La sinistra, la Cina, la globalizzazione
mag 9th, 2019 | Di Thomas Munzner | Categoria: Politica Internazionale
Riproponiamo dal numero dell’autunno 2018 di Critica marxista il saggio di Romeo Orlandi ‘La sinistra, la Cina, la globalizzazione’, con due note redazionali.Economista e sinologo, Romeo Orlandi è Vice Presidente dell’Associazione Italia-Asean. Insegna Globalizzazione ed Estremo Oriente all’Università di Bologna e ha incarichi di docenza sull’economia dell’Asia Orientale in diversi Master post universitari. Ha diretto il think tank Osservatorio Asia. Ha vissuto e lavorato a Los Angeles, Singapore, Shanghai e Pechino. Collabora a quotidiani e riviste specializzate. È autore di numerose pubblicazioni su Cina, India, Vietnam, Indonesia, Singapore e Asean. Per l’editore Derive Approdi ha pubblicato il romanzo “Il Sorriso dei Khmer Rouge”.
Lo scontro USA Cina dentro questa globalizzazione si fa sempre più complesso e rischioso. L’ottimismo ideologico del libero mercato si era spinto irragionevolmente, coinvolgendo anche tutte le sinistre compresa la nostra, a pensare che la globalizzazione sarebbe stata di segno occidentale e che la bandiera della democrazia sarebbe sventolata a Pechino e a Shanghai. E’ successo invece il contrario, la Cina è tutto fuorché democratica ma produce sempre di più e meglio mentre l’Italia punta ancora sul fascino antiquato del made in Italy piuttosto che sull’innovazione. I fatti mostrano la loro proverbiale ostinazione anche quando registrano gli spostamenti dei container. Sette dei primi otto porti al mondo per tonnellaggio movimentato sono in Cina; Singapore (4°) costituisce l’eccezione. Il porto europeo più trafficato è Rotterdam, confuso al nono posto tra altre posizioni asiatiche e qualche intromissione australiana e statunitense. Alcuni decenni fa la lista era molto diversa, con un predominio delle due sponde dell’Atlantico. Spuntava ancora Genova. La classifica attuale è la fotografia più nitida della trasformazione della Cina in Fabbrica del Mondo. Si potrebbe obiettare che le merci movimentate siano destinate anche al mercato locale, così da ridurre l’impatto internazionale, come se i consumi interni assorbissero questa eclatante supremazia. In realtà, la grande maggioranza delle merci cinesi si dirige verso lidi stranieri. La Repubblica popolare è infatti dal 2009 il più grande esportatore al mondo, dopo avere insidiato e poi superato agevolmente il primato della Germania e degli Stati Uniti. La sequenza logica che se ne ricava rasenta la banalità espositiva: i porti movimentano i container, che trasportano le merci, prodotte dalle fabbriche, generate dagli investimenti, stimolati dalle opportunità. Sembra di assistere alla famosa cantilena Alla fiera dell’Est. Infatti, la Cina è la destinazione preferita per gli investimenti produttivi provenienti dall’estero. Offre una calamita potente, un cocktail imbattibile di stabilità politica, costo contenuto dei fattori di produzione, eccellente rete infrastrutturale, promessa di un immenso mercato interno. Nessun paese è in principio così attraente come la Cina per le multinazionali. Questi due soggetti hanno dato vita al più bizzarro matrimonio di interessi della storia economica moderna. Spinti da fini diversi, ma complementari e convergenti, hanno registrato successi innegabili. La Cina, nella linearità di un’impresa titanica, ha trovato la scorciatoia per l’industrializzazione. Ha consegnato alla storia l’egualitarismo del modello maoista e ha adottato le dinamiche capitaliste. Gli aumenti del Pil, come mai nessun paese al mondo, testimoniano il successo di un’impresa epocale. Le grandi aziende – pur non sempre – hanno trovato gloria per le loro ambizioni: nuovi mercati e profitti crescenti. I numeri delle Nazioni Unite sono inequivocabili: nel 1990 la Cina contribuiva con il 3% alla produzione industriale mondiale; nel 2013 l’analogo valore risultava del 22%. Le magnifiche sorti e progressive. Con la Cina? Quando il campanello ci ha destato nel 2007, il sonno aveva generato l’ingovernabile. E’ saltata la prima e più forte convinzione, il ruolo autoregolatore del mercato. Le contraddizioni e i lutti della crisi sono ancora evidenti. Eppure, con facilità si era rinunciato alla politica industriale, riducendo l’intervento dello Stato