La nuova vita che arriva Una poetica per la vertigine della sovversione
giu 19th, 2019 | Di Thomas Munzner | Categoria: Cultura e società
ILARIA BUSSONI
La nuova vita che arriva
Una poetica per la vertigine della sovversione
La ricerca di una poetica all’altezza della capacità di sovversione espressa dal presente, al di là degli eponimi indicati dai tribunali o dalle etichette procurate dalla sociologia
Era l’aprile del 1979 quando il poeta e scrittore Nanni Balestrini infilava un paio di sci, dopo vent’anni di dismissione, e sfrecciava lungo una pista del versante francese del Monte Bianco per cercare rifugio in Francia. Fuggiva dall’Italia, inseguito da una serie di mandati di cattura per delitti politici che vedevano e lui molti altri della sua generazione accusati a vario titolo di aver animato strutture di direzione di quell’ondata di insubordinazione di massa che la magistratura aveva chiamato «terrorismo» e che il film di Margarethe von Trotta del 1981 etichettava forse per sempre come «anni di piombo». In Francia, tra i dintorni della Sainte Victoire e quelli di rue Campagne Première, Balestrini avrebbe vissuto qualche anno di esilio, evitando una reclusione che si sarebbe comunque rivelata ingiusta – sarebbe stato assolto da ogni accusa – e riprendendo il filo del suo lavoro cominciato alla fine degli anni Cinquanta: la ricerca di una poetica all’altezza della capacità di sovversione espressa dal presente, al di là degli eponimi indicati dai tribunali o dalle etichette procurate dalla sociologia.
Balestrini è stato anche il poeta che, nell’osservare questa grande evasione, è fuggito a sua volta: da una poesia crepuscolare e intimistica che ancora segnava il Novecento letterario italiano, dalla funzione «organica» dell’intellettuale all’emancipazione degli oppressi, da un realismo didascalico che consegnava ogni poetica a una decorazione del socialismo
Balestrini sarebbe per il Novecento letterario italiano lo scrittore «politico», colui che ha saputo inventare la forma e riprodurre la lingua delle lotte operaie, del rifiuto del lavoro, dello scontro diffuso tra rapporti sociali e rapporti produttivi che è serpeggiato lungo un decennio dal ’68 delle fabbriche al general intellect del movimento del ’77. L’opera letteraria di Balestrini starebbe alle rivolte del proletariato nelle sue molteplici forme come Alessandro Manzoni all’unità nazionale. E Balestrini è stato senz’altro questo: il poeta, il narratore, l’autore che più di tutti – di quella sua generazione di «poeti novissimi», radunati intorno alle sperimentazioni formali della «neoavanguardia» – avrebbe saputo ascoltare e tradurre in poetica le parole della lotta di classe, di quella fuga collettiva dalle gabbie della società del lavoro e della sua etica operaia, dai confini della società disciplinare e ortopedica chiamata Fordismo. Ma Balestrini è stato anche il poeta che, nell’osservare questa grande evasione, è fuggito a sua volta: da una poesia crepuscolare e intimistica che ancora segnava il Novecento letterario italiano, dalla funzione «organica» dell’intellettuale all’emancipazione degli oppressi, da un realismo didascalico che consegnava ogni poetica a una decorazione del socialismo. E nel farlo ciò che ha riportato a parole non sono stati tanto i contenuti politici degli slogan dei cortei o le ammonizioni dei volantini quanto «quello strappo sonoro / la nuova vita che arriva» che non ha mai smesso di usare come fonte primaria del proprio lavoro1.
Operazione di taglio e cucito che ricolloca il documento e il dato oggettivo del fatto di cronaca registrato dagli organi della comunicazione fuori dalla loro destinazione normativa di sapere storico dei dominanti, ridefinendo le condizioni di libertà degli stessi enunciati
«I libri non si leggono per ricavarne qualcosa in cui credere. Si legge per la vertigine di qualcosa di ignoto» scrive Balestrini nella prefazione alla nuova edizione de La violenza illustrata2. Un romanzo del 1976 nel quale la «vertigine» è la cattura in diretta della violenza diffusa di molotov, vetrine, rapinatori, lacrimogeni, plotoni, agenti, provocazioni, candelotti, cerotti, il sangue… raccontata attraverso il materiale esistente di notizie di cronaca e titoli riportati di giornali, ritagliati, copiati e ricombinati in una struttura a lasse dove ciascuna compone un episodio, il cui numero e il la cui forma rimandano all’epica medievale e alla tecnica di un autore che gioca con l’interrogazione della scrittura come taglio specifico nella continuità del linguaggio. Siamo qui di fronte ad alcuni degli strumenti adottati da Balestrini per placare quella che Umberto Eco chiamava la sua «furia collagistica». Un’ossessione forse personale dell’autore – che l’avrebbe impiegata anche nel suo lavoro artistico sempre a tecniche miste – ma che risponde anche al modo in cui la letteratura si pone di fronte alla Storia e alle sue fonti. In quanto fiction, operazione di taglio e cucito che ricolloca il documento e il dato oggettivo del fatto di cronaca registrato dagli organi della comunicazione, o catalogato dallo storicismo, fuori dalla loro destinazione normativa di sapere storico dei dominanti, ridefinendo le condizioni di libertà degli stessi enunciati. I quali hanno possibilità di riciclo al di là della titolarità del soggetto che li ha parlati, e sono così restituiti dalla forma poetica alla potenza del linguaggio in quanto tale. In questo sta la «vertigine» come funzione letteraria.
Ma il linguaggio esiste solo nella misura in cui si parla, c’è chi parla. E a parlare non è l’autore capace di inventare un soggetto munito di una proprietà di linguaggio, veridica o spiazzante che sia. A parlare è sempre l’impersonale degli enunciati circolanti, di volta in volta attecchiti su una funzione di parola che può assumere la forma del volantino, dell’occhiello di un quotidiano, dell’intervento di un militante in un’assemblea o di un ritornello corale della curva dei tifosi allo stadio. Per questo il materiale cui attinge l’operazione poetica è sempre il già detto, in qualunque sua forma. Fatto che a Balestrini è valso l’epiteto di «scrittore più pigro mai esistito», uno del quale Umberto Eco affermava, «esagerando un poco, che di suo non ha mai scritto una sola parola»3. La parola di Balestrini è sempre stata quella degli altri, quella capace di rimbalzare con riprese e variazioni, ripetizioni e incipit, sulle vite degli altri, agenti di una funzione narrativa diffusa e spesso collettiva che trova nell’epica il formato espressivo più adeguato.
L’interrogazione sullo statuto della parola si era del resto già posta come questione politica, quando, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, il sapere sull’emancipazione degli oppressi aveva deciso di andare a sentire la voce degli operai, degli emigranti interni che dal Sud agricolo si trasferivano nel Nord industriale, delle prostitute e dei marginali, smettendo di presumere di già conoscere quel che dicessero. Le inchieste di Danilo Montaldi e Franco Alasia, la «conricerca» di Romano Alquati, la storia orale di Cesare Bermani, l’etnografia musicale di Giovanna Marini e del Nuovo Canzoniere Italiano avevano gettato le basi di un’altra tecnica dell’ascolto e della registrazione del sapere dell’emancipazione. Da questa stessa disposizione nei confronti dell’origine della parola degli oppressi era scaturita quella corrente del marxismo critico italiano – il cosiddetto «operaismo» – che, proprio a partire da una diversa modalità di percezione della soggettività operaia e non solo, rompeva con le rappresentazioni del Partito Comunista e stravolgeva i rapporti tra soggetto e oggetto, parola e conoscenza, immaginati dalle scienze sociali. Balestrini, che quel marxismo critico aveva frequentato fin dal suo nascere – organizzando le sue istituzioni culturali tra riviste e case editrici e aderendo all’organizzazione Potere Operaio –, avrebbe dunque declinato con gli strumenti della letteratura quella disposizione a sentire la discrasia tra gli enunciati e le loro rappresentazioni. E non a caso, una delle preoccupazioni maggiori della sua poetica sarebbe stata proprio l’indagine della relazione tra la parola significata e la sua impronta sonora, tanto nella sua resa visiva della stampa e della tipografia – i paesaggi verbali – quanto in quelle voci corali che articolavano le istanze delle rivolte sociali e che avrebbero fatto le veci del narratore nei suoi romanzi più conosciuti, quali Vogliamo tutto e Gli invisibili.
Sovrapporre forma e contenuto senza farli mai aderire, e da qui immaginare uno spazio terzo dove si disporranno entrambi, le parole e la materia di cui sono fatte (suono, effetti, lettere, ritmo, vita…), questo è stato uno degli azzardi di un autore che avrebbe scritto a se stesso in una raccolta di poesie dell’esilio politico provenzale: «Pentiti solo di non averlo fatto abbastanza»
Certo vi si può leggere nella ricerca poetica di Balestrini la risonanza di Mallarmé nell’intendere la poesia come ontologia della contingenza, dell’avanguardia futurista per l’assemblaggio dei linguaggi e l’attrazione per le tecniche, di William Bourroughs e di Jacques Villeglé per quel found footage che è insieme scarto e materia prima dell’opera, persino il riverbero di una certa epoca ossessionata dalle strutture delle quali il linguaggio fu l’asse portante… ma Balestrini è stato l’unico autore ad assumersi il rischio di far derivare l’effetto politico di «un’opera autentica (libro, quadro, musica), che serve a farti vedere altro, o meglio a cambiare il tuo modo di vedere, di percepire le cose e il mondo»4 da un materiale organicamente già politico, restituendolo in questo modo alla sua potenza materica di «forza contro forza»5 e di conflitto anzitutto estetico. Sovrapporre forma e contenuto senza farli mai aderire, e da qui immaginare uno spazio terzo dove si disporranno entrambi, le parole e la materia di cui sono fatte (suono, effetti, lettere, ritmo, vita…), questo è stato uno degli azzardi di un autore che avrebbe scritto a se stesso in una raccolta di poesie dell’esilio politico provenzale: «Pentiti solo di non averlo fatto abbastanza»6. La scritta è comparsa su un muro di Centocelle, quartiere della periferia di Roma all’indomani della sua scomparsa. Il 19 maggio 2019.
L’Opera completa di Nanni Balestrini è disponibile presso le edizioni DeriveApprodi.
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