzionari (non tutti i membri del partito s.r., ma alcune fazioni) e quelle “Guardie Nere” (brigate clandestine costituite da quell’esigua parte degli anarchici che all’indomani dell’Ottobre cominciarono la lotta armata clandestina contro il governo “dei soviet”) che si dedicarono all’uccisione di personalità bolsceviche. Sotto i loro colpi caddero nel corso del 1918 il popolare dirigente bolscevico Volodarskij, il dirigente cekista Uritskij, lo stesso Lenin fu ferito da Dora Kaplan. E a settembre del 1919 il fatto più clamoroso: il gruppo degli Anarchici clandestini lanciò bombe contro la sede del Comitato di Mosca del Partito comunista, mentre il Comitato era riunito: dodici morti e 55 feriti, tra i quali nomi celebri come Bucharin, Iaroslavskij, Steklov. Le altre correnti anarchiche condannarono il folle gesto e furono d’accordo sulla punizione dei responsabili di simili crimini politici. Il guaio, però, com’è noto, è che i bolscevichi approfittarono di questi episodi per regolare i conti anche con chi non era direttamente implicato, dando inizio a una grande ondata repressiva che viene ricordata in genere come “Terrore rosso” e la cui giustificazione ideologica è contenuta nell’unico libro veramente orrendo scritto da Trotsky in tutta la sua vita (si veda cosa scrivevo nel 1990 a proposito di Terrorismo e comunismo nella mia monografia su Trotsky e la ragione rivoluzionaria).
Ebbene, ferma restando in chiave storica la necessità di denunciare la successiva strumentalizzazione che i bolscevichi fecero del terrorismo “rosso” e “nero”, occorre anche però dire onestamente che cosa si sarebbe dovuto fare in concreto con degli oppositori politici di quel genere, disposti a uccidere o a lanciare bombe. Se proprio si vogliono escludere le fucilazioni (che in parte vi furono), restavano il carcere o il confino. Non si può fingere che vi fossero alternative diverse. E non si possono nemmeno giustificare gli attentatori dicendo che i bolscevichi quelle bombe se le erano meritate tra il 1918 e il 1920 (!). All’epoca una simile bestialità non la disse la maggioranza delle correnti anarchiche (io ne ho contate quattro, perlomeno), non la disse il celebre anarchico statunitense Alexander Berkman che era presente e non la disse Victor Serge. E non si confondano queste “scaramucce” repressive del 1918-20, con l’eccidio di Kronstadt che era ancora di là da venire (sarà a marzo del 1921) e le successive deportazioni.
Dopo l’Ottobre, le prigioni dovevano necessariamente continuare a funzionare (e per questo c’era l’edilizia carceraria d’epoca zarista che però si rivelò ben presto insufficiente a contenere tutti i nuovi detenuti). E i prigionieri di guerra (i soldati delle armate bianche catturati e non fucilati durante la guerra civile) dovevano necessariamente essere messi provvisoriamente in campi di concentramento, visto che l’alternativa di continuare a ucciderli non sarebbe stata certo migliore.
Questo è il contesto storico in cui, nel 1918, il governo bolscevico comincia a costruire la “nuova” struttura repressiva, fatta di tribunali, leggi ad hoc, condanne a morte o alla reclusione per i nemici della Rivoluzione, veri o presunti tali. Sappiamo che non furono rose e fiori, sappiamo che tra gli accusati che finivano in mano alla Ceka (la nuova polizia che anticipa tutti i successivi cambiamenti di nome dell’efferata polizia staliniana, chrusceviana e brezneviana fino ad Andropov e il primo Gorbaciov compresi) vi erano anche degli innocenti, oppure personaggi politicamente scomodi. Ma erano pur sempre tutti accusati di aver fatto qualcosa, di aver violato questa o quella legge. In alcuni casi era certamente vero, in altri un po’ meno e comunque non tutte le leggi del nuovo governo meritavano lo stesso rispetto. Resta il fatto, però, che per tutta la durata della guerra civile nell’insieme non si verificarono fucilazioni di massa di civili o deportazioni prive di condanna o motivazione giudiziaria. I tribunali infliggevano le pene e i carceri si riempivano di condannati, giuste o ingiuste che fossero le sentenze, come in altri contesti storici in cui avviene la distruzione di un potere di classe e si comincia a costruire un nuovo ordine sociale (tribunali speciali ed esecuzioni erano avvenute nelle rivoluzioni inglese, americana, francese e avverranno in quella cubana, giuste o sbagliate che fossero, ma senza dar vita al fenomeno dei lagher, del gulag o delle deportazioni di massa).
Il nuovo ordine sociale instaurato in Russia (come sappiamo in quanto posteri, anche se molti continuano a non capirlo), si trasformerà nella dittatura sanguinaria di un nuovo ceto: la burocrazia incarnata fondamentalmente dal partito bolscevico (divenuto nel frattempo Pcr e poi Pcus). Ma nei primi anni dopo la Rivoluzione esisteva ancora in molti militanti di quello stesso partito (dirigenti o di base) la ferma intenzione di creare un nuovo ordine sociale (lo confermano moltissimi testi dell’epoca che oggi possiamo leggere liberamente e soprattutto la necessità che ebbe Stalin di sterminare tutta, ma proprio tutta, la vecchia guardia rivoluzionaria per assicurarsi il potere).