nell’economia e adottando le privatizzazioni nella convinzione – fideistica prima ancora che ragionata – di una loro maggiore efficienza. L’Italia ha subito una fortissima, quasi invincibile concorrenza dalla Cina e dai paesi asiatici. Ne hanno pagato le conseguenze i settori maturi che basavano le loro vendite su fattori di prezzo. Tra le grandi nazioni, l’Italia ha sofferto maggiormente l’emersione di nuovi soggetti perché la sua struttura produttiva – con piccole e medie aziende, conduzione familiare e inclinazione verso i beni di consumo – era il primo bersaglio delle merci cinesi, troppo a lungo identificate nel solito mantra: ridotta qualità, scarso valore aggiunto, basso costo unitario. Roba cinese, insomma, che tuttavia colpiva la nostra industria e peggiorava la bilancia commerciale con Pechino. La speranza dell’ingresso della Cina nel Wto, nel dicembre 2001, era di assimilarla velocemente alle regole internazionali. In realtà, la riduzione delle misure tariffarie ha favorito le multinazionali e le esportazioni di Pechino. Fragile si è rivelata la difesa dell’industria nazionale, perché se ne è sopravvalutata la qualità strutturale. Il made in Italy sembrava inattaccabile, prestigioso e inimitabile. E’ risultato invece ammantato di retorica, sparsa copiosamente come se lo scheletro industriale del paese fosse composto da raffinati beni di consumo ai quali anelavano le sterminate masse di cittadini asiatici. Anche la meccanica strumentale – il vero cuore produttivo del paese – sembrava annegare di fronte alle immagini patinate che connotavano l’Italia. La litania era costante, come in un disco rotto: venderemo al più grande mercato del mondo, 400 milioni di nuovi ricchi, se ogni cinese indossasse una cravatta italiana. La storia, è noto, ha preso strade diverse. La Cina si è rivelata difficile da conquistare, i suoi acquisti si sono concentrati su beni strumentali e materie prime – necessari alla Fabbrica del Mondo – e solo recentemente si è aperta ai consumi di lusso. Contemporaneamente, dai suoi porti partivano infinite distese di container indirizzati verso i mercati internazionali. Nei paesi industrializzati pochi se ne lamentavano. Il made in China non interferiva con le specializzazioni locali; offriva anzi beni di qualità crescente a prezzi ridotti, per la gioia della distribuzione e dei consumatori. L’antagonismo verso le lanterne rosse dei negozi era contenuto; in Italia invece – secondo un’indagine della Pew di Washington – era il più alto al mondo. Effettivamente i prodotti cinesi, sempre più presenti, possono far chiudere le fabbriche. Il flusso inverso langue; pur con l’ottimo risultato del 2017 le esportazioni crescono pigramente; l’Italia in vent’anni ha quasi dimezzato la propria quota sull’import cinese (nel 2017 l’1,1% del totale, un quinto del valore tedesco). La bilancia commerciale della Germania è invece in attivo nei confronti della Cina. Il Dragone – sempre dipinto come aggressivo e invasore – mantiene fumanti le ciminiere tedesche e genera dunque reddito e occupazione, come avviene non a sufficienza per le aziende italiane. Sarebbe stato sufficiente studiare le diversità tra i due paesi europei per evitare il disincanto. L’illusione della Cina come mercato di conquista ha provocato la disillusione successiva. Ancora fino al 2012 la somma delle esportazioni italiane verso le più importanti destinazioni asiatiche (Cina, Giappone, Hong Kong, Corea del Sud) non raggiungeva in valore quelle destinate alla Svizzera (6% del totale). Migliori ricompense hanno registrato gli investimenti internazionali, cioè la lungimiranza di trasferire impianti oltre la Grande Muraglia. Tuttavia le aziende italiane – troppo piccole ed eurocentriche – ne hanno tratto vantaggio marginalmente. In un caso di scuola – ora sempre più numeroso – la Volkswagen produce più auto in Cina che a Wolfsburg. Le multinazionali hanno intercettato con profitto la volontà di riscatto cinese e le loro dimensioni hanno consentito investimenti sostanziosi, pluriennali, negoziati. Bastava esaminare le loro esperienze, invece di ripetere all’infinito che Small is beautiful. Quando intervengono le trattative, l’accesso ai capitali, le economie di scala, le dimensioni contano, size matters. Mal difesa dalla sinistra, l’industria nazionale è stata lasciata a patetici tentativi identitari, tesi a penalizzare i prodotti di Pechino. La Cina è oramai nel Wto e le eventuali misure restrittive si decidono a Bruxelles, dove i margini italiani sono istituzionalmente ridotti. Il feticismo dell’origine della merce la via della seta
