La natura del sionismo
mar 7th, 2019 | Di Thomas Munzner | Categoria: Momento della Verità, Storia
Mauro Manno
La natura del sionismo Introduzione
CAPITOLO I
Il sionismo, un’ideologia e una pratica aggressiva e colonialista: un po’ di storia
CAPITOLO II
Sionismo, ideologia razzista
1) Due Risoluzioni dell’ONU 2) C’è nazionalismo e nazionalismo a) gli ebrei internazionalisti b) il cosmopolitismo ebraico c) assimilazionisti nazionalisti d) ebrei religiosi e ortodossi 3) La concezione del nazionalismo dei sionisti 4) Cosa ha prodotto il sionismo a) un paese senza nazionalità b) uno stato senza confini c) uno stato senza costituzione che non può essere laico d) uno stato senza democrazia e) uno stato coloniale 5) La nazione ebraica dei sionisti è solo un mito
CAPITOLO III
Sionismo come «socialismo» nazionale pseudo-liberale
1) Dov’è il socialismo? 2) Corporativismo e militarismo 3) Un sistema parlamentare di un regime ideocratico
CAPITOLO IV
Sionismo e antisemitismo
CAPITOLO V
La collaborazione dei sionisti con gli antisemiti
1) Hertzl e von Plehve 2) Jabotisnky, Petliura, l’OZON e Mussolini 3) I sionisti di «sinistra» e il fascismo italiano 4) Sionisti di «sinistra», nazismo e l’ Ha’avara 5) Sionisti revisionisti e miliarismo giapponese 6) Sionisti di «sinistra» e collaborazione passiva con le SS 7) Sionisti di «sinistra» e collaborazione attiva durante l’Olocausto 8) L’Irgun Zvai Leumi e il patto militare col nazismo 9) La collaborazione dei sionisti con il neofascismo italiano e la X Mas di Giulio Valerio Borghese
CAPITOLO VI
Vantaggi della Diaspora
Conclusioni
1
Prefazione : Le ragioni di questo libro
Perché un libro sul sionismo oggi? La domanda non dovrebbe nemmeno essere posta. Le persone ragionevoli si rendono conto che il problema centrale nello scontro tra Occidente e Oriente, in particolare nello scontro tra Occidente e mondo arabo/musulmano è, e non poteva non essere altro che, la questione del conflitto in Palestina. Sono passati quasi 60 anni dalla proclamazione dello Stato di Israele e i dati fondamentali del problema non sono cambiati, si sono solo aggravati ed estesi a tutto il Medio Oriente e al mondo. É fallito il progetto ONU di spartizione del 1947 (Risoluzione 181). É fallito il cosiddetto «Processo di Oslo». É sulla via del fallimento totale anche l’ultimo progetto sionista di cambiare il Medio Oriente per non dare una vera patria ai palestinesi e fare di Israele la potenza dominatrice nella regione, a tutto vantaggio dell’Occidente. La guerra in Iraq e in Libano, le tensioni con l’Iran, la crescita della violenza e il successo conseguito da Al Qaeda nel radicarsi in varie realtà autonome e talvolta di massa, lo stanno a provare senza ombra di dubbio. Mai come oggi, le persone lungimiranti si rendono conto che o si comincia a disinnescare la mina vagante rappresentata dal progetto sionista di colonizzare la Palestina o si deve andare incontro ad una sempre più dura prospettiva di violenza generalizzata e di guerra, anche atomica. In Occidente domina la mitologia sionista opportunamente diffusa e sostenuta da Media, giornalisti, politici e intellettuali ebrei sionisti e acriticamente accettata (per paura di essere tacciati di antisemitismo) dai politici europei e americani di «destra» e di «sinistra». Esiste anche una piccola pattuglia di ingenui intellettuali sinceramente filosemiti che confondono ebraismo e sionismo o che per lo meno non vedono chiaramente la contraddizione e il conflitto tra i due termini. La mitologia sionista ci racconta che gli ebrei sono una «nazione» da sempre perseguitata. Una «nazione» a cui l’Occidente ha sempre rifiutato l’integrazione e l’assimilazione. Una «nazione» che ha dovuto sempre difendersi dall’antisemitismo e dalle persecuzioni, da quelle del Faraone, a quelle dei cristiani, dai pogrom zaristi, all’antisemitismo dei nazionalisti europei, fino all’olocausto nazista. L’olocausto nazista è presentato come esclusivamente diretto contro gli ebrei e come l’unico progetto di sterminio di massa nella storia dell’umanità. La sofferenza ebraica non autorizza nessuno a conferire agli ebrei il monopolio della sofferenza nel mondo e la loro tragedia diventa insopportabile propaganda se non si estende a tutti coloro che hanno sofferto, dagli indios delle Americhe, agli Armeni, agli stessi palestinesi oggi. Non stiamo negando la sofferenza ebraica, ne denunciamo l’uso criminale da parte dei sionisti, i quali pure, come vedremo nel libro, tanta parte nella tragedia ebraica hanno avuto. Questa mitologia giustifica con il dolore degli ebrei e in particolare con l’olocausto una pretesa «necessità» storica della fondazione dello Stato d’Israele. Si cerca di far dimenticare che il progetto di creazione dello Stato sionista risale a circa 50 anni prima dello sterminio nazista e che gli ebrei, per combattere l’antisemitismo, avevano trovato una via diversa rispetto a quella dello Stato ebraico. L’altra via era quella della lotta a tutti i pregiudizi e ai nazionalismi virulenti di fine Ottocento associata allo sforzo di superare il particolarismo (quando non era razzismo) ebraico con la piena assimilazione. Sotto le spinte concomitanti del nazismo e del sionismo questa seconda via è stata sconfitta ma mai però definitivamente. Oggi infatti rinasce con forza e sono sempre più numerosi gli ebrei che si pronunciano contro il sionismo e lo Stato di Israele. Sono proprio costoro che indicano la soluzione: la cancellazione del regime sionista e la nascita in Palestina di un unico Stato democratico e multiculturale per ebrei e palestinesi. Un’utopia? La storia è piena di «utopie» che si sono realizzate, come, per esempio, la cancellazione dello Stato razzista di apartheid del Sud Africa e la sua sostituzione con uno Stato multirazziale. Questo libro ha la pretesa di stimolare un dibattito sulla causa ultima del conflitto in Palestina, vale a dire il progetto di colonizzazione sionista. Mira anche a riaprire la discussione su quella che appare sempre più l’unica possibile soluzione del conflitto, che non è, come affermano tutti i politici occidentali (e lo stesso Israele e alcune frange palestinesi), la creazione di due Stati. Prospettiva sempre più lontana perché né Israele, né gli Stati Uniti, né l’Europa vogliono concretamente realizzarla, ma proprio quella di un unico Stato democratico. Le condizioni oggettive per una siffatta soluzione definitiva stanno maturando, ma al contempo si avvicina anche la prospettiva di una guerra generalizzata, che sicuramente ci sarà se non si affronta il problema del sionismo alla radice. In questo scritto abbiamo voluto riportare le parole e i propositi veri, oggi tenuti nascosti, dei sionisti e lo abbiamo fatto proprio per combattere la perdurante mitologia che essi spargono per giustificare l’esistenza del loro Stato. Abbiamo anche voluto dare spazio alle critiche con cui gli ebrei antisionisti hanno sempre condannato l’avventura del sionismo e dei loro alleati. Chiediamo scusa al lettore per il gran numero di citazioni nel testo, a volte presentate a tambur battente. Senza di esse però, crediamo, il nostro lavoro avrebbe perso di forza. Chiediamo scusa al lettore anche per il tono assertivo e deciso. Esso è determinato solo dal nostro desiderio di contribuire in qualche modo alla soluzione del più lungo conflitto dei nostri tempi, che noi sentiamo con particolare partecipazione e sofferenza.
Mauro Manno, Ottobre 2006 La natura del sionismo
Seuls cas où l’intolérance est de droit humain
Pour qu’un gouvernement ne soit pas en droit de punir les erreurs des hommes, il est nécessaire que ces erreurs ne soient pas des crimes; elles ne sont des crimes que quand elles troublent la société: elles troublent cette société, dès quell’elles inspirent le fanatisme ; il faut donc que les hommes commencent par n’être pas fanatiques pour meriter la tolérence. (…) Les juifs sembleraient avoir plus de droit que personne de nous voler et de nous tuer: car bien qu’il y ait cent examples de tolérance dans l’Ancien Testament, cependant il y a aussi quelques examples et quelques lois de rigueur. Dieu leur a ordonné quelquefois de tuer les idolâtres, et de ne réserver que les filles nubiles : ils nous regardent comme idolâtres, et, quoique nous les tolérions aujourd’hui, ils pourraient bien, s’ils étaient les maîtres, ne laisser au monde que nos filles. Ils seraient surtout dans l’obligation indispensable d’assassiner tous les Turcs, cela va sans difficulté : car les Turcs possèdent le pays des Éthéens, des Jébuséens, des Amorrhéens, Jersénéens, Hévéens, Aracéens, Cinéens, Hamatéens, Samaréens : tous ces peuples furent dévoués à l’anathème ; leur pays, qui était de plus de vingt-cinq lieues de long, fut donné aux Juifs par plusieurs pactes consécutifs ; ils doivent rentrer dans leur biens ; les mahométans en sont les usurpateurs depuis plus de mille ans. Si les Juifs raisonnaient ainsi aujourd’hui, il est clair qu’il n’y aurait d’autre réponse à leur faire que de les mettre aux galères.
Voltaire, Traité sur la tolérance, cap. XVIII
Introduzione
“Vi siete mai chiesto quale potrebbe essere il vostro ultimo pensiero al momento di morire? Io si, ed ho avuto la mia risposta. É avvenuto qualche anno fa, nella nebbia degli ultimi istanti prima di abbandonarmi al bisturi per un’operazione mortalmente pericolosa. Mentre le infermiere mi portavano verso la sala operatoria, ciò che sorse nella mia coscienza non fu, come ci si potrebbe aspettare, la paura della morte, ma una terribile angoscia all’idea di morire ebreo. Ero costernato all’idea di finire la mia esistenza ancora legato dal cordone ombelicale a un popolo al quale non potevo più identificarmi. Che questo fosse allora il mio “ultimo” pensiero mi sorprese enormemente, e mi sorprende tuttora”.
Questa frase si trova all’inizio della Lettera di Dimissioni dal Popolo Ebraico, scritta da Bertell Ollman, ebreo americano, professore marxista presso il Dipartimento di Studi Politici alla New York University.1 Perché questo professore universitario non può più identificarsi con il popolo ebraico? Perché sente una terribile angoscia di morire ebreo? Perché vuole dare le dimissioni dal suo popolo? La risposta è semplice: il sionismo, o se si vuole: Israele. Il sionismo è la causa della sua angoscia e della sua scelta di non identificarsi più col popolo ebraico. Dopo anni di lotta contro questa ideologia e lo Stato che essa ha prodotto, Bertell Ollman, sconfortato dal fatto che la maggioranza degli ebrei sostengono proprio ciò contro cui egli si è battuto, ha deciso di dare le dimissioni.
Ma allora cos’è il sionismo?
1 Bertell Ollman, Letter of Resignation from the Jewish People, su Tikkun, gennaio-febbraio 2005, vedi anche il sito web: http://www.nyu.edu/projects/ollman/docs/resignation.php . 3
CAPITOLO I Sionismo, un’ideologia e una pratica aggressiva e colonialista: un po’ di storia
Nel 1902 Theodor Herzl scrisse ad un famoso colonialista britannico che in seguito diede il nome ad una colonia di sua maestà, Cecil Rhodes, per chiedergli di prendere in esame un suo documento sull’idea di realizzare una Chartered company (società per azioni coloniale), sotto la protezione di una qualsiasi potenza imperialista del tempo. Da questa società per azioni egli contava col tempo di far nascere uno “Stato,” così come Cecil Rhodes era riuscito a trasformare la sua Chartered company nello Stato del Sudafrica. L’11 gennaio 1902 Herzl invia una lettera per sollecitare una risposta urgente:
“Vi prego, inviatemi un testo in cui dite che avete esaminato il mio programma e che l’approvate. Vi domanderete perché mi rivolgo a voi, signor Rhodes. È perché il mio è un programma coloniale”.2
Il sionismo è l’ideologia che sta alla base del movimento di colonizzazione della Palestina, iniziato alla fine del 19° secolo, acceleratosi dopo la Dichiarazione Balfour (1917) e consolidatosi robustamente con la fondazione dello «stato ebraico» nel 1948 e con la sua espansione ancora in corso dal 1967 ad oggi. Il progetto sionista nasce dunque molto prima dell’Olocausto e della spartizione della Palestina. Quest’ultima fu concepita dall’imperialismo britannico negli anni ’30. Precedentemente i britannici, con la Dichiarazione di Balfour, avevano accettato l’idea di una Jewish National Home in Palestina e ne avevano favorito la creazione incoraggiando la colonizzazione ebraica sotto la protezione del mandato sulla Palestina che avevano ottenuto dalla Società delle Nazioni dopo il crollo dell’impero ottomano. Il Jewish National Home non era però, secondo la Dichiarazione Balfour, uno Stato per soli ebrei com’è oggi Israele ma un “focolare nazionale” ebraico in terra palestinese. Il testo recita esattamente:
“Il governo di Sua Maestà considera favorevolmente l’insediamento in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico e compirà tutti i suoi sforzi per facilitare la realizzazione di questo obiettivo, restando chiaramente inteso che nulla sarà fatto che possa portare pregiudizio ai diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina e nemmeno ai diritti ed alla posizione politica di cui godono gli ebrei in qualsiasi altro paese”. 3
