1970. LA RIVOLTA DI REGGIO CALABRIA CONTRO LO STATO STRANIERO
lug 17th, 2019 | Di Thomas Munzner | Categoria: Documenti storiciNicola Zitara
Prima che vedessi con i miei stessi occhi, avevo immaginato la Rivolta di Reggio come uno di quei fatti insignificanti che la stampa afferra e gonfia, per attrarre lettori e inserzionisti pubblicitari. Il Sud era morto a ogni forma di risentimento. Le offese che la patria italiana ci aveva inferto e ci infliggeva colavano lungo le nostre facce di bronzo lasciandole completamente impassibili. Sempre servili, sempre attenti a non deludere l’Italia, potevamo piegarci a qualunque soperchieria.
Chiusa la caotica parentesi postbellica, che ci aveva permesso qualche larghezza, ad esempio le lotte contadine per la terra, una ribellione sudica contro il venerato stato unitario era assolutamente inimmaginabile. Certo, a quel tempo la contestazione giovanile attraversava tutto l’Occidente, scatenando dovunque -oltre al resto- consistenti forme di iconoclastia statuale. Ma che in Calabria, dove anche i mafiosi più spavaldi cercavano l’amicizia dei reali carabinieri, qualcuno alzasse la mano contro lo stato, era una cosa che stravolgeva ogni coordinata sociologica.
Dopo l’annessione sabauda, il paese napoletano e la Sicilia erano scomparsi progressivamente come realtà, degradando, prima, a Questione meridionale -qualcosa che stava tra lo storiografico e l’antropologico- approdando, poi, a mera espressione geografica: territori popolati da uomini che assumevano rilevanza demografica se e quando utili alla patria italiana. Caso eclatante, la guerra all’Impero austriaco, che i fanti padani e le brigate alpine non se l’erano sentita d’affrontare da soli. In tale circostanza i contadini meridionali erano stati proclamati italiani a tutti gli effetti militari e invocati a difesa della lontana, sconosciuta e oppressiva Valle Padana. Casi meno eclatanti, ma non meno importanti: il ripianamento della bilancia estera italiana con lo spudorato uso delle rimesse dei terroni emigranti, e l’impiego della corrispondente valuta per convertire l’immane debito pubblico (padano) e per dotare di impianti moderni la nascente industria (sempre gloriosamente padana); ciò nello stesso momento in cui il Sud invocava spasmodicamente lavoro (in sostanza nuovi investimenti).
In verità, l’opera di assoggettamento del Sud era stata condotta con spregiudicata eleganza; quasi senza lasciare tracce. Intonando patriottici inni, facendo squillare vibranti ottoni, sventolando tricolori, labari, gagliardetti e medaglieri, producendo una legislazione apparentemente appoggiata su una sola gamba, ma in effetti articolata su due, come la gru di Chichibio, l’Italia aveva piegato il Sud alle sue necessità di aspirante potenza militare ed economica. Ovviamente la soggezione presupponeva la negazione dell’identità storica meridionale. Ma la cosa funzionava soltanto con le classi istruite, che sin dalla prima elementare -anzi sin dall’asilo- potevano essere rieducate al disprezzo della propria terra e all’esaltazione dell’ethos venale e del verbiloquente epos guerresco dei toscopadani. Non aveva invece senso presso i contadini e il proletariato urbano. Volendo riparare, italianamente e pretescamente si escogitò un darwinismo terronico, contemplante l’inferiorità razziale dell’homo sudico, non sempre erectus, meno che mai sapiens, immancabilmente deficitario di scatola cranica e di materia grigia, di pubblica e privata moralità (su detta linea c’è ancora tanti, per esempio l’americano Putnam e persino il sudico Arlacchi, presidente, o quasi, dell’ONU).
Arretratezza storica, malgoverno borbonico, crocianesimo, lombrosismo contribuirono a comporre l’alibi vincente con cui la nazione una poté ribaltare le responsabilità del colonialismo interno addossandole tutte sugli stessi meridionali, quelli vivi e quelli morti.
Certo, anche il Sud era Italia, una parte della patria, ma solo come Questione meridionale. Per il suo bene supremo, era necessario che si emendasse, che si riscattasse dalle sue storiche ed etnografiche colpe, ovviamente, servilmente imitando l’Italia restante. Commossi, straziati, i meridionalisti avevano condotto defatiganti inchieste, le quali avevano stabilito che tutto il Sud era uno sfasciume pendulo fra due mari. Senza, però, ricordare né a sé né agli altri che lo sfasciato sfasciume manteneva il paese e pagava, con le sue esportazioni agricole, il debito estero padano.
Pur assolvendo a tale nazionale e patriottico ruolo, i contadini sudici rimanevano poveri. Essendo poveri erano anche denutriti. Bisognava quindi che italianamente mangiassero qualche pagnotta di più. Per farlo, erano necessari dei soldi. Ma i soldi non c’erano. A qualcuno venne anche in testa che i soldi non c’erano, perché se li pappava lo stato, cioè il Nord. Ma evidentemente non era una cosa seria, degna dell’Italia una (neanche Arlacchi l’avrebbe ben giudicata). Inoltre i contadini erano analfabeti. Lo erano perché non andavano a scuola. Ma non andavano a scuola perché le scuole non c’erano. E se le scuole non c’erano, la colpa era tutta dei borboni, che non avevano provveduto ad elevare il popolo. Dopo tanto ben architettato trattamento, alla data del 1970, il Sud era ridotto a meno di un morto che parla. In effetti non parlava. Era ammutolito, esterrefatto, inebetito, non possedeva più le idee e le risorse per comunicare umanamente con il mondo. Di esso si sapeva soltanto quel che raccontava Amleto: che c’era del marcio in Danimarca. Un cratere che vomitava clientelismo, malaffare politico e malavita organizzata.
La discriminazione nazionale era stata introiettata e aveva messo radici. Il Sud era alla vergogna di sé, alla prostrazione economica e politica. Svisato del passato e del presente, negato a se stesso, aveva sopportato tutto: offese, spoliazioni, sopraffazioni d’ogni genere. Sempre applaudendo i proconsoli di turno; ieri Ferdinando Nunziante e Giovanni Nicotera, all’atto, il colto Misasi e l’intraprendente Mancini. Ciò spiega la sorpresa dell’opinione pubblica nazionale per la Rivolta di Reggio -benché preceduta dal moto di Battipaglia- e contemporaneamente la finta indignazione dei giornali. Battipaglia e Reggio sono due casi esemplari di città che fino agli anni Cinquanta avevano in qualche modo resistito all’oltraggio italiano e al regresso meridionale, giungendo alla resa dei conti con il colonialismo interno e l’ilotismo nazionale solo dopo il miracolo economico italiano.
Della Rivolta di Reggio la stampa neosabauda e la televisione governativa furono forse la causa scatenante, comunque delle protagoniste facinorose. Infatti, alla rivendicazione sicuramente legittima del capoluogo regionale, che alla città reggina veniva scippato attraverso una delle congiure di cui è costellata, in Italia, la vicenda politica postbellica, con la faziosità in alto richiesta, esse appiccicarono l’etichetta della gretta rivendicazione municipalistica, il pennacchio.
Sarebbe stato divertente leggere cosa avrebbero scritto codesti liberi operatori della penna se Modena avesse rapito la secchia di prima città emiliana, e Bologna fosse insorta. Transeat. Il giornalismo farcito al gusto di anticamera di Palazzo romano è consentito solo quando è di scena il Sud.
La politica cosiddetta di corridoio -in effetti le congiure di palazzo- sono state (e sono ancora) un tratto tipico, caratteriale, dei cosiddetti partiti costituzionali. Si autodefinirono in tal modo gli ex Comitati di Liberazione Nazionale (CLN), poiché toccò ai loro massimi leader dettare, in sede d’Assemblea Costituente, la legge primaria; una costituzione indubbiamente moderna e civile, ma altrettanto sicuramente velleitaria e impotente di fronte alla realtà sociale italiana, organizzata e diretta da un sistema capitalistico parassitario, intrallazzista e geograficamente minoritario. Ovviamente al Sud fu consentito di partecipare solo di nome -e mai di fatto- alla riorganizzazione postbellica, sia a quella costituzionale sia a quella materiale. I suoi interessi non erano in linea -insignificanti, stranieri, retrivi, qualunquisti, anzi beduini- con gli interessi emergenti, con le progressive sorti del capitalismo padano e gli allori della Confindustria.