Il Gulag stava per nascere, ma negli ultimi anni di vita politica di Lenin non era ancora nato in quanto Gulag. In più non se ne conosceva alcun precedente storico che potesse far riflettere e mettere in guardia le forze sane del mondo politico bolscevico, menscevico, anarchico, operaista, decemista, socialrivoluzionario ecc. Se si pensa che ancor oggi hanno libero accesso nelle sinistre di varie parti del mondo (in Italia più che altrove) personalità politiche o intellettuali che continuano a non aver capito cosa sia stato il Gulag, si possono immaginare in parte le ragioni per cui non lo abbiano capito nemmeno molti dei contemporanei di allora.
3. Date da tenere a mente
Sino alla fine del 1921 Lenin ha il controllo totale della situazione. E lo ha insieme a Trotsky, come è ben noto. La prima comparsa del male che toglierà Lenin di mezzo si ha alla fine del 1921, quando il dirigente bolscevico deve ritirarsi dall’attività pubblica per alcune settimane. Ma il colpo che quasi lo paralizza è del maggio 1922. Il ritiro definitivo per un nuovo colpo è di dicembre. Inizia da quel momento il periodo della prigionia relativa in mano a Stalin, durante la quale Lenin riesce ancora a scrivere di vari argomenti, ma soprattutto contro Stalin e sulla necessità di farlo fuori (la celebre Ultima battaglia di Lenin ricostruita da Moshe Lewin nel 1967). E Stalin, dopo aver fatto di tutto per impedire a Lenin di mettere in pratica il suo proposito, a partire dal 6 marzo 1923 lo uccide politicamente (nel senso che da quel momento la prigionia divenne totale e nessuno poté più comunicare con Lenin, né questi riuscì più a far arrivare all’esterno il proprio pensiero). La “voce” secondo cui Stalin lo avrebbe anche avvelenato non c’interessa: esser riuscito a far tacere un cervello come quello di Lenin era già come averlo ucciso.
Diciamo quindi che sino alla fine del 1922 Lenin (e Trotsky con lui) ha la responsabilità diretta di tutto ciò che accade in Urss. Dopo quella data e fino al marzo 1923 una responsabilità talmente indiretta che si può considerare quasi nulla, visto il cordone sanitario che Stalin gli aveva creato intorno. Dal 6 marzo più nessuna in assoluto, fino alla morte clinica (21 gennaio 1924). Trotsky, a sua volta e per vie diverse, viene travolto contemporaneamente a Lenin e comunque non si differenzia da lui.
Ebbene, se annotiamo le tappe dell’ondata repressiva di parte bolscevica e la sua trasformazione in arma della dittatura staliniana, vediamo che il periodo della malattia di Lenin costituisce un preciso spartiacque cronologico tra due fenomeni storicamente diversi. L’individuazione di tale spartiacque non ci consente di garantire matematicamente che Lenin si sarebbe opposto alla crescita del Gulag, ma nemmeno che lo avrebbe sostenuto. Per tutto ciò che ho letto in vita mia (per più di quarant’anni) sull’operato di Lenin e per il significato inequivocabile della sua ultima battaglia contro Stalin e i suoi accoliti, resto fermamente convinto che Lenin non avrebbe accettato il salto di qualità dalla repressione cekista al Gulag, e sono certo anche che non avrebbe accettato i tanti altri processi negativi dei quali il Gulag si accingeva ad essere espressione: cioè la controrivoluzione burocratica, il blocco della transizione al socialismo, la condanna alla stagnazione cronica dell’economia sovietica, il nazionalismo granderusso, lo sterminio del partito alla cui costruzione Lenin aveva dedicato la propria vita ecc. Non a caso, nel 1922 Lenin aveva proposto a Trotsky di costituire con lui una frazione segreta contro Stalin, ottenendone purtroppo un rifiuto, cui seguirà tutto il successivo comportamento trotskiano incoerente e inspiegabile allo stesso tempo (incoerenze che ho dettagliatamente ricostruito nel mio lavoro su Trotsky già ricordato e che nemmeno Isaac Deutscher o Pierre Broué sono riusciti a spiegare).
