di Carlo Formenti
Vi sono momenti storici in cui, come diceva Gramsci, il vecchio muore ma il nuovo non riesce a nascere. In simili momenti è un intero apparato concettuale (teorie, visioni, ideologie, parole) a entrare in crisi: politici, intellettuali, persone comuni si rendono conto che tutto quello che hanno imparato attraverso la loro educazione e le loro esperienze professionali e di vita non serve più (o almeno serve sempre meno). Il mondo cambia troppo in fretta perché si riesca a descriverlo, né tanto meno a comprenderlo. Al disorientamento generato da questa incapacità dei linguaggi di aderire alla realtà, si tende a reagire aggrappandosi alle rassicuranti categorie del passato, cercando di adattarle il più possibile all’attualità, non ci si rassegna a rinunciarvi, nemmeno di fronte alla loro palese inutilità di fronte alle sfide economiche, sociali e politiche che incombono. In questi frangenti il coraggio dei pochi che tentano di esplorare nuovi percorsi teorici, di cambiare il punto di vista sul mondo, è un dono prezioso che merita riconoscimento. Un esempio di tale coraggio viene dall’ultimo libro di Onofrio Romano, “La libertà verticale. Come affrontare il declino di un modello sociale” (Meltemi), in cui l’autore propone una spiazzante ricostruzione delle dinamiche e delle cause delle grandi crisi che la società capitalista ha attraversato nell’ultimo secolo.
L’originalità del lavoro di Onofrio Romano consiste nello sforzo di assumere una postura “laterale” nei confronti dei modelli teorici – economici, politici, sociali – consolidati con cui è stato sviscerato il periodo storico in questione, che è quello fra le due transizioni di secolo XIX-XX e XX-XXI. Pur non rinunciando a confrontarsi con tali modelli e con i loro massimi interpreti, Romano li integra con – o per meglio dire li ingloba in – una visione prevalentemente culturale/antropologica dei fenomeni analizzati. Ne emerge un quadro in cui le classiche categorie oppositive della moderna teoria sociale (progresso/conservazione; democrazia/totalitarismo; capitalismo/socialismo; destra/sinistra, ecc.) passano in secondo piano rispetto all’inedita endiadi orizzontalismo/verticalismo. A svolgere il ruolo di spirito guida in questa avventura sono, da un lato, il pensiero di Karl Polanyi, dall’altro i principi fondativi della sociologia in quanto disciplina scientifica nata, argomenta Romano, come risposta teorica alla sfida della prima grande crisi della modernità, fra la fine Ottocento e il 1929. Da quest’ultimo punto di vista, il libro potrebbe essere descritto come una sorta di “metasociologia”, come il tentativo cioè di decostruire dall’interno lo statuto epistemologico della disciplina di cui lo stesso autore è un esponente. Ma per capire da dove nasce e come viene usata la coppia oppositiva orizzontalismo/ verticalismo è meglio partire dalla lezione di Polanyi.
Com’è noto secondo Polanyi la società capitalista rappresenta un’anomalia assoluta rispetto a tutte le forme sociali che l’hanno preceduta; laddove queste erano regolate dal potere politico, dalle consuetudini familiari e comunitarie e, soprattutto, dalle leggi della tradizione culturale e religiosa, che attribuivano ai fenomeni economici – perlopiù nemmeno riconosciuti in quanto tali – un ruolo del tutto marginale e subordinato, viceversa la modernità capitalista rovescia totalmente il rapporto: è l’economia a occupare saldamente il centro della scena, subordinando alle proprie esigenze l’intera gamma della vita sociale e imponendo lo statuto di merci liberamente scambiabili sul mercato al pari di ogni altra al lavoro, alla terra e alla moneta, ciò che sarebbe parso inconcepibile, contronatura e letteralmente blasfemo alle forme di vita precedenti. L’effetto di questa mutazione, sostiene Polanyi con argomenti non dissimili da quelli di Marx, è stato quello, letteralmente, di “sciogliere” tutti i vincoli tradizionali, simbolici, comunitari, ecc. su cui si fondava il mondo precedente, risolvendoli nei loro atomi costitutivi, dando vita a un mondo fatto di singoli individui che intrattengono fra loro relazioni orizzontali mediate dal mercato.