La situazione a cui si è giunti in Palestina oggi la conosciamo. Esiste uno stato costruito e strutturato per soli ebrei, in esso una minoranza di palestinesi (20%) ha sempre meno diritti e territorio, fuori di esso, nei territori occupati, i palestinesi non hanno diritti, vengono cacciati, le loro case demolite, i loro rappresentanti politici uccisi o rapiti. Gli ebrei emigrati in Palestina hanno dunque portato “pregiudizio ai diritti civili e religiosi” dei palestinesi. Come si è giunti a questo? Le spiegazioni che si sentono dare sono che la causa è l’odio tra le due comunità, o l’incapacità degli arabi di accettare gli ebrei, l’«antisemitismo» degli arabi, e via di male in peggio. La vera spiegazione è solo una: il sionismo. Il progetto sionista, fin dall’inizio, fin dalla pubblicazione del libro di Theodor Herzl, Lo stato ebraico, mirava appunto alla costituzione di uno Stato per i soli ebrei in Palestina, il che era ben altra cosa di una comunità ebraica palestinese che rispettasse i diritti dei nativi. Lo Stato che Herzl voleva era uno Stato di coloni ebrei che dovevano occupare (o liberare, a secondo dei punti di vista) il territorio abitato dai palestinesi. Se ci doveva essere uno Stato per i soli ebrei, era chiaro che i palestinesi bisognava farli andare via da quel territorio. E bisognava anche convincere gli ebrei europei ad emigrare in massa in Medio Oriente. Anche se ciò poteva portare “pregiudizio ai diritti ed alla posizione politica di cui godevano gli ebrei in qualsiasi altro paese”, con l’aiuto degli antisemiti magari. Una comunità ebraica in Palestina poteva vivere in pace con i palestinesi, uno stato ebraico per soli ebrei sulla terra dei palestinesi no! I sionisti, dopo la Dichiarazione Balfour, mobilitarono tutte le loro forze per trasferire quanti più ebrei era possibile, con lo scopo (dichiarato da alcuni dissimulato da altri) di diventare al più presto la maggioranza della popolazione. I nativi si vedevano progressivamente privare delle loro terre dai coloni che operavano sotto la protezione britannica. Dopo varie rivolte palestinesi contro la colonizzazione ebraica e la dominazione inglese (1922, 1929, 1936), la Gran Bretagna concluse che si dovesse arrivare ad una spartizione e alla formazione di due stati. Tutto questo senza consultare il popolo palestinese, ma con una semplice imposizione imperialista. Fu incaricata di redigere il documento una commissione parlamentare, la commissione Peel. Il movimento sionista però, non si poteva accontentare di una parte del territorio, suo obiettivo finale era la creazione di uno stato ebraico su tutta la Palestina 2 Theodor Herzl, Tagebuch, III, p. 105, citato in Lenni Brenner, Zionism in the Age of the Dictators, Croom Helm, Kent, 1983. 3 In Giancarlo Paciello, La conquista della Palestina, Pistoia CRT, 2004, p. 229. 5
mandataria con l’aggiunta delle alture del Golan, il sud del Libano e la Transgiordania (oggi Giordania). Un obiettivo che andava ben aldilà dello stesso territorio della Palestina storica. Il progetto di spartizione fu considerato come un compromesso provvisorio, utile fintantoché le condizioni non fossero maturate per la realizzazione dell’obiettivo finale. Nel 1935 Ben Gurion, allora alla testa del movimento sionista, presentò ai suoi il progetto britannico di spartizione in questi termini:
“Lo stato ebraico che oggi ci si offre non è l’obiettivo sionista. In questa ristretta regione non è possibile risolvere la questione ebraica. Ma può servire come fase decisiva sulla strada di una più sostanziale realizzazione sionista. Esso permetterà di consolidare in Palestina, nel più breve tempo possibile, quella reale forza ebraica che ci porterà al nostro obiettivo storico”. 4
E in una lettera al figlio qualche tempo dopo, lo stesso Ben Gurion chiariva meglio il suo pensiero:
Lo stato ebraico, scriveva, avrà “un potente esercito – non dubito che il nostro esercito sarà uno dei più potenti del mondo – e così non ci si potrà impedire di stabilirci nel resto del paese, cosa che noi faremo o con accordo e mutua comprensione con i vicini arabi o altrimenti”(corsivi nostri). 5 La posizione di Ben Gurion era la posizione di tutto il movimento sionista e il 10 ottobre 1937, il rappresentante sionista in Egitto, Feivel Polkes, ribadiva perentoriamente a due inviati del III Reich, uno dei quali era Adolf Eichman, che:
Lo stato sionista deve essere fondato con ogni mezzo e appena possibile … Quando lo stato ebraico sarà stato fondato secondo le attuali proposte contenute nel documento della Commissione Peel, e in linea con le promesse parziali dell’Inghilterra, allora i confini potranno essere spostati ulteriormente in avanti secondo i nostri desideri”.6 Naturalmente Ben Gurion e i sionisti «socialisti» si guardavano bene dal dichiarare le loro intenzioni e tennero nascosti i loro piani agli inglesi. Vedremo che una parte dei sionisti, i sionisti revisionisti, dichiaravano apertamente i loro obiettivi, ma effettivamente la maggior parte del movimento sionista agiva su un doppio binario: fingevano di accettare la spartizione e nello stesso tempo preparavano la conquista di tutta la Palestina. Si noti però che nel 1937, un importante rappresentante dei servizi segreti sionisti «socialisti», il Polkes appunto, illustrava chiaramente ad Eichman quale fosse l’obiettivo sionista. Tutto sarà chiarito in seguito. 7 Martin Jacques, Research fellow presso l’Asia Research Centre della London School of Economics, ha scritto recentemente:
“Israele è stato creato per mezzo di una delle peggiori atrocità razziali della storia moderna. (…). Fin dall’inizio, era chiaro che due fattori avrebbero con molta probabilità ossessionato il progetto sionista; prima di tutto, esso richiedeva l’annessione di territorio che era arabo; e, in secondo luogo, equivaleva alla fondazione di uno stato etnico, con tutte le caratteristiche di esclusivismo e razzismo che esso potenzialmente comportava”. 8 Partendo da queste premesse, dopo la spartizione, come era logico aspettarsi, iniziarono subito l’espansione e la pulizia etnica. Negli ultimi tempi, come Bertell Ollman, tanti altri ebrei si sono espressi contro Israele e il sionismo, suscitando grande scandalo tra gli altri ebrei e tra i goyim (non ebrei). Senza timore di andare contro corrente, essi si sono messi alla testa non solo di coloro che condannano Israele per la violazione dei diritti umani dei palestinesi, per la sua politica in Medio Oriente o per la sua perniciosa influenza sui governi americani, ma soprattutto di coloro che si oppongono all’esistenza stessa di uno stato ebraico. Si oppongono cioè al cosiddetto «diritto di Israele ad esistere» in quanto Stato sionista per soli ebrei. Costruire uno stato etnicamente puro o comunque dominato fortemente da una sola etnia, la quale viene fatta affluire
4 Ben Gurion, citato in Norman G. Finkelstein, Image and Reality of the Israel-Palestine Conflict, Verso, Londra e New York, seconda edizione, 2003, p. 15 5 David Ben Gurion, citato in Norman Finkelstein, Image and Reality of the Israel-Palestine Conflict, op. cit. p. 15. 6 Citato in Lenni Brenner, Zionism in the Age of the Dictators, cap. 8, Croom Helm, Kent, 1983. 7 Sentiamo già il clamore dei difensori di Israele, i quali quando si parla di mene più o meno segrete dei sionisti insorgono e ci accusano di teorie «cospirazioniste». Questa storia sta diventando noiosa. Si vuole forse sostenere che i sionisti e gli israeliani non siano ricorsi mai e non ricorrano mai a tattiche e metodi segreti? Perché mai possiedono uno dei più grossi e meglio organizzati servizi segreti, il Mossad? Per raccogliere le margherite? Tutti i governi operano anche in segreto. Si vuole sostenere che solo i sionisti e Israele non lo farebbero? Il sionismo ha operato nella storia apertamente il più delle volte e segretamente in diverse occasioni. 8 The Guardian, 14 agosto 2006. 6
a poco a poco dall’esterno, su una terra già abitata da un altro popolo è semplicemente un progetto criminale che non può portare a tutta la regione altro che sangue, sventure, violenza, ingiustizia e instabilità per decine e decine di anni. A circa 60 anni dalla fondazione dello stato di Israele, ciò è esattamente quello che in Medio Oriente ancora accade. Israele sostiene che ciò avviene perché gli arabi non accettano gli ebrei, perché sono antisemiti. La lotta di Israele quindi sarebbe una lotta per la propria difesa, per la propria sopravvivenza, per impedire un altro Olocausto antisemita. Chi in realtà sta lottando per la propria sopravvivenza è il popolo palestinese ed è nei suoi confronti che sta avvenendo un stillicidio di morte e distruzione, un olocausto goccia a goccia, silenzioso e oscurato da tutti i mezzi di informazione occidentali. Nella sua lotta, il movimento per la liberazione della Palestina e le sue organizzazioni ha proposto una soluzione: obiettivo della lotta non è mai stato, come invece si sono sforzati di farci credere i sionisti, la cacciata di tutti gli ebrei dalla Palestina. Al contrario. Il problema dei palestinesi non è la presenza di una popolazione ebraica in Palestina, per quanto numeroso. Il problema è la presenza di uno Stato Ebraico, uno Stato per soli ebrei, la cui nascita ha richiesto la cacciata dei palestinesi da buona parte della loro terra e il trasferimento delle loro proprietà (territorio, case, acque, ecc.) ai coloni ebraici. Il problema dei palestinesi non è la popolazione ebraica ma il sionismo; il problema dei palestinesi è lo Stato sionista che ancora oggi, con la colonizzazione della Cisgiordania e Gerusalemme, continua la spoliazione dei palestinesi. La dichiarazione del 1 gennaio 1969 del Comitato Centrale di Fatah, negli articoli 2 e 5, proclamava solennemente:
“art. 2. Il Movimento di liberazione nazionale palestinese Fatah non lotta contro gli ebrei in quanto comunità etnica e religiosa. Lotta contro Israele considerato l’espressione di una colonizzazione fondata su un sistema teocratico, razzista e espansionista (…). art. 5. Il Movimento di liberazione nazionale palestinese Fatah proclama solennemente che l’obiettivo finale della sua lotta è la restaurazione dello Stato Palestinese indipendente e democratico i cui cittadini, qualsiasi sia la loro religione, godranno di diritti uguali”.9
Successivamente, dall’1988 al 1991, l’Occidente ha esercitato pressioni perché l’OLP modificasse questa linea e accettasse lo Stato sionista. Queste pressioni giungevano dopo la cacciata dell’OLP dal Libano, un indebolimento obiettivo della lotta armata palestinese, e dopo lo scoppio dell’ Intifada delle pietre, cioè l’insurrezione a mani nude dei territori occupati, che invece rappresentava una rinascita della lotta palestinese in termini nuovi e potenzialmente mortali per il progetto sionista. Nel 1991, in cambio di una semplice promessa di uno Staterello su parte dei territori occupati da Israele nel 1967 (22% della Palestina storica) l’Occidente ha indotto l’OLP a riconoscere lo Stato sionista su 78% del territorio costringendolo a trattare per il restante 22%. Infatti, secondo la promessa occidentale, lo Stato palestinese doveva sorgere su e non sui territori occupati. Con questa importante carta da giocare, Israele ha portato per le lunghe le trattative (il cosiddetto Processo di Oslo) e nel frattempo non ha mai interrotto la colonizzazione selvaggia. I circa 100.000 coloni del 1988 sono oggi oltre mezzo milione, la situazione demografica a Gerusalemme Est e nei suoi sobborghi si è completamente rovesciata a favore degli ebrei, il muro che Sharon ha fatto costruire intorno alle zone più fortemente popolate dai palestinesi, un vero e proprio muro di apartheid, ha rinchiuso il 90% dei palestinesi dei territori occupati in tre ghetti isolati tra loro e nel lager che è diventata la Striscia di Gaza.10 Il processo di Oslo è stato un inganno totale a danno dei palestinesi. Nel 1991 Israele poteva ritirare senza troppe difficoltà i suoi 100.000 coloni dai territori occupati e Gerusalemme Est poteva diventare la capitale di uno Stato palestinese. Oggi, uno Stato palestinese si configurerebbe non diversamente dal progetto che il Sud Africa dell’apartheid aveva preparato per gli africani: una serie di piccoli bantustan.
La fondazione di Israele è stata resa possibile, e oggi lo riconoscono anche gli storici israeliani (i nuovi storici), proprio e solo da una gigantesca operazione di pulizia etnica che ancora perdura. Nel 1948 furono espulsi dalla Palestina oltre 750.000 palestinesi ed oggi costoro e i loro discendenti sono diventati 5 milioni e vivono sparsi in vari paesi arabi, il più delle volte in campi profughi e in condizioni disumane o sono sotto occupazione militare nei territori occupati. L’espulsione dei palestinesi dalla loro terra ha causato gravi danni ai popoli dei paesi vicini. Soprattutto il Libano, la Giordania, l’Egitto, la Siria, l’Iraq. Il più delle volte i profughi sono stati accusati di aver portato povertà, violenza, disordine sociale, ecc.. Con grande gioia di Israele, sono stati perciò attaccati, perseguitati e spesso massacrati, per esempio dai libanesi (durante la guerra civile), dai giordani (nel 1970). Nel 1991, in 400.000 sono stati espulsi dal Kuwait, oggi sono perseguitati in Iraq dagli sciiti che li accusano di essere stati favoriti da 9 Dichiarazione del Comitato Centrale di Fatah, 1 gennaio 1969, in Le Dossier Palestine, Parigi, Editions La Découverte, 1991, p. 88. 10 Usiamo i termini ghetto e lager volutamente, perché tali essi sono. Gli israeliani, maestri insuperati nel linguaggio dell’inganno, chiamano cantoni i ghetti, il che fa pensare alla ridente e libera Svizzera e chiamano territorio libero il lager di Gaza, da loro evacuato per meglio attaccarlo da fuori con raid e bombardamenti continui e indiscriminati. 7
Saddam. Succede che dei paesi poveri o ricchi, divisi da odio tribale, lacerati da diversità religiose, in presenza di centinaia di migliaia di profughi miserabili, se la prendano con loro, soprattutto se in questo sono incoraggiati da politici arabi corrotti, dagli Stati Uniti d’America o da Israele. Ma l’aggressività di Israele non è solo limitata ai palestinesi. Per esempio, Israele non è certo indifferente alle recenti sventure dell’Iraq, dopo il regime di Saddam Hussein. Per assicurarsi una posizione di dominio sul mondo arabo, lo Stato sionista ha sempre cercato di dividere i popoli e i paesi di quella regione. Ha anche cercato di distruggere qualsiasi rivale potenzialmente forte e capace di unificare tutti i popoli arabi. L’Iraq era, o poteva essere, questo paese. Di recente molti hanno cominciato a riconoscere il ruolo della lobby ebraica negli Stati Uniti (AIPAC) e gli sforzi degli ebrei neoconservatori sionisti presenti in forza nell’amministrazione Bush per ottenere l’invasione di questo paese. Oggi Israele spinge per dividere il popolo iracheno in entità etniche deboli e volge lo sguardo verso quello che definisce il nuovo nemico: l’Iran. A questo riguardo, pochi sanno che un gran numero di spie e istruttori militari israeliani sono già presenti nel Kurdistan iracheno e operano in funzione anti-Iran. Israele si muove all’interno di una spinta strategica americano-sionista tesa a servirsi del territorio curdo in funzione anti-iraniana; ciò rende necessario tenere buoni i curdi per rassicurare gli sciiti d’Iraq e soprattutto la Turchia, la quale dovrebbe essere anch’essa coinvolta in una possibile avventura militare contro Teheran.