4. Il silenzio di Trotsky
E parlando di Trotsky, nonostante la mia grande ammirazione per la sua opera di teorico e di rivoluzionario, devo ricordare che nell’intera sua opera dell’esilio, da La rivoluzione tradita a In difesa del marxismo, non esiste una denuncia del sistema del Gulag e dei milioni di vittime che ciò implicò. Ho l’impressione che egli non vi abbia mai nemmeno accennato e comunque, se qualche riferimento mi fosse sfuggito tra i suoi scritti, dev’essere stato talmente impercettibile da passare inosservato (e quindi insignificante). Ed è impensabile, ovviamente, che egli non fosse al corrente di una così immane tragedia, vista la letteratura che sul tema circolava in Occidente già negli anni ‘30, prodotta da fonti varie e corredata dai tanti memoriali degli evasi o di parenti di vittime del Gulag. E non si dimentichi anche che Trotsky – che con gli oppositori russi aveva mantenuto intensi rapporti anche in quegli ultimi anni della sua vita (come hanno dimostrato gli Archivi di Harvard dopo la loro apertura) – non aveva certo bisogno di memoriali per essere informato direttamente della costruzione del Gulag e dell’olocausto che vi si stava realizzando nell’interesse della burocrazia sovietica. Trotsky tacque e il movimento trotskista con lui.
[Aggiungo che negli anni della mia formazione giovanile in seno alla Quarta internazionale – sulla cui stampa ovviamente del Gulag si parlava, ma troppo episodicamente e per lo più in rapporto a determinati oppositori politici e non in rapporto ai milioni di vittime – non mi è stato insegnato a considerare tale sistema come parte integrante dell’economia sovietica e a valutare in tutta la sua portata quale passo indietro sul piano dell’evoluzione sociale esso avesse rappresentato. Ricordo che noi della Quarta fummo i primi, a sinistra, a propagandare la figura di Solzenicyn (soprattutto dopo la sua lettera al IV Congresso degli scrittori sovietici, maggio 1967), ma non facemmo granché per propagandare i contenuti di Arcipelago Gulag, il cui primo volume apparve nel 1973 e l’ultimo nel 1978, nonostante il grande trauma antistaliniano che quei libri provocarono in tutto il mondo. Fu una grande occasione perduta.
La più recente occasione perduta, invece, non ha più riguardato la sola Quarta ormai ridotta ai minimi termini, ma l’intera sinistra antistalinista mondiale che avrebbe dovuto precedere di propria iniziativa, con un’opera equivalente, la pubblicazione de Il libro nero del comunismo – apparso nel 1997 – e non lasciarlo fare al nemico: in questo caso, come stiamo verificando, non si perse solo una battaglia, ma l’intera guerra.
In Italia, però, erano quelli gli anni di espansione di Rifondazione, partito fondato dall’ala più staliniana del vecchio Pci (Cossutta e simili), sul cui giornale la questione dei crimini dello stalinismo fu (e rimane) tabù, a parte il breve e un po’ comico momento di “disgelo” di cui si rese interprete Fausto Bertinotti. Sfido chiunque a citarmi nomi di personalità politiche o studiosi più o meno noti che su quel giornale abbiano contrastato gli articoli elogiativi dello stalinismo che periodicamente vi apparivano, denotando omertà o tacita approvazione nei confronti del sistema staliniano in generale e del Gulag in particolare. Come eccezione per il quotidiano Liberazione e con una certa frequenza posso citare solo il nome di Antonio Moscato (che tra l’altro è un autentico specialista dell’argomento). Non me ne risulta alcun altro, però, né della corrente di Moscato né delle altre correnti trotskoidi presenti nel Prc, e comunque niente di paragonabile a quanto era apparso sul quotidiano Lotta continua negli anni ’70 (ma non su il Manifesto). Ciò spiega in parte il rifiorire dello stalinismo italiano, su cui si veda l’appendice in fondo.]
5. La formazione del Gulag
Gli storici che amano confondere la terminologia carceraria, ci segnalano che il primo a parlare di “campi di concentramento” nella Russia postzarista (eh sì, perché i campi c’erano stati anche all’epoca degli Zar) fu Trotsky, il 4 giugno 1918. Ma se si va a controllare, si vede che in realtà egli si riferiva ai campi di concentramento come luogo in cui racchiudere i prigionieri della guerra civile (da lui condotta alla vittoria, come sappiamo, ma al prezzo di crudeltà e provvedimenti inumani che si possono capire nel contesto storico, ma non si possono giustificare in una prospettiva di rivoluzione sociale – e su questo Giorgio Amico ha ragione).
Dei campi parla anche Lenin ad agosto e da settembre 1918 comincia la grande ondata repressiva sotto la direzione di Dzerzinskij, il polacco originariamente legato a Rosa Luxemburg, divenuto capo spietato della Ceka. Nella primavera del 1919 si varano i primi decreti sull’istituzione dei campi speciali (intesi ancora come campi carcerari, luoghi di detenzione) e da quel momento inizia il lavoro logistico di costruzione o adattamento dei siti prescelti.
Il primo e più famoso di tali campi è quello delle isole Solovki, un insieme di vecchi monasteri adibito a luogo di reclusione di massa. C’è la ricerca accuratissima di Francine-Dominique Liechtenhan (Il laboratorio del Gulag, Lindau, 2009) che ricostruisce passo a passo la storia di quel primo avamposto del Gulag, del quale aveva del resto già parlato ampiamente Solzenicyn. Ebbene, alle Solovki, i primi “socialisti” (cioè anarchici, menscevichi, s.r., prigionieri politici in generale) arriveranno a giugno del 1923, due anni dopo Kronstadt e vari mesi dopo che Stalin ha messo Lenin in condizioni di non poter più nuocere… a lui. Ciò non toglie che i tribunali stiano già lavorando sodo, se alla fine del 1920 i campi di lavoro forzato sono già 84, per un totale di 46.736 prigionieri.