Il mondo del capitalismo liberale ottocentesco è, appunto, un mondo orizzontale, tuttavia, parlando di orizzontalismo, Onofrio Romano non intende solo questo: si riferisce all’insieme delle narrazioni filosofiche, letterarie, ideologiche che esaltano e legittimano quel mondo, alle grandi metafore come la mano invisibile di Adam Smith, che descrivono la realtà generata dalle interazioni spontanee e inintenzionali fra atomi individuali come il migliore dei mondi possibili. Orizzontalismo e immanentismo sono due facce della stessa medaglia, nella misura in cui si fondano sulla convinzione 1) che le leggi di funzionamento della società si spiegano a partire dal basso, dall’agire libero e spontaneo delle particelle elementari di cui è costituita; 2) che gli effetti di questo agire libero e spontaneo, ove non perturbati da indebite interferenze esterne, operano per il meglio, cioè per il progresso, il quale si rivela essere il principio immanente tanto al mondo naturale quanto al mondo umano: evoluzionismo e liberismo si specchiano l’uno nell’altro.
L’utopia orizzontalista del liberismo ottocentesco genera danni devastanti, i cui effetti si sono manifestati attraverso il ciclo di guerre e rivoluzioni dei primi decenni del Novecento e il ciclo di crisi economiche culminato con il disastro del 1929. Ne “La grande trasformazione”, Polanyi sostiene che il ritorno di un paradigma “verticalista”, sotto forma del controllo politico sull’economia (lo Stato torna a regolare i mercati, a partire da quelli del lavoro, della terra e della moneta) nasce come reazione di autodifesa del corpo sociale nei confronti dei danni provocati dall’aggressività degli spiriti animali del capitalismo. Onofrio Romano mette a sua volta in luce come l’inversione di rotta descritta da Polanyi sia stata anticipata e preparata da una svolta “verticalista” del pensiero scientifico. È a tale proposito che chiama in causa la nascita di una disciplina come la sociologia, che, a cavallo del passaggio fra Ottocento e Novecento, rovescia completamente la narrazione liberista: la società è una totalità complessa, un soggetto collettivo sui generis le cui leggi di funzionamento non possono essere comprese e descritte a partire dalle interazioni orizzontali fra atomi individuali. Marx, Durkheim, Weber, Simmel e altri (fra cui Keynes in campo economico) rivendicano le ragioni del sociale, del collettivo, della comunità nei confronti delle ragioni dell’individuo e costruiscono una cornice epistemologica che, al di là delle differenze ideologiche fra i rispettivi discorsi, forgia la cassetta degli attrezzi su cui si fonderanno le politiche sociali dei vari Stati (prima, durante e dopo la Seconda Guerra mondiale) fino agli anni Settanta del Novecento.
Per inciso, va segnalato che, in questa parte del suo lavoro, Onofrio Romano evita di assumere un punto di vista valoriale, ideologico, nei confronti dei fenomeni e dei discorsi che analizza: sotto la categoria di verticalismo ricadono tanto i regimi comunisti e fascisti, quanto la società del New Deal rooseveltiano e i regimi welfaristi delle democrazie occidentali del trentennio dorato postbellico, accomunati dall’obiettivo di garantire elevati livelli di occupazione, nonché dignitosi livelli di reddito e assistenza sociale alle classi subalterne, mantenendo una forte pressione fiscale nei confronti degli strati medioalti della società e limitando significativamente i margini di manovra della proprietà e dell’impresa privata.