Pur non costituendo niente, il Sud ebbe egualmente i suoi partiti costituzionali, anzi le loro filiali suburbane e sudiche: in pratica gli stessi comitati massonici e papalini dell’epoca notabiliare prefascista, che, l’8 settembre 1943, gli angloamericani avevano restaurati in trono. I quali, forti del vuoto politico creato dalla fellonia del re Savoia -e dovendo essi avvolgerla di nuovi allori e legittimare lo stato quale patria istituzione- ebbero mano libera per reimpiantare nel paese meridionale il malaffare con cui il sistema padano teneva aggiogato il paese sudico durante l’età giolittiana e le precedenti, sicuramente non meno gloriose e meritevoli. Dovettero, però, prima legittimare se stessi, e per far questo si impancarono a CLN (il quale era composto dai partiti democristiano, socialista, comunista, liberale, d’azione, del lavoro), praticamente a governo del paese meridionale. Ovviamente la lotta di liberazione, i loro leader, se l’erano fatta a casa, o magari al mare, e ciò per il semplice motivo che i fascisti erano stati tolti di mezzo dagli angloamericani, i quali ci avevano liberati prima che ci dessimo da fare per liberarci da noi.
Eccezion fatta relativamente a singole persone e determinati luoghi, sin dal principio il legame tra i partiti del CLN e le popolazioni meridionali ebbe un carattere deteriore: sostanzialmente clientelare, nei casi migliori paternalistico. In prosieguo, capito che il vento spirava dal Nord, i suddetti impararono il vangelo resistenziale e lo predicarono ai paesani, continuando ad operare impunemente da ladroni pubblici, come al glorioso tempo del glorioso Giolitti.
Solo il PCI ebbe un’origine popolare (e naturale), quale espressione delle masse contadine scese in campo contro i proprietari. Ma il legame ebbe presto una poco gloriosa fine. Infatti avendo anch’esso optato per la Ricostruzione solo del Nord, non ebbe altro modo per beccarsi i voti dei cafoni che continuare a vaneggiare di spartizione di latifondi e di continuare a maneggiare, con un ardore degno di miglior causa, l’archeologia economica. Ma ai contadini non ci volle molto per capire l’antifona. A quel punto preferirono la nuova America e presero i treni che Valletta spediva da Torino. Ovviamente pagandosi il biglietto di tasca loro. Resta solo il dubbio se il PCI non abbia saputo o non abbia voluto -poco marxisticamente- capire che il generale processo di modernizzazione in Europa aveva archiviato per sempre Caio e Tiberio Gracco, nonché la millenaria lotta per la proprietà contadina, ponendo in primo piano la lotta contro il sottosviluppo.
La Rivolta scoppiò in questo clima di generale estraneazione nordista, con una borghesia che si sentiva nazionale se e quando riceveva i resti dell’italico banchetto e con il proletariato che s’era fatto finalmente nazionale dormendo nelle soffitte di Torino e ungendo di sudore e d’amare lacrime le catene produttive del trionfante Valletta. Alla popolazione di Reggio, che si poneva apertamente contro l’assetto nazionale, i giornali e la TV, dominati funzionalmente e idealmente dai partiti ex CLN, dedicarono malcelati giudizi di primitività, di faziosità, di becerismo.
Sull’evento esiste un consistente numero di libri (da ultimo, Francesco Scarpino, La rivolta di Reggio Calabria tra cronaca e mass-media). Non ho argomenti per aggiungerne un altro. Vorrei solo notare qualcosa che mi pare generalmente sfuggita: per la prima volta, in tutti gli ottant’anni della sua storia, la sinistra italiana si pose a fianco della repressione governativa e poliziesca e contro il popolo. Ove occorresse, si tratta di un’ulteriore riprova che, dopo venticinque anni di democrazia, il proletariato meridionale stava nel cuore della sinistra nazionale soltanto per i voti che poteva dare. Il sentimento (o meglio, la sua mancanza) venne in luce proprio in tale circostanza e ad opera delle frange (non storiche) della stessa sinistra italiana.
Nel 1970 si era ben lontani dal tetro conformismo attuale, dal plumbeo panorama ideale che esclude ogni forma di critica al sistema imperante, attruppa le idee nella tomistica del capitale, dio e taumaturgo, e piega gli intellettuali a inchinarsi al trono (anche se di cartapesta), chiunque vi sieda: Berlusconi, Agnelli, Veltroni. Fuori del Sud, la contestazione traboccava persino dentro i compatti, impermeabili territori della sinistra comunista e sindacale.
Quando gli inviati della stampa di ultrasinistra raggiunsero la provincia marginalizzata del profondo Sud (era questa l’ultima invenzione linguistica che ci toccava subire dagli italiani civili) per cercare di capire come mai il proletariato reggino si facesse strumentalizzare dai boia chi molla, non trovarono sul campo altra spiegazione, se non quella delle cause remote: i moventi di ordine occupazionale di cui parlavano i Quaderni calabresi, una pubblicazione fuori del giro della dorata intellighenzia capitolina, ambrosiana e taurina; i quali Quaderni appartenevano, però, più all’extraitalianità che all’extraparlamentarità. Infatti contestavano proprio alla sinistra nazionale, quella parlamentare e quella non, d’avere un DNA nordista; d’essere appiattita e ligia alla più volgare ipocrisia votocratica; di arrogarsi il diritto di parlare in nome del popolo meridionale per confonderlo e sfigurare la rappresentazione dei suoi veri interessi (di classe).
In un’epoca in cui Gramsci era ancora in auge e il proletariato era inteso come classe nazionale, i Quaderni calabresi non si erano peritati d’affermare che nell’ambito della classe nazionale si dava -oggi come al tempo di Gramsci- peso zero ai proletari meridionali e si usava la forza che essi esprimevano sulla bilancia dei rapporti sociali nell’Italia restante. La stessa visione gramsciana di un Sud prettamente contadino era viziata da una debole conoscenza del paese meridionale e costituiva un regalo ideologico al capitalismo padano. In termini non metaforici dicevano che, sul tema della strutturale inoccupazione meridionale, i partiti di sinistra e i sindacati ipocritamente facevano solo parole, e le facevano per acchiappare voti. Aggiungevano che un popolo costretto a non produrre (dalla dominazione coloniale padana) non doveva rassegnarsi a essere guidato dall’esterno, da forze sostanzialmente nordiste.
In verità i Quaderni non erano stati i primi a sostenere che la disoccupazione meridionale era a tutti gli effetti popolazione in più, sovrappopolazione; né erano gli unici ad affermare che l’acclamato e reclamizzato miracolo economico italiano era tutt’altro che un fatto nazionale, ma solo regionale, circoscritto a poche regioni, al Triangolo industriale Genova-Torino-Milano; né erano i soli a dire che tutto quel che aveva innalzato il Triangolo in cent’anni, e stava ancora innalzandolo sulle altre regioni, veniva pagato in contanti dal Sud. Però si ritrovavano isolati e malvisti quando ponevano un’alternativa: o (uno) l’uscita della sinistra nazionale dal terreno sindacale e retributivo, per portare lo scontro su un terreno veramente meridionalista, per la classe l’unico veramente nazionale e internazionalista; o (due) la permanenza sul terreno riformista anche del proletariato meridionale, ma con un proprio partito politico.
La polemica salveminiana di sessant’anni prima contro il riformismo di Turati e dei socialisti padani, sulla quale erano attestate (peraltro solo a parole) le formazioni storiche di sinistra, risultava sottodimensionata rispetto alla consistenza reale del rapporto Sud/Nord. Questo non andava visto come il prodotto dell’imperialismo straccione italiano, ma come un caso inedito di accumulazione primitiva che si prolungava da oltre un secolo ricevendo la benedizione della sinistra, tanto prima del fascismo, quando era diretta dal riformista Turati, quanto dopo, sotto la direzione del stalinista Togliatti. Bisognava risalire necessariamente alla formazione dello stato nazionale italiano per trovare non solo l’origine del sottosviluppo meridionale, ma anche la causa che lo riproduceva a ogni passaggio della storia. Difatti la questione meridionale si spiegava soltanto con il modo singolare con cui l’Italia s’era avviata al capitalismo.