A ottobre del 1923 Dzerzinskij fa assegnare alla Ceka (ormai Gpu) la proprietà dei monasteri delle Solovki per farne “campi a destinazione ufficiale”. Dalla fine del 1923 in poi le Solovki diventano il campo sperimentale per antonomasia da cui nascerà il Gulag. Questo verrà “dichiarato” ufficialmente nel 1934 con la costituzione della Direzione di tutti i campi di lavoro forzato (l’acronimo Gulag, per l’appunto), ma in realtà la sua formazione avviene nella seconda metà degli anni ‘20.
Dice Anne Applebaum (Il Gulag, Mondadori 2004) che nel 1923, quando si cominciò a mandare i politici nei lagher (alle Solovki, soprattutto) si tendeva a concedere loro tutto ciò che chiedevano perché lo scopo principale era di allontanarli dalle grandi città. E questi politici, trattati ancora “umanamente”, trovavano nei lagher una popolazione preesistente di detenuti comuni (criminali comuni) che vivevano in condizioni disumane, se non propriamente bestiali. È noto che con la gestione staliniana dei campi, il rapporto si capovolgerà a favore dei criminali comuni, soprattutto se organizzati in bande. I politici che giungono alle Solovki nel 1923 sono poche centinaia, nel 1925 saranno circa 6.000. (Prego di tener nota anche di queste cifre, se si vuole aver chiara la cronologia di nascita del Gulag. E si noti come la crescita del Gulag avviene ad anni di distanza dalla fine della guerra civile, quando cioè non esiste più nemmeno il pretesto della “sicurezza” difensiva.)
6. L’economia del Gulag (modo di produzione schiavistico)
Nel 1925 il sistema dello Slon (cioè i Campi settentrionali a destinazione speciale) ancora non è economicamente autosufficiente. E quindi, alla fine del 1925, nel partito e nello Stato burocratico si apre la corsa “teorica” a chi fa le proposte migliori per una trasformazione produttiva dei campi, allo scopo di dare una dimensione di massa al lavoro forzato. È triste dirlo, ma la lettera che apre il “dibattito” è di Pjatakov (ex anarchico, poi boscevico, futuro oppositore di sinistra, fucilato nel 1937 dopo aver “confessato” i suoi “crimini”). In termini storico-giuridici, il 1925 si può considerare il vero anno di svolta, cioè l’anno in cui si adotta la legislazione necessaria a trasformare le Solovki (lagher modello) e l’intero Slon da luoghi di reclusione per criminali comuni e politici oppositori a campi di lavoro forzato, come parte integrante dei piani quinquennali di sviluppo economico del paese (piani sui quali tiriamo un pietoso velo in termini di efficacia economica e i cui effetti ho in parte descritto nella mia relazione del 1983 sull’Urss di Andropov).
Dal 1925 in poi la storia della repressione staliniana diventa in realtà la storia della realizzazione di un megaprogetto economico fondato sulla reintroduzione del lavoro schiavistico di milioni di persone (quel lavoro schiavistico che era stato abolito formalmente nel 1861 dallo zar Alessandro II, liberando circa 20 milioni di servi della gleba).
Non sto qui a raccontare come le cifre originarie di alcune decine di migliaia di internati si trasformarono nuovamente in milioni di schiavi o zek (come si disse con terminologia tristemente diffusa). Dati statistici ufficiali parlano di circa 18 milioni di cittadini sovietici passati nel Gulag tra il 1929 e il 1953. Cifra ammessa anche da Chruscev, ma per il periodo 1937-1953 (anno della morte di Stalin). Tuttavia, se si aggiungono i prigionieri di guerra e altre categorie di cittadini non-sovietici e si considera l’intero arco temporale di sopravvivenza del Gulag, si ottiene, secondo Anne Applebaum, la cifra di 28.700.000 condannati ai lavori forzati (cifra che appare mediamente più realistica rispetto a valutazioni ancor superiori che l’autrice rifiuta).
Se si pensa che nel 1952 il Mvd (il dicastero che si occupava in modo particolare dei lagher all’interno della più generale struttura poliziesca sovietica) controllava il 9% degli investimenti di capitale in Urss, si ha anche la misura dell’importanza economica assunta da questi nuovi schiavi dell’era staliniana: e se qualcuno volesse mettersi a misurare il “tasso di profitto” di ciascun lavoratore forzato per settore lavorativo (miniere, estrazione dell’oro, taglio del legname, conceria e lavorazione del cuoio, edilizia, strade, apertura di canali, dissodamento di terre selvagge ecc.) avrebbe oggigiorno a disposizione tutti i dati statistici necessari, perché gli aguzzini staliniani, alla pari dei loro colleghi nazisti, erano estremamente accurati nel tenere i registri della forza lavoro impiegata, gli elenchi delle forniture e le cifre del giro d’affari. Tali cifre venivano anche falsate dagli stessi responsabili dei campi di lavoro, per far vedere ai loro superiori nella burocrazia quanta efficienza e quanta produttività avessero i “loro” reclusi: ma gli studiosi odierni sanno tener conto anche di queste falsificazioni, tanta è la mole di materiali documentari di cui possono finalmente disporre dopo la fine dell’Urss.