Anche il ritorno – a partire dall’inizio degli anni Ottanta, segnati dalla controrivoluzione liberista di Reagan e Tatcher – dell’orizzontalismo, che ha fatto seguito alla crisi del regime verticalista maturata nel corso dei Settanta, argomenta Onofrio Romano, è anticipato e preparato da una svolta neo orizzontalista di larghi settori intellettuali. E anche in questo caso, aggiunge, lo spirito del tempo trascende le distinzioni ideologiche: le critiche al regime del welfare piovono da destra, dove si riscoprono le teorie che spiegano il mondo a partire dalle interazioni orizzontali fra particelle elementari (“ la società non esiste” proclama la Thatcher), ma anche da sinistra, a partire dalle contestazioni studentesche nei confronti di ogni forma di autorità gerarchica e dal dilagare di ideologie neo anarchiche, libertarie e antistataliste. Anche la sociologia cambia livrea per indossare, con autori come Giddens e Beck, i panni del vecchio avversario e inspirare la svolta clintoniano-blairiana dei partiti socialdemocratici. Paradossalmente, il neo orizzontalismo si appropria anche di certi strumenti teorici del regime verticalista, per esempio l’ordoliberalismo rinnega il principio della mano invisibile e affida allo Stato il compito di farsi garante della libera concorrenza, che deve divenire il principio ispiratore di ogni relazione politica e sociale, a partire dalla competizione fra soggetti individuali chiamati a comportarsi da imprenditori di sé stessi, ad assumersi l’intera responsabilità del successo o del fallimento dei rispettivi progetti di vita. Così è delineato il “principio di inversione” che sta alla base dell’ipotesi teorica di Onofrio Romano: il regime orizzontalista suscita anticorpi culturali verticalisti e l’opposto avviene nel regime verticalista. A questo punto, tuttavia, Romano abbandona la postura ideologicamente neutra e rivela le proprie inclinazioni etico-politiche per rispondere a due interrogativi: 1) quali sono le vere cause del crollo del regime verticalista? 2) perché oggi, malgrado appaiono sempre più evidenti i sintomi di una crisi profonda e irreversibile del regime neo orizzontaliosta, tardano a manifestarsi i segni di una svolta culturale neo verticalista?
Onofrio Romano non contesta le tesi con cui vengono generalmente descritte le cause della crisi degli anni Settanta. Cause economico-sociali, come la caduta del saggio di profitto industriale causata dalle spinte rivendicative della forza lavoro, il venir meno della disponibilità di materie prime a buon mercato a seguito dei processi di decolonizzazione del Terzo mondo, la crisi fiscale dello Stato a seguito dell’inarrestabile crescita della domanda di servizi sociali. E cause politico-ideologiche, come la conversione delle socialdemocrazie al credo neoliberista e al paradigma del contenimento della spesa pubblica e del costo del lavoro. Tuttavia punta il dito contro un fattore che considera più potente, ancorché trascurato dal pensiero mainstream: insiste cioè sul fatto che, paradossalmente, il regime verticalista perseguiva obiettivi sociali, politici ma soprattutto antropologico-culturali di tipo orizzontalista. Mentre nella fase ottocentesca il capitalismo si era inspirato a principi etici come la disciplina e la temperanza, il capitalismo novecentesco riformato, welfarista, si impegna a rimuovere tutti gli ostacoli che si frappongono al godimento individuale di beni e servizi (il circolo virtuoso fordista fra alti salari e alti consumi è l’esempio più calzante di questa logica). Si potrebbe dire che il capitalismo del trentennio dorato attua, perlomeno in una certa misura, l’utopia marxiana di una società dell’abbondanza in cui vengono meno i vincoli stringenti del bisogno che obbliga al lavoro.
È a questo punto che l’analisi di Onofrio Romano scarta seccamente dai paradigmi classici dell’economia politica e della sua critica per seguire un’altra inspirazione, vale a dire il pensiero di George Bataille e le sue categorie antropologico-filosofiche di sovranità e dépense. I frutti più avanzati del compromesso fordista fra capitale e lavoro fanno balenare l’immagine di un futuro in cui l’essere umano potrebbe oltrepassare il regno del servile, il regno dell’obbligo al lavoro, imposto dal legame di strumentalità con la riproduzione della vita biologica. Per Bataille, un simile approdo coincide con la produzione di un immane surplus energetico, con l’ingresso nel regno della sovranità, della libera scelta in merito al che fare di questo eccedente di energia. Ma qui nasce una sfida per cui l’uomo moderno non è attrezzato. Le società precapitaliste, nel momento in cui entravano in una condizione di abbondanza (da intendere ovviamente in termini relativi, come disponibilità di risorse eccedenti le esigenze della riproduzione immediata) affidavano ai detentori del potere sovrano (simbolico-religioso) il compito di dissipare l’eccesso attraverso la celebrazione di rituali collettivi. L’uomo moderno che vive nella fase del capitale welfarista conosce una sola modalità di dissipazione: l’incremento illimitato del consumo individuale. Di fronte alle crisi di sovrapproduzione, e di fronte all’impossibilità di accrescere oltre certi limiti gli investimenti e la spesa pubblici, il capitalismo reagisce in prima istanza spingendo al parossismo l’imperativo al consumo individuale e privato. Ma gli individui non hanno gli strumenti culturali per gestire questa spirale insensata: “L’angoscia di fronte alla libertà di scelta e alla mancanza di indicazioni naturali su come impiegare l’energia”, scrive Romano, fa sì che “l’uomo non riesce a elaborare un senso, una finalità, né a incanalare l’agire dentro canoni di valore autonomamente designati”. Le persone, drogate dalla spirale consumistica, affrontano l’angoscia chiedendo sempre di più, cercando di minimizzare gli sforzi e massimizzare un godimento che diventa “dilapidazione di sé”.