Nel passato, prima della guerra all’Iraq, altri paesi arabi sono stati vittime di Israele. L’Egitto di Nasser nel 1956, la Giordania e la Siria nel 1967, il Libano nel 1982. Nel 1956, Francia e Inghilterra erano potenze coloniali in decadenza ma possedevano il canale di Suez, con relativi consistenti guadagni. Quando Nasser decise di nazionalizzare la Società anglo-francese che gestiva il canale, un vero e proprio Stato nello Stato, Francia e Inghilterra, ancora potenze coloniali, decisero di far intervenire le loro cannoniere e i loro aerei per rovesciare il governo nasseriano. In tutta questa faccenda Israele non c’entrava per niente, eppure si affrettò a entrare in guerra accanto ai colonialisti franco-britannici invadendo il Sinai. L’aggressività del giovane stato sionista, la volontà di infliggere una sconfitta ad un paese arabo e la possibilità di dimostrare ai paesi colonialisti quanto potesse essere utile un’alleanza con Israele contro le forze antimperialiste arabe, furono i fattori che spinsero i sionisti ad immischiarsi in una guerra che non li riguardava. Il risultato di quella guerra fu catastrofico per Francia e Inghilterra perché furono costrette ad accettare la nazionalizzazione del Canale da parte dell’Egitto e videro tramontare definitivamente le loro velleità interventiste. Chi invece ne guadagnò fu proprio Israele che si accreditò come un sicuro alleato dell’Occidente nella regione. La Gran Bretagna e la Francia lo ricompensarono del suo aiuto con la fornitura di tecnologie nucleari che permisero ai sionisti, negli anni ’60, di costruirsi un arsenale atomico con cui minacciare i popoli del Medio Oriente. Un arsenale atomico che oggi sfugge completamente a qualsiasi controllo ONU. Sia ben chiaro, ciò avvenne per volontà degli americani e dell’Occidente, cioè degli stessi che, per molto meno (ricerca scientifica in campo nucleare), oggi vogliono isolare l’Iran e addirittura parlano di attaccarlo con armi atomiche. Nel 1967, Israele, ormai in possesso della bomba nucleare, con una guerra preventiva, attaccò la Giordania, la Siria e l’Egitto. Colti di sorpresa, male armati e peggio preparati, questi paesi cedettero ampi territori. La Giordania cedette Gerusalemme Est e la Cisgiordania, terre palestinesi che l’ONU aveva affidato al regno hascemita. L’Egitto cedette la striscia di Gaza, già allora popolata di profughi palestinesi, e abbandonò anche il territorio egiziano del Sinai. La Siria fu sconfitta sulle alture del Golan che Israele prontamente incamerò pur non essendo mai stata questa regione abitata da ebrei. Cisgiordania e Gaza sono rimaste occupate e sono state colonizzate dal 1967 ai giorni nostri. La farsa del processo di pace di Oslo non ha mai fermato la colonizzazione. Oggi Israele ha deciso di chiudere i palestinesi nella cinta muraria dell’apartheid e di incamerare unilateralmente le migliori terre della Cisgiordania, Gerusalemme Est, dove si trovano i luoghi santi dell’Islam e della cristianità, e la valle del Giordano ricca di acqua, così preziosa in quella regione. Il Golan fu anch’esso colonizzato e militarizzato, dopo essere stato liberato dei suoi importuni abitanti siriani naturalmente (200.000), e ancora perdura questo stato di cose. Il Sinai invece fu restituito all’Egitto quando Sadat accettò di accordarsi con Israele, passando nel campo americano. Il Sinai tuttavia fu completamente smilitarizzato e la sovranità egiziana su di esso fu fortemente ridotta. Israele infatti si assicurò la presenza di osservatori ONU in funzione anti-egiziana. Oggi è un luogo di vacanza per turisti israeliani (imprese israeliane vi hanno costruito decine di alberghi) e per turisti occidentali. Un buon business per gli imprenditori di Tel Aviv. Nel 1978 e poi ancora nel 1982, toccò al Libano di essere aggredito dai sionisti. Nel 1982, fu proprio Sharon che penetrò nel paese vicino e giunse fino a Beirut. Lì, armò la mano della fazione dei cristiani falangisti, perché massacrassero i profughi palestinesi disarmati dei campi di Sabra e Chatila.11 Con la complicità degli Stati Uniti di Reagan, espulse l’OLP da Beirut. Prima di ritirarsi accese la miccia di una guerra civile tra musulmani, drusi e cristiani maroniti (suoi alleati) che doveva durare 7 anni e causare centinaia di migliaia di morti. Infine, costituì la 11 Recentemente è stata ripubblicata un’inchiesta che il giornalista israeliano Amnon Kapeliuk fece su Sabra e Chatila poco dopo il massacro. Ne consigliamo la lettura: Amnon Kapeliuk, Sabra e Chatila, inchiesta su un massacro, Pistoia CRT, 2006. 8
cosiddetta «fascia di sicurezza» in suolo libanese che lo Stato ebraico, per vent’anni, ha gestito insieme con un altro gruppo cristiano, l’Esercito del Libano del Sud (ELS). Da questa fascia di sicurezza l’esercito israeliano è stato cacciato dai patrioti di Hezbollah nel 2002. Oggi il Libano è nuovamente terreno di caccia israeliano. Ancora una volta, con la complicità americana e occidentale. Dopo aver distrutto le infrastrutture del paese per cercare di mettere le comunità cristiana, drusa e sunnita contro la comunità sciita che sostiene Hezbollah, preme affinché le truppe ONU, tra cui vi sono le truppe italiane, disarmino la sola milizia sciita mentre non si parla delle altre milizie (drusa e cristiana). Ancora una volta Israele, che non è riuscito a distruggere Hezbollah con le sue forze, vuole che siano i suoi alleati occidentali a farlo. Dopo che l’Occidente ha protestato per l’uso «sproporzionato» della forza da parte di Israele, ecco che questo stesso mondo occidentale si impegna a disarmare chi a quell’uso della forza sproporzionata si è opposto, Hezbollah. É sempre la stessa storia, l’aggressore deve essere armato fino ai denti e gli aggrediti, siano essi palestinesi o libanesi, devono essere disarmati. Non è una tattica nuova. Ricorda molto da vicino quando i sionisti, durante la rivolta araba del 1936-39, chiedevano all’Inghilterra di combattere e disarmare i palestinesi mentre loro rifornivano clandestinamente di armi il loro esercito segreto dell’Haganah. Ricorda anche la situazione venutasi a creare durante il conflitto tra sionisti ed eserciti arabi negli anni 1948-49 dopo la fondazione dello Stato di Israele. Mentre i cecoslovacchi rifornivano di armi l’esercito ebraico e gli inglesi, abbandonando la Palestina, lasciavano le loro caserme con le armi e le autoblindo ai sionisti, l’Occidente applicava l’embargo delle armi agli eserciti arabi. 12 La natura del sionismo non è cambiata. É sempre una ideologia aggressiva. L’unica differenza rispetto a prima della Seconda Guerra Mondiale è solo che oggi il sionismo è uno Stato. Uno Stato nato con la violenza e il terrorismo e che vive con la violenza e il terrorismo. Ha scritto recentemente un coerente critico dell’ideologia sionista e di Israele, l’ebreo Oren Ben Dor:
“L’entità statale di Israele è fondata su un’ideologia ingiusta che è causa di umiliazione e sofferenza inflitta a coloro che sono classificati come non-ebrei, secondo parametri religiosi o etnici. Per nascondere questa immoralità primordiale, Israele incrementa per sé un’immagine di vittima. Provocare la violenza, consapevolmente o inconsapevolmente, contro la quale si deve poi difendere è un aspetto determinante della mentalità vittimistica. Dal momento che ha bisogno di perpetuare un simile tragico ciclo, Israele è uno Stato terrorista come nessun altro. (…). La stessa creazione di Israele richiese un atto di terrore. Nel 1948, la maggior parte degli abitanti indigeni non-ebrei subirono la pulizia etnica e furono espulsi da quella parte della Palestina che divenne Israele. Questa operazione era stata attentamente pianificata. Senza la pulizia etnica, non sarebbe stato possibile fondare uno Stato con una maggioranza e un carattere ebraico. Dal 1948, gli «arabi israeliani», quei palestinesi che riuscirono ad evitare di essere espulsi, hanno subito una continua discriminazione. Nei fatti, molti sono stati dislocati nello stesso Israele, ufficialmente per «ragioni di sicurezza», ma in realtà allo scopo di prendere le loro terre e darle agli ebrei. Non è forse sicuro che la memoria dell’Olocausto e il desiderio di Eretz Israel (la terra d’Israele, dal Nilo all’Eufrate, ndt) non sarebbero mai stati sufficienti per convincere il mondo della necessità della pulizia etnica e di uno Stato etnocratico? Allora per evitare la destabilizzazione che verrebbe da una indagine sull’eticità di Israele, lo Stato israeliano ricorre anche ad altri mezzi per nascondere il problema centrale, e lo fa alimentando una mentalità vittimistica tra gli ebrei israeliani. Per tenere in piedi quella mentalità e per mantenere l’impressione davanti al mondo che gli ebrei sono le vittime, Israele deve alimentare le condizioni della violenza. Tutte le volte che le prospettive di violenza contro di esso diminuiscono, Israele deve fare il massimo per ricrearle: il mito che Israele è una povera vittima che cerca la pace e che però non trova «nessun partner per la pace» è un elemento fondamentale nel quadro che Israele ha elaborato per nascondere la sua immoralità primordiale e continua”. 13
“Israele deve alimentare le condizioni della violenza”. Le condizioni della violenza nel prossimo futuro sono prefigurate dalla minaccia di bombardamento atomico sull’Iran. Una prospettiva che deve raggelare il sangue non solo ai pacifisti (veri o finti che siano) ma a tutta l’Europa e al mondo. “Israele deve alimentare le condizioni della violenza”. Vedremo in seguito che il sionismo per affermarsi ha dovuto alimentare anche le condizioni dell’antisemitismo. Il sionismo e Israele, nella loro storia si sono resi responsabili di
12 “La scarsa efficienza militare non riguardò soltanto gli arabi ma anche gli ebrei, in difficoltà, in un primo momento, per l’insufficiente potenza di fuoco. Carenza colmata (…) quando i dirigenti sionisti riuscirono a trattare l’acquisto di armamenti dal blocco orientale. I britannici, invece, conformemente alle decisioni delle Nazioni Unite, sottoposero a embargo i tre eserciti che utilizzavo esclusivamente munizioni di fabbricazione britannica, ossia gli eserciti egiziano, iracheno e giordano” (Ilan Pappe, Storia della Palestina moderna, Torino, Einaudi, 2005, p. 161). “Durante la sospensione dei combattimenti, gli eserciti arabi non riuscirono a reintegrare le riserve di armi e di munizioni, data anche la determinazione della Gran Bretagna a rispettare l’embargo delle Nazioni Unite nei confronti delle due parti in conflitto. Le forze ebraiche, d’altro canto, continuarono ad aggirare le sanzioni importando quantità considerevoli di armi pesanti dai paesi del blocco comunista decisi a ignorare le raccomandazioni delle Nazioni Unite” (Ibid, p. 164). 13 Oren Ben Dor, Who are the real terrorists in the Middle East? The Indipendent, 26 luglio 2006, vedi sito web: http://comment.indipendent.commentators/article1197235.ece 9 varie guerre di aggressione, di centinaia di migliaia di morti, di immani sofferenze inflitte ai palestinesi e agli altri popoli della regione. La presenza dello stato israeliano o meglio del suo regime sionista su terre arabe è foriera di guerra e distruzione per chissà quanti anni a venire. É gran tempo per i palestinesi di riprendere la loro storica parola d’ordine di uno Stato indipendente e democratico per ebrei e palestinesi su tutto il territorio della Palestina storica. L’esempio della positiva conclusione della lotta in Sud Africa deve essere loro di incoraggiamento e deve rappresentare anche uno sprone per i democratici e per chi ama la pace. Tutti hanno devono essere consapevoli che o si istaura uno Stato democratico per ebrei e palestinesi in Palestina, spazzando via il regime sionista dalla carta geografica e dalla storia, o in Medio Oriente ci sarà la violenza, il terrorismo, la guerra infinita.
CAPITOLO II Sionismo, ideologia razzista
1) Due Risoluzioni dell’ONU
Si dice che il sionismo non sia altro che il nazionalismo degli ebrei. In realtà, non tutti gli ebrei sono sionisti. e poi ci sono vari modi di essere nazionalisti. Ricordiamo comunque che una definizione del sionismo fu data dall’Assemblea Generale l’ONU in un suo documento, la Risoluzione n° 3379 adottata il 10 novembre 1975 con 72 voti a favore, 35 contrari e 32 astensioni. Essa recita così:
-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.3379 (XXX) Eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale
L’Assemblea Generale,
Considerando la propria risoluzione 1904 (XVIII) del 20 novembre 1963, che proclamava la Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’Eliminazione di Tutte le Forme di Discriminazione Razziale, e in particolare l’affermazione che “qualsiasi dottrina di differenziazione o superiorità razziale è scientificamente falsa, moralmente condannabile, socialmente ingiusta e pericolosa” e il grido di allarme alle “manifestazioni di discriminazione razziale ancora evidenti in alcune aree del mondo, alcune delle quali sono imposte da alcuni governi per mezzo di misure legislative, amministrative o altre”,
Considerando anche che nella propria risoluzione 3151 G (XXVIII) del 14 dicembre 1973, l’Assemblea Generale ha condannato, inter alia, la scellerata alleanza tra il razzismo sudafricano e il sionismo,
Prendendo nota della Dichiarazione del 1975 di Città del Messico sull’Uguaglianza delle Donne e il Loro Contributo allo Sviluppo e alla Pace, proclamata dalla Conferenza Mondiale dell’Anno Internazionale della Donna, tenuta a Città del Messico dal 19 giugno al 2 luglio 1975, che ha promulgato il principio che “la cooperazione internazionale e la pace richiedono la realizzazione della liberazione nazionale e l’indipendenza, l’eliminazione del colonialismo e del neocolonialismo, dell’occupazione straniera, del sionismo, dell’apartheid e della discriminazione razziale in tutte le sue forme, come pure il riconoscimento della dignità dei popoli e del loro diritto all’auto-determinazione”,
Prendendo anche nota della risoluzione 77 (XII) adottata dall’Assemblea dei Capi di Stato e di Governo dell’Organizzazione per l’Unità Africana alla sua dodicesima sessione ordinaria, tenuta a Kampala dal 28 luglio al 1° agosto 1975, che ha affermato “che il regime razzista nella Palestina occupata e il regime razzista in Zimbabwe (Ex Rhodesia, ndt) e in Sud Africa hanno una comune origine imperialista, formano un insieme e hanno la stessa struttura razzista e sono organicamente legati tra loro nella loro politica finalizzata alla repressione della dignità e integrità dell’essere umano”,
Prendendo anche nota della Dichiarazione Politica e Strategia Politica per Rafforzare la Pace e la Sicurezza Internazionale e Intensificare la Solidarietà e la Mutua Assistenza tra i Paesi Non Allineati, tenuta a Lima dal 25 al 30 agosto 1975, che ha condannato nei termini più severi il sionismo come minaccia alla pace e alla sicurezza mondiale e ha fatto appello a tutti i paesi di opporsi a questa ideologia razzista e imperialista,
stabilisce che il sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione razziale -.-.-.-.-.-.-.-.-.-.
Questa risoluzione, è molto chiara e si richiama a una serie di precedenti documenti dell’ONU o di autorevoli
consessi internazionali, in particolare, ma non solo dei paesi del terzo mondo. Essa ha avuto validità di Legge Internazionale (cioè è stata la Legalità Internazionale) per 16 anni. Nel 1991 infatti un’altra deliberazione dell’ONU, la Risoluzione 4686 del 16 dicembre 1991, revocò la 3379 con 111 voti a favore, 25 contrari e 13 astensioni. Il testo completo della revoca è il seguente:
-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.
4686 Revoca della Risoluzione 3379
L’Assemblea Generale,
decide di revocare la determinazione contenuta nella propria Risoluzione 3379 (XXX) del 10 novembre 1975. -.-.-.-.-.-.-.-.-.-.
Non era mai successo che l’Assemblea Generale dell’ONU revocasse una sua precedente risoluzione e non era mai successo che la revocasse con un testo così breve e senza ulteriori specificazioni. Cosa era accaduto? Nel 1991 l’Unione Sovietica era ormai un ricordo del passato. La maggior parte degli Stati ex-sovietici erano governati da gruppi di potere (personaggi ex-comunisti improvvisamente convertiti al capitalismo) non eletti o eletti in consultazioni assolutamente non democratiche. Il famoso Yeltsin salì al potere con un autentico colpo di Stato e resterà nella storia come uno dei più brilli uomini di Stato dalla bottiglia facile e come colui che ha svenduto il suo paese agli Stati Uniti e le principali aziende sovietiche agli “oligarchi sionisti”.14 Nel 1991 si era anche conclusa la prima guerra del Golfo con la sconfitta di Saddam Hussein ad opera di una coalizione internazionale della quale, sotto l’egida statunitense, facevano parte la stragrande maggioranza degli stati arabi e musulmani. Ora questi stati arabi e musulmani chiedevano che così come si era risolta (subito) la questione dell’occupazione del Kuwait, si risolvesse pure l’annosa questione dell’occupazione della Palestina. Gli americani non potettero tirarsi indietro e quindi convocarono la conferenza di Madrid e appoggiarono il processo di Oslo. Israele fece della revoca della risoluzione 3379 la condizione per la partecipazione alla conferenza di Madrid. I paesi arabi capitolarono nella speranza che questo avrebbe aperto la strada ad uno Stato Palestinese. Abbiamo tutti visto come è andato a finire. La Risoluzione 4686 non aveva giustificazioni per sostanziare una così impegnativa revoca e non poteva averne in realtà. Il sionismo non aveva cambiato natura e Israele era rimasto ed è sempre quello che era fin dall’inizio, uno Stato nato dalla pulizia etnica dei palestinesi. L’unica giustificazione per la revoca fu data dal presidente George Bush padre, trionfatore sul fronte sovietico e sul fronte arabo. Nel suo discorso all’Assemblea, egli salutò prima di tutto la scomparsa dell’Unione Sovietica con le seguenti parole:
“Il comunismo ha tenuto la storia prigioniera per anni. Ha sospeso antiche dispute, e ha soppresso rivalità etniche, aspirazioni nazionaliste, ed altri pregiudizi (allora vuol dire che ha conservato la pace, ndt). Nel momento in cui si è dissolto, rivalità represse sono tornate in vita. Persone a cui per anni è stato negato il loro passato hanno iniziato a cercare le proprie identità, spesso con mezzi pacifici e costruttivi, talvolta attraverso le divisioni e lo spargimento di sangue” (corsivo nostro). (…) Nel mondo intero, molti conflitti di lunga data ancora perdurano. Vedete segni di questo tumulto anche qui. Le Nazioni Unite hanno organizzato più operazioni di peacekeeping negli ultimi 36 mesi di quante non ne abbiano fatte negli ultimi 43 anni”. 15
Il crollo dell’Unione Sovietica ha portato un numero enorme di conflitti nazionalistici orrendi, dalle guerre della Iugoslavia, alla Cecenia, al conflitto tra Armenia e Azerbaijan per il Nagorni Karabakh, alle violenze tra cechi e slovacchi, alla guerra tra Ossezia e Georgia, alle rivolte in Tajikistan, ecc.. Non “talvolta” quindi ma quasi sempre ci sono state divisioni, rivalità e spargimento di sangue. E in tutte quelle situazioni l’imperialismo americano ha pescato nel torbido per allargare la sua sfera di influenza. Si sa che le parole possono servire a rendere vero quello che è falso. Bush padre non è molto più bravo di Bush figlio nell’arte dell’inganno. Mentre parla di pace e speranze future è costretto ad ammettere che i conflitti sono aumentati, che le Nazioni Unite sono ovunque impegnate in operazioni di peacekeeping. E dire che non poteva ancora parlare delle guerre, per falsi motivi, che il figlio, i neoconservatori sionisti e i dirigenti israeliani avrebbe scatenato dieci anni più tardi!