Resta il fatto, comunque, che per un marxista non si potrebbe parlare in questo settore di “tasso di profitto”, trattandosi di un settore ad economia non-capitalistica, in pratica di un modo di produzione schiavistico all’interno di un sistema di collettivismo burocratico. Forse si potrebbe parlare di estrazione di surplus, ma ciò ci porterebbe ad altre discussioni (che erano però molto in voga finché la burocrazia è rimasta al potere nell’Urss), facendoci perdere di vista l’intento originario di queste note, che era per l’appunto dimostrare che tra gli inizi della repressione bolscevica e la nascita del Gulag in quanto Gulag – a cavallo della paralisi e scomparsa di Lenin (quindi anche di Trotsky ormai in disgrazia) – si verifica un salto di qualità nei numeri delle persone coinvolte (da decine di migliaia a milioni) e nella funzione sociale del sistema repressivo (da misura di repressione politica a investimento produttivo di tipo schiavistico). Si prega di tener conto di questi dati, quantitativi e qualitativi allo stesso tempo.
7. Declino e fine del Gulag
Vorrei ricordare che anche il 1928 è a suo modo un anno di svolta, non per noi che studiamo il fenomeno, ma per la popolazione del Gulag: è l’anno in cui viene introdotto il metodo “Frenkel” (dal nome di un recluso comune diventato capo organizzatore del lavoro forzato) consistente nell’assegnare il cibo ai detenuti a seconda della loro produttività (abbandonando così definitivamente qualsiasi distinzione fra detenuto politico e criminale comune). Ciò accelerò la morte in massa dei detenuti più deboli, vecchi, malati, bambini (non si dimentichi mai che nel Gulag finivano anche i famigliari dei detenuti e che molti bambini vi nascevano già prigionieri), rendendo ancora più esplicita la natura schiavistica del sistema.
Ma visto che la condizione dei detenuti politici era ormai nettamente inferiore a quella dei criminali comuni, questi ultimi, con le loro organizzazioni interne, riuscirono ad assumere un’autonomia via via crescente nella gestione schiavistica dei lagher. Ciò creerà seri problemi di controllo dei lager stessi. E dopo la guerra, quando crescerà moltissimo la presenza di cittadini non-russi o non-sovietici, il fenomeno si articolerà a seconda delle varie nazionalità, anch’esse dotate di strutture interne di organizzazione clandestina.
Saranno queste strutture a rendere via via più difficile il controllo del Gulag e sempre meno economica la sua gestione. Del resto, il sistema non forniva solo braccia da lavoro ai piani economici della burocrazia centrale, ma doveva assicurare anche stipendi e privilegi a un esercito enorme di impiegati e funzionari piccoli e medi dei lagher che nel Gulag vedevano la fonte del proprio reddito, della propria stabilità economica. Senza contare gli addetti ai trasporti dei forzati, i “ragionieri” dello sterminio, il personale sanitario e penitenziario: masse di dipendenti dello Stato burocratico che a loro volta costituivano una base in continua espansione (secondo la ben nota “legge” di C. Northcote Parkinson, 1957) dell’immensa piramide burocratica sovietica.
Dopo la morte di Stalin, dopo rivolte e scioperi in molti campi speciali (eventi conclusi per lo più tragicamente e dei quali oggi si può finalmente parlare anche in Russia), dopo le “rivelazioni” di Chruscev, il Gulag entrò in un periodo di rapido declino e, a causa della sua non-economicità, nel 1957 fu chiuso ufficialmente. Smetteva d’essere un settore dell’attività produttiva ispirato a criteri schiavistici, per ridiventare gradualmente strumento essenziale di repressione politica e culturale, ma su scala molto ridotta. Finiva l’epoca del lavoro forzato di massa e cominciava l’epoca della caccia ai dissidenti.
Per questi ultimi si sarebbe attivata una speciale categoria di aguzzini “sanitari”, visto che la nuova geniale trovata dell’era brezneviana sarà quella di considerarli malati di mente e di rinchiuderli in ospedali psichiatrici speciali. Ma non saranno più milioni di persone, perché il sistema ha smesso di deportare popolazioni o gruppi etnici, ma ha bisogno di imprigionare degli autentici prigionieri “politici”, dai quali ci si attende il silenzio, senza alcuna ricaduta economica. L’universo concentrazionario torna ad essere gradualmente un universo carcerario di tipo classico, con un trattamento particolare riservato agli intellettuali e ai dissidenti. Anche questi vengono condannati a pene esorbitanti ogni logica giudiziaria, ma la loro valenza simbolica è talmente forte che il sistema brezneviano-postchrusceviano ne è letteralmente terrorizzato. Li perseguita, li arresta, li rinchiude, li isola, ma quando la loro detenzione diventa troppo difficile da gestire, preferisce esiliarli all’estero, secondo la lista più o meno nota di personalità e cronache del dissenso relativamente recenti e che presumo siano più o meno a conoscenza di chi mi legge.