Qual è peraltro il significato stringente dell’origine della merce? Cosa significa salvaguardare la produzione nazionale? La creazione del valore è ormai globalizzata o almeno tende a esserlo sempre di più. La libera circolazione di merci, talenti, materiali, capitali, indirizza il loro reperimento ovunque sia disponibile al meglio. L’assemblaggio ha luogo nei posti più convenienti. La vicinanza alle materie prime per creare un’industria è ormai un concetto che volge al tramonto. Un iPhone prodotto a Shenzhen e spedito negli Stati Uniti incide per 275 dollari nell’attivo commerciale cinese. Eppure il valore aggiunto nella Rpc è di soli 10 dollari. Il resto appartiene ad altri luoghi, compresa la California per il progetto della Apple. Eppure ogni iPhone viene conteggiato come made in China. E’ ancora opportuno affidare alle statistiche il monopolio delle informazioni commerciali? Non sarebbe più opportuno studiare i passaggi della creazione di valore, piuttosto che insistere sulla provenienza delle merci? No Cina, è il cartello appeso nelle bancarelle, all’ingresso dei negozi di casalinghi e giocattoli. Ben altre contese avrebbe meritato il made in Italy, se da bandiera stinta si fosse trasformato in programma redditizio. Un’altra statistica, drammaticamente ostinata, ci conduce al nocciolo della dinamica globale: la metà delle merci esportate dalla Cina deriva da investimenti di multinazionali. La percentuale assolve in partenza le accuse di invasione commerciale rivolte al Dragone. La replica è infatti semplice: Pechino sta facendo ciò che le è stato chiesto, cioè produrre. Ovviamente questo passaggio epocale ha dato forma alla globalizzazione. Il suo carattere economico è stato largamente prevalente. La Cina – araldo dei paesi emergenti – vi ha trovato la soluzione per sconfiggere l’arretratezza e riproporre il suo peso politico. Il capitalismo occidentale ha scovato uno stimolo gigantesco, contemporaneamente scelta e necessità, per i nuovi assetti. Senza contrasti ideologici, senza l’Unione Sovietica, il mondo era effettivamente sembrato più omogeneo, incline al benessere, pronto alla democrazia, inevitabilmente proteso verso la libertà. The world is flat, senza ostacoli, ci ricordava il pensiero dominante. La tecnologia era disponibile, trasferibile, senza limiti; i gusti tendevano a uniformarsi, la storia sembrava al capolinea. Immaginare una globalizzazione dei diritti e delle opportunità sembrava un ingombro fastidioso o un’illusione giovanile. L’Asia orientale è stata uno dei bastioni del nuovo sistema. Il trasferimento di attività produttive, ingigantito dalla Cina, aveva già interessato le quattro tigri (Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Singapore), poi l’intero Sud-Est asiatico, infine il sub-continente indiano. Il suo destino era la creazione materiale di valore, potendo contare su una massa sterminata di forza lavoro disciplinata e partecipe. Il compito di estrarre valore spettava all’Occidente, nella sede emblematica di Wall Street. I redditi generati dalla finanza sostenevano i consumi, acquistando le sovrapproduzioni asiatiche. Il sistema aveva bisogno della compressione dei salari e dei consumi in Asia. Lì, la stabilità permaneva la stella polare di tutti i governi. I mercati ricchi erano la destinazione immediata delle merci, con attivi commerciali reinvestiti copiosamente. Il consumo della Cina rappresenta ancora oggi il 38,6% del suo Pil; quello statunitense ha un valore notoriamente più alto (68,1%). Sembrava la negazione della logica economica; eppure gli assetti strategici hanno imposto questo equilibrio precario. Quando la Lehman Bros è fallita nel settembre 2008, è diventato evidente che i risparmi dei lavoratori cinesi non potevano continuare a finanziare i consumi della middle class americana. Per registrare le conseguenze sull’occupazione di questo eccezionale trasferimento di risorse – tra chi creava valore e chi ne godeva – è stato invece necessario attendere i risultati elettorali più