Al momento dell’annessione al Nord, gli esponenti politici e militari del Sud, corrotti con il danaro e le promesse, resi ciechi -i residenti- dalla paura dei contadini, i fuoriusciti dalla voglia di rivalsa, cedettero il paese con le mani legate all’ingordigia e all’arroganza di Cavour, che raddoppiavano a ogni fortunato regalo della storia. Forte di tanti gratuiti e insperati successi, il mellifluo/tracotante Ministro ottenne il diritto-potere di lucrare sullo stato a favore di alcuni suoi compari di briscola. Si trattava di un gruppetto di concussori e malversatori di estrazione genovese, ai quali le circostanze dettero il destro di mettere le mani nel piatto. Però il carattere parlamentare del governo sabaudo (possiamo dire) li costrinse ad allargare la base dei loro intrallazzi. Dalle successive relazioni malavitose scaturì (o se più vi piace, fiorì) il gruppo affaristico che, nonostante gli eventi secolari e la mobilità degli individui, tuttora dirige l’Italia. Questi eupatridi, che fiutavano la preda come un levriero dal pedigree perfetto, s’accorsero subito (o forse lo sapevano da prima) che in seguito all’annessione delle Due Sicilie, la vera greppia era l’uso spregiudicato (potremmo anche dire il saccheggio, senza travisare niente) dei napoletani, dei siciliani e dei territori su cui erano insediati storicamente.
Arma dell’azione: il fisco. Anzi l’erario, che contempla oltre alle entrate, anche le uscite. Difatti, il punto in questione sono proprio queste. Se tutta la borghesia italiana avesse potuto approfittare della generosità statale -come sempre accade negli stati a carattere borghese- il profitto non sarebbe stato grande, in quanto le sostanze statali erano alquanto scarse. Così (con buona pace per Tommasi di Lampedusa e per il suo Gattopardo), gli eupatridi decisero di escludere i borghesi napoletani e i borghesi siculi dal bottino. Cosa che, avendo essi la sciabola in mano, non fu difficile.
Da allora la guida effettiva dello stato (i vari Crispi, Moro, Colombo, sono solo dei direttori generali che eseguono decisioni d’un superiore consiglio d’amministrazione e non possono firmare assegni se le cifre sono grosse) appartenne esclusivamente alla borghesia tosco-padana. La quale usò e usa spregiudicatamente il potere, in funzione dei suoi profitti. Alla borghesia meridionale furono assegnati i resti del banchetto -quelli che di solito vanno alla gatta di casa- e il ruolo ascaro e servile di mediatore con il popolo sudico degli interessi nordisti; in sostanza una posizione ancillare. Nei fatti essa poté esplicarsi come classe promotrice della produzione capitalistica soltanto in quei settori che non toccavano gli interessi della consorella settentrionale.
È superfluo aggiungere che in un paese a economia e legislazione capitalistica, se la borghesia è limitata, anzi impotente, si arriva presto all’improduzione, al sottosviluppo, alla disoccupazione generale, alla sovrappopolazione. Proprio all’avvio degli anni Settanta, Paolo Cinanni (Emigrazione e imperialismo) spiegava, sulla scia di Marx, che le masse disoccupate meridionali si configuravano come un esercito industriale di riserva a favore di altre realtà sociali; una cosa peraltro storicamente sperimentata tra il 1880 e il 1914, quando i cafoni erano andati a stendere rotaie sul continente americano, e replicatasi nel corso del ventennio postbellico, con i lavoratori del Sud chiamati a fare da rincalzo dell’esercito operaio, nelle catene di montaggio tedesche e del Triangolo industriale italiano. Se la borghesia sudica era stata una serva fedele, arrivato finalmente, grazie al miracolo economico (dei salari più bassi, fra i paesi industriali europei), l’arrosto sulla tavola nazione una, anche la morale più gretta avrebbe voluto che i commensali lasciassero alla gatta un po’ di carne sull’osso. Invece, la borghesia settentrionale restò sorda a ogni forma di civismo, di gratitudine, e orba della lungimiranza che qualunque collettività normale avrebbe avuto in simili condizioni. Tra Sud e Nord non ci doveva essere uno spazio comune. Sempre tutto al Nord, secondo il migliore stile del redditiere.
Come abbiamo già notato, il carattere parassitario della borghesia padana sta scritto a lettere cubitali nelle procedure intrallazzistiche che contrassegnarono la sua assurzione a capitalismo nazionale. Un qualunque sistema capitalistico non nasce con i soldi dell’industria (che ancora non c’è) ma con quelli di altri settori. Marx chiamò questa fase accumulazione primitiva (originaria). Quella compiuta dal capitalismo italiano appartiene a una tipologia unica nella storia mondiale. Non è venuta dal capitale agrario, e neppure da quello marittimo, o commerciale, o manifatturiero; è nata invece da quell’intrallazzo statale e fiscale di cui si è accennato. Infatti la spregiudicatezza di Cavour in materia di danaro pubblico divenne una specie di patrimonio immorale, che passò quale bene ereditario prima alla Destra e poi alla Sinistra, entrambe storiche (tali sicuramente in materia di malaffare). Demani svenduti; concessioni di monopoli statali, in cui lo stato dava la concessione e anche il capitale, pagando per sovrappiù gli interessi sul mutuo che esso aveva concesso; ferrovie private pagate con i soldi dei contribuenti, le stesse in appresso nazionalizzate e pagate ai privati, poi ri-regalate ai privati e alla fine ri-nazionalizzate e pagate nuovamente; baroni che fondevano acciaio con rottami di ferro ricchi solo di impurità; corazzate e incrociatori costati sedici volte il loro effettivo valore; cartelle del Debito Pubblico acquistate da istituti di credito inclini a falsificare i biglietti di banca e da finti risparmiatori al prezzo di svendita di lire 23,00, e alla scadenza ripagate dal Tesoro 100,00 lire-oro: queste cose -e purtroppo non solo queste, ma anche la vergogna di una quadreria di generali e ammiragli non s’è mai ben capito se più incompetenti che arroganti, o viceversa- fecero da humus alla fioritura della nuova borghesia nazionale, quella che dette e dà i quadri dell’industria e formò e forma gli indirizzi di governo. A questo disastro morale originario e risorgimentale si aggiunse trenta anni dopo il parassitismo industriale. L’industria nazionale si avviò intorno al 1895, per mano di quelle famiglie della nuova borghesia parassitaria che Cavour e i suoi epigoni avevano tenuto a battesimo con l’acqua santa della corruttela e il sale sapientiae della speculazione sul debito pubblico. Era gente che non somigliava in nulla al capitano d’industria ambizioso di vincere costruendo, come lo immaginiamo leggendo i romanzi inglesi, francesi e tedeschi. I nostri -piaccia o non piaccia, è storia patria- avviavano industrie non per affermarsi nella competizione produttiva, ma per prolungare la precedente speculazione erariale. E in verità ci riuscirono ampiamente. Naturalmente il risultato produttivo fu così incongruo, meschinello, inefficiente, rachitico, che le loro imprese private costarono ai contribuenti e ai consumatori nazionali cifre iperboliche, perfino difficili da immaginare (Emilio Sereni, Capitalismo e mercato nazionale; un’opera fondamentale sull’accumulazione primitiva in Italia, dotata anche di un apparato bibliografico importante perché i riferimenti più scottanti sono di regola ignorati dagli storiografi accademici). Di certo c’è solo che il prezzo di tale immane e invereconda inefficienza fu messo in conto all’agricoltura, specialmente a quella meridionale. Al tempo dei cosiddetti fatti di Reggio, la tematica dell’industria parassitaria era tutt’altro che nuova in Italia. Un filone del meridionalismo pre e post fascista -non amato a destra e trangugiato malvolentieri a sinistra, tanto che gli illustri compilatori di antologie meridionaliste, di regola, hanno preferito ignorarlo- l’aveva avviata già prima della guerra del 1914-18 e l’aveva ripresa dopo la caduta del fascismo. I pescicani, i padroni del vapore erano stati infatti oggetto dell’informata denunzia di Ernesto Rossi, seguito da qualche meno dignitoso e retto discepolo, che ha preferito farsi foraggiare dal nemico e sterzare la mira sulla sola industria di Stato. La nostrana tipologia di accumulazione primitiva -l’accumulazione parassitaria- non compare nella vivace esemplificazione di Marx sul famoso XXIV capitolo del primo libro de Il capitale, né in quella ancor più efficace che costituisce la parte descrittiva del Manifesto del partito comunista. Senza offendere il padre dell’analisi classista, che non avendo potuto conoscere i padri del capitalismo italiano, pare avesse qualche apprezzamento per i pionieri dell’industria, potremmo definirla accumulazione parassitaria secolare; che poi rappresenta la più solida delle istituzioni nazionali.