Ecco, il tentativo di tracciare una linea di continuità tra la repressione politica del bolscevismo dei primi anni (1918-1922) e la costruzione staliniana dell’arcipelago Gulag (1923-1957) non corrisponde ai dati che sono ormai a disposizione non solo dello studioso, ma anche del semplice lettore. Il tentativo è storicamente infondato.
Ciò non significa giustificare l’originaria repressione politica né le responsabilità che i primi (veri) bolscevichi si assunsero affrontando il problema degli oppositori come fossero dei criminali – anzi non vi sono dubbi che essi abbiano favorito in tal modo la vittoria della successiva controrivoluzione staliniana e non solo sul piano giudiziario: si pensi al ruolo precoce avuto dal Partito bolscevico, subito dopo l’Ottobre, nella liquidazione delle strutture degli operai rivoluzionari per eccellenza (i Comitati di fabbrica), poi dei soviet, dei sindacati, degli altri partiti ecc. Si tratta solo di capire la specificità dell’uno e l’altro periodo, dell’uno e l’altro comportamento repressivo – avendo chiaro che in nessuno dei due casi si operava per il trionfo della rivoluzione o del socialismo – ma evitando di fare un unico fascio che impedirebbe di cogliere appieno la mostruosità inedita e apertamente controrivoluzionaria che ha caratterizzato il trionfo del sistema staliniano, con tutti i suoi strascichi in epoca brezneviana.
8. Domande a chi ancor oggi fornisce copertura al Gulag
Al lettore giunto fin qui chiedo solo un ultimo atto di collaborazione. Quando dovrà formulare il proprio voto o il proprio consenso politico o i propri attestati di stima nei confronti di qualcuno, si informi (e prego che lo faccia seriamente) sui trascorsi politici di questo qualcuno. Magari scoprirà che in uno o altro momento della sua vita costui ha difeso il sistema del Gulag in Urss o in Cina o in Europa dell’Est. Gli chieda poi se ha mai letto un libro sul Gulag e cosa pensi di noti intellettuali (come Rossanda, Ingrao, G. García Márquez ecc.) o di capi di stato (come Fidel Castro) o di scrittori, cineasti, uomini di cultura celebri che hanno espresso per lunghi periodi (se non sempre) la propria ammirazione per il sistema sovietico, senza sentir mai il bisogno di rendere un po’ di attenzione, se non proprio un giusto riconoscimento a quei milioni di poveri esseri umani annientati nel sistema dei lagher. Lo faccia questo esame anche per i presunti “comunisti” dell’odierna cronaca politica. E non si lasci ingannare da chi gli dirà che ciò è inutile. Ne scoprirà delle belle…
Infine la domanda più bruciante di tutte: perché per i sei milioni di ebrei sterminati dai nazisti nella rete dell’Olocausto ci si commuove (giustamente), si fanno film, pellegrinaggi e campagne di educazione alla memoria, mentre per i 28 milioni di internati del Gulag (con i circa 13 milioni di vittime) non si è fatto nulla e si continua a non fare nulla?
(Una parentesi di macabra statistica. Nei circa 13 milioni di morti del Gulag non sono incluse le vittime degli anni di “carestia” provocati dall’insensata collettivizzazione forzata delle campagne, capolavoro “economico” personale della follia di Stalin: le cifre che ha fornito uno studioso documentatissimo come Robert Conquest – Il grande terrore, Mondadori l970, pp. 44-5 – parlano di 5-6 milioni di persone morte per fame, delle quali più di 3 milioni in Ucraina. A queste vittime per denutrizione vanno aggiunte circa 3 milioni inviate a morire nel Gulag a coronamento di quelle scelte “economiche”, arrivando così vicini a quella cifra di 10 milioni di “kulaki annientati” che, com’è noto, Stalin dichiarò personalmente a Churchill.)
Cosa rende il destino di questi milioni di vittime del Gulag meno degno di commiserazione rispetto a quelle del nazismo? Forse il fatto che lo sterminio staliniano veniva fatto in nome del comunismo? Ma non dovrebbe ciò renderlo ancor più esecrabile? O forse, più prosaicamente, il fatto che alla fine della Seconda guerra mondiale l’Urss sedeva allo stesso tavolo degli altri vincitori del nazismo – con gli Usa, Francia, Gran Bretagna – e che costoro non avevano alcun interesse a propagandare la realtà sociale del loro scomodo alleato? E dopo, con la guerra fredda, quando avebbero voluto farlo era ormai troppo tardi: infatti, avrebbero dovuto confessare ai propri popoli di aver sconfitto il nazismo con l’aiuto decisivo di un sistema dittatoriale altrettanto feroce e antiumano quale lo stalinismo. Era più comodo continuare a far credere che quell’obbrobrio fosse il comunismo, in modo da rendere odioso all’umanità anche il solo termine. E poi, che interesse avevano a giungere a uno scontro frontale con i partiti comunisti all’estero (in primis Italia e Francia) che tanto utili erano stati nella ricostruzione del capitalismo nei rispettivi Paesi e nell’impedire lo sviluppo di rivoluzioni socialiste o anche semplicemente di forti movimenti operai antagonisti?