recenti. Sinistra vs globalizzazione? L’atteggiamento della sinistra verso la globalizzazione è stato incerto, innervato da sfumature e interpretazioni. In un estremo concettuale permaneva la classica opposizione al capitalismo, del quale la globalizzazione rappresenta la versione più sofisticata. Se ne combatteva la spietatezza, lo scarso rispetto per i più deboli, l’esposizione al mercato e dunque la riduzione delle proprietà pubbliche. Effettivamente il declino degli Stati nazionali, soprattutto in Europa, è innegabile. Stanno sbiadendo le loro prerogative: il controllo delle frontiere, la stampa delle banconote, il monopolio della forza, l’omogeneità culturale. Chi ha assunto questi poteri? Le organizzazioni internazionali, le banche multilaterali, le missioni militari della Nato, le multinazionali, l’egemonia statunitense. L’opposizione immediata è stata dunque ideologica; quella seguente è più concreta: i vincoli di bilancio sono spietati, non si può più svalutare e finanziare in deficit. Il primo bersaglio della globalizzazione è il welfare. Per mantenerlo sarebbero necessarie alcune condizioni: un’eccellenza tecnologica diffusa, una specializzazione finanziaria e dei servizi e la sottomissione dei paesi emergenti. In Italia, la prima sta flettendo, la seconda non ha mai avuto luogo, la terza non è più praticabile. Il riscatto dell’Asia ha intaccato i paesi deboli dell’Europa. L’opposizione della sinistra tradizionale alla globalizzazione si comprende, ma rimane una semplice testimonianza. Le risorse per reddito e occupazione – in assenza di prospettive di radicale cambiamento politico – non sono più disponibili. La protezione garantita durante la Guerra fredda, la possibilità di finanziare il consenso attraverso il debito pubblico sono ormai inimmaginabili. La sicurezza dell’occupazione, la centralità del lavoro, gli investimenti pubblici sono dei rimpianti. L’inflazione, la svalutazione, le assunzioni clientelari dovrebbero essere i rimorsi. La Cina in trent’anni ha spostato 300 milioni di contadini nelle città trasformandoli in operai. Per la prima volta nella sua storia millenaria i centri urbani sono più popolosi delle campagne. Le fabbriche si trasferiscono con una disinvoltura inquietante. I governi occidentali sembrano impotenti. In questa cornice, è stato opportuno irrigidirsi sulla battaglia, poi persa, dell’articolo 18? Non c’era una soluzione migliore della lenta agonia della cassa integrazione? E’ stato saggio privilegiare le relazioni industriali esistenti, trascurando le forme contrattuali che si stavano affermando? Mentre si consolidavano nuovi mestieri – dai ciclofattorini alle partite Iva, nei call center e nei centri di distribuzione – nessuna spia si è accesa quando i pensionati sono diventati la componente più numerosa dei sindacati? La sinistra di governo è stata al contrario favorevole alla globalizzazione. Sciolta da legami ideologici, ha sposato le teorie liberiste. Ha tentato di rinnovare la vecchia tradizione socialdemocratica del deficit spending, convinta che la diluizione dello Stato avrebbe generato dinamismo e individualismo. La globalizzazione era così identificata con la crescita della società civile, l’aumento della ricchezza, la sconfitta del sottosviluppo, la contaminazione culturale, l’affermazione di diritti universali. Inaugurata da Clinton e Blair – con evidenti affinità con la destra moderata – ha oggettivamente raggiunto i risultati che auspicava, approfittando essenzialmente dell’assenza di antagonisti internazionali. Questa globalizzazione ha gestito con acume il disequilibrio sul quale poggiava. Il suo architrave era la certezza del progresso: il commercio è uno strumento di pace, il panorama postideologico avrebbe omologato il mondo intero. Le praterie gratuite di Internet erano pronte a consolidarla. Il modello cinese – un concentrato indigesto di dittatura e bassi salari – era con fastidio considerato inapplicabile. Quando raggiunta dalla prosperità, la classe media avrebbe reclamato nuove rappresentanze, dando vita al parlamentarismo. La bandiera della democrazia sembrava destinata a sventolare a Pechino e a Shanghai. La crisi ha fatto giustizia di queste convinzioni. Si è affannato presto il respiro del benessere universale, un whishful thinking. lo yen globalist?