Nonostante gli alti profitti provenienti dal doppio stadio di intrallazzo realizzato (uno) mettendo le mani direttamente nel cassetto e (due) imponendo per oltre mezzo secolo una politica protezionistica controproducente ai fini della stessa crescita industriale ma grandemente profittevole per i padroni, il capitalismo nazionale italiano non era penetrato tuttavia in alcune situazioni produttive. Mi riferisco all’agricoltura di piantagione e alle produzioni mediterranee. Un settore in cui la borghesia attiva del Sud mostrò d’essere ben più moderna della consorella padana; così moderna ed efficiente da competere sul libero mercato internazionale, senza la copertura di dazi e benefici; da risultare, anzi, vincente nonostante l’inimicizia del suo stesso stato nazionale; e così capace di sorgere e risorgere, che allo stato nemico ci vollero ben cent’anni per abbatterla definitivamente. È questo il punto dove il castello di bugie rivolto a sorreggere l’alibi padano, il falso storico dei mali antichi di cui il Sud sarebbe afflitto, mostra la sua faccia sporca. Come il volpino Cavour aveva intuito fin da giovane, l’abbassamento delle tariffe doganali e la liberalizzazione degli scambi internazionali che, nel 1860, a Italia non ancora ufficialmente nata, egli, divenuto primo ministro nazionale, volle imporre, fece esplodere il potenziale di cui erano gravide le produzioni del Sud: l’olio, il vino, gli agrumi.
Solo poche cifre. Secondo la stima di Correnti e Maestri, autori di una celebre ricerca statistica che fu non solo la prima che si faceva in Italia, ma anche l’ultima ispirata a onestà intellettuale, nel Regno borbonico venivano prodotti circa 900mila quintali di olio, il 60% dell’intera produzione italiana. L’esportazione annuale toccava mediamente i 450mila q.li, cioè la metà del prodotto. In realtà il Sud italiano, parecchio più che la Spagna, ebbe per l’intero secolo XIX un quasi-monopolio per la produzione di olio, che esportava in Francia, Inghilterra, Germania, Austria, Russia, America del Nord e del Sud, nonché nell’Italia restante. Oltre che un alimento, l’olio veniva impiegato nelle lucerne, per l’illuminazione, come lubrificante industriale e nella lavorazione dei filati di cotone. Sotto la spinta della domanda internazionale e nazionale, nel 1909 la produzione olearia meridionale aveva superato i due milioni di quintali. Con ben 588mila q.li, la produzione calabrese aveva fatto un tal balzo in avanti da porsi al secondo posto, subito dietro la Puglia, regione madre della produzione olearia mondiale, che ne produceva 617mila q.li (Chino Valenti, L’agricoltura dal 1861 al 1911, in cinquant’anni di storia italiana). Diversamente da quello che la gente immagina, l’ulivo non cresce e l’olio non si produce per grazia divina. Certo la natura ama l’albero sacro a Minerva, e forse anche Dio lo ama, però bisogna investirci dentro lavoro e danari. Dove gli uliveti assumono il carattere della piantagione a filari squadrati, come nella Piana di Gioia e su tutta la collina jonica e tirrenica, sicuramente molti soldi.
Quanti? Gli impianti calabresi che coprivano 84mila ettari, nel 1880, erano passati a 151mila ettari nel 1951 (dati Istat, riportati da Ferdinando Milone, L’Italia nell’economia delle sue regioni): 67mila ettari in settant’anni, quasi 1.000 ettari di nuove piantagioni l’anno.
Nei nostri uliveti ci sono risparmi di notevolissima consistenza, nonché la fatica di dieci e più generazioni; c’è, soprattutto, uno stringere la cinghia per decenni, perché una pianta d’ulivo impiega quindici o vent’anni per arrivare a pieno frutto.
L’ulivo non dava molta occupazione ai contadini d’un tempo. Soltanto la raccolta era l’occasione per un corale coinvolgimento di donne e di uomini, che durava qualche mese ogni due anni.
Prima che arrivassero i moderni mezzi di aratura e di raccolta, la scadenza dava lavoro a circa mezzo milione di persone, per un totale di un milione/un milione e mezzo di giornate lavorative, nel biennio. Ed è completamente sbagliato considerare un progresso il sopravvenire di macchine, perché si tratta di lavoro nostro che si sposta in altre regioni, senza che ci sia -come sarebbe naturale- un aumento della domanda in altro settore della produzione.
A ottenere cospicue entrate era invece il padronato, i cui maggiori esponenti, in questa parte ultima della Calabria, vivevano signorilmente a Reggio.
Il Corso Garibaldi e il Lungomare, che nel 1939 erano considerati fra le più belle e lussuose vie d’Italia, potevano dare l’idea di quanto quelle entrate fossero consistenti. I palazzi che li fronteggiavano erano ricchi e belli. Non solo, ma ricostruiti già una volta dopo il terremoto del 1783, il padronato reggino li aveva dovuti ri-ricostruire per ben due volte, una dopo il terremoto del 1908 e una seconda dopo i bombardamenti americani. I soldi per edificare e riedificare tre volte la città in appena centocinquant’anni non arrivarono da Napoli o da Roma, e neppure da Milano, ma vennero dall’olio e dagli agrumi.
Veniva dall’agricoltura anche la spesa vistosa della gente che trascorreva oziose mattinate e indolenti pomeriggi dinanzi al Comunale, indossando fresche camicie di lino e cravatte di seta pura. Perché l’agricoltura di Reggio, per la sua produttività, era quasi un’industria. Anzi nel caso del bergamotto era persino più produttiva dell’industria. Bisogna aggiungere che se, attraverso il fisco e il drenaggio bancario, la quota più consistente del surplus viaggiava verso i padani, la parte che i ricchi consumavano andava per una quota consistente ai lavoratori della città (abbiamo qui una buona esemplificazione del Tableau économique di Quesnay): ai muratori, ai fabbri, ai falegnami, ai camerieri, agli addetti al commercio, a quell’esercito di persone civili e dignitose nonostante la povertà, qual era il popolo di Reggio intorno al 1936. Certo, a tutti i cronisti meridionali piacerebbe poter scrivere che i signori elegantemente accomodati nella sala più riservata del Caffè Pontorieri erano degli intraprendenti cavalieri d’industria, invece che dei redditieri. Ma, a parte il fatto che nel bergamotto e nel gelsomino costoro, come già annotato, erano dei veri industriali, l’organizzazione dello Stato, scaturita dal processo risorgimentale, aveva tolto i capitali necessari e lo spazio tecnico per scalare l’erta parete dell’industria.
Gli storici della destra sabauda e della sinistra sedicente gramsciana fanno finta di non sapere che il fatto che ciascuno di loro fosse sufficientemente ricco per costruirsi (o ricostruirsi) un lussuoso palazzo significava poco ai fini imprenditoriali. Infatti non il ricco privato ma solo la volontà bancaria trasforma il capitale in investimento (Joseph A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica). Ho fatto l’inciso perché la pigrizia spagnolesca della borghesia meridionale è soltanto una favola. In effetti, la modernizzazione produttiva era stata avviata in Calabria con piede più sicuro e più europeità che negli altri ex-Stati regionali (basti pensare al setificio di Villa San Giovanni); un passaggio che gli storici dell’economia identificano con la fase della pre-industrializzazione, come dire la manifattura senza ancora il motore e i combustibili fossili, cioè la prima fase del capitalismo, allorché gran parte degli artigiani lavorava (non più su commissione nella propria bottega, ma) in un opificio dove si produceva direttamente per il mercato.
Dico di più. Al tempo di Ferdinando II, la Calabria Ultra era la parte più industrializzata (nel senso di cui sopra) del Regno, dopo Napoli. La quale Napoli, poi, era sicuramente l’area d’Italia dove la preindustrializzazione era più avanzata e più integrata che altrove. E a detta del gruppo di urbanisti giapponesi che ultimamente l’hanno studiata con serietà, come è costume di quel popolo, l’area meglio preparata a un successivo passo avanti in tutto il Mediterraneo, non esclusa Marsiglia.