14 Ury Avnery, The Oligarchs; Or: How the Virgin became a Whore, 4 agosto, 2004, vedi sito web: Jerusalemites, http://www.jerusalemites.org/articles/english/aug2004/04.htm . 15 George Bush, Discorso tenuto all’Assemblea Generale della 46.ma Sessione delle Nazioni Unite, New York, 23 settembre 1991. 12
Ma Bush padre dopo aver promesso la pace universale (“Offriremo la nostra amicizia e la nostra guida. In poche parole, noi cerchiamo la Pax Universalis”16), con enfasi e fierezza mette in rilievo quello che per lui è l’aspetto positivo della nuova situazione:
“il mondo ha appreso che il mercato libero fornisce livelli di prosperità, crescita e felicità che le economie pianificate non possono offrire (…). L’Uruguay round, l’ultimo di una serie di negoziati sul commercio del dopoguerra, offre speranza alle nazioni in via di sviluppo, molte delle quali sono state crudelmente ingannate dalle false promesse del totalitarismo”. 17
Non ce n’eravamo accorti. Gli economisti e i rapporti dell’ONU ci dicono invece che la miseria, la povertà e le malattie sono cresciute enormemente nei paesi in via di sviluppo, di pari passo con i conflitti e con lo sfruttamento dei lavoratori, compresi i lavoratori minorenni. Anche nei paesi ricchi, non esclusi gli Stati Uniti, le condizioni delle classi subalterne sono peggiorate. Dopo aver salutato così il trionfo dell’unica superpotenza rimasta e della sua ideologia liberalistica, Bush padre spiega perché la condanna del sionismo come forma di razzismo e discriminazione razziale è ingiusta e deve essere abolita:
“Dobbiamo prendere seriamente l’impegno della Carta dell’ONU che afferma «praticare la tolleranza e vivere insieme in pace l’un l’altro da buoni vicini». La Risoluzione 3379, la cosiddetta risoluzione «sionismo = razzismo», contrasta con questo impegno e con i principi su cui fu fondato l’ONU. E io ora faccio appello a che essa sia revocata. Il sionismo non è una politica; è l’idea che ha portato alla creazione di un focolare per il popolo ebraico, allo Stato di Israele. Equiparare il sionismo all’intollerabile peccato del razzismo è una distorsione della storia, è dimenticare la terribile condizione degli ebrei nella Seconda Guerra Mondiale e in tutta la storia. Equiparare il sionismo al razzismo significa rigettare Israele stesso, un membro di buona riputazione delle Nazioni Unite. Questa Organizzazione non può pretendere di ricercare la pace e nello stesso tempo mettere in discussione il diritto di Israele ad esistere. Revocando quella risoluzione incondizionatamente, le Nazioni Unite faranno crescere la propria credibilità e serviranno la causa della pace”. 18
La motivazione della revoca della Risoluzione 3379 è, in ultima analisi, l’Olocausto. O meglio l’uso distorto dell’olocausto. Come può il dolore ebraico giustificare la sofferenza inflitta da decenni ai palestinesi ed ai vicini arabi? É semplicemente immorale. Questa giustificazione permette allo Stato per soli ebrei di continuare a infliggere, ancora oggi, sofferenze inaudite in Medio Oriente. Dobbiamo aspettare un Olocausto palestinese, arabo o islamico ancora più grande di quello ebraico per fermare la mano di Israele? Revocando quella risoluzione le Nazioni Unite hanno visto diminuire la propria credibilità, oggi ridotta ai minimi termini, e non hanno certo servito la causa della pace. La risoluzione 3379 era il primo passo, su questo siamo d’accordo con Bush padre, verso l’eliminazione dello Stato razzista di Israele e la sua sostituzione con uno stato democratico per ebrei e palestinesi. La condanna del razzismo sudafricano ha portato ad uno stato democratico e la pace e la democrazia ne hanno guadagnato. Con Israele a causa della sciagurata Risoluzione 4686 voluta da Bush padre e dal sionismo internazionale si è imboccato il cammino inverso e si è visto con quali risultati. Bush padre comunque, oltre al patetico uso distorto dell’Olocausto nazista, non ci spiega perché il sionismo non è razzismo. Saremo noi allora che cercheremo di spiegare perché l’ex-presidente americano ha torto ed il sionismo è una forma perversa di razzismo e di discriminazione razziale. L’ultima ancora rimasta in piedi nel mondo e codificata nelle leggi dello Stato di Israele. Per fare questo però, è necessario prima cercare di chiarire alcune differenziazioni esistite ed esistenti nel complesso mondo ebraico, nelle pagine seguenti le nostre osservazioni saranno necessariamente schematiche e assai generiche.
2) C’è nazionalismo e nazionalismo
Gli ebrei internazionalisti
Bertell Ollman non è un ebreo nazionalista. É uno di quei pochi ebrei internazionalisti o marxisti che rifiutano il nazionalismo, ritenuta un’ideologia borghese e reazionaria. Molto numerosi erano, un tempo, gli ebrei comunisti e internazionalisti. Considerati dagli antisemiti gente estranea al loro paese e quindi indesiderata, il proletariato e ampi settori della piccola borghesia ebraica rispondevano all’antisemitismo con l’adesione ai partiti marxisti, i quali erano nemici giurati dei nazionalismi e dei pregiudizi razziali. La classe del proletariato di tutti i paesi era il vero «paese» dei lavoratori. I comunisti, e gli ebrei comunisti più di chiunque altro, ritenevano l’appartenenza alla classe del 16 George Bush, Discorso tenuto all’Assemblea Generale della 46.ma Sessione delle Nazioni Unite, cit. 17 George Bush, Discorso tenuto all’Assemblea Generale della 46.ma Sessione delle Nazioni Unite, cit. 18 George Bush, Discorso tenuto all’Assemblea Generale della 46.ma Sessione delle Nazioni Unite, cit. 13
proletariato, molto più importante dell’appartenenza ad una nazione, ad un paese. Il proletariato non ha nazione. Secondo Marx, il compito storico del proletariato era abolire le nazioni, i paesi e il sistema delle classi. Solo in questo modo tutti gli uomini potevano diventare fratelli nell’uguaglianza e nella libertà dallo sfruttamento e dalla schiavitù salariale. I comunisti lottavano per la vittoria del proletariato internazionale e per la sconfitta della borghesia internazionale Gli ebrei comunisti, essendo internazionalisti e decisamente antisionisti, non ricercavano l’alleanza con la borghesia ebraica, né nel loro paese, né altrove. Ancora meno potevano concepire l’idea di un’alleanza con i fascisti e gli antisemiti. Questi reazionari erano il prodotto della borghesia e dovevano essere combattuti decisamente nel proprio paese e in tutti i paesi, in stretto collegamento con le forze proletarie e democratiche senza distinzione di nazionalità, religione, etnia, ecc.. La teoria comunista di Marx, ebreo tedesco assimilato, era per loro unica guida e orientamento. Questa era la teoria marxista, diciamo, classica sulla nazionalità e l’internazionalismo; ma alla fine del secolo dal marxismo nacquero e si svilupparono due teorie che evolveranno poi verso la socialdemocrazia. Il riformismo neokantiano e l’austro-marxismo. Riguardo al concetto di nazionalità esse riscoprirono la concezione liberale mantenendo tuttavia una certa considerazione per la lotta di classe. Certo la socialdemocrazia rimandò a più tardi nel tempo e nella storia la rivoluzione sociale ma non si staccò completamente dai punti di riferimento del marxismo, svuotandoli certo ma non annullandoli del tutto. E in particolare la socialdemocrazia non giunse mai a porre al di sopra di ogni altra cosa il compimento del disegno nazionale.
Il cosmopolitismo ebraico
Vi erano ed esistono ancora altri ebrei non-nazionalisti. Con l’abolizione delle restrizioni nei confronti degli ebrei nell’Europa occidentale, dalla fine del Settecento in poi, soprattutto nelle democrazie liberali nate dalla rivoluzione francese, si era andata formando tra gli ebrei benestanti una classe di uomini di cultura che rigettavano qualsiasi atteggiamento nazionalista. Cosmopoliti e liberali, essi avevano una cultura internazionale, europeista o universale. Si dichiaravano appartenenti, non ad una qualsiasi etnia, ma alla razza umana. Si riconoscevano nella frase del poeta ebreo austriaco Franz Grillparzer: “dall’umanità alla bestialità attraverso la nazionalità”. Essa aveva anzi una valenza superiore. Quella frase voleva sottolineare solo quanto fosse facile passare dal nazionalismo alla bestialità. Quella frase, che valeva per tutti, ebrei e per non ebrei, era un grido d’allarme perché nell’Est europeo si stava affermando un nazionalismo assai diverso da quello liberale o risorgimentale, affermatosi nella parte occidentale del continente tra gli anni che vanno dalla fine del Secolo dei Lumi alla fine dell’Ottocento (1780-1890). Nell’Est europeo si stava affermando un nazionalismo tribale, razzistico, il nazionalismo “della terra e del sangue”. L’atteggiamento degli intellettuali cosmopoliti ebrei, rispetto alla loro cultura, religione e tradizione, andava da un deciso rigetto ad una compiacenza tollerante. L’aspetto migliore della tradizione e della sensibilità ebraica diventava, per loro tramite, parte integrante della cultura e del modo di essere e sentire europeo. Non scompariva, ma si fondeva con i livelli più alti del vivere civile degli europei. Quando si allontanavano dalla religione dei loro padri, sceglievano per lo più un ateismo filosofico e illuministico oppure si convertivano al cristianesimo. La loro concezione della famiglia si andava sempre più allontanando dal concetto di matrimonio endogamico, cioè razziale o etnico. Sceglievano cioè di costituire una famiglia mista, con matrimoni interrazziali fondati sull’amore e sul rispetto per ogni cultura. Erano in definitiva degli assimilazionisti e non si spaventavano di veder scomparire, nel tempo, la cosiddetta «razza ebraica» o «semitica». Non erano, però, degli assimilazionisti qualunque ma i più coerenti tra tutti gli ebrei assimilazionisti. Numerosi erano gli intellettuali umanisti ai quali oggi riconosciamo di aver grandemente contribuito al rafforzamento dell’umanesimo europeo e occidentale. Scrittori come Franz Kafka, Stefan Zweig, Thomas Mann, Bertolt Brecht, scienziati come Albert Einstein. Come si vede molti di questi ebrei cosmopoliti erano di cultura tedesca o mitteleuropea. Di costoro tesse oggi le lodi un sionista pentito, Amos Elon, che scrive:
“[Essi] costituivano l’elite laica dell’Europa. Erano l’essenza del modernismo – l’avanguardia che si guadagnava la vita con la forza delle idee e non con la forza muscolare, erano dei mediatori, non dei lavoratori della terra. Giornalisti, scrittori, scienziati. Se tutto non fosse andato a finire in modo così orribile, oggi canteremmo le lodi della cultura di Weimar. Paragoneremmo questa cultura al Rinascimento italiano. Ciò che accadde allora nel campo della letteratura, psicologia, pittura ed architettura non accadde da nessun’altra parte nel mondo. Non vi era stato nulla di simile dal Rinascimento”. 19 Questo moderno rinascimento europeo, in gran parte dovuto agli ebrei cosmopoliti, oggi è scomparso, colpito a morte dalle varie forme di nazionalismo tribale che l’Europa ha conosciuto nella prima metà del secolo XX, tra le quali dobbiamo per forza di cose annoverare il nazismo e il sionismo.
19 Counterpunch, 27 dicembre 2004.
Gli assimilazionisti nazionalisti
Vi era poi un altro tipo di assimilazionisti. Costoro sentivano di appartenere alla nazione in cui erano nati e cresciuti. Potevano decidere di conservare sia la religione, sia la tradizione dei loro padri e potevano addirittura conservare il matrimonio razziale o etnico, cioè sposarsi tra di loro. Vi sono infatti due modi di assimilazione, quella che chiameremo individuale e quella di gruppo. L’appartenente ad un gruppo culturale diverso dal nostro deve integrarsi come individuo e quindi abbandonare il proprio gruppo o può operare per integrare il suo gruppo alla società sulla base della tolleranza reciproca? In una società veramente liberale assimilazione non è necessariamente del primo tipo. Oggi un grande dibattito si è aperto nell’Occidente liberale, se cioè gli appartenenti ai vari gruppi di culture estranee alle nostre debbano integrarsi in quanto individui o possano conservare le loro caratteristiche religiose, etniche e culturali. Questa seconda soluzione prende necessariamente più tempo della prima. La Francia parteggia per la prima soluzione, i paesi anglosassoni sembrerebbero aver adottato la seconda. La Francia non vuole le ragazze col velo nelle scuole (nemmeno la destra italiana d’altronde) e insiste sul concetto di cittadinanza nel senso che ogni individuo deve adeguarsi, almeno nelle istituzioni pubbliche, al modello del cittadino laico francese, così come esso si è storicamente configurato. Niente quindi eccezioni per gruppi culturali o religiosi. C’è dietro l’idea (razzistica?) che la cultura laica francese è superiore alle altre culture. In Italia ci si orienta verso la soluzione francese, soprattutto per quanto riguarda i gruppi nord africani o mediorientali. Diciamo pure quei gruppi che fanno riferimento alla religione islamica. Cosa vuol dire infatti che questi gruppi devono dar vita ad un Islam italiano? Una religione è una religione, non deve avere nazionalità. Ma forse si vorrebbe un Islam poco religioso, vissuto in modo ipocrita e superficiale così come la maggior parte dei cristiani vivono oggi il cristianesimo, in un Occidente il cui vero Dio è ormai il consumismo; un consumismo, quello sì, vissuto in modo fondamentalistico. Noi sappiamo che il problema per il nostro governo è il cosiddetto fondamentalismo. Ma il fondamentalismo non è una peculiarità dell’Islam. Che dire del fondamentalismo ebraico e del giudaismo sionistico? La comunità ebraica deve quindi costituire un ebraismo italiano? In realtà, vogliamo far notare che gli islamici non hanno mai fatto riferimento ad uno Stato straniero specifico; il giudaismo, oggi, invece si. Torniamo agli ebrei assimilazionisti del secondo tipo che abbiamo delineato. Per costoro, almeno nel passato, l’appartenenza al popolo ebraico era relativa, per non dire mitologica. Più forte essi sentivano il senso di appartenenza al paese in cui erano nati e alla nazione in mezzo alla quale vivevano. Il rapporto con gli altri ebrei del loro paese era di tipo religioso e culturale o anche solo solidaristico, ma esso era mitigato dalla loro appartenenza a classi sociali differenti come succede tra tutti gli aderenti ad una religione o cultura. Insomma l’operaio ebreo era ebreo ma sentiva una stretta vicinanza agli operai non ebrei. Il borghese ebreo era ebreo come l’operaio di prima, ma sentiva fortemente il suo legame con il resto della borghesia del paese. Questo gruppo di persone poteva scegliere di essere moderatamente nazionalista (liberale o risorgimentale) o nazionalista acceso e intransigente, poteva addirittura aderire al nazionalismo colonialista. In Italia, tra gli ebrei che aderirono al nazionalismo italiano risorgimentale vi è la figura eroica di Daniele Manin. Il nazionalismo risorgimentale era per lo più repubblicano, mazziniano o garibaldino e non faceva gran distinzione di tipo religioso, etnico o razziale all’interno del popolo italiano. Ma vi era anche un nazionalismo più autoritario, monarchico o, diciamo pure, meno liberale o addirittura pre-fascista; anche in quel caso però si trattava pur sempre di un nazionalismo non razzistico, nel senso che il suo nazionalismo non era ristretto alla sua razza o gruppo culturale o religioso. Questo secondo tipo di nazionalismo, esasperatosi durante il primo conflitto mondiale, accesosi di risentimento per la cosiddetta «vittoria mutilata» nella sua interpretazione più violenta e autoritaria sfocerà nel nazionalismo fascista. Tra gli ebrei italiani, i quali avevano raggiunto la parità dei diritti durante o prima del Risorgimento (a seconda dello staterello in cui vivevano), era comunque forte il sentimento di appartenenza alla nazione italiana. Anche con il progressivo affermarsi del nazionalismo autoritario molti ebrei continuarono a condividere con i nazionalisti lo stesso orgoglio, la stessa insofferenza o odio nei confronti delle altre nazioni, lo stesso desiderio di far affermare la propria nazione sulle altre, la stessa bramosia di colonie e di impero. Questo almeno fino alle Leggi Razziali e i provvedimenti antiebraici, che costituiranno una vera e propria pugnalata alle spalle degli ebrei nazionalisti italiani. Non furono pochi gli ebrei fascisti. La borghesia ebraica italiana riconobbe nel fascismo un baluardo contro il comunismo. Tra gli ebrei fascisti che sostenevano l’espansione coloniale italiana in Africa e il nazionalismo di Mussolini vi era quasi tutto l’insieme dei rabbini d’Italia e di Libia. Il rabbino di Padova, l’avvocato Felice Ravenna, per esempio, che era il Presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche, aveva rapporti stretti con le autorità. Dopo un suo incontro a Tripoli con il governatore Balbo, fu emesso il seguente comunicato:
“S.E. il Governatore della Libia ha ricevuto in lungo e cordiale colloquio l’avvocato Felice Ravenna, Presidente dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, ed ha esaminato con lui le condizioni degli ebrei della Libia. Il governatore ha espresso
all’avvocato Ravenna viva simpatia per la laboriosa, disciplinata e morale popolazione ebraica, che partecipa attivamente alla vita della nuova Italia mussoliniana d’Oltremare”. 20
Ancora più decisa era la posizione del generale Liuzzi che nel 1936 in un opuscolo intitolato Per il compimento del dovere ebraico nell’Italia Fascista attaccava i suoi correligionari con queste parole:
“É indispensabile e urgente che le nostre Comunità abbiano nell’Unione una superiore autorità responsabile del loro risanamento e che pertanto alla loro testa vengano messi uomini nuovi che posseggano le capacità di sapere e di voler fare, che dispongano cioè di un’anima ebraica non soltanto italiana del passato, ma profondamente e sicuramente fascista dell’avvenire. Equivoci e malintesi, vecchie radici massoniche e vincoli internazionali devono essere sicuramente banditi da tutti noi quali errori e tradimenti superati o trapassati. Anche qui si tratta di lottare e vincere nell’interesse della Patria [italiana] oltre che nostro”.21
Gli ebrei religiosi e gli ultraortodossi
Vi era poi un vasto gruppo di ebrei ortodossi la cui storia recente merita un discorso un po’ più approfondito. La corrente principale della religione ebraica, cioè del giudaismo o l’ebraismo tradizionale, ha assunto nella storia, a volte più di altre religioni (escluso forse il buddismo), un carattere di religione aperta. Questo carattere aperto è dato dalla dottrina della «doppia Torah», una scritta determinata dalla Rivelazione, e una orale, frutto dell’interpretazione umana e quindi capace di adattare, attraverso l’interpretazione appunto, la Parola Divina ai cambiamenti storici e della società. Nel complesso del mondo religioso ebraico non sono mai mancati movimenti fondamentalisti, ma in seguito alla nascita del sionismo e ancor più dopo la nascita di Israele, alcuni aspetti del fondamentalismo ebraico sono stati per così dire esasperati. In realtà tutto il complesso mondo religioso ebraico ha dovuto ridefinirsi in rapporto a due aspetti nuovi: prima di tutto la politica, dato che il sionismo è un movimento politico, secolare e non religioso, e in secondo luogo rispetto allo Stato di Israele la cui fondazione ha costretto a porre in termini nuovi la definizione teologica del problema della terra promessa. Tradizionalmente Israel era il popolo dell’alleanza divina, il popolo eletto, mentre il termine Eretz Israel indicava la terra d’Israele, divenuta nel tempo qualcosa di diverso di una spazialità fisica (cioè un territorio), trasformandosi in un concetto religioso che si identifica con la Torah, il vero nomos della spazialità della Diaspora. Quando Herzl pubblicò il suo libro-manifesto Lo stato ebraico, i religiosi ebraici insorsero e lo condannarono.