La Cina ha spento questi sogni, confinandoli alla loro ingenuità. Ha confermato la sua irriducibilità a logiche estranee, l’impermeabilità a fattori di rischio, la serietà del suo impegno, la diversità nel tragitto di sviluppo. Soprattutto, ha reso la democrazia uno strumento, non un postulato. Si può produrre ricchezza – come mai nessun paese nella storia economica – anche senza la circolazione di idee e il disagio delle elezioni, con la guida del partito unico. Questa inoppugnabile verità ha dapprima disorientato e poi colpito l’ottimismo delle società occidentali. Per un’ironica inversione dei fini, la globalizzazione non ha prodotto la democrazia in Cina, ma ha condotto a una precarizzazione nei paesi più deboli. Qui, la fabbrica fordista, lo Statuto dei lavoratori, la concertazione sindacale sono apparsi impraticabili, se esposti a una concorrenza spietata. Salpata con l’ideale della democrazia in Cina, la corazzata della globalizzazione è approdata in porti mediterranei, affollati di disoccupazione e lavoro nero. Il numero degli addetti si è tragicamente ridotto in Italia che, in aggiunta, ora è prima in Europa per i Neet, amaro acronimo di Not in employment, education, or training. Si trova in questa situazione il 26% dei cittadini tra 18 e 24 anni. Più di un quarto dei giovani è ufficialmente nullafacente. Nella stessa cornice, tornano specularmente gli stessi interrogativi: perché la scorsa legislatura ha espunto l’articolo 18? Qual era il messaggio di tanta determinazione? Inoltre: ha portato effetti tangibili, oppure soltanto la propaganda di decimali di punto per occupazioni sempre più precarie? Soprattutto: qual era l’opportunità di dividere il paese e il partito di governo sul lavoro e su tante altre questioni? Non sarebbe stato più saggio trarre vantaggio dalla migliorata congiuntura internazionale per raggiungere qualche risultato, per offrire tregua e speranza? Solo ora la sinistra italiana sostiene di non aver capito la globalizzazione. Lo fa con lo stesso candore con il quale perde le elezioni, come se si sia trattato di un piccolo incidente di percorso e non di un errore epocale. Dopo la crisi. Destra vs globalizzazione! Nell’ultimo decennio i disequilibri mondiali sono variati, ma i suoi nodi non sciolti. A parità di potere d’acquisto il Pil cinese ha superato nel 2014 quello statunitense; le economie dei paesi emergenti sono nel complesso cresciute nove volte più velocemente di quelle industrializzate; decine di milioni di persone scavalcano ogni anno la soglia di povertà; nel 2018 il reddito pro capite spagnolo ha sorpassato quello italiano. La globalizzazione ha accentuato il suo versante economico. Sono aumentati gli stati autoritari, le disuguaglianze, la dissipazione delle risorse. Il dominio dei gestori dei big data – aiutato da disinvolte misure antitrust – è completo e inquietante. I partiti progressisti non hanno saputo arginare questa deriva, quando non ne sono stati artefici diretti. La novità politica emersa è singolare e inquietante: l’opposizione alla globalizzazione è ormai patrimonio della destra; non quella classica e liberale, ma la sua declinazione nazionalista. Venata da fascismo, immagina un ruolo più incisivo dello Stato, sigilla le frontiere, difende le tradizioni, rimpiange il passato, evita il contagio, si affida al suo popolo, diffida dell’inglese, privilegia la cucina italiana. I suoi concetti chiave sono comunità e identità. Siamo dunque agli antipodi della globalizzazione, almeno dei suoi aspetti più inclusivi e progressisti. Non averne intercettato la novità dirompente, affidandone l’opposizione alla destra e al populismo, è stato un errore imperdonabile. Bloccata dall’infertilità concettuale, ma soprattutto dall’imitazione di logiche subite, la sinistra italiana è stata prigioniera dell’incapacità di gestire un fenomeno complesso. Inoltre, la supremazia della destra è stata conquistata elettoralmente, facendo leva su rancori, insoddisfazione, protesta, mancanza di sicurezza sociale e occupazionale. Donald Trump, con una magistrale campagna elettorale, ha dato forza a questi sentimenti e ha trovato epigoni anche nella vecchia Europa. La Casa Bianca ha ora rimesso in gioco il delicato equilibrio emerso tra enormi contraddizioni dopo la Guerra fredda. Le domande di Trump, al netto delle risposte, sono tutt’altro che banali. E’ sostenibile il deficit commerciale degli Stati Uniti con la Cina, pari a 376 miliardi di dollari nel 2017 (senza contare quelli con Messico, Germania e Giappone)? Si può negligere il risentimento degli operai del Midwest per la perdita del lavoro trasferito in Asia? Non si smarrisce l’identità nazionale se aumentano i 55 milioni di cittadini di lingua spagnola negli Stati Uniti? Perché le spese della Nato devono ancora essere così sostenute per Washington? Le precedenti amministrazioni avevano navigato tra un equilibrio complicato. Trump è meno incline alle sofisticazioni, ma oggettivamente i nodi si sono ingigantiti. Riuscirà a scioglierli con minacce, muri, dazi, tweet e nuovi assetti che ne deriveranno? Se la previsione si basasse sull’interferenza delle molte variabili, la risposta sarebbe negativa. Il mondo è oggi così interconnesso che soluzioni unilaterali appaiono improbabili. Soprattutto a livello economico, strappi clamorosi sembrano difficili da sopportare. La Cina interviene nei twin deficits statunitensi, sia commerciale che federale. Accumula risorse vendendo merci ai consumatori americani. Inoltre riceve i capitali degli investimenti produttivi. Ha accumulato la più alta concentrazione di riserve valutarie al mondo, che alcuni anni fa aveva superato l’astronomica cifra di 4.000 miliardi di dollari e ora – dopo il sostegno alla domanda interna – è quantificabile in 3.200 miliardi. Le cifre esatte sono segrete, ma è altamente verosimile che più della metà sia costituita da treasury bond emessi da Washington per finanziare il deficit federale. Gli stessi dollari che comprano merci, poi da altre mani acquistano il debito. La Cina è il più grande detentore di titoli di Stato Usa. Ha nei suoi forzieri una massa ingente di denaro che le dà ampi margini di manovra sui mercati. Diventa proprietaria di porzioni di Stati Uniti. Cosa succederebbe se vendesse o smettesse di comprare titoli, oppure se esigesse i suoi crediti? Quali scenari si aprirebbero se gli Stati Uniti decidessero di non onorare i loro debiti? Gli analisti che hanno descritto questa possibilità come nuclear option non sono lontani dalla realtà. In questi casi la prudenza – non solo alla Casa Bianca – non è solamente saggia ma obbligatoria. Le cronache riportano le guerre commerciali tra gli Stati Uniti e i loro principali paesi fornitori. L’impostazione di Trump è classica: aumentare i dazi all’importazione per favorire il consumo di prodotti interni che trainerebbe le assunzioni. Buy American, hire American. La tenzone a suon di nuove tariffe è in atto. Probabilmente Trump riuscirà a strappare qualche concessione e a trasformarla in una narrazione conveniente. In via di principio ha certamente ragioni da vendere. Eppure le domande da porsi sono altre: è praticabile questa via? Riuscirà il presidente a riportare l’occupazione industriale nel paese? Le sue azioni nel lungo periodo saranno redditizie? Le risposte più plausibili sono tutte intrise di dubbi. I dazi sono bivalenti. Se si importano componenti da assemblare, il costo finale del prodotto – pur se diventato made in Usa – potrebbe diventare proibitivo. Inoltre, la distribuzione lamenterebbe di non poter più «importare a costi cinesi e vendere a prezzi americani». Quando l’amministrazione Trump ha imposto i dazi su alluminio e acciaio cinesi, tre Associazioni nazionali di produttori lo hanno applaudito. Ben 46 grandi associazioni di utilizzatori dei due metalli – comprese le multinazionali più potenti – hanno espresso il loro disaccordo. Lo hanno fatto anche gli esportatori, timorosi dell’imposizione per reciprocità di misure protettive nei paesi colpiti dall’iniziativa statunitense. Alcune aziende infine hanno scelto l’opzione opposta, come la Harley Davidson che ha deciso di delocalizzare per evitare proprio i dazi sulle sue moto. L’effetto combinato di questi eventi sarebbe probabilmente insostenibile nel lungo periodo. In aggiunta, rinnovare una vocazione industriale dopo decenni di trasferimento di attività mature non sarà certamente agevole. Difficilmente i telai della Virginia riprenderanno l’attività tessile, le acciaierie di Pittsburgh a inquinare, i terreni di San José a ispirare i racconti di Steinbeck sui lavoratori agricoli messicani. Ora, su quello stesso suolo, sorgono le aziende pulite della Silicon Valley. I loro algoritmi spingono verso un mondo globalizzato, senza frontiere o distinzioni, dove l’inglese è al servizio del consumatore universale. Anche l’industria automobilistica – che ha dato comunque segnali di grande vitalità – ha ceduto la supremazia produttiva alla Cina e compete con le industrie europee e asiatiche per le nuove frontiere tecnologiche. Ci vorrà un mandato presidenziale ampio, che comprenda produttori e consumatori, per continuare la guerra commerciale. Nel frattempo, in Bangladesh gli operai tessili continueranno a guadagnare 50 dollari al mese. Esisterà sempre un paese di riserva dove trasferire le produzioni; non si possono imporre dazi a tutto il mondo. Se dunque è verosimile un aggiustamento funzionale degli assetti, almeno tre considerazioni minacciano tuttavia la stabilità internazionale. La prima è lineare: Trump ha scosso il sistema, ha aperto molti fronti, confuso la distinzione tra amici e nemici. E’ determinato, sbrigativo, popolare, fortunato. E’ per lui motivo d’orgoglio evitare le complicazioni, i lunghi dossier; ai luoghi della politica preferisce la velocità del business. Ha disvelato molte contraddizioni, spesso acuendole. Se non riuscirà a risolverle, la tentazione di usare maniere drastiche potrebbe serpeggiare. In politica estera ha mani pressoché libere, senza