Patriotticamente, italianamente, l’arretratezza sudica corrisponde a uno scippo delle sue manifatture. La borghesia attiva del Sud era una cosa ben diversa dalle classi baronali che Cavour prima, Giolitti in appresso, legarono a sé per dividere e dominare il paese napoletano e la Sicilia. Cosicché i massacri e parecchi fra gli stessi baroni non accettarono l’annichilimento italiano e reagirono come poterono concentrando i loro interessi sull’agricoltura di piantagione. La storia economica e sociale della Campania, Puglia, Sicilia, Calabria, nell’infelice prima fase del saccheggio padano, ha del miracoloso. Gli agricoltori fecero qualcosa di più che produrre. “Le esportazioni meridionali salvarono l’Italia” (oggi diremmo hanno salvato l’Italia), sottinteso dalla bancarotta internazionale, si esclamò in Senato al tempo del (finto) pareggio del bilancio, nel 1876 (si badi, siamo al secondo salvataggio in soli dodici anni).
I libri di storia patria non amano il Sud, meno che mai ammettono che la questione meridionale l’hanno inventata proprio gli storici di parte sabauda, come alibi dell’assassinio di un popolo che la stessa Italia proclamava italiano. E non amano parlare della rivoluzione agricola che salvò l’Italia. Eppure l’imponenza dello sforzo produttivo e la consistenza dei suoi risultati non sono un’opinione generica, ma fatti. Al tempo dell’inchiesta agraria Jacini, che si svolse a partire dal 1880, gli ettari destinati ad agrumeto erano nelle tre province calabresi non più di 4mila. Nel 1970, il professor De Nardo rilevava ben 24.800 ettari. La progressione, nel settantennio, è di 354 ettari l’anno, che potrebbero sembrare persino pochi, ma trasformare una brughiera, un arido pascolo, adatto solo alle capre, in un lussureggiante giardino di bergamotti o di aranci costa parecchio. La spesa principale è l’irrigazione. Si tratta d’un investimento capitalistico nel significato più completo. Le canalizzazioni spesso sono lunghe chilometri. Captate a monte le acque di una fiumara, esse le derivano verso i fondi posti a valle, non sempre vicini. Altre volte l’acqua si ottiene mediante lo sbarramento delle falde subalvee, in tal caso le opere murarie sono ancor più consistenti; in pratica debbono essere sufficientemente profonde e sufficientemente alte da sollevare l’acqua di una decina di metri, in modo che possa scivolare per caduta verso i quadri a valle. Ancora maggiori sono i costi quando, in mancanza di opere consortili, è il singolo proprietario che scava un pozzo. Difficilmente l’acqua che esso dà è sufficiente a più di un fondo. In questo caso i costi crescono perché è necessario addurre la corrente elettrica; garbatamente la SME caricava l’intera spesa sul portafoglio del produttore privato, anche se poi si appropriava della condotta elettrica, in base alla legge della giungla.
Non minore era il costo delle opere di piantagione. Infatti un agrumeto non si pianta col tempo e in tutta comodità, diluendo la spesa negli anni. Esso è come una fabbrica: deve dare un prodotto commerciabile, una merce uniforme per varietà e momento di maturazione. E ciò si ottiene soltanto con un impianto coevo.
Ferdinando Milone, un grande e corretto maestro di geografia economica, scrive: “Anche qui le piante di agrumi appaiono un po’ dovunque, nei campi coltivati; risalgono le pendici e i terrazzi dell’Aspromonte; si insinuano nelle valli più apriche; proseguono lungo la costa jonica, dove la loro coltivazione si fa di nuovo più intensa… tra Sant’Ilario e Caulonia… L’agrumicoltura, e specie la coltivazione del bergamotto, ha trasformato il deserto in lussureggianti giardini… (cosicché) dobbiamo pur riconoscere il grande sforzo compiuto da questa gente e sfatare, se possibile, le accuse che a essa si facevano, scambiando per infingardaggine l’inattività che, il più delle volte, derivava dalla mancanza di capitali per l’adatto sfruttamento di una terra dal clima dolcissimo, ma quanto mai avara. Alla rilevata trasformazione, infatti, hanno contribuito in massima parte i capitali derivanti dall’emigrazione e il lavoro assiduo”.
Ora, chi investe danaro in proprio, o magari accende un mutuo al fine d’investire, lo fa se e quando si rappresenta la prospettiva di un profitto. È facile concludere, quindi, che, se a Reggio si era arrivati ad alti livelli di spesa in impianti fissi, i profitti sicuramente non mancavano, anche se poi le patrie statistiche ci dicono poco su tale argomento. C’è stato (e c’è tuttora) uno strano atteggiamento intorno all’olio e agli agrumi: valevano moltissimo quando si trattava di classificare i terreni a fini fiscali; era come se non esistessero quando si trattava di glorificare la patria agricoltura. Negli scritti ufficiali -principalmente le statistiche agrarie, ma anche gli scritti di storici accademici, come quelli del tanto lodato (sarò pure fazioso, ma credo lodato solo per i suoi ammanigliamenti bancari) Gino Luzzatto- si ricava il sospetto che affermare, o appena ricordare, che per oltre quarant’anni il valore delle produzioni meridionali fu di gran lunga superiore a quello dell’agricoltura settentrionale sembra un delitto di lesa maestà. Il citato Luzzatto, in un libro che fa testo in materia di storia economica dell’Italia unita, si sofferma sull’esportazione d’olio una sola volta, dedicando alla cosa un solo rigo, mentre la parte dedicata alla seta padana deborda da tutte le parti, zampilla a ogni parola. Peraltro l’Illustre non perde il suo tempo per informare che dopo la caduta del prezzo da 10 lire a 2,50 (a causa dell’arrivo in Europa della seta giapponese) il settore era ormai finito; che la gloria economica del Piemonte e del Lombardo-Veneto non contribuiva granché alla bilancia commerciale, sicuramente non nella misura intravista dall’occhio avido dell’indebitato Cavour. L’avversione a ricordare le esportazioni meridionali ha portato alla pratica scomparsa delle statistiche sull’olio. Oggi possiamo facilmente sapere, per esempio, quanti asini circolavano in Calabria nell’anno 1876 e quanti chili di seta si filavano a Como nel luglio del 1877. Ma a trovare una serie storica sull’olio, il vino e gli agrumi, ci vuole uno Sherlock Holmes in servizio attivo.
Fra tante glorie nordiste e tante omissioni sudiche, sappiamo comunque che tra il 1905 e il 1958, le superfici irrigue, in Calabria, passarono da 48mila ettari a 91.247 ettari. In cinquantatré anni sono stati riportati a coltura irrigua 43mila ettari, per una spesa che si può calcolare intorno ai quattro/cinquemila miliardi. Logicamente sborsati dai calabresi. Più espliciti sono gli agronomi, e non solo quelli che avevano cattedra all’università di Portici. In effetti, l’idea di un’agricoltura calabrese sconfitta e impotente non apparteneva a chi giudicava da competente, ma soltanto al giornalismo prezzolato dagli industriali milanesi e in appresso al cinema fintamente realistico. Basti ricordare l’informato saggio di De Marco posto in appendice al volume su Calabria e Lucania dell’Inchiesta Jacini (volume fortemente sgradito al riscrittore, prof. Nicola Caracciolo, non so se piemontese di nascita, sicuramente sabaudo per atti di pensiero). De Marco attribuisce agli aranceti e ai limoneti un valore della produzione di quasi 900 lire (del 1880) l’ettaro e al bergamotto un valore di 1.800 l’ettaro, tre volte le 600 lire della granicoltura lombarda. Credo il valore più alto in Europa.
Forse anche nei bergamotti c’era la mano di Dio, ma i bergamotteti li piantano comunque gli uomini, che nel caso non erano lombardi e non erano andati a scuola dal professor Luzzatto.
I libri degli agronomi suggeriscono l’idea di un’agricoltura reggina meno povera di quel che ci vogliono far credere, e tuttavia pur sempre un’economia subalterna, in cui la spinta e la controspinta produzione-investimento funzionava nell’ambito di un solo settore. Che, comunque, almeno Reggio fosse meno povera di quel che si ama sostenere a proposito del Sud lo dimostra una precisa circostanza. Negli anni Trenta, allorché il bergamotto e le arance tiravano a tutto vapore -e gli agrumi rappresentavano la prima posta della bilancia commerciale italiana con l’estero- su sette banche nazionali presenti in Calabria, sette avevano la loro filiale a Reggio e due soltanto avevano aperto un’agenzia fuori Reggio. A quel tempo non era un mistero che detti istituti erano scesi da Milano e da Roma -inseguendosi l’un l’altro e gareggiavano fra loro onde accaparrarsi una buona posizione sul Corso Garibaldi- per incettare i cospicui incassi degli agricoltori, che in parte rimettevano al Nord e in parte lavoravano sulla stessa piazza di Reggio.