Altro che fine che giustifica i mezzi… Qui siamo all’omertà e alla corresponsabilità morale che prima o poi verrà giudicata nei giusti termini dall’intera umanità. Dico “intera” perché non dobbiamo dimenticare che una buona parte – quella che lo stalinismo lo ha vissuto direttamente sulla propria pelle e la cui testimonianza vale realmente – ha già pronunciato la propria sentenza di condanna irrevocabile. Fino a che non si sarà arrivati a una condanna generale e definitiva dell’olocausto staliniano, con termini e modalità analoghe a quelle con cui l’umanità quasi intera ha condannato l’olocausto nazista, nessuna rivoluzione comunista sarà concretamente possibile o anche solo immaginabile: su questo non ho il minimo dubbio ormai da decenni, praticamente da quando iniziai la mia attività politica in maniera consapevole.
Forse nemmeno la parola “comunismo” o il simbolo della falce-e-martello riusciranno a riabilitarsi fino ad allora. E comunque, resta il fatto che la denuncia dell’olocausto stalino-brezneviano è un passo irrinunciabile per avvicinarci alla realizzazione del sogno comunista libertario. Chiunque pensi di poter fare il “furbo” e saltare questo macigno che ostruisce la strada, o è uno piscopatico inebriato dall’odore del sangue e dall’idea della morte di milioni di persone o qualcuno che punta a molto meno, a una carriera, a una carica parlamentare, a una propria fetta di potere sui poveri gonzi che gli vanno dietro…
9. Due appendici, una brutta e una bella.
a) L’Associazione Marx XXI
Cominciamo da quella brutta. Per due domeniche di seguito (28 febbr. e 7 marzo 2010) sull’intera ultima pagina de il Manifesto è comparsa una pubblicità a pagamento per annunciare la nascita dell’Associazione Marx XXI, col proposito di “riunificare in Italia le forze che si richiamano al marxismo, al leninismo, per l’elaborazione politica e teorica dei comunisti del 21° secolo”. In realtà si tratta della chiamata a raccolta – in vista della costituzione della Federazione di sinistra fra Prc, Pdci e gruppo Salvi – di tutti principali esponenti dello stalinismo italiano, all’insegna dello slogan dell’“unità dei comunisti”, lanciato varie volte nel passato da piccole formazioni “leniniste”, ma mai andato in porto. Neanche questa volta andrà in porto, ma i danni che questa Associazione può arrecare all’immagine del socialismo, del comunismo e della lotta anticapitalistica sono incalcolabili. Non mi si dica che esagero, perché viviamo un’epoca di inconsistenza organizzativa del movimento rivoluzionario e le questioni d’immagine vengono necessariamente in primo piano. E l’immagine che viene rilanciata da questa chiamata a raccolta degli stalinisti italiani è quanto di più obbrobrioso si possa immaginare: nel 2010 e per giunta fatto in nome del povero Marx. Sottovalutare il danno che ne deriva al mondo dell’anticapitalismo e del comunismo libertario, sarebbe un errore, così come fu un errore sottovalutare alla fine degli anni ’60 la conversione al maoismo di quasi tutta l’intellighenzia italiana a sinistra del Pci (compresi alcuni dei nomi presenti nella lista di cui sopra e altri che potranno aggiungersi in un secondo momento).
Nel paginone vengono pubblicati – con grande rilievo e con le relative dichiarazioni retoriche e altisonanti – i nomi dei principali fondatori dell’Associazione. Li diamo di seguito: Mauro Casadio, Andrea Catone, Oliviero Diliberto, Manlio Dinucci, Mario Geymonat, Vladimiro Giacché, Fosco Giannini, Domenico Losurdo, Guido Oldrini, Valentino Parlato, Paola Pellegrini, Cesare Salvi, Fausto Sorini, Bruno Steri, Nicolas Tertulian, Luigi Vinci. Oltre a dichiarazioni dell’ambasciatore cubano (molto favorevole), quello venezuelano (formale, non nomina nemmeno l’Associazione) e il responsabile politico dell’Ambasciata cinese (entusiasta, con riferimento diretto addirittura al professor Diliberto).
Inutile dire che tutti questi nomi appartengono a personaggi che nel passato governo votarono le missioni di guerra in Afghanistan e le peggiori nefandezze del governo Prodi o, non essendo parlamentari, furono d’accordo che si votassero. Vedi il nostro libro su I forchettoni rossi con l’elenco dei nomi in appendice.
