Quando il cosmo brucia
apr 26th, 2019 | Di Thomas Munzner | Categoria: Recensioni
La filosofia degli anni Ottanta secondo Tommaso Ariemma
Apprendere il proprio tempo in pensieri: questo il compito che, secondo Hegel, si intesta il filosofo. Per la verità, Hegel si occupa poco di ciò che fanno i filosofi, molto di ciò che fa la filosofia. La formula hegeliana – citata spesso ma con poca precisione, e quindi svuotata – dice che la filosofia è il tempo di essa appreso in pensieri: è lo spirito vivente che si autocomprende tornando nel suo elemento. Non è certo la soggettività empirica di un filosofo che può balzare fuori dal proprio tempo per comprenderlo (sebbene Hegel sollevi un’eccezione per se stesso!). È la circolarità dello spirito a fare lo Spirito (Assoluto), il quale è tale nel momento del suo ritorno.
Nel suo libretto, Filosofia degli anni ’80 (Il Melangolo, 2019), Tommaso Ariemma vuole, invece, assumersi proprio questo impegno eroico: apprendere il suo, il nostro tempo. Va detto subito che le 60 pagine di questo pamphlet sono così piacevoli e leggere che farne una sintesi dettagliata sarebbe spropositato. Ci si limiterà, perciò, a qualche divagazione e variazione sui suoi temi. E il primo tema che si impone al lettore è il tempo; il titolo stesso è un’indicazione temporale. Alla sua impresa eroica l’Autore si appresta con un tono nient’affatto aulico e una prosa tutt’altro che accademica, ma attraverso una forma narrativa in prima persona. Lontanissimo dalla logica hegeliana, Tommaso Ariemma mette in scena esattamente la propria soggettività empirica, facendone l’origine della sua inchiesta. Non si tratta semplicemente di uno sguardo situato, espressione che usualmente si riferisce ad analisi che prendono parte, restando però asettiche. Questo racconto, invece, restituisce in pieno la singolarità, la passioni, ricordi, slanci e debolezze dell’autore. Come ogni racconto ben fatto, insegna molte cose, ma lascia anche una bella traccia emotiva. Nulla di eroico, in realtà: si tratta di un atto d’amore pieno di gioia e malinconia per degli anni che l’Autore, troppo giovane, non ha vissuto in pieno, ma che ha «piuttosto accumulati» (p. 12). Per molti lettori, di diverse generazioni, questa gioiosa malinconia risulterà contagiosa.
Ma allora cosa ha a che vedere il temibile Hegel con tutto questo? Forse il pathos di quella fine annunciata nel titolo? Sicuramente no, c’è un pizzico di nostalgia in queste pagine, ma nessun tono epigonale. Ariemma prende invece da Hegel l’idea fondamentale del pensiero che si fa mondo. L’idea di un pensiero effettivo, che si realizza, si fa res, prende forma nelle cose, in effetti simbolici e materiali. È per questo che qui – come in altri suoi lavori, a cominciare dal fortunatissimo La filosofia spiegata con le serie tv, Mondadori 2017 – piuttosto che commentare i testi ancestrali del canone filosofico, Ariemma ricava elementi di senso da fenomeni della cultura popolare: serie tv, fumetti, videogiochi, canzonette. L’assioma metodologico è che il pensiero filosofico deve essere all’altezza delle cose. Sono i vari totem filosofici, che Ariemma pure convoca, da Platone a Sloterdijk, a dover dar conto de I cavalieri dello zodiaco, non certo il contrario.
Ebbene, secondo Ariemma, quella del nostro tempo è bensì una forma circolare, ma non al modo hegeliano dove il punto di chiusura del circolo è anche il momento del suo transito a un livello superiore. La circolarità del nostro tempo è invece un «inquietante loop» (p. 35), un cortocircuito che spezza l’andatura progrediente della storia. Un cattivo infinito, per usare ancora il lessico hegeliano, fa sì che noi siamo «totalmente in balia del tempo» (p. 32), ma fuori dalla Storia. Sempre meno intelligibile, il futuro, per gli uomini dell’antropocene – o del capitalocene, come preferisce Jason Moore –, funziona non più come orizzonte di un progetto, ma come un dispositivo che agisce retroattivamente sul nostro presente. È negli anni Ottanta che il tempo si è rotto. In quel decennio successivo ai trenta gloriosi, l’esplosione colorata del consumismo all’insegna del disimpegno e dell’edonismo fa apparire gli Ottanta come «frivoli e banali» (p. 23), quando non direttamente volgari. E in effetti tra i ricordi segnanti di chi, come chi scrive, in quegli anni era giovanissimo, ci sono i turbamenti di Drive In, Patsy Kensit, Guesch Patti, insieme a una dance pop plasticosa per videoclip che erano veri colossal. Ma da un lato, attraverso questa apparente superficialità – che, in realtà, dice Ariemma, è la leggerezza, tanto cara a Calvino, che non esclude affatto il potenziamento (pp. 27-28) – si provava a «ricominciare daccapo, sperimentando e molto spesso infrangendo vecchi tabù» (p. 24). Attraverso maniere agli antipodi dell’austerità si affermava «il primato della vita privata contro il pubblico e il collettivo, il rifiuto, sempre con disimpegno, di ogni autorità» (ivi).