La funzione negativa di una banca forestiera operante su una nostra piazza non sta tanto nel fatto che funziona da pompa per drenare altrove il nostro risparmio, quanto nell’altro che non compie operazioni rischiose, quali sono quelle industriali. In pratica finanzia il commercio. Ed è proprio attraverso il commercio che passa e si rafforza la subalternità coloniale, in quanto il commercio (oggi detto distribuzione: gli alimentari, i tessuti, l’edilizia, il legno, ecc.) si approvvigiona presso gli industriali. In sostanza, con il risparmio locale le banche hanno sempre prefinanziato lo sbocco meridionale dell’industria padana.
Solo il Banco di Napoli, che nei decenni precedenti il fascismo aveva convogliato quasi tutto il risparmio in valuta degli emigrati italiani (prima della guerra del 1915-18 la cifra ufficiale era di 25 miliardi dell’epoca, pari a 123mila miliardi in lire attuali), effettuava, attraverso la sezione speciale del credito agrario, operazioni a lungo termine. L’importanza e la proficuità (per l’istituto napoletano; il costo, se si guarda da parte di chi pagava pesanti interessi e subiva troppo facili esecuzioni immobiliari) di tale attività è comprovata dal palazzo che sorge all’angolo tra la Prefettura e la Provincia, al centro del centro di Reggio; un edificio imponente per essere solo la filiale di una banca, e che gareggia in grandezza con la sede barese e con la stessa direzione centrale, a Napoli.
Prima della guerra, dunque, Reggio non era povera quanto Catanzaro o Campobasso. Anche se non prosperava, almeno campava. La sua agricoltura era fra le più moderne d’Italia, e la danarosità della classe padronale teneva in vita un consistente artigianato urbano di servizio al palazzo. Certo il settore industriale era poca cosa. Se la memoria non mi tradisce, esso non andava oltre il molino Costantino; praticamente zero, se consideriamo i bisogni occupazionali di una città che contava 200mila abitanti. Anche i servizi culturali, che la benevolenza sabauda le riservava, erano bloccati a livello delle scuole medie superiori, mentre quello stesso Stato -al Sud tanto micragnoso- faceva lo scjalone tra l’Emilia e la Toscana, dove aveva insediato ben sette università -cinque più del necessario e dell’equo (Siena, Pisa, Modena, Ferrara e Parma, oltre a Bologna e Firenze), in quanto rivolte al servizio di cittadine di modesta popolazione. Ciascuna di esse, infatti, non arriva a un quarto della popolazione reggina e tutte assieme ne facevano appena il totale.
La crisi reggina va connessa con la crescita demografica che si verifica negli anni a cavallo tra guerra e dopoguerra. Le nuove generazioni non trovano una sistemazione, in quanto proprio nel dopoguerra il Sud perde la battaglia che passa sotto il nome di Ricostruzione Nazionale, ma che tale nome non merita (e neppure le lettere maiuscole) trattandosi della ferma scelta da parte del CLN -quasi una congiura- di concentrare tutte le risorse nazionali e l’apporto degli aiuti americani sullo sviluppo del solito Triangolo padano, come chiedevano Valletta (FIAT) e altri ceffi di pari statura. A contrappeso e come palliativo si procede all’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno. Si proclama che il Sud ha bisogno di infrastrutture (parola allora nuova per dire le strade e gli acquedotti, quelli che né la Destra Storica, né Sinistra egualmente Storica, né il Ministro della malavita, Giovanni Giolitti, e neppure Benito Mussolini, Duce vittorioso e Fondatore dell’Impero, s’erano degnati di fare, né sono venute dopo, nonostante la Cassa, ancorché Bossi e compagnoni padani piangano calde lacrime su una fattura che non è stata mai pagata dai soli paludosi (padani). Il nuovo ente è sotto il comando strategico di politici dotati di grande talento geografico, i quali s’impegnano a ridisegnare l’aspetto del paese meridionale secondo le misure del loro sarto di famiglia. Tanto per fare un esempio Napoli, la vecchia capitale del Regno meridionale, italianamente degradata a capoluogo di provincia, si comincia a trasferirla ad Avellino. Così anche Reggio. La quale è città fastidiosa in quanto elegge un senatore e un deputato fascisti. Non avendo provveduto un terremoto, la briga di accorciarla se la prendono i nostri. In effetti il municipalismo cosentino incide in modo tutt’altro che lieve sulla geografia economica, sociale e umana della vecchia Calabria. La consistenza urbana e il peso politico di Cosenza crescono visibilmente, sospinti dalla mano adunca del notabilato politico clientelista e dall’abile unilateralità politica della Cassa di Risparmio di Calabria (il figlio del capo era asceso a deputato con i voti cosentini e a sottosegretario italiano di stato con la benedizione di frate Colombo). Sebbene strategata dal meno che mediocre Ernesto Pucci, Catanzaro riesce ad arraffare il peculio che di solito va a chi regge il sacco. Reggio paga il fio d’essere incostituzionale, di dare voti ai fascisti, anzi di non darli agli ex CLN, e lentamente decàde. Il diffondersi della coltura e dell’industria del gelsomino, i successi del Caffè Mauro non riescono a nascondere l’involuzione.
Decàde, ma non protesta. Il ceto politico che la dirige è perdente a livello romano e cosentino. Il senatore Barbaro poteva ben essere un galantuomo, e anche devoto alla sua città, ma non aveva entrature a Roma, tanto sulla destra quanto sulla sinistra del Tevere.
Al tempo della Rivolta operavano in Calabria 37 istituti di credito, con 215 sportelli, i quali totalizzavano una raccolta di risparmio vicina ai 500 miliardi. Reggio, benché alla guida della provincia con il minor numero di comuni e di abitanti, era ancora in testa, sia sul lato dei depositi sia sul lato degli impieghi (cfr. Unione Regionale delle Camere di Commercio I.A.A., Relazione sulla situazione economica della Calabria nel 1970, a cura di Vincenzo De Nardo). Ma si trattava, evidentemente, dell’ultima resistenza. Alcuni successi imprenditoriali, del tipo armatore Matacena, allignavano nel vuoto.
Come è ampiamente noto, a partire dai primi anni Cinquanta e poi per tutto il ventennio successivo, l’assetto sociale europeo viene squassato da un sommovimento di portata epocale. L’innesco è di carattere tecnologico e produttivo. L’Italia (dizione generica ed equivoca) segue lo slancio dei tre forti paesi che la precedono: Inghilterra, Francia e Germania. Al contrario il Sud, mancando uno stato suo, si avvia in caduta libera verso il precipizio. La sua precedente posizione di periferia del Settentrione si converte in estraneazione. Il blocco cavourrista e padano del suo sviluppo diventa in tale passaggio sottosviluppo; un fenomeno non economico ma politico, superabile soltanto per via politica (forse è più onesto e corretto dire: militare).
A monte della nuova situazione stanno due fenomeni contrapposti e simmetrici: la caduta dei prezzi relativi per le produzioni mediterranee e l’aumento dei salari agricoli. Non v’è dubbio che il dissesto dell’agricoltura meridionale sia stato consapevolmente accettato quale offa nazionale della crescita industriale nordista. L’operazione viene condotta dai governi nazionali con un’aggressività barbarica a tutti evidente. Il Sud viene trattato come un nemico da annientare. La buffonata dell’uguaglianza legale, istituzionale ed elettorale non può e non deve ingannare nessuno.