La seconda fase della reazione capitalistica consiste nello sfruttare il groviglio di contraddizioni che si crea fra eccesso di domande e aspettative sociali, calo della disponibilità al lavoro e quindi della produttività, calo dei profitti e quindi degli investimenti e delle risorse sia pubbliche che private, per mettere in atto un grandioso processo di regressione alla situazione di emergenza originaria. Il neo orizzontalismo liberista è precarizzazione mobilitante, reintroduzione dell’obbligo sostanziale del lavoratore a vendere la sua forza lavoro pena la sopravvivenza. Sappiamo quali sono gli effetti di questa controrivoluzione nei centri storici del capitalismo occidentale: finanziarizzazione dell’economia, crollo dell’occupazione e dei redditi delle classi subalterne, immiserimento delle classi medie, privatizzazioni selvagge, smantellamento dei servivi pubblici e sociali, crisi dei debiti pubblici e sovrani, bolle speculative a ripetizione, ecc. Perché questo disastro non ha ancora attivato il “pendolo” descritto poco sopra, perché, cioè, alla crisi del regime neo orizzontalista non si è accompagnato un pensiero critico neo verticalista? Perché la stragrande maggioranza degli intellettuali mainstream sforna ricette che suggeriscono di affrontare la crisi rilanciando e radicalizzando le scelte politiche ed economiche che l’hanno provocata?
È possibile, scrive Onofrio Romano, che una delle cause sia l’accorciamento dei cicli di vita dei modelli di regolazione sociale: il primo orizzontalismo è durato un secolo, il verticalismo mezzo secolo, il neo orizzontalismo vive la sua crisi dopo soli trent’anni. È possibile quindi che il pensiero fatichi a tenere il passo di un sistema sociale che evolve più rapidamente della teoria (un differenziale di velocità che la rivoluzione delle nuove tecnologie contribuisce a rendere ancora più drammatico). Tuttavia il nostro preferisce concentrarsi su altre spiegazioni: in primo luogo sul fatto che lo stile di vita neo orizzontalista continua ad esercitare un fascino irresistibile sulle masse, in particolare giovanili, poi perché anche gli embrioni di pensiero critico che si sono sviluppati negli ultimi anni appaiono inadeguati al compito di inspirare una svolta epocale.
Seguendo la lezione di Boltanski e Chiapello, che descrivono le derive dei movimenti post sessantottini come narrazioni individualistico-libertarie per nulla alternative, bensì essenzialmente funzionali ai miti neo liberisti di empowerment individuale, meritocrazia e promozione sociale, Romano riconosce in una serie di mobilitazioni giovanili – primavere arabe, Occupy Wall Street, Indignados, ecc. – la tensione di strati sociali giovanili che, avendo conseguito elevati livelli di istruzione, pretendono il soddisfacimento di corrispondenti aspettative socioeconomiche. Questi movimenti sociali (e spesso anche i movimenti politici che da essi traggono forza come l’M5S, Podemos, i sostenitori di Sanders e Corbyn) alimentano l’illusione che possa esistere una “economia reale”- al riparo da rendite, interessi corporativi, settori protetti, mafie politiche – in cui chi detiene adeguati livelli di talento e creatività (le risorse celebrate dai cantori della “classe creativa” come Richard Florida e le sinistre “moltitudinarie”) troverebbe lo spazio che merita. Tutti questi soggetti, scrive Romano, “non reclamano il ritorno della Grande Politica ma manifestano devozione al regime, imputando la loro mancata inclusione nel mercato globale alle categorie sociali i cui interessi distorcono il normale funzionamento della ‘economia reale’. Il nemico sono le caste politiche e finanziarie. Non rivendicano una nuova forma di regolazione bensì la radicalizzazione del regime esistente”.
Non deve quindi sorprendere se le più diffuse correnti del pensiero critico nei confronti del neoliberismo – i cui esponenti provengono dagli stessi strati di borghesia colta e illuminata che egemonizza i movimenti appena descritti – appaiono incapaci di prospettare alternative radicali al regime orizzontalista. Per corroborare tale giudizio, lo sguardo corrosivo di Romano spazia dal “dirittismo” – che vorrebbe ricoprire il singolo di una serie di diritti potenzialmente infinita e sempre più aderente alle sue specifiche esigenze. Diritti a la carte per pretese e aspettative sempre più singolari e idiosincrasiche, la cui soddisfazione viene affidata alla sfera giuridica, (e al mercato, la cui logica è omologa a quella del diritto, aggiunge Romano!), configurando una vera e propria abolizione della politica -, al benecomunismo – che pur rivendicando il recupero di una dimensione comunitaria, finisce per coltivare il mito di valori che sarebbero consustanziali agli stessi oggetti definiti come beni comuni, e alimentare l’utopia di un uomo naturalmente buono, pervertito da un male che viene solo dalle istituzioni (basta restituirlo alla sua spontanea vocazione comunitaria per uscire dalla crisi) – per finire con il decrescitismo – pur cogliendo un punto reale, i decrescitisti dislocano la loro diagnosi su un piano esclusivamente valoriale: “Le derive ecologiche e sociali non sono attribuite alla forma del regime dominante, bensì al mito della crescita per la crescita che imperversa nell’immaginario, quindi la lotta è interamente confinata su questo terreno”.
Al termine del lungo e complesso percorso che ho appena cercato di sintetizzare, arriva la diagnosi conclusiva: l’impossibilità di uscire dalla spirale dell’alternanza fra orizzontalismo e verticalismo che ha caratterizzato l’ultimo secolo di storia, fino a implodere nel buco nero di un neo orizzontalismo da cui non sembra darsi via d’uscita, deriva dal fatto che l’alternanza è solo apparente, è una sorta di falso movimento, perché a prescindere dal regime istituzionale di volta in volta adottato, scrive Onofrio Romano, “la modernità resta geneticamente e ontologicamente legata a una concezione orizzontale del mondo”. La prova più evidente di tale asserzione è contenuta nel pensiero di colui che resta senza dubbio il più grande critico del capitalismo: Marx demistifica il mito orizzontalista della mano invisibile, dimostrando come le dinamiche spontanee del libero mercato generano inevitabilmente lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo ma, al tempo stesso, non mette in discussione il ruolo modernizzatore/civilizzatore del modo di produzione capitalista, che dissolve i vincoli feudali e sviluppa le forze produttive, creando i presupposti della transizione al comunismo. Ma la dittatura del proletariato, che deve gestire la transizione al comunismo, è solo una breve parentesi verticale, cui segue l’utopia dell’estinzione dello Stato, della riduzione della politica ad amministrazione delle cose; l’utopia marxiana prevede quindi una radicalizzazione dell’ideologia moderna, dell’orizzontalismo, nella misura in cui pensa che “liberato il mondo dallo sfruttamento, le persone avrebbero ritrovato se stesse, goduto della loro libertà, coltivato talenti, creatività e altruismo”.
Per uscire dalla spirale delle utopie che si neutralizzano a vicenda, sostiene Romano, occorrerebbe niente di meno che prendere congedo dalla visione antropologica positiva su cui si fonda il progressismo moderno. Per questo non basta – anche se è un passo assolutamente necessario – riconoscere che ci troviamo in un “momento Polanyi” che impone di proteggere la società dalla furia degli spiriti animali del capitalismo. Non basta cioè ripristinare il regime di regolazione dei trenta gloriosi, affrancando l’uomo dal bisogno, assicurando la riproduzione dell’esistenza biologica e sociale oggi seriamente minacciata. Occorre imboccare la via di un “verticalismo al quadrato”, sviluppando istituzioni verticali che non gestiscano solo l’integrazione sistemica ma anche quella socioculturale: il pubblico potere deve farsi carico dei percorsi educativi e “allestire le arene della discussione collettiva sui nodi della condizione umana e sulle idee di vita buona”. Da questa visione discendono una serie di conseguenze su temi di scottante attualità, da quello della sovranità nazionale alla ridefinizione del ruolo di un’Europa chiamata a evitare la trappola di inseguire le potenze emergenti sul terreno di una “competizione animalesca”. Ma lascio al lettore il compito di esplorare la pars costruens del discorso di Onofrio Romano, non meno “eretica” della pars destruens.