Ebbene, a parte un paio di nomi di cui ignoro la provenienza (e a parte un ex trotskista come Vinci o assenti inspiegabili come Claudio Grassi e Roberto Gabriele) per il resto si tratta del “gotha” dello stalinismo italiano. Oggi sono tutti appartenenti al Prc, al Pdci, alla Rete dei comunisti, al gruppo di Salvi o formazioni minori, ma nel passato stavano tutti nel Pci (area Cossutta o Interstampa), prima di dividersi nelle varie sigle con cui anche lo stalinismo italiano si è sfaldato in coda alla crisi storica del Pci e con la nascita del Prc.
Non voglio aggiungere altro, visto tutto ciò che ho detto fin qui sullo stalinismo. Resta la lezione che questi forchettoni rossi o aspiranti tali stanno dando alla gruppettistica che si considera antistaliniana: loro dimostrano di essere capaci di unirsi, indipendentemente dalle diverse appartenenze politiche. Mentre nel mondo antistaliniano, dove solo Utopia rossa propone da anni senza successo analoghi processi di unificazione, siamo ancora alla fase psicopatologica in cui ciascuno è libero, svegliandosi un determinato mattino, di fondare il proprio gruppetto e dichiarare che di lì ricomincia la costruzione della Terza (per alcuni) o della Quarta internazionale (nella maggioranza dei casi).
Volevo citare l’episodio per far capire quanto lontani siamo ancora dalla comprensione della dinamica storica dello stalinismo col suo Gulag, il suo olocausto e i suoi disastri in campo sociale.
b) Luciano Canfora
Quella bella stupirà anche voi, come ha stupito me. C’è uno studioso di lettere greche, molto bravo e famoso nel suo campo anche a livello internazionale, ma purtroppo notoriamente ammiratore di Stalin e del suo sistema. Sto parlando, ovviamente, di Luciano Canfora che ormai gode di una grande esposizione mediatica anche per la sua lunga battaglia scientifica volta a dimostrare l’inautenticità del papiro cosiddetto “di Artemidoro”.
Ebbene, il nome di Canfora non compare nell’annuncio pubblicitario di cui sopra e difficilmente riuscirà a farsi perdonare dai neostalinisti italiani di aver scritto un libro, intitolato La storia falsa (Rizzoli, 2008). In tale libro, con la stessa meticolosità e preparazione scientifica con cui aveva dimostrato la falsità del papiro di cui sopra, affronta due falsi spinosi della storia “comunista”.
Uno è la tristemente celebre lettera del 1928 che Ruggero Grieco inviò in carcere a Gramsci, facendo nascere in questi la convinzione che qualcuno a Mosca o nel Pcd’I avesse voluto rovinarlo in termini processuali. Canfora sostiene che la lettera fu falsificata da altre mani ed è veramente affascinante la procedura con cui lo dimostra. Tanto di cappello, anche perché il grecista appartiene a una tradizione ideologica che ha fatto della falsificazione dei documenti uno dei suoi cavalli di battaglia.
L’altra dimostrazione, altrettanto scientifica e affascinante, riguarda il celebre Testamento di Lenin, di cui un tempo gli staliniani negavano addirittura l’esistenza e del quale, comunque, nessuno avrebbe mai sospettato che si potesse ancora dire qualcosa. Ebbene, non solo Canfora conferma tutto ciò che già sapevamo su questo storico documento e che in gran parte era stato scritto da Moshe Lewin nel 1967, ma compie un passo avanti veramente sbalorditivo: utilizzando con grande perizia filologica nuove fonti documentarie e testimonianze di fonte russa, dimostra in forma inoppugnabile che Stalin riuscì a falsificare il documento prima che esso cominciasse a circolare. In particolare dimostra che come contrappeso al brano in cui Lenin indicava in Trotsky la personalità più capace tra i membri del Cc per assumere la direzione al suo posto, Stalin fece interpolare un breve inciso destinato a depotenziare l’impatto dell’indicazione di Lenin, con un riferimento al “non-bolscevismo di Trotsky”.
La prova della falsificazione staliniana risolve il problema di cosa ci stesse a fare quel richiamo negativo (dal punto di vista di Lenin, ma non per me) al passato non-bolscevico di Trotsky, arrivati ormai all’anno 1923 e in un testo in cui Lenin è preoccupato dalla propria successione e chiede esplicitamente la rimozione di Stalin dal posto di segretario generale. Tolto quel riferimento così limitativo nei confronti di Trotsky, la contraddizione logica è finalmente dipanata ed è confermato definitivamente che Lenin pensava veramente a Trotsky come suo successore. Ebbene, mai avrei potuto immaginare che la dimostrazione di un falso così utile alla ricostruzione agiografica del ruolo di Stalin e del quale probabilmente lo stesso Trotsky non ebbe sentore, potesse venire da uno staliniano.
Chapeau ancora una volta e ben vengano altri contributi del genere utili allo smascheramento di quella che Trotsky definì “la scuola di Stalin della falsificazione”, anche se provenienti da uno staliniano convinto.
Bolsena, 11 marzo 2010