Nonostante sia ferma ogni forma d’investimento e l’occupazione agricola e manifatturiera cada, il livello dei salari sale. La diaspora della manodopera contadina e artigianale verso l’industria padana spopola le campagne e appiattisce la domanda di lavoro. Contemporaneamente (o forse anticipatamente, come sostengono Ferrari-Bravo e Serafini, Stato e sottosviluppo) i cantieri aperti dalla Cassa incettano i non molti rimasti. A partire da questa svolta, i contadini superstiti non sono più costretti a scappellarsi profondamente per ottenere un’affittanza. Anche l’iniqua gara fra braccianti per una giornata di zappa finisce per sempre. In una situazione di libertà economica ciò dovrebbe essere segnato come un grande progresso sociale. Ma, in effetti, il progresso non c’è. A trarne vantaggio sono soltanto gli industriali e i padroni di casa padani. Infatti i primi si trovano di fronte a una curva salariale che non cresce in misura diretta con la loro domanda di manodopera, i secondi decuplicano la rendita di posizione. Invece gli agrumi -l’ultima ricchezza residua- diventano una bolla d’aria. Buona parte delle province siciliane e la provincia reggina vedono andare in malora l’unico loro capitale, i dimenticati slanci (ovviamente in rapporto alle sue forze) della borghesia sudica per crearsi basi nuove di profitto attraverso la piccola -o è più esatto dire, l’atomistica- impresa industriale. Ciò era già avvenuto negli anni dell’immediato dopoguerra, sotto la spinta dei buoni affari realizzati con il mercato nero. Si ripete tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, adesso sull’eco del successo padano. Ma, se la crescita della ricchezza nazionale ha elevato le possibilità di spesa dei consumatori, il mercato meridionale è già da tempo una colonia dell’industria padana. Senza una disciplina politica del mercato -come a quel tempo auspica, solitario, il reggino Demetrio Di Stefano (Il Risorgimento e la questione meridionale) nella cui parabola politica e umana è descritta la sofferenza del vero rivoluzionario meridionale- la spinta in avanti si risolve in un cimitero d’industrie. E il riferimento funebre non va alla Liquichimica di Saline e a tutto l’intrallazzo nordista degli anni Sessanta; va invece alle croci piantate su piccole iniziative locali, fallite al primo incontro con il mercato nazionale. Patrimoni e speranze private vengono distrutti -cosa che è il meno- ma quei facili fallimenti ingenerano un clima diffuso di scoraggiamento che, sommandosi all’annientamento agricolo, fanno tabula rasa d’ogni spirito d’impresa.
Uno stato che non fosse il nostro storico nemico avrebbe tentato almeno d’impedire tanta distruzione. Nello stesso tempo, la schiavitù degli agricoltori verso il monopolio chimico (concimi Montecatini) e verso il monopolio elettrico (Bastogi) si estende alla FIAT. Ancora una volta mediano le uguali leggi statali. Altro che rottamazione delle auto. Il ministero dell’agricoltura assume dipendenti e li dissemina per le campagne perché spieghino agli agricoltori che la meccanizzazione dell’agricoltura può tamponare la crescita dei salari. Intanto, o lo stesso ministero o quello degli esteri manovra e briga a Bruxelles per non estendere il protezionismo agricolo comunitario alle produzioni mediterranee. Agnelli deve ben vendere le sue macchine in Spagna. Gli agricoltori vengono presi al laccio con l’esca delle comode rate, spavaldamente fornita dai Consorzi agrari. Ovviamente si trattava di una spesa governativa a esclusivo favore delle industrie meccaniche produttrici di attrezzature e macchine agricole, che abilmente viene fatta passare per un aiuto all’agricoltura meridionale. In tal modo il monopolio ottiene ciò che gli serve e il capitale finanziario nascosto nei Consorzi (padani) può confiscare con largo anticipo le future, presunte entrate degli ex padroni dei terroni emigrati.
Ovviamente, trattori e motocoltivatori vennero pagati non certo con le rendite, ma o stringendo la cinghia o vendendo un pezzo di terra.
I cambiamenti correlati alla grande trasformazione del Nord italiano coinvolgono il Sud, in quanto oggetto della storia padana sin dal 1860, imponendogli un ulteriore regresso, ma questa volta relativo. È bene chiarire in cosa consista questo concetto, e non perché esso sia ambiguo, ma perché ambivalenti sono i fatti. Fra questi, i più rilevanti sono:
Uno. Come è a tutti noto, la concentrazione geografica (la centralizzazione capitalistica) della tecnologia -al tempo della Rivolta- abbatteva immancabilmente il lavoro nelle aree sottosviluppate che venivano raggiunte dalle nuove merci (oggi la politica capitalistica del labour saving danneggia anche le aree elevate a centro).
Tra il 1953 e il 1970, oltre agli emigrati, il Sud perde più di tre milioni di occupazioni.
Due. Con l’aumento della ricchezza nazionale, la quota incassata e ridistribuita dallo stato cresce in termini assoluti e anche in rapporto alla porzione che rimane ai privati. Ciò permette che i pubblici servizi possano essere dilatati. Il Sud ottiene un primo vantaggio dal fatto che il numero degli impiegati cresce in assoluto in percentuale. La remunerazione che questa quota di popolazione ottiene è a un livello italiano, cioè più alto rispetto a quello che la produttività media del paese meridionale consentirebbe.
Il Sud ricava un secondo vantaggio dal fatto che ottiene servizi in precedenza riservati solo al Centronord (le università, la sanità pubblica, ecc.).
Tre. Lo sviluppo industriale porta con sé una crescita del livello medio delle aziende. Ciò danneggia il quadro concorrenziale, ma fa salire il livello medio dei profitti industriali; consente così alle industrie di cedere alla distribuzione -quindi anche alla sua frazione meridionale- una parte più larga del plusvalore estorto.
Quanto sub Due e Tre permette al Sud di non perdere la posizione che aveva nelle statistiche nazionali in termini di reddito medio pro-capite, storicamente oscillante intorno al 65%. C’è però una significativa novità: detto percento, un tempo, era legato alla produttività complessiva del paese meridionale, mentre adesso viene insufflato dall’esterno. Tutte cose che, se arricchiscono il Sud, ne scombussolano, però, l’armonia sociale.
Per essere passabilmente chiaro, esemplifico. Un insegnante meridionale lavorerebbe per metà dello stipendio vigente. L’aggiunta è un regalo italiano. Così un medico, un giudice, un poliziotto, un bancario, l’operaio di un’azienda nazionale tipo ENEL, Telecom, ecc. Anche un commerciante-distributore meridionale lavorerebbe per un ricarico pari alla metà di quel che ottiene. Pure in questo caso l’aggiunta è collegata a una nazionalizzazione, precisamente a quella burocratica vigente nelle grandi aziende, in forza della quale vengono sottoposti a disciplina coattiva fenomeni che di per sé sarebbero economici e di mercato.
Ovviamente, il vantaggio che arriva nelle tasche di una parte dei meridionali è pagato dagli stessi meridionali, che sono costretti a dare di più allo stato e di più ai monopolisti padani. C’è, tuttavia, subito da osservare che, se gli stipendi e i ricarichi fossero dimezzati, al Sud non verrebbe alcun vantaggio contabile. Infatti la differenza in più non sarebbe risparmiata dai contribuenti e dai consumatori, ma andrebbe ai professori, ai medici, ecc. settentrionali sotto forma di un maggiore stipendio e alle aziende industriali sotto forma di più lauti profitti (Bossi è meno scemo di quel che sembra).
Ma come sopra segnalato, nel quadro economico meridionale i vantaggi non pagati costano carissimi. Infatti nel Sud, mancante di un suo Stato e di economie esterne tali da consentire una migliore produttività del lavoro, la nazionalizzazione del livello dei salari e degli stipendi ha come contropartita il tragico declino, la caduta, senza possibilità alcuna di ritorno, dell’agricoltura, non essendo questa protetta da sbarramenti comunitari.
Aggiornando il tema alla data attuale, si può aggiungere che la caduta ha toccato ogni produzione lecita a carattere arretrato e ha portato alla crescita di quella illecita, alla fioritura del lavoro in nero, tanto fra i cittadini italiani quanto fra gli extracomunitari, nonché alla dilatazione della sovrappopolazione, che adesso potrebbe essere considerata non più un esercito industriale di riserva, ma umanità superflua, come nel Terzo Mondo, e da qui a non molto soltanto zoologia antropica.
I partiti stanno tornando sui propri passi. Ma si tratta di un ripensamento vano e contraddittorio se non accompagnato da un forte vincolo valutario (o se più vi piace, bancario) a finanziare con risparmio sudico l’importazione di merci forestiere. Infatti i sindacati, consapevoli dell’inefficacia di una unilaterale decurtazione dei salari, sono fermamente decisi a combattere le gabbie salariali senza la contropartita di un investimento che bilanci la sottrazione di valuta.
Naturalmente neanche questo basta, ma anche i sindacati sono italiani.
L’approdo alla disarmonia sopra accennata precede la Rivolta, ma, a quel momento, la gente -che pure ne soffre il disagio- non ne ha ancora concettualizzato le cause. Avvertite sono invece le ripercussioni di carattere sociologico della trasformazione italiana.