D’altra parte, e soprattutto, questa esplosione di colori – Ariemma cita opportunamente le Crystal Ball! – dissimulava la consapevolezza affatto tragica di essere alla fine del mondo. È in quegli anni che la minaccia atomica giunge al parossismo erodendo alle fondamenta la possibilità di dare senso al mondo, di derivare dal caos un cosmo. L’autodistruzione virtualmente imminente non determinava solo la fine di un senso del mondo, al quale poteva succederne un altro, ma produceva la fine di un’epoca, coincidente con l’Occidente stesso, in cui il mondo è stato concepito come senso. Veniva meno il suolo, quella terra archi-originaria di cui Husserl affermava che essa non si muove (cfr. E. Husserl, La Terre ne se meut pas, Minuit, 1989). Un’immagine plastica di questo disorientamento radicale, di questo sentirsi mancare la terra sotto i piedi, la daranno poi i disaster movie che prolifereranno all’alba del nuovo millennio. Nessun millenarismo tuttavia; negli Ottanta emerge la consapevolezza della «fine del mondo così come è sempre stato pensato» (p. 34); ed è spontaneo, per chi scrive, il riferimento a It’s the end of the world as we know it dei R.E.M., 1987.
D’ora in avanti, come dimostrerà Černobyl nel 1986, il mondo è esposto alla sua fragilità, alla sua incapacità di garantire senso, direzione orientante. Non si va da nessuna parte, si corre sul posto. Il tempo si piega in un circolo stolido e inquietante che interrompe la Storia e lascia i soggetti in un’accelerazione continua – macchinica, come sarà l’estetica di tanti fenomeni pop a partire dall’art rock di band come Devo o Tubeway Army – ma ormai senza meta. Secondo Ariemma è Terminator a registrare alla perfezione questa rottura del tempo. Nella distopia immaginata da James Cameron nel 1982 due personaggi giungono dal futuro: un robot con la missione di uccidere la donna che darà al mondo il futuro capo della ribellione al governo delle macchine, e un uomo che deve fermare il terminator, ma che è proprio colui che unendosi a quella donna genererà John, il futuro guru della resistenza; d’altra parte, il seme di quella che sarà Skynet, la rete di intelligenza artificiale che ridurrà gli uomini a sue appendici, sarà costituito proprio dai resti del terminator sconfitto: «per la prima volta, in un film e non in un trattato di filosofia, il nostro rapporto con il futuro non era di tipo lineare, costruttivo, ma paradossale. Era il futuro a fare irruzione e a crearci, creando a sua volta se stesso. Allo stesso tempo, il futuro sembrava immodificabile. Il futuro è già stato. Anteriore, come indica bene uno dei tempi verbali della nostra lingua. Per la prima volta avevamo la consapevolezza di avere il futuro alle spalle» (pp. 36-37).
L’apparente frivolezza del tono dominante del decennio Ottanta, allora, è attraversata da questo immaginario catastrofico. Forse due tormentoni italiani sono le immagini più vivide di questa sorta di allegria di naufragi che pervadeva quegli anni: Vamos a la playa dei Righeira, e Tropicana del Gruppo Italiano, entrambi del 1983. Milioni di persone hanno ballato queste canzoni sorseggiando in allegria cocktail a piedi nudi in spiaggia, canticchiando insieme ritornelli che evocano l’apocalisse. Ma questo immaginario apocalittico e colorato tornava nel cinema di Wenders, tra angeli e decadenza, nell’intimismo affabulatorio dei Cure, nella delicatezza elettrica degli Smiths, nella prosa carnale di Tondelli, nell’iconografia tutta bidimensionle di Delillo.
La coesistenza di spleen et idéal non era casuale. L’incipiente rivoluzione neoliberale dinamizzava le cose; non solo «gli anni ottanta hanno prodotto un numero di cose in una misura decisamente superiore rispetto agli anni che li hanno preceduti» (p. 15), ma tutto era potenziato: come la macchina del cult Ritorno al futuro, «niente era quello che diceva di essere: la sua potenza era lì, pronta a manifestarsi. Bisognava solo sprigionarla, proprio quando tutto sembrava perduto o irrealizzabile» (pp. 13-14). Allo stesso modo le soggettivazioni, sempre più enhanced, spinte a migliorare la propria performance, a forzare la propria identità a vantaggio di una schizofrenia più produttiva.
Nasce allora quella che Ariemma chiama la «società del sospetto» (p. 43), dove niente è ciò che appare, dove il nostro rapporto sempre più tattile con le macchine ci dona l’illusione di controllarle, mentre in realtà esse si fanno nostra interfaccia, non più ciò che ci consente di comunicare, ma ciò che parla attraverso di noi. I nostri maestri del sospetto non sono più Marx, Nietzsche, Freud, intenti a scoprire la realtà celata dietro l’apparenza; è semmai Ellen Ripley, l’eroina di Alien che deve svelare la macchina dissimulata nel volto umano. La simulazione si fa ambiente. Il sospetto ormai è continuo, perché non mette capo a una realtà dietro, ma a un reale preso nelle spire della sua stessa simulazione. Sospetto generalizzato, come impareremo in Matrix, 1999 o in eXistenZ, 2000. Ma tutto questo comincia negli anni Ottanta, nel loro splendore malinconico. È per questo che i revival di quel decennio sono i più frequenti.
Tornare. Andare indietro per proiettarsi avanti, ripiegarsi per rompere il loop, andare al passato per mettersi il futuro alle spalle e liberarsi del suo controllo. O, come dice Ariemma nelle ultime e più intime pagine di un libretto concepito per essere letto in un’ora, «bruciare il cosmo». È questo che ci tocca fare per capire il nostro tempo: non certo dare sfogo a un furore distruttivo alla ricerca di un nuovo inizio, piuttosto affondare nella superficie degli schermi che ci circondano per risalire all’origine delle categorie che danno forma al cosmo e disfarle per articolarle altrimenti. Siamo tutti figli degli anni Ottanta, noi tutti, soggettività precarie e imprenditoriali, alle prese con una crisi che si è fatta forma di vita. Veniamo da lì e lì tocca tornare a cercare, come ha fatto Ariemma tracciando la sua pista singolare in questo libro umile e ambizioso, profondo e leggerissimo.