i check and balance che la Costituzione gli impone all’interno. Paradossalmente, sono i generali e la Cia a consigliare moderazione. In secondo luogo, gli oppositori degli Stati Uniti – pur con diverso tasso di antagonismo – sono sempre meno intimiditi. Più che nel passato, nel multipolarismo le alleanze si compongono sul pragmatismo. Il Medio e l’Estremo Oriente ne sono un esempio lampante. Le pressioni statunitensi si arenano di fronte ai nuovi assetti politici che l’emersione della Cina ha trainato. Oggi Pechino indossa abiti più ambiziosi. Ha sconfitto il sottosviluppo, rivendica territori da altri paesi asiatici e minaccia la Pax Americana nel Pacifico. La Cina remissiva del dopo Mao è ora potente e orgogliosa. Il suo percorso è pressoché completo: l’economia ha assolto il suo compito, la politica può ritirare la delega e tornare al comando. L’espansione verso il Mar cinese meridionale e la Nuova via della seta sono articolazioni della stessa ambizione. Le rotte potrebbero collidere con la 7a Flotta della Us Navy. Da ultimo, il nazionalismo di Pechino non confligge soltanto con Washington. Si somma a quello dei vicini asiatici: la Russia di Putin, l’India di Modi, il Giappone di Abe. Gli attriti politici in Asia sono tutt’altro che risolti. La penisola coreana e la ferita aperta di Taiwan lo ricordano costantemente. Se le tensioni economiche possono essere negoziate, quando diventano politiche e militari rimandano a scenari molto più tesi. «The world is a complicated matter», ammoniva Barack Obama; ecco perché le scorciatoie sono infide e le trattative doverose. Meglio il capitalismo, per ora In questa scena internazionale il ruolo dell’Italia è in ultima fila se non dietro il palcoscenico. Alla retorica nazionale si oppongono i numeri, le classifiche, le tendenze, le perdite di posizione. Sono noti i limiti strutturali e le responsabilità politiche. Il nostro paese è stato colpito dalla globalizzazione; certamente i prezzi pagati sono stati superiori ai vantaggi. Un tessuto debole, poco esposto alla concorrenza, strategicamente protetto, quando è stato messo di fronte a nuovi attori globali – potenti, spregiudicati e alleati delle multinazionali – ha mostrato dei cedimenti. Soprattutto, i suoi limiti – le competenze, la rettitudine, il senso delle istituzioni – non sono stati indenni allo scrutinio della magistratura e dell’opinione pubblica internazionale. Oggi, il nostro paese viene percepito come un pericolo – dunque da non lasciare a se stesso – più che un sostegno alla crescita. La costanza degli errori, le fragilità di base, i vincoli di bilancio, i controlli europei rendono molto difficile qualsiasi ipotesi espansiva. Probabilmente l’Italia dovrà limitare il suo intervento a negoziare il declino che la sta colpendo. Rimane il rammarico perché la sinistra – nella sua accezione più ampia – ha avuto la possibilità di incidere. Non ha più la giustificazione di essere stata all’opposizione. Sarebbe riduttivo addebitare la sua sconfitta alla plateale incompetenza dei suoi dirigenti. Il loro spessore culturale e politico è certamente più sottile di quanto richiesto. Comprendere e gestire il cambiamento – anche con rotture dolorose con il passato – era il suo compito. E’ rimasto largamente disatteso, anche per motivi non soltanto politici. Le novità sulla scena mondiale, le incrostazioni su quella interna non hanno condotto a diverse visioni sociali, a differenti distribuzioni della ricchezza, al superamento della crisi. Hanno solo prodotto controverse, traumatiche e incompiute riforme. Lo scarto tra i cittadini e le istituzioni è approdato agli esiti conosciuti. Ora il paese è in preda a un forte sentimento anti globalizzazione. Il mainstream è affollato di concetti chiarissimi: frontiere, muri, statalizzazioni, respingimenti, Prima gli italiani. Dopo averne fallito la comprensione, la sinistra ha lasciato alla destra l’opposizione alla globalizzazione. La conclusione è amara e singolare: l’Italia è l’unico luogo dove il capitalismo rappresenta l’offerta politica di sinistra. Sono certamente più progressisti i suoi aspetti migliori – il dinamismo, la mobilità sociale, la meritocrazia, la libertà – che la palude all’orizzonte. E’ necessario dunque molto ottimismo della volontà per immaginare un prossimo riscatto della sinistra. Non sarà sufficiente una nuova classe dirigente e una più solida impalcatura teorica. Nel breve periodo si può fare affidamento sulla volatilità dell’elettorato, sulle incertezze del governo pentaleghista, sul fallimento del sovranismo. Si tratta di ipotesi possibili ma aleatorie e non sufficienti. In prospettiva, la maturazione di una sinistra democratica e di governo appare lunga e difficoltosa. Per lanciare un seme, per non abbandonare la speranza, vanno rispolverati utensili eterni: studio, serietà, integrità, partecipazione, attenzione ai più deboli. La vera novità sarà il coraggio di gestire situazioni inedite e complesse, con l’inattaccabilità della propria preparazione.
*note redazionali: Adriana Perrotta Rabissi Tutta l’analisi di R. Orlandi (soprattutto dove esamina l’impossibilità di continuare nell’attuale congiuntura internazionale con il welfare fordista, che in Italia conosciamo Dopo questo congresso ci sono state analisi e proposte anche attraverso pubblicazioni
come ad esempio queste: “Donne, sviluppo e lavoro di riproduzione – Questioni delle lotte e dei movimenti – 1996, FrancoAngeli”;
“Donne e politiche del debito – Condizione e lavoro femminile nella crisi del debito internazionale, 1995, Franco Angeli”.
Franco Romanò L’analisi di Romeo Orlandi sul rapporto Cina mondo è inappuntabile e davvero c’è poco altro da aggiungere nella sua parte economica, sui rischi che vede in prospettiva nella collisione possibile fra Usa e Cina e anche nell’individuazione dei punti di forza della politica di Trump, il solo a farlo in termini così lucidi perché la sua riflessione evita la propaganda e l’indignazione fine a se stessa. Tuttavia la politica di Trump è destinata a non risolvere alcuno dei problemi ma ad aggravarli tutti. Questo lo dice anche lui, seppure in termini interrogativi e prudenti ed è forse su questo aspetto della sua analisi che penso sia utile aggiungere qualcosa. Gran parte dei successi di Trump sono stati dovuti a una campagna elettorale intelligente e a una narrazione diversa, ma specialmente alla debacle democratica, una debacle identica per certi aspetti a quella della sinistra europea e del resto l’idea di un Ulivo mondiale viene da Clinton (marito), e da D’Alema. È molto probabile che Orlandi abbia ragione anche per l’immediato futuro: la dissennata speranza nell’impeachment (unica politica dell’establishment democratico), farà probabilmente vincere Trump alle prossime elezioni, ma proprio per questo una eventuale vittoria ulteriore è anche un’illusione ottica, perché non ha nulla a che fare con la soluzione dei veri problemi: è su quelli che la Cina è diventata egemone e lo sarà ancora in futuro, anche perché i processi decisionali cinesi, saranno pure opachi e poco democratici (e da noi?), ma sono efficienti e in molti casi razionali (vedi per esempio l’enorme investimento in energie rinnovabili che produrrà effetti nel medio periodo), mentre quelle di Trump, come anche Orlandi sottolinea, hanno effetti contraddittori, risolvono alcuni problemi immediati negli Usa, ma ne creano altri un po’ dappertutto. A me pare invece meno convincente con quello che si può leggere implicitamente nel suo discorso; naturalmente posso sbagliarmi perché non c’è scritto direttamente quello che dirò. Quando lui rimprovera tutto quello che si può rimproverare alla sinistra e anche di più (tutto condivisibile), sembra voler dire che poteva fare altro e invece secondo me il punto è proprio questo. No, non poteva fare altro una volta deciso di stare dentro i parametri di Maastricht. L’esperienza della Grecia dice questo e anche quella del Portogallo che sembra un po’ diversa (ammesso che riescano ad andare avanti), solo perché è talmente periferico che a Bruxelles hanno fatto finta di non vedere e se la sono cavata così. Non solo: ma ormai questo lo dicono tutti, vengono fuori i documenti storici e gli scheletri dagli armadi. Carli, cui la mano tremava quando ha firmato gli accordi (e perché li ha firmati allora visto che sapeva tutte le conseguenze e lo dice pure), ma anche sul sole 24 Ore appaiono sempre più articoli in cui si dice in sostanza che l’architettura europea è insostenibile per non parlare di Junker che ha tuonato ieri contro la Germania perché deve smetterla di prendersela con l’Italia visto che ha violato 18 volte in questi anni i trattati europei! Uso un’analogia forse un po’ elementare: si sa che in montagna e in certe condizioni, persino un forte battito di mani può suscitare una valanga e che se questo avviene, essa non può più essere fermata fino a che non ha raggiunto i limiti della sua possibilità distruttiva. Ebbene, la scelta di sganciare la Banca d’Italia dal Tesoro, di estromettere del tutto lo stato dalla gestione economica, di trasferire a una banca centrale europea poteri che peraltro non sono affatto identici a quelli delle vecchia banche centrali nazionali, equivale al battito di mani che ha fatto scatenare al valanga: la differenza è che adesso tutti dicono che lo sapevano! Le politiche successive sono più o meno tutte uguali perché non era è possibile fare diversamente in quel contesto, anche perché, come abbiamo già detto anche su OL, il dogma della cosiddetta autonomia della politica, separato da ogni riferimento ai movimenti sociali, è destinato a ridurre alla marginalità chi lo persegue.
|