Quando il morso della fame durava da un anno all’altro, e segnava, uno dopo l’altro, tutti i giorni della vita, la comune povertà legava il proletariato. Nella nuova fase, la fame vera è scomparsa, ma il modo di produrre (il lavoro) si riorganizza a raggi, il cui sole è spesso lontano. Ciò frantuma la dimensione umana della città, il senso del vicolo e del rione. Chi lavora diventa la macchina di un dio cieco, chi non lavora è la vittima di un demone irraggiungibile. L’umanesimo antico evapora, un nuovo umanesimo (un sindacato, un partito aderente ai problemi periferici) non spunta.
Per usare il linguaggio del sindacalista, la grande trasformazione si allarga al Sud senza ammortizzatori sociali. La durezza della transizione (per esempio, il riverbero locale dell’emigrazione) lascia insensibili i politici e i sindacalisti. In effetti ciò che non cambia, o cambia in peggio, è l’organizzazione clientelare delle filiali sudiche di tutti i partiti costituzionali. L’Italia ricca è scesa al Sud con altre sue merci, e per i fortunati anche con i suoi stipendi e salari, ma senza farsi accompagnare dalle regole di una libera democrazia. Perché? Credo si debba dare una risposta veritiera anche a rischio d’apparire faziosi: perché, al Sud, il primo atto di vera democrazia sarebbe la liberazione. Una cosa che va oltre le manette e arriva ai carri armati.
I maggiori benefici dell’allargamento al Sud delle condizioni sociali raggiunte nell’Italia restante, li ricavano i ceti medi scolarizzati. Legioni di redditieri ormai senza più rendita, e perciò promessi alla misurazione dei marciapiedi cittadini, hanno trovato facilmente un posto. Altri posti si lasciano sperare e si sperano. Legioni di figli del proletariato, in salita sociale per via degli studi, s’infilano anche loro da qualche parte. Ragionieri, medici, ingegneri, avvocati si sistemano in un modo o nell’altro. Altri s’infileranno, almeno si spera. Alla fine del mese lo stato paga.
Sarebbe inopportuno mettersi a fare della sociologia senza possederne gli strumenti, ma una cosa è chiara a chiunque: questa nuova quadreria che, attraverso la politica e l’invasione politica della società civile, diventa la parte sub-dirigente del Sud, manca di virtù. In fondo non è che l’erede statuale di quella borghesia padronale e redditiera che si concesse a Cavour per mancanza di decoro, d’onore e d’amor di patria. D’altra parte non è una classe, e neppure una classe in formazione. Manca il punto di riferimento sociale e quello autenticamente politico. Certo, un punto di riferimento non manca, ed è il civismo rovesciato in disvalore. Esso aggrega le persone, ma non può essere dichiarato all’esterno. Soltanto ristagna nel sottobosco familiare e municipale come necessaria arte del campare.
A questo punto, se sommiamo la crisi produttiva, il non possedere altro che braccia per pagare le merci forestiere, e ancora il sommovimento sociale, lo scardinamento dei vecchi valori classisti, la disperazione occupazionale, abbiamo il Sud degli anni Sessanta. Un Sud impoverito che dovrebbe solamente e puramente liberarsi d’ogni torchiatura esterna e farsi (al suo interno) finalmente quei conti sociali che i bersaglieri piemontesi impedirono, facendo colare sulla sollevazione contadina un fiume di sangue.
Comunque, la Rivolta reggina non ebbe tale idealità, né prima né poi. La rabbia contro lo stato straniero, o quantomeno estraneo, fu scioccamente vanificata da un personale politico che non seppe far altro che prendere il tram elettorale.
Allora cosa fu questa Rivolta? Perché Reggio?
Intanto l’occasione. Poi la singolarità va cercata nella sua splendida agricoltura. Quella stessa classe di redditieri fondiari che aveva invocato i bersaglieri piemontesi e che s’era pappato con poca spesa il demanio ecclesiastico e gratis quello statale e comunale, s’era lentamente ricostruita moralmente. Sicuramente spremendo sangue dalle ossa dei coloni, aveva piantato milioni di ulivi e decine di milioni di aranci, limoni, bergamotti. Li aveva lavorati, commerciati, imposti sui mercati stranieri (il Nord era ancora troppo povero per presentare una domanda effettiva). Spesso s’era indebitata fino alle mutande, in attesa che arrivasse il momento della fruttificazione. Anni, decenni di attesa, durante i quali il Banco di Napoli li aveva vessati con i suoi avvocati e gli ufficiali giudiziari. Poi un limitato benessere privato e anche un surplus provinciale consistente.
Allo scadere del luglio 1970, l’agraria reggina non era del tutto appassita; era ancora detentrice di qualche quattrino e s’era fatta un certo orgoglio di classe. Una cosa che nei tempi prosperi appariva solo sussiego, ma che oggi dobbiamo storicamente rivalutare, poiché era in effetti frutto della fiducia in sé, la stessa che mostrava il cavaliere d’industria. O forse -e più giustamente- quella di Esiodo, di Virgilio, di Plinio, di Columella, del cremonese Stefano Jacini: l’agricoltura come esplicazione del sapere umano, del vichiano conoscere la storia, in quanto produttori delle cose e di sé. Insomma Reggio era stata una città effettivamente capace di partecipare alla produzione nazionale in una posizione d’avanguardia; una città autentica.
Nei decenni precedenti, l’insolita identità reggina si era espressa mediante l’uso di un partito non costituzionale come podio, come palco per la rappresentazione scenica: il MSI. Ma senza per questo essere fascista. C’era solo una circostanza casuale a determinarla. Il podio era preso a prestito, quel che contava era l’uomo, forse il simbolo della sua rifiutata decadenza. Il senatore Francesco Barbaro è descritto come un aristocratico d’altri tempi, democraticamente alla mano; come un vir dotato di severo spirito di servizio.
Barbaro morì qualche anno prima della Rivolta, ma l’idea che la gente di Reggio ne aveva, faceva del suo ricordo un punto di riferimento, e non solo per l’agraria in decomposizione, ma per tutte le famiglie oneste: per quelle dei lavoratori, gli antichi e i nuovi, per quelle della nuova burocrazia, dove crescevano giovani destinati alla nuova guerra dell’uomo contro l’uomo, per quelle dei bottegai e prestatori di servizi, per cui la decadenza decisa per decreto rappresentava un atto ostile, persino per operatori economici di respiro nazionale come Mauro e Matacena, nonché per una larga parte dei colti, ai quali la conoscenza del passato dava conto della misura del declino.
Volendo concludere, l’input impresso dalle idee di Cavour al quadro sociopolitico italiano ha diviso un paese che aveva avuto parecchi stati, ma strutture produttive di uguale livello. Al Centronord l’intrallazzo finanziario e il parassitismo industriale alimentarono la formazione di un esercito del lavoro agricolo e industriale di tipo metropolitano, che è stato ed è rappresentato da formazioni politiche e sindacati coerenti con la sua condizione; al Sud, il saccheggio del capitale storico, dei surplus normali e dei surplus popolari da astinenza, la centralizzazione padana del capitale bancario di rischio, la mancanza di un proprio stato organizzatore, l’espropriazione del credito internazionale derivante dal massiccio afflusso della valuta rimessa dagli emigrati, non lasciarono altro spazio alla crescita capitalistica che una modesta nicchia in agricoltura; una situazione ben lontana dalla richiesta popolare di dar lavoro alle masse che la penetrazione di merci capitalistiche forestiere proletarizzava.
Le forze politiche e i sindacati italiani, coerenti con l’assetto occupazionale settentrionale, forse avrebbero voluto, ma oggettivamente non potevano e storicamente non poterono rappresentare gli interessi di un proletariato in larghissima parte esterno ai rapporti capitalistici di produzione. Quando questa versione del proletariato contemporaneo recepisce la lezione marxista, nega la negazione imperialistica e si afferma come il protagonista storico della liberazione nazionale dal sottosviluppo produttivo.
Insomma la Rivolta, per la partecipazione popolare che ebbe, poteva ben essere il principio della rivoluzione meridionale, se il proletariato non fosse stato da sempre solo. Invece, rimasta in mano al nazionalismo dannunziano di Ciccio Franco, si tramutò nel parto di una vecchia, in un aborto politico, nella contorta contrimmagine dell’impresa fiumana.