“Il gran rabbino di Vienna, Gudemann, che era stato un amico intimo di Herzl, attaccò violentemente le sue idee in un opuscolo in cui insorgeva in particolare contro «l’elucubrazione del nazionalismo ebraico» e sosteneva che gli ebrei non erano una nazione, che avevano in comune solo la fede in Dio e che il sionismo era incompatibile con l’insegnamento del giudaismo”. 22
Per i religiosi quindi, gli ebrei non erano un popolo ma solo membri di una religione che vivevano ognuno nella sua patria. Eretz Israel era un luogo dello spirito, non la patria degli ebrei. Con la nascita di Israele per la maggior parte degli ebrei religiosi Eretz Israel ridiventa un territorio, la patria ebraica. Ciò non toglie che, ancora oggi, per i più, Eretz Israel è un concetto incerto dal momento che la maggior parte degli ebrei che vivono in Israele sono atei o non religiosi e la maggior parte degli ebrei religiosi vivono fuori di Israele. Tuttavia la nascita del sionismo e di Israele ha avuto invece un impatto deciso e forte sull’ebraismo, costringendolo a schierarsi nettamente con o contro il nazionalismo sionista e con o contro lo Stato di Israele. Gli ultraortodossi, detti in ebraico haredim, ritengono loro obbligo non eludibile l’osservanza dei comandamenti divini, contenuti nella Torah. Questi però non possono essere praticati al di fuori di una comunità che implichi la corresponsabilità di ogni membro della collettività per il comportamento e gli atti dei suoi correligionari. I comandamenti divini sono infatti prescrizione di ordine pratico, non intimistico e quindi sono verificabili da tutti i membri della comunità (cibi, rituali, ecc). Oltre alle prescrizioni religiose i membri della comunità sono tenuti allo studio dei testi sacri e alla loro interpretazione collettiva. Gli ultraortodossi inoltre vestono in modo particolare (abito nero e cappello, gli uomini; gonna lunga e fazzoletto sui capelli, le donne), gli uomini hanno infine anche un taglio di capelli caratteristico. Essi sono infatti nemici della modernità e della secolarizzazione, considerate dannose per la spiritualità religiosa. Fin dalla sua nascita, gli ultraortodossi furono acerrimi nemici del sionismo il quale era appunto un movimento politico laico e moderno e contravveniva ai «tre giuramenti»: 1) non tornare in Eretz Israel essendo stato l’allontanamento degli ebrei dalla loro terra una punizione divina, 2) non ribellarsi e usare violenza nei confronti dei
20 Citato in Renzo De Felice, Storia degli ebrei Italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1993, p. 203. 21 Citato in Renzo De Felice, Storia degli ebrei Italiani sotto il fascismo, op. cit., p. 225. 22 Walter Laqueur, Histoire du sionisme, Paris, Gallimard 1972, vol 1, p. 151.
popoli presso i quali gli ebrei hanno trovato ospitalità, 3) non precipitare la fine dei tempi e aspettare, nella contrizione, la redenzione e il perdono divino. Il sionismo contravveniva a tutti e tre i giuramenti. Quando, nell’Est europeo, le condizioni determinate dalle persecuzioni o dai regimi politici si facevano insopportabili, gli ortodossi emigravano in America, che pure era il paese «moderno» per eccellenza ma garantiva autonomia alle loro comunità in modo che, in esse, i fedeli potessero applicare le loro leggi religiose o Halakah. Dopo la fondazione dello Stato d’Israele gli ultraortodossi di divisero in, grosso modo, due correnti. Una piccola comunità di origine ungherese, guidata dal gran rabbino Yoel Teitelbaum, perseverò nella sua posizione antisionista e restò in America anche se un piccolo gruppo di suoi membri si stabilì in Israele dove vive in condizioni di isolamento dal resto della società «moderna e empia». Da questo gruppo è nata l’organizzazione Neturei Karta che «prega ogni giorno per la scomparsa dello Stato di Israele». La seconda corrente è formata da un insieme di gruppi che hanno raggiunto un accordo con il sionismo e lo Stato di Israele. Questi ultraortodossi sionisti si sono trasferiti in Israele ed hanno costituito partiti politici che cercano di condizionare lo Stato cercando di fargli assumere connotati confessionali o addirittura di trasformarlo in uno stato teocratico. Questa è una situazione certo gravida di conseguenze.
“Il conflitto tra laici e religiosi – scrive Pace Guolo – verte sul «chi è ebreo». Per i laici la definizione è di tipo etno-nazionale; per gli ultraortodossi (sionisti, nda) è di tipo religioso. Secondo gli haredim ebreo è esclusivamente chi è nato da madre ebraica o si sia convertito al giudaismo secondo l’Halakah, la legge religiosa. Condizione quest’ultima che mira ad escludere le conversioni operate dall’ebraismo conservatore o riformato, dominante nella Diaspora, in particolare negli Stati Uniti. Cercando di far coincidere l’israeliano con gli ebrei gli «uomini in nero» cercano di trasformare Israele, che il sionismo ha pensato originariamente come «Stato degli ebrei», in «Stato ebraico». Così dal 1948 ad oggi i partiti ultraortodossi (sionisti, nda), divenuti dal 1977 in poi, grazie alla legge elettorale proporzionale pura, decisivi per la formazione di qualsiasi maggioranza politica, si batteranno per una «riteologizzazione» dello Stato, attraverso la negoziazione di istanze religiose che mirano a far «deperire» il residuo carattere laico delle istituzioni sioniste”. 23
La religione della maggior parte degli ultraortodossi è divenuta quindi una religione sionista e i suoi aderenti sono tra i più feroci colonizzatori dei territori occupati e rendono difficile qualsiasi ulteriore ritiro dai territori occupati. Ma gli ultraortodossi sionisti non sono gli unici sionisti. Quando noi parliamo di sionisti senza altra qualificazione di sorta intendiamo i sionisti che hanno dato vita allo Stato di Israele, e i loro successori di oggi, cioè i sionisti di destra (Likud o Kadima) e i sionisti di sinistra (Partito Laburista).
3) La concezione sionista del nazionalismo
La concezione sionista del nazionalismo non appartiene al nazionalismo liberale o risorgimentale. Fa parte piuttosto di quel nazionalismo fin de siècle che è definito “del sangue e della terra” o come si dice in tedesco “blut und boden”. Usiamo i termini in lingua tedesca perché, in realtà, questo genere di nazionalismo ha trovato la sua espressione più coerente in Prussia e Germania dalla fine del XIX secolo alla Seconda Guerra mondiale. É stato definito anche in altri modi, ad esempio Prussismo, nazionalismo organico o nazionalismo tribale. Nel periodo in cui nacque il sionismo, alla fine del XIX secolo, esistevano in Europa due concezioni contrapposte dell’idea di nazione e di nazionalismo. Da una parte vi era la concezione democratica nata durante la rivoluzione francese e figlia dell’illuminismo. Secondo questa concezione, era compito di tutti i cittadini costruire nella propria nazione un ordine sociale che garantisse i principi di libertà, fratellanza e uguaglianza. Questi erano i principi democratici condivisi della nazione e secondo questi principi ogni cittadino aveva il diritto/dovere di concorrere a costruire un ordine sociale razionale e giusto, indipendentemente da sesso, razza, lingua, religione, provenienza, ecc. Lo stato-nazione, non più proprietà del re per grazia divina, veniva quindi edificato su un accordo consensuale di tutti i cittadini, i quali erano considerati, sulla base egualitaria, i suoi elementi fondanti. L’uguaglianza veniva intesa esclusivamente in termini di diritti civili e politici e non economici e quindi era foriera di disuguaglianze sostanziali dovute alla ricchezza e all’influenza che la ricchezza porta con sé. La teoria marxista affronterà questo punto e cercherà di porvi rimedio sostenendo che l’uguaglianza politica doveva essere fondata sull’uguaglianza economica e che questa si poteva realizzare solo con l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Comunque, la teoria dello stato-nazione nata dalla rivoluzione francese costituiva pur sempre un enorme passo avanti nella storia dell’umanità e ci si sarebbe aspettato che diventasse presto patrimonio comune dell’Europa intera. Gli ideali della rivoluzione francese furono sparsi su tutto il continente dalle armate napoleoniche e produssero una serie di rivoluzioni nazionali nel corso del secolo. Verso la fine del secolo XIX, come reazione all’illuminismo e al razionalismo, si andò lentamente affermando in 23 Pace Guolo, I fondamentalismi, Bari Laterza, 2002, p. 68.
Germania e nell’Est europeo un’altra concezione di nazione, non democratica e non egualitaria ma romantica, secondo la quale non tutti gli individui nascevano uguali ed essi erano uniti tra loro da legami più profondi, più naturali, più forti dell’accordo consensuale della concezione democratico-rivoluzionaria francese. Secondo la concezione romantica, l’individuo era parte di una comunità organica, unita da una storia, una lingua, una religione, un folklore, un’origine, un sangue comuni. Era del tutto naturale, in questa concezione, che una comunità o nazione di questo tipo trovasse la sua realizzazione esclusivamente in un territorio comune che escludesse altre comunità o individui non corrispondenti alle caratteristiche dominanti. Per questi nazionalisti ‘organici’ il territorio comune doveva diventare uno Stato esclusivo, ben delimitato e separato dagli altri Stati lungo frontiere etniche, linguistiche, culturali. Furono precise ragioni storiche a determinare che una visione del genere si sviluppasse ad Est del Reno, in contrapposizione alla Francia, all’Inghilterra, alla Spagna, all’Italia.
“Nell’Europa occidentale, – scrive lo storico Zeev Sternhell – il nazionalismo è comparso subito nella sua forma politica e giuridica. La nazionalità si è affermata con il lungo processo di unificazione dei regni. I popoli ai quali questi regni davano un potere centrale e una stessa capitale, erano di fatto composti da popolazioni così differenti quanto potevano esserlo dei vicini di religioni, culture, lingue ed etnie diverse. Anche le frontiere erano funzione della potenza. E se i relativi tracciati, nel caso di trattati – di pace o d’altro, – finivano con il separare popolazioni di una stessa lingua, di una stessa cultura, questo destino era accettato. La Francia, la Gran Bretagna e la Spagna costituiscono gli esempi più rappresentativi di una tale situazione. A Est del Reno invece, i criteri di appartenenza nazionale non erano politici ma culturali, linguistici, etnici e religiosi. Le identità polacca, rumena, slovacca, serba o ucraina non si sono determinate come espressione di una fedeltà ad un’autorità centrale ma hanno preso forma intorno alla religione, alla lingua e al folklore sentiti come altrettante manifestazioni delle caratteristiche biologiche o razziali specifiche. A differenza di paesi come la Francia, la Gran Bretagna o la Spagna, qui la nazione ha preceduto lo stato. In questi paesi si capiva il pensiero di Herder, non quello di Locke, Kant, Tocqueville, John Stuart Mill o Marx”.24
Una concezione del nazionalismo che facesse riferimento a “caratteristiche biologiche o razziali specifiche” di un popolo era romantica e chiaramente anti-illuministica e anti-liberale, in quanto dell’Illuminismo rigettava i valori umanistici e universalisti. Fu la grande crisi irrazionalista dell’Europa, caratterizzata da folli proclamazioni della guerra tra le razze, da assurdi annunci della nascita dell’uomo nuovo, da irresponsabili chiamate al bagno di sangue per rigenerare le nazioni. Non fu un caso che il sionismo, il quale vuole essere il nazionalismo di un popolo che si auto-distingue attraverso caratteristiche biologiche etniche o razziali, nascesse in questa atmosfera culturale angusta e reazionaria che, nel frattempo, aveva contagiato anche l’Occidente.
“Nel momento in cui prende forma l’ideologia sionista, – scrive sempre Zeev Sternell – i nazionalismi (…) avevano espulso i principi universali e umanisti che le rivoluzioni del XVIII secolo vi avevano introdotto con più o meno fortuna. Da questo punto di vista , il movimento nazionale ebraico non era diverso dagli altri”. 25
“Il sionismo ha preso forma in un mondo composto di entità nazionali violente e sospettose, un mondo in cui la tolleranza religiosa era assente, in cui la differenza era considerata una tara e la separazione tra religione e la società era sconosciuta, forse perfino impossibile”.
Non fu un caso neppure che esso nascesse presso gli ebrei dell’Est europeo dove il liberalismo non si era ancora affermato, e non, invece, presso gli ebrei di Francia, Italia o Inghilterra. In Europa occidentale, infatti, gli ebrei liberati dal ghetto e resi cittadini del loro paese non potevano aderire ad una concezione angusta secondo la quale
“la nazione è tutto e l’individuo non esiste se non nell’insieme e per l’insieme”. Una concezione secondo la quale “è la parentela del sangue e della cultura che conta nella vita degli uomini”.27 Questa concezione angusta era diffusa
“In quei paesi, province o territori, [in cui] il pluralismo non esisteva e non si riconosceva all’individuo nessun valore intrinseco: egli era solo una parte dell’entità nazionale, senza possibilità di scelta. La nazione esigeva da lui una fedeltà senza crepe alla quale ogni altra esigenza doveva piegarsi, sempre, in ogni situazione. Le energie dovevano prima di tutto e soprattutto servire la collettività, ed era ovvio che la superiorità dei valori particolari della nazione sui valori universali doveva essere certa e non doveva essere messa in dubbio”.
24 Z. Sternhell, Aux origines d’Israel, Parigi, 1996, Fayard, p. 23. 25 Z. Sternhell, Aux origines d’Israel, op. cit., p. 30. 26 Z. Sternhell, Aux origines d’Israel, op. cit., p. 24. 27 Z. Sternhell, Aux origines d’Israel, op. cit., p. 20. 28 Z. Sternhell, Aux origines d’Israel, op. cit., pp. 23-4.
Per gli ebrei occidentali, invece, contava sempre più la libertà individuale e l’uguaglianza giuridica con gli altri cittadini della nazione. Usciti dal ghetto, di fronte a loro si apriva un campo d’azione mai sperimentato prima, in cui potevano mettere a frutto le loro doti e capacità specifiche. Il sionismo, per loro, sembrava riproporre l’ideologia della segregazione, del ripiego su se stessi, della chiusura verso il resto del mondo; quel mondo della libertà e dell’uguaglianza che finalmente aveva aperto loro le porte. Tuttavia, alla fine del XIX secolo, gli ebrei dell’Europa occidentale videro la loro posizione universalista rapidamente ricacciata dall’ondata di nazionalismo tribale che si affermava tra gli ebrei dell’Est. Naturalmente, era un fenomeno più vasto che non riguardava solo gli ebrei e che è stato così descritto da Sternhell:
“Sospinto da una rivolta intellettuale crescente, il nazionalismo tribale si diffonde rapidamente in tutta l’Europa e (…) riesce a soppiantare il nazionalismo liberale. (…) É il nazionalismo tribale che in Europa occidentale ha nutrito l’antisemitismo, è lui che ha fatto del processo a Dreyfus un dramma dalle dimensioni mondiali”. 29 La concezione del nazionalismo del sangue era gravida di conseguenze ancora più nefaste. Se essa diede vita al sionismo, diede anche vita al pangermanesimo, dal quale, in seguito, nascerà la mala pianta del nazismo che altro non farà se non semplicemente accentuare il concetto di «razza». Il sionismo e il nazismo hanno origine comune nel nazionalismo del «blut und boden» ed entrambi si fondano sull’«ideale» della «purezza razziale», un concetto assolutamente non-scientifico. Secondo Theodor Herzl, infatti, gli ebrei, ovunque essi si trovassero, non appartenevano alle nazioni in cui vivevano e non dovevano aderire al patto democratico dei cittadini della loro nazione, ma dovevano far valere la loro origine, la loro storia, il loro «sangue» e prestare fedeltà solo alla nazione ebraica, indipendentemente dalla lingua che parlassero e dalla cultura a cui appartenessero. La nazione ebraica doveva quindi separarsi dalle altre e fondare un proprio Stato. Questo Stato si pensò di fondarlo prima in Argentina, poi in Africa, infine, si decise per la Palestina. Il sionismo non era in origine un movimento religioso e tuttavia scelse la Palestina proprio per il richiamo religioso che la «Terra di Israele» esercitava sugli ebrei di fede giudaica. La Palestina infine era per i sionisti l’unica terra possibile perché richiamava quel legame mitico tra terra e razza, terra e sangue che era tipico del nazionalismo tribale o organico.30 Quale legame mitico o d’altro tipo ci poteva mai essere tra ebrei e Argentina o ebrei e Uganda? Per gli ebrei non sionisti se legame ci doveva essere, questo si esplicitava nella forma di un attaccamento reale e non mitico tra il cittadino e il paese in cui egli era nato e cresciuto, in cui erano nati e cresciuti, da decine e decine di generazioni, i suoi avi, in cui essi avevano raggiunto la libertà e spesso il benessere. Lo studioso sionista tedesco Hans Kohn associa apertamente la concezione del nazionalismo di Herzl e dei sionisti alla concezione di nazione germanico-romantica. Egli afferma che il pensiero di Hertzl derivava proprio dalle «fonti germaniche» che egli così sintetizza:
“Secondo la teoria tedesca, la gente di origine comune (…) dovrebbe formare uno Stato comune. Il Pan-Germanesimo si fondava sull’idea che tutte le persone di razza, sangue e origine germanici, ovunque vivessero e a qualunque Stato appartenessero, dovevano la loro fedeltà principalmente alla Germania e dovrebbero diventare cittadini dello Stato tedesco, la loro vera patria. Essi, e addirittura i loro padri e antenati, potevano essere vissuti sotto cieli «stranieri» o in ambienti «diversi», ma la loro «realtà» interiore profonda rimaneva tedesca”.
Si ricordi che non tutti i tedeschi vivevano nello Stato tedesco che Bismark aveva edificato. Così come vi erano ebrei in varie nazioni e paesi, vi erano pure minoranze tedesche in Polonia, Cecoslovacchia, Italia, Slovenia, Ungheria, Romania, Lituania, Estonia, Russia. Il nazismo, in seguito, decreterà che dove vi erano tedeschi doveva diventare Germania. Il sionismo, paradossalmente, stabilirà invece che dove non ci sono ebrei dovrà diventare Israele. Il rabbino antisionista Felix Goldman comprese subito la natura sciovinista e razzista del sionismo e scrisse un libro intitolato Zionismus oder liberalismus (1911) in cui rigettava totalmente il nazionalismo ebraico considerandolo “un prodotto del movimento sciovinista generale” che stava avvelenando la storia alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo ma che sarebbe stato spazzato via col sorgere di una nuova epoca di universalismo.32 Sfortunatamente, il movimento sciovinista generale di cui egli parlava portò alla Prima Guerra Mondiale, prima, al fascismo europeo e al nazismo, poi, e, infine, alla Seconda Guerra Mondiale. Noi ancora lottiamo oggi, in quest’epoca di scontro di 29 Z. Sternhell, Aux origines d’Israel, op. cit., p. p. 22. In realtà anche Herzl e i sionisti fecero (e hanno sempre fatto in seguito) di questo caso un “dramma universale”. Esso infatti ai loro occhi giustificava la nascita del loro movimento nazionalista tribale. In realtà, sia i nazionalisti francesi, sia i sionisti, furono sconfitti dalla storia perché in definitiva vinse la convivenza. 30 Vedremo nel paragrafo 5 di questo capitolo perché il legame tra sionismo e Palestina è solo mitico e non storico. 31 Hans Kohn, citato in Norman Finkelstein, Image and Reality of the Israel-Palestine Conflict, op. cit., p.8. 32 Vedi Walter Laqueur, Op. Cit., vol II, p. 577. 19
civiltà, per far sorgere una nuova epoca di universalismo mondiale. Ma perché ciò avvenga è assolutamente necessario sconfiggere l’ultimo baluardo di nazionalismo organico, l’ultima
“visione tribale, vedi ombelicale, che ha caratterizzato la reazione (…) dello Stato di Israele al mondo”. 33 Il sionismo è l’ultima sopravvivenza di un passato orrendo che tutti, almeno a parole, affermano di voler definitivamente cancellare. Ma mentre si costruiscono entità sovra-nazionali e si globalizza il mercato mondiale, l’Occidente continua a chiudere gli occhi davanti all’ultimo «campione» di nazionalismo razzista.
La concezione del nazionalismo sionista in realtà veniva a rafforzare, non a indebolire, l’antisemitismo moderno. Se la «nazione» ebraica, intesa come comunità della stessa «razza, sangue e origine», riteneva di essere disseminata in vari paesi stranieri che non erano il suo paese e desiderava unirsi e abitare un altro territorio, ciò equivaleva a dire che gli ebrei europei non erano tedeschi o ucraini o polacchi o rumeni, ecc. Equivaleva quindi a dire che era giusto guardarli con sospetto in quanto diversi o addirittura nemici della nazione in cui vivevano. Gli antisemiti non chiedevano di meglio. Questo è infatti l’assioma antisemita per eccellenza ma era perfettamente condiviso da Herzl ed è ancora il credo di tutti i sionisti. Quando Herzl e i sionisti affermavano che gli ebrei appartenevano alla stessa «razza, sangue e origine» e quindi erano un’unica nazione nelle nazioni, non facevano altro che dare ragione ai nemici di tutti gli ebrei, sionisti e assimilazionisti insieme. Di questa affermazione si spaventavano enormemente gli ebrei non sionisti perché la ritenevano estremamente pericolosa. E la storia ha dimostrato che era pericolosa. Uno dei padri fondatori di Israele, un sionista di «razza», Abba Eban, che è stato, negli anni Cinquanta, Ministro degli Esteri di Israele non si vergogna di ammetterlo quando scrive:
“Quel pazzo pericoloso (Herzl, ndt) voleva condannarli a morte, definendoli una nazione nelle nazioni. Esattamente quello che gli antisemiti professionisti non avevano mai cessato di affermare?” 34
Era un’obiezione di peso e veniva da ebrei, ma subito dopo Eban, sicuro che Herzl avesse ragione, aggiunge:
“Sordo a quelle obiezioni, Herzl continuava a perseguire il suo obiettivo”.
Gli ebrei liberali del mondo intero condannarono il sionismo. Gli ebrei di Londra ribadivano che il giudaismo era una religione per cui in fatto di nazionalità gli ebrei britannici potevano perfettamente identificarsi con i britannici. Ancora più chiaramente si esprimeva l’eminente rabbino americano Isaac Wise (da non confondere con il sionista Stephen Wise) il quale, in un discorso successivo al primo congresso sionista, dichiarava:
“Denunciamo tutta questa faccenda di uno stato ebraico come estranea allo spirito dell’ebreo moderno di questo paese, che considera l’America come la sua Palestina e i cui interessi sono incentrati qui”. 35
Allo stesso modo ragionava l’ebreo liberale Claude Montefiore, porta parola del giudaismo liberale inglese:
“Gli ebrei liberali non desiderano l’istallazione degli ebrei in Palestina e non pregano perché questa avvenga”.
4) Cosa ha prodotto quest’ideologia?
Il risultato che questa ideologia ha prodotto è lo Stato per soli ebrei. Scrive lo studioso americano John Lynch:
“La moderna manifestazione del tradizionale status speciale e della tradizionale supremazia ebraica è stata la violenta creazione dello Stato per soli ebrei in Palestina. Secondo gli ebrei, Dio ha dato loro quella terra, per cui la presenza su suolo giudaico di non-ebrei è cosa sacrilega. Dal momento della sua creazione, lo Stato per soli ebrei ha provato ogni sistema per buttare a mare i palestinesi in modo che l’unico popolo che possa vivere in Palestina siano gli ebrei. L’incessante propaganda ebraica che i palestinesi stiano cercando di buttare a mare gli ebrei è solo una proiezione di quello che gli ebrei stanno realmente facendo ai palestinesi. Gli ebrei hanno inventato la minaccia che gli arabi li stanno buttando in mare come proiezione del loro desiderio di liberare la Palestina di tutti i non-ebrei. I sionisti hanno accumulato una montagna di menzogne riguardo allo Stato per soli ebrei, per ingannare il mondo e fargli credere che esso è solo un’altra democrazia occidentale, multi culturale, liberale, secolare,
33 Z. Sternhell, Op. cit., p. 34. 34 Abba Eban, Mon Peuple, Parigi, Buchet-Chastel, 1970, p. 269. 35 Vedi Walter Laqueur, Op. Cit., vol. II, p. 576. 36 Walter Laqueur, Op. Cit., vol. II, p. 576. piuttosto che uno stato razzista per soli ebrei. La maggior parte dei non-ebrei tende ad accettare, una per una, tutte le bugie a cui lo Stato per soli ebrei ricorre per difendersi e quindi manifesta dubbi sulla razionalità della causa palestinese. Liberare la strada da questa montagna di menzogne e svelare la verità richiede quasi un impegno a tempo pieno”. 37
Non corrisponde a verità che in Israele tutti i cittadini hanno gli stessi diritti. Quando noi parliamo di cittadini di Israele, pensiamo ai cittadini di un qualsiasi Stato democratico occidentale. In Israele i cittadini non sono tutti uguali e nello Stato per soli ebrei non esiste una cittadinanza israeliana che dia a tutti i cittadini gli stessi diritti. Questa è solo la prima di una serie di anomalie determinate dall’ideologia sionista.
Un paese senza nazionalità
I documenti di identità di chi vive in Israele non sono uguali per tutti; sono diversi a secondo se uno è ebreo, cristiano, musulmano, druso o beduino. Questo solo basterebbe a dimostrare quanto poco democratico è questo Stato che dice di ispirarsi ai valori dell’Occidente. La differenziazione dei cittadini per «nazionalità» o religione nasconde la discriminazione.
“Sembra una barzelletta – scrive Uri Avnery – ma è una cosa molto seria. Il governo di Israele non riconosce la nazione israeliana. Dice che non esiste una cosa del genere. Potete immaginare il governo francese che nega l’esistenza della Nazione Francese? Oppure il governo americano che non riconosce la Nazione Americana (statunitense)? Ma allora non capite che Israele è la terra dalle possibilità illimitate”.
Nello Stato per soli ebrei, ogni persona è registrata nel cosiddetto registro degli abitanti del Ministero degli Interni e accanto ad ogni nome si trova la categoria «nazione». Ci si aspetterebbe che questa nazione fosse quella israeliana, così come in Italia ogni cittadino appartiene alla nazione italiana e questo lo rende uguale nei diritti e doveri a tutti gli altri cittadini italiani. Ma attenzione, In Israele non è così: la «nazionalità» di un cittadino arabo di Israele, può essere registrata come «araba», «cristiana» o «cattolica» (ma non «palestinese» – lo Stato per soli ebrei non riconosce né la nazione palestinese, né i palestinesi tout court). La maggior parte degli abitanti dello Stato per soli ebrei sono naturalmente ebrei e sulle loro carte d’identità è scritto: «nazionalità ebraica» siano essi religiosi o atei. Su nessuna carta di identità è scritto «nazionalità israeliana». In Israele la nazionalità israeliana non esiste. Perché lo stato di Israele non riconosce la nazione o la nazionalità israeliana?
“Secondo la dottrina ufficiale, esiste una nazione «ebraica» e lo Stato appartiene ad essa. Dopo tutto, questo stato è lo Stato Ebraico o, secondo la dicitura di una delle sue leggi, «lo Stato del popolo ebraico». Secondo la stessa dottrina, questo stesso Stato è anche uno Stato democratico, quindi si presuppone che tutti i suoi cittadini siano uguali, indipendentemente dalla loro affinità nazionale. Ma, lo Stato è principalmente «ebraico». Secondo tale dottrina, gli ebrei sono sia una nazione sia una religione. Nei primi anni dell’esistenza di Israele, valeva ancora la legge che se un persona dichiarava, bone fide, di essere ebrea, veniva registrata con la nazionalità ebraica. Ma dopo che i religiosi hanno conquistato più potere, la legge è stata modificata e, da allora, a un cittadino viene accordata la nazionalità ebraica solo se sua madre era ebrea o se egli stesso è convertito al Giudaismo e non ha adottato altra religione. Si tratta, ovviamente, di una definizione puramente religiosa (secondo la legge giudaica, una persona è ebrea se lo è sua madre. In questo contesto il padre è irrilevante)”. 39 Se lo Stato è ebraico, e se non esiste la nazionalità israeliana allora vuol dire che lo Stato di Israele è solo lo stato degli ebrei e non può essere lo stato degli «arabi», dei «drusi», dei «cattolici», dei «beduini», degli «ortodossi» che abitano in questo paese «democratico». Essi sono infatti cittadini di seconda classe perché non sono ebrei ed essendo essi tutti raggruppabili sotto la categoria nazione palestinese (che Israele però non riconosce) in realtà non appartengono allo Stato ebraico e lo Stato ebraico non appartiene a loro. Possono anche essere deportati o come si dice in Israele «trasferiti». Più volte ministri dei governi di Israele hanno espresso l’idea che i palestinesi d’Israele debbano essere trasferiti. L’ultimo della lunga serie è stato il ministro dei trasporti Avigdor Liberman del Governo Sharon-Peres.
“Un ministro del governo israeliano ha chiesto l’espulsione di circa 1.300.000 cittadini palestinesi d’Israele, che costituiscono quasi un quinto della popolazione dello Stato. Il Ministro dei Trasporti Avigdor Lieberman ha dichiarato domenica durante un’intervista rilasciata alla radio dell’esercito (Gali Tzahal) che gli «arabi di Israele» dovrebbero essere espulsi nel caso in cui
37 John Lynch, Lo Stato per Soli Ebrei in Palestina: L’assoluta oscenità del razzismo esclusivistico ebraico, 6 Marzo 2005, pubblicazione aggiornata, 11 giugno 2005, vedi sito web: http://www.geocities.com/carbonomics/MCtfirm/10tf26mg.html . 38 Uri Avnery, Una nazione? Quale nazione? CounterPunch.org, 3 ottobre 2004. 39 Uri Avnery, Una nazione? Quale nazione? cit. 21
nascesse uno Stato palestinese e nel caso gli insediamenti ebraici nei territori occupati della Cisgiordania e della Striscia di Gaza dovessero essere smantellati. Lieberman, un ex-immigrato dalla Moldavia giunto in Israele nel 1978, ha sostenuto che l’esistenza di una grande minoranza non-ebraica in Israele minaccia l’«identità ebraica» e la «purezza etnica» di Israele. Tuttavia le sue frasi esplicitamente razziste non hanno prodotto alcuna reazione di collera nella classe politica israeliana. I politici israeliani, dal Primo Ministro israeliano, Ariel Sharon, in giù, si sono rifiutati di condannare le sue parole, mostrando invece una certa simpatia per le sue idee. Amira Dotan, uno dei portavoce del Ministero degli Esteri israeliano, ha dichiarato ad Aljazeera che la pulizia etnica non è la «politica del governo». «Ignoro cosa lo abbia spinto a dire le cose che ha detto. Ma è un uomo libero; ha il diritto di esprimere le sue opinioni». Il razzismo di Lieberman è ben noto da molto tempo. Alcuni anni fa, chiese il bombardamento della diga di Assuan in Egitto, del palazzo presidenziale a Damasco e degli impianti nucleari iraniani. Ha anche chiesto che i deputati arabi della Knesset, Tibi e Muhammad Baraka, siano fucilati da un plotone di esecuzione perché sostengono i diritti dei palestinesi e chiedono la fine dell’occupazione israeliana. Nel 2002, spinse il Primo Ministro israeliano Ariel Sharon a compiere «omicidi in massa» di civili palestinesi per costringerli a fuggire in Giordania e in altri paesi vicini”. 40 Non è una uscita sfortunata di un ministro isolato. Si tratta della logica conseguenza del sionismo. Né si possono difendere le parole di Avigdor Liberman sostenendo che egli prevede l’espulsione dei palestinesi solo “nel caso” che “nascesse uno Stato palestinese” o/e “nel caso gli insediamenti ebraici nei territori occupati della Cisgiordania e della Striscia di Gaza dovessero essere smantellati”. Egli sta dicendo infatti che i palestinesi d’Israele sono solo tollerati e si aspetta solo la prima occasione per cacciarli. Questa potrebbe essere la nascita di un bantustan palestinese o l’imposizione da parte della comunità internazionale dello smantellamento delle colonie ebraiche nei territori occupati. Potrebbe essere, con maggiore probabilità, una nuova ondata migratoria ebraica in Palestina da un paese occidentale a seguito, per esempio, di una grave crisi economica, una catastrofe ecologica, una guerra, ecc.. Se giungessero in Palestina un milione di nuovi coloni sorgerebbe il problema serio di dove sistemarli considerato che Israele è già un paese sovrappopolato. La soluzione che, in un caso del genere, i sionisti adotterebbero è facilmente immaginabile: il trasferimento dei cittadini non ebrei d’Israele. D’altra parte dei palestinesi sono già stati trasferiti nel 1948 e 5 milioni di essi vivono oggi sparsi in vari paesi. Inoltre la politica dei governi israeliani, dal 1948 ad oggi, è consistita nel creare condizioni sempre più insopportabili ai palestinesi per indurli ad andarsene da soli. Lo si sta facendo con i bombardamenti quotidiani di Gaza, con le retate continue, con il blocco economico in vigore da quando i palestinesi hanno osato eleggere democraticamente il governo di Hamas. Lo si sta facendo con la distruzione di case, di colture, di infrastrutture. Ricordiamo che a tutt’oggi (fine settembre ‘06) i palestinesi della Striscia di Gaza vivono senza elettricità dopo la distruzione in agosto della loro unica centrale elettrica. Sulla testa dei palestinesi, compresi quelli che vivono in Israele, incombe la minaccia dell’espulsione come una moderna spada di Damocle. Tutto questo è implicito nel fatto che Israele non riconosca la nazionalità israeliana. “Sembra una barzelletta ma è una cosa molto seria”. É razzismo istituzionalizzato.
Uno Stato senza confini
Abbiamo visto, nel primo capitolo, quali erano le intenzioni di Ben Gurion e dei sionisti riguardo ai confini dello Stato ebraico che essi si apprestavano a fondare e cioè impossessarsi con ogni mezzo di tutta la Palestina, senza lasciare spazio ai palestinesi. In realtà è proprio quello che hanno fatto dopo la fondazione del loro Stato. E lo hanno fatto contro le deliberazioni dell’ONU che aveva assegnato loro uno territorio molto più piccolo.
“Secondo quanto scrive Anthony D’Amato, docente di Legge della Cattedra Leighton presso la Northwestern University, nel suo breve saggio I Confini legali di Israele secondo la legge internazionale, Israele non possiede altri confini legittimi che quelli assegnati dalla Risoluzione ONU n° 181. «I confini legali di Israele e della Palestina – egli scrive – furono delimitati dalla Risoluzione n° 181». Dalla guerra del 1967, i confini dell’area attualmente controllata da Israele oltrepassano quelli delineati dalla Risoluzione n°181 dell’Onu (…). Malgrado numerose risoluzioni dell’ONU, le quali esigono che Israele rientri nei propri confini, in particolare la Risoluzione 242, lo stato ebraico sfida il resto del mondo continuando a tenere per sé terre occupate illegalmente. La realtà di questo dilemma è del tutto evidente negli insediamenti”.41
Uno Stato che occupa territorio oltre i confini che gli sono stati internazionalmente riconosciuti è uno stato espansionista e aggressivo; se poi su questo territorio ci insedia dei coloni è anche colonialista. La legalità internazionale ha più volte chiesto a Israele di rientrare nei propri confini ma in un modo o nell’altro, con la protezione della superpotenza americana, con l’uso pietistico dell’olocausto, lo Stato sionista è riuscito sempre a farla
40 Israeli Minister Wants Total Palestinian-Arab ‘Cleansing’, 10 maggio 2004, vedi sito web: http://www.aljazeera.com/cgibin/news_service/middle_east_full_story.asp?service_id=1862 . 41 William Cook, Democrazia israeliana, realtà o finzione? 25 gennaio 2003, CounterPunch. 22 franca. É interessante notare però come l’anomalia del fatto che Israele non abbia confini definiti sia strettamente collegata all’altra anomalia di cui abbiamo detto: cioè che Israele non riconosce la nazionalità israeliana. Lo Stato ebraico non è solo lo Stato per soli ebrei, è anche lo Stato di tutti gli ebrei del mondo. Ovunque essi si trovino. Se costoro decidessero di «ritornare» in Israele, cioè, secondo il sionismo, nel loro vero Stato, non basterebbero certo i confini della Palestina storica per poterli insediare tutti. Non è fantapolitica, Lo stato di Israele ha predisposto gli strumenti legali per un eventuale ulteriore espansionismo, se questo si rendesse necessario. Appena costituitosi, lo Stato per soli ebrei approvò due leggi: una legge del «ritorno» (per gli ebrei) e una legge del non ritorno (per i palestinesi). Secondo la legge del «ritorno»
“solo persone ufficialmente riconosciute come ebrei hanno il diritto automatico ad entrare in Israele e di stabilirvisi. Esse ricevono automaticamente un «certificato di immigrazione» che gli garantisce da subito la «cittadinanza in virtù del loro stesso ritorno nella patria ebraica».” 42
Il concetto di ritorno di questa legge è del tutto particolare. Esso non si riferisce infatti ad una ipotetica categoria di «ebrei che sarebbero stati cacciati dalla Palestina». Una simile categoria non esiste. Riguarda tutti gli ebrei che da generazioni e generazioni sono nati e vissuti all’estero. Riguarda i discendenti dei cazari, di origine turca o slava, convertitisi al giudaismo nel medioevo e mai stati in Palestina prima della colonizzazione sionista. Concerne anche gli ebrei yemeniti, discendenti di quelle popolazioni arabe che furono convertite da ebrei emigrati nel sud della penisola arabica in tempi lontanissimi, risalenti alla mitica regina di Saba, mai state in Palestina prima. Interessa i falascià, popolazione etiopica convertita al giudaismo da mercanti ebrei, anch’essa mai vissuta in Palestina prima. Non risulta infatti agli storici che una popolazione di colore sia mai esistita tra il mediterraneo e il Giordano. La legge del ritorno non è, invece, fatta per i palestinesi che furono cacciati dalle loro terre e dalle loro case nel 1948. Per impedire anzi che costoro possano tornare, lo Stato per soli ebrei ha approvato leggi specifiche che hanno permesso di incamerare le loro terre e le loro proprietà ad esclusivo beneficio degli ebrei. Secondo la definizione ufficiale dello Stato israeliano, scrive ancora Israel Shahak
“Israele «appartiene» a quelle persone che sono definite ebrei dalle autorità israeliane, indipendentemente dal luogo in cui vivono, ed appartiene ad esse soltanto. D’altra parte, Israele ufficialmente non appartiene ai suoi cittadini non ebrei, il cui status è considerato inferiore, perfino ufficialmente. Questo significa in pratica che alcuni membri di una tribù peruviana si convertono al giudaismo, e quindi vengono considerati ebrei dall’autorità dello stato, essi acquisiscono immediatamente il diritto di diventare cittadini israeliani e possono beneficiare di circa il 70% delle terre della Cisgiordania (e del 92% delle terre di Israele), tutte terre ufficialmente riservate ad esclusivo beneficio degli ebrei. A tutti i non ebrei (non solo ai palestinesi) è proibito dalla legge di beneficiare di quelle terre. (Il divieto è valido anche per i cittadini arabi-israeliani che hanno effettuato servizio militare nell’esercito ed hanno raggiunto gradi elevati [i drusi, per esempio, ndt] )”. 43 A questo punto, non possiamo esimerci dal fare una riflessione per inciso. Si provi ad immaginare per un istante cosa accadrebbe se lo Stato italiano, o un altro Stato occidentale si proclamasse Stato Cristiano è stabilisse che le terre entro i confini nazionali appartengono ai soli cristiani e che quindi gli ebrei o i protestanti o i testimoni de Geova o gli atei non hanno diritto ad esse, mentre acquistano automaticamente questo diritto tutti gli stranieri di religione cristiana o chiunque si converte al cristianesimo. Non griderebbero forse gli ebrei di tutto il mondo che questo è puro antisemitismo? Che cosa ha a che fare questo con i confini dello Stato israeliano? tutto! Se lo Stato d’Israele è lo Stato di tutti gli ebrei ed essendo gli ebrei fuori d’Israele ben più numerosi di quelli che risiedono nei suoi confini, allora è buona norma non fissare confini. Potrebbero effettivamente dimostrarsi troppo angusti per tutti gli ebrei. Bisognerebbe annettere territori dalla Siria, dal Libano, dalla Giordania, dall’Egitto, da Cipro. Questo condanna (si fa per dire) Israele ad essere e restare uno Stato espansionista e aggressivo. Una mina vagante in un Medio Oriente già esasperato dalla contesa per il petrolio. Non sorprende quindi che riguardo alla questione dei confini, David Ben Gurion, il Primo Ministro di Israele, dichiarasse alla rivista TIME (16 agosto 1948, tre mesi dopo la proclamazione dello Stato di Israele) che egli aveva in progetto uno Stato di 10 milioni di persone. Alla domanda se tante persone potessero essere contenute nei confini dello Stato ebraico stabiliti dalla spartizione dell’ONU, egli aveva risposto non tanto sibillinamente: “Ne dubito”.44 Come era chiaro da molto tempo, i sionisti, nel 1948, non avevano nessuna intenzione di accontentarsi del territorio
42 Israel Shahak, Jewish History, Jewish Religion, The weight of Three Thousand Years, Introduzioni di Gore Vidal e Edward Said, Pluto Press, London, 1994, 2002, p. 6. 43 Israel Shahak, Jewish History, Jewish Religion, The Weight of Three Thousand Years, cit., p. 3. 44 Citato in Henry Makow, Il sionismo come paradigma mentale, vedi sito web: http://www.savethemales.ca/270103.html . 23 loro concesso dall’ONU pur se, in verità, vi era nel movimento sionista qualche voce isolata che chiedeva che gli ebrei si limitassero a restare nei confini stabiliti dalla spartizione. Ma scrive Valabrega al riguardo:
“Le «voci che sostenevano la necessità di frenarsi» furono messe a tacere e prevalse addirittura la decisione di non definire i confini dello Stato: molti anni dopo Ben Gurion in una lettera a Le Monde del 2 luglio 1969 sottolineava il fatto che neanche l’America nella sua dichiarazione di indipendenza avesse fissato frontiere”.45
A 60 anni dalla sua fondazione Israele non ha ancora fissato le sue frontiere; continua ad occupare una parte di territorio libanese (le fattorie di Sheba), una di territorio siriano (le alture del Golan, che ha ripulito dei suoi circa 200.000 abitanti) e occupa di fatto tutto il territorio della Cisgiordania che continua a colonizzare in barba a tutte le Risoluzioni dell’ONU. Né si prevede che questa politica espansionista possa cessare presto. Solo una sconfitta militare potrebbe segnare una svolta. Il numero impressionante di risoluzioni ONU che chiedono il ritiro dai territori occupati e che sono rimaste lettera morta prova che l’Occidente ha accettato l’espansionismo israeliano a danno dei palestinesi e degli altri popoli arabi. Questa accettazione irresponsabile dell’espansione coloniale israeliana è dimostrata anche della «preoccupazione» che l’Occidente mostra per la cosiddetta «sicurezza» di Israele, l’unico paese nucleare del Medio Oriente. É ovvio che
“più Israele si espande, e più territorio gli è necessario per ottenere la sicurezza nelle terre appena incamerate, le quali, a loro volta, erano state incamerate sempre per ragioni di «sicurezza» – Si ha così uno Stato che si espande sempre e non torna mai indietro”. 46
A questo punto dovrebbe essere chiaro che solo ritirandosi da tutti i territori occupati e trattando con i vicini, Israele può raggiungere la sicurezza. Ma è proprio quello che lo Stato espansionista dei sionisti non vuole fare.
Uno Stato senza una costituzione
Una costituzione richiede dei confini. La costituzione italiana è valida entro i confini dell’Italia. Al di là di essi vigono le costituzioni degli Stati limitrofi. Se Israele si desse una costituzione e dei confini oggi, essi ingloberebbero circa 3 milioni e mezzo di Palestinesi e questo, visto il tasso di crescita demografica dei palestinesi, farebbe molto presto della popolazione ebraica di Palestina una minoranza. Israele dovrebbe concedere il diritto di voto ai tre milioni e mezzo di palestinesi, come ha dovuto fare con quel milione di palestinesi di Galilea che non riuscì ad espellere nel 1948. Se non lo facesse non potrebbe pretendere di essere uno «Stato democratico». Ma questo significherebbe la fine dello Stato ebraico e la nascita di un vero Stato democratico multietnico e multiculturale. La fine del progetto sionistico. Il fatto che Israele non abbia proclamato una costituzione democratica dipende da tre fattori: 1) i confini, 2) la presenza dei palestinesi, 3) la religione. Per stabilire più o meno definitivamente i suoi confini e darsi una costituzione per soli ebrei, Israele è costretto ad aspettare la conclusione del suo progetto di espulsione dei palestinesi, incamerare le loro terre e «redimerle» assegnandole ai coloni. Solo allora, senza palestinesi sulle terre «redente», Israele potrebbe proclamare una costituzione per soli ebrei. Finché una popolazione numerosa di palestinesi o arabi sarà all’interno dei confini che Israele vorrebbe darsi, l’eventuale carta costituzionale dello Stato ebraico non potrebbe essere democratica, infatti una costituzione democratica che mettesse sullo stesso piano ebrei e palestinesi sarebbe incompatibile con lo Stato ebraico e con l’ideologia sionista della redenzione della terra. 47 Vi è poi una terza ragione per cui Israele non può permettersi una carta costituzionale: la religione. Da quando la maggior parte dei religiosi ebrei, ortodossi o ultraortodossi, sono diventati sionisti ed hanno abbandonato il loro paese 45 Guido Valabrega, “Israele e la questione Mediorientale”, p. 318 in Nuove questioni di storia contemporanea, vol. V, Marzorati, Milano, 1990. 46 Sam Hamod, The Myth of Tiny, Little Israel: Zionist Tentacles Everywhere, vedi sito web: http://www.smileycentral.com/?partner=ZSzeb005 . 47 “Secondo questa ideologia, la terra che è stata «redenta» è la terra che è passata da un proprietario non ebreo a un proprietario ebreo. La proprietà ebraica della terra può essere sia privata, o appartenere al Fondo Nazionale Ebraico o allo stato Ebraico. La terra che al contrario appartiene a non ebrei è considerata «irredenta». Quindi, se un ebreo che abbia commesso i crimini più neri che si possano immaginare compra un pezzo di terra da un virtuoso non ebreo, la terra «irredenta» diviene «redenta» con questo semplice passaggio di proprietà. Tuttavia se un virtuoso non ebreo compra un pezzo di terra dal peggiore degli ebrei, la terra prima pura e «redenta» diventa immediatamente «irredenta». La logica conclusione di una simile ideologia è l’espulsione, chiamata «transfer», di tutti i non ebrei da tutta la terra che deve essere «redenta». Quindi l’Utopia dell’ideologia ebraica adottata dallo Stato di Israele è quella di una terra totalmente «redenta», per cui nessuna parte di essa deve essere posseduta o addirittura lavorata da non ebrei” (Israel Shahak, Jewish History, Jewish Religion, cit. p. 7) 24
d’origine per emigrare in Israele, essi hanno costituito potenti partiti religiosi che determinano la vita politica dello Stato israeliano. Uno Stato che in origine era totalmente laico, vista l’opposizione religiosa alla sua fondazione, e che era stato proclamato da movimenti sionisti laici o «socialisti». Oggi, i partiti religiosi si oppongono strenuamente alla proclamazione di una costituzione laica in quanto ritengono che Israele debba avere una sola legge: la legge di Dio, l’Halakah. Questo significa voler fare di Israele uno Stato teocratico. I partiti religiosi, sempre più agguerriti ed esigenti, si battono per eliminare un po’ alla volta quella parte di legislazione laica che ancora rimane in Israele. Chuck Chriss, presidente della Jewish Internet Association ha scritto:
“Israele non ha una costituzione scritta, diversamente dagli Stati Uniti e dalla maggior parte delle altre democrazie. Se ne doveva scrivere una; il documento di Proclamazione dell’Indipendenza dello Stato di Israele richiedeva esplicitamente l’elaborazione di una Costituzione, ma essa non è mai stata scritta”. 48
Quindi , fin dal 1948 Israele non riesce ad elaborare una costituzione nemmeno per i soli ebrei. La causa di questa anomalia risiede nel conflitto insanabile tra laicismo e fondamentalismo religioso (un fondamentalismo di cui nessuno osa parlare in Occidente). Scrive lo studioso Daniel J, Elazar:
“Israele non è stato in grado di elaborare una vera e propria costituzione, non perché non ritiene necessario per una nuova società di dotarsi di una costituzione come propria legge fondamentale, ma perché è dilaniato dal conflitto riguardante il contenuto di una legge fondamentale per la società israeliana. Molti ebrei credenti sostengono fermamente che l’unica vera costituzione per lo Stato ebraico debba essere la Torah e la legge ebraica che ne deriva. Costoro, non solo non vedono la necessità di una moderna costituzione laica, ma considerano, addirittura, un simile documento una minaccia alla supremazia della Torah”. 49
Con una simile contraddizione interna, tutta ebraica, dove andrà a finire Israele? Per ora possiamo dire che ciò causa la fuga dal paese di un certo numero (tenuto segreto dallo Stato) di cittadini che preferiscono tornare a vivere sotto le costituzioni laiche e liberali degli Stati occidentali. É inutile sottolineare infine che uno stato confessionale non lascerebbe che poco spazio alle confessioni musulmana e cristiana dei palestinesi. Tutto ciò nella cosiddetta Terra Santa, sacra alle tre religioni monoteiste.
Uno Stato che non può essere laico Lo Stato di Israele quindi non solo non può proclamarsi laico ma rischia addirittura di vedere fondere diritto e religione in una identità salda e intoccabile. I precetti religiosi diverrebbero così, non i motivi ispiratori di una visione della vita che indirettamente potrebbe generare anche un sistema giuridico, ma direttamente il sistema giuridico stesso, cioè le leggi dello Stato. Scomparirebbe così l’ultima parvenza di democrazia. Già oggi la situazione è assai critica per quanto riguarda la libertà religiosa. Non solo riguardo alle fedi musulmana e cristiana (cattolica, ortodossa, armena, ecc) ma anche riguardo alla stessa fede mosaica, o meglio, riguardo alle sue varie forme
“In Israele, i rabbini ortodossi godono del monopolio sulla vita religiosa degli ebrei. Due altre fazioni religiose ebraiche, molto importanti negli Stati Uniti, i Conservatori e i Riformisti, sono discriminate in Israele e le conversioni al Giudaismo procurate dai loro adepti non sono riconosciute dal governo”. 50
La contraddizione sta nel concetto stesso di popolo ebraico e quindi di Stato ebraico. Gli ebrei sono una religione o una nazionalità? Finché i sionisti pretenderanno che sono entrambe le cose non ci potrà essere una soluzione e non ci potrà essere uno stato laico. Il problema è che i sionisti non accetteranno mai di mettere in discussione i concetti fittizi di popolo ebraico o di nazione ebraica e non riusciranno mai a liberarsi della confusione tra popolo e religione. La soluzione può essere solo una, rinunciare alle caratteristiche ebraiche dello Stato israeliano e costituire insieme ai palestinesi, ai drusi, ai beduini, uno Stato multietnico in cui ebrei ortodossi, riformisti e conservatori, palestinesi sunniti, sciiti e cristiani vivono tutti in uno stato multiconfessionale dove tutte le confessioni hanno uguale diritto di cittadinanza. Fino ad oggi la realtà di Israele è fatta di un coacervo di assurdità. Lo Stato ebraico, che vuole essere lo Stato di tutti gli ebrei e di soli ebrei, è un totale fallimento. Per essere ebraico ha dovuto effettuare una politica di feroce pulizia etnica dei palestinesi ma fortunatamente non è riuscito a portarla fino in fondo, per cui, dal suo punto di vista, ha fallito. Per essere lo Stato di tutti gli ebrei ha cercato di portare in Palestina tutti gli ebrei del mondo per costituire uno Stato di 20 milioni di persone della stessa fede religiosa o «razza». Ma anche da questo punto di vista ha fallito, dal 48 William Cook, Democrazia israeliana, realtà o finzione? Cit. 49 William Cook, Democrazia israeliana, realtà o finzione? Cit. 50 Uri Avnery, Una nazione? Quale nazione? CounterPunch.org, 3 ottobre 2004. 25
momento che dei 20 milioni di ebrei nel mondo, in Israele, oggi ve ne sono solo una minoranza. Molti ebrei della Diaspora non pensano minimamente di emigrarci a causa sia dello stato di guerra continua che il sionismo ha creato, sia delle limitazioni delle libertà personali per gli stessi ebrei. Il sionismo non è riuscito nemmeno a portare in Israele tutti i religiosi, visto che lo Stato ebraico è praticamente in mano ad una sola parte degli ebrei religiosi, gli ebrei ortodossi e ultraortodossi mentre se ne sentono esclusi le crescenti comunità dei Riformisti e dei Conservatori. Un fallimento totale di cui i sionisti non vogliono e non riescono a rendersi conto.
Uno stato senza democrazia
I sionisti, tuttavia, sono riusciti a imporre nel mondo l’idea che Israele è uno «Stato democratico». Non sono estranee a questo risultato né il lavoro delle lobby ebraiche in Europa e in America, né la condiscendenza dei governi occidentali. Ed ecco che Israele è stato proclamato l’«Unica Democrazia in Medio Oriente»! Ma è una proclamazione che non regge alla prova dei fatti, se questi sono analizzati in modo obiettivo e particolareggiato. Non basta avere un parlamento e delle elezioni perché si possa parlare di democrazia. Anche altri paesi mediorientali hanno un parlamento e delle elezioni ma nessuno in Occidente pensa che si tratti di democrazie.
“Una vera democrazia – scrive William Cook – deve rispettare due criteri: un criterio di tipo filosofico, con cui si presenta la logica della sua ragion d’essere in una dichiarazione e/o costituzione; l’altro criterio di tipo pratico, con cui si dimostra come la Democrazia applichi la legislazione, distribuisca risorse, e metta in pratica in modo equo per tutti i cittadini le decisioni e procedure politiche. La democrazia è principalmente e prima di tutto un concetto, una intesa filosofica riguardante i diritti degli esseri umani in relazione al governo che agisce in loro nome. Un governo democratico agisce tramite il consenso manifesto dei governati. Un tale governo riceve la sua autorità dai cittadini, presso i quali risiede questo diritto. Una simile intesa filosofica implica l’accettazione da parte del governo dei diritti di tutti i cittadini che risiedono nello stato: ogni singolo cittadino possiede il diritto di legittimare coloro che lo governano, ed ogni singolo cittadino deve essere trattato in modo uguale davanti alla legge”. 51
Su una tale definizione di democrazia tutti sentiamo di dichiararci d’accordo. Sono criteri di principio difficilmente contestabili. Ma Israele risponde a questi criteri?
In primo luogo, Israele certamente non risponde a questi criteri nei territori occupati. Ciò è del tutto evidente negli insediamenti. In essi, gli ebrei che risiedono nelle aree palestinesi continuano a votare mentre i palestinesi che letteralmente li circondano non possono votare. Dove comincia e dove finisce lo Stato di Israele? Un’occhiata alla cartina geografica rende evidente che Israele ha la conformazione a macchie di dalmata. Naturalmente coloro che vivono sotto la dominazione israeliana non sono considerati cittadini dello Stato di Israele anche se risiedono all’interno del territorio controllato da Israele. Dal momento che non sono cittadini israeliani e che non esiste uno Stato palestinese, queste persone non hanno un paese e quindi non hanno diritti; eppure i palestinesi non sono una non-entità. La popolazione palestinese è riconosciuta dall’ONU come indipendente e gli è stato riconosciuto il diritto di esprimersi in libere elezioni democratiche ma non nello Stato di Israele. In quale Stato allora? Dato che lo Stato palestinese non esiste, le libere e democratiche elezioni dei palestinesi non hanno alcun senso se non quello di garantire a Israele che i palestinesi non facciano parte dello Stato ebraico. Recentemente in seguito alle libere e democratiche elezioni i palestinesi hanno espresso un governo, diretto da Hamas, ma Israele e l’Occidente si sono affrettati a non riconoscerlo. Hanno imposto durissime sanzioni al popolo palestinese per punirlo della sua scelta. Si vuole che Hamas riconosca Israele ma intanto è tutto l’Occidente che non riconosce il governo e il parlamento palestinese espresso da libere e democratiche elezioni.
In secondo luogo, vi sono delle discrepanze nella vita pratica in Israele stesso (non più quindi nei territori occupati) tra i principi proclamati e la loro applicazione. Mentre “lo Stato di Israele è descritto, nel documento di Proclamazione di Indipendenza, allo stesso tempo come Stato ebraico e come una democrazia che offre uguali diritti per i suoi cittadini”, la Legge Fondamentale (Foundation Law) del 1980 stabilisce chiaramente che i tribunali israeliani “delibereranno alla luce dei principi di libertà, giustizia, equità e pace, dell’eredità di Israele”.52 Senza costituzione scritta, cioè, Israele fa affidamento su una serie di leggi racchiuse nell’eredità di Israele. Qui risiede il problema. Cos’è infatti quest’eredità di Israele? Essa è costituita da una serie di decreti, prescrizioni, divieti, leggi, “alcune (delle quali) sfacciatamente razziste dal momento che assegnano dei privilegi sulla base della religione”, secondo Tarif Abboushi.53 Un’idea molto chiara dell’eredità di Israele ce la fornisce Israel Shahak nel suo libro
51 William Cook, Democrazia israeliana, realtà o finzione? Cit. 52 William Cook, Democrazia israeliana, realtà o finzione? Cit. 53 Tarif Abboushi, CounterPunch, 28/30 giugno, 2002. Vedi anche Shahak (cit.). 26
Jewish History, Jewish Religion, The Weight of Three Thousand Years. Questo autore parte dalle disposizioni contenute nell’Halakah, il sistema legale del giudaismo classico, e nelle leggi talmudiche. Secondo queste disposizioni
“l’omicidio di un ebreo è un crimine capitale (…). I tribunali religiosi e le autorità secolari sono tenuti a punire, anche oltre i limiti dell’ordinaria amministrazione della giustizia, chiunque è colpevole della morte di un ebreo. Un ebreo che causa indirettamente la morte di un altro ebreo è, invece, colpevole solo di ciò che la legge talmudica chiama una colpa contro le «leggi del cielo», una colpa punibile da Dio piuttosto che dagli uomini. Quando però la vittima è un Gentile, la situazione è completamente differente. Un ebreo che uccide un Gentile è colpevole solo di un crimine contro le «leggi del cielo», e quindi non è punibile da un tribunale. Causare indirettamente la morte di un Gentile non è considerato un crimine affatto (…). Un Gentile che uccide qualcuno, se si trova sotto giurisdizione ebraica, deve subire la pena capitale sia nel caso che la vittima è un ebreo sia nel caso che è un non ebreo. Tuttavia, se la vittima è un Gentile e il colpevole si converte al giudaismo, egli non viene punito affatto”.54
Queste però sono leggi religiose, non dovrebbero riguardare lo Stato «laico» di Israele. Ma non è così naturalmente, data la commistione tra leggi civili e leggi religiose. Afferma sempre Shahak:
“Tutto quanto abbiamo detto fin’ora ha una rilevanza diretta e pratica nella realtà dello Stato d’Israele. Sebbene le leggi criminali dello Stato non fanno distinzione tra un ebreo e un Gentile, una distinzione la fanno invece i rabbini ortodossi, i quali seguono l’Halakah per guidare il loro gregge. In quest’ambito acquistano una particolare importanza i consigli che essi danno ai soldati religiosi. Dal momento che il minimo divieto di uccidere un Gentile direttamente si applica solo ai «Gentili con i quali noi (gli ebrei) non siamo in guerra», diversi commentatori rabbinici del passato trassero la logica conclusione che in tempo di guerra tutti i Gentili che appartengono a una popolazione ostile possono, o addirittura devono essere uccisi. Dal 1973 questa dottrina viene pubblicamente propagandata come guida dei soldati israeliani religiosi. La prima esortazione di questo tipo fu inclusa in un libricino pubblicato dal Comando della Regione Centrale dell’esercito israeliano, la cui zona di operazioni include la Cisgiordania. In questo libricino il capo dei cappellani militari scrive: «Quando le nostre forze si imbattono in civili durante la guerra o durante un inseguimento o un assalto, se non c’è certezza che quei civili non sono in grado di danneggiare le nostre forze, allora, secondo l’Halakah essi possono e addirittura devono essere uccisi…. In nessuna circostanza si deve dar fiducia ad un arabo, anche se dà l’impressione di essere una persona per bene…. In guerra, quando le nostre forze attaccano il nemico, esse sono autorizzate e addirittura invitate secondo l’Halakah a uccidere anche i civili per bene, cioè, civili che sono ostensibilmente persone buone»”. 55
Non è concepibile che il comportamento dei soldati di un esercito di un paese che si dice «democratico» sia determinato dai religiosi e secondo le regole razziste di cui sopra. Facciamo notare che le indicazioni dei rabbini ai soldati religiosi sono pubblicate da un documento dell’esercito e quindi vanno a finire in mano a tutti i soldati, religiosi o non. Una giustificazione morale dell’assassinio di civili inermi e innocenti è un fatto gravissimo e può influenzare non solo i soldati religiosi ma tutto l’esercito. Non sorprende quindi se la cronaca degli interventi dell’esercito israeliano contro i palestinesi ci presenta ogni giorno fatti di sangue abominevoli, come l’assassinio di scolari palestinesi che si recano a scuola, la distruzione di palazzi con i loro abitanti all’interno, ecc.. Ma questo non è tutto. Evidentemente le stesse raccomandazioni «religiose» sono rivolte anche ai poliziotti che devono mantenere l’ordine. Non sorprende quindi che assai spesso dei palestinesi, cittadini di Israele, finiscano per perdere la vita se manifestano contro il governo, contro il Muro dell’apartheid, contro il razzismo israeliano. Nel 2000, subito dopo la strage di Al Aqsa dove furono uccise decine di palestinesi durante la provocatoria visita di Sharon sulla spianata delle moschee, una manifestazione pacifica di cittadini arabi israeliani, in Israele, fu repressa dalla polizia che sparò sulla folla inerme e causò 12 morti. In Europa occidentale sarebbe stata considerata una strage. Nessuno si scandalizzò in Israele dal momento che gli assassinati non erano ebrei e gli assassini invece lo erano. Non si può parlare di «Stato democratico» se la vita di tutti i suoi cittadini non riceve da parte dello Stato il medesimo scrupoloso rispetto. Chi conosce la realtà israeliana sa benissimo che nello Stato ebraico la vita di un cittadino palestinese non ha lo stesso valore e non riceve la stessa considerazione della vita di un cittadino ebreo.
In terzo luogo, lo stesso processo elettorale israeliano è viziato da limitazioni e forzature che in definitiva rendono discutibile la composizione del parlamento (Knesset). A questo riguardo Chuck Chriss, dopo uno studio attento della struttura del processo governativo Israeliano basato sulla Knesset, afferma perentoriamente:
“I membri della Knesset vengono eletti da liste proposte dai partiti su base nazionale. Subito dopo le elezioni, i partiti assegnano i seggi alla Knesset sulla base della percentuale di voti ottenuta da ognuno di essi, scegliendo i nomi dalla liste precedentemente 54 Israel Shahak, Jewish History, Jewish Religion, The weight of Three Thousand Years, Cit., pp. 75-6. 55 Israel Shahak, Jewish History, Jewish Religion, The weight of Three Thousand Years, Cit., p. 76. 27
elaborate. In questo modo ogni singolo membro della Knesset deve la sua fedeltà ai dirigenti del partito e non direttamente agli elettori (…). Questo sistema politico ha prodotto alcune distorsioni, a causa delle quali la legge e il governo israeliani non riflettono il volere reale degli elettori”. 56
La popolazione palestinese d’Israele (cittadini dello Stato israeliano) ammonta a circa il 20% della popolazione totale. In proporzione avrebbe diritto a 24 deputati sui 120 della Knesset. Ora se si guarda alla composizione della Knesset nelle varie legislature si nota che i rappresentanti palestinesi raramente superano i dieci deputati, generalmente eletti nel partito laburista o altre formazioni minori di sinistra. I partiti che raccolgono il voto palestinese lo usano per portare in parlamento deputati ebrei, mettendo in fondo alle liste i canditati palestinesi.
“Gli arabi costituiscono il 20% della popolazione in Israele, ma la loro voce nel governo è ridotta. Recentemente, un «esperto» del Servizio di Sicurezza Generale ha fatto pesare la propria «opinione di esperto» al Comitato Elettorale Centrale ottenendo che quest’organismo impedisse a Azmi Bishara e ad altri membri arabi della Knesset di partecipare alle elezioni. Questo fatto avrebbe privato gli arabi di una loro voce nella Knesset se la decisione del Comitato non fosse stata annullata dalla Corte israeliana. La realtà dei partiti politici israeliani di fatto non offre ai palestinesi nessuna possibilità di influenzare il governo. Anche se Bishara potrà partecipare alle elezioni, la voce dei palestinesi è messa a tacere. «Un’occhiata allo schieramento politico» ha recentemente sottolineato Uri Avnery, «mostra che senza i voti arabi, nessuna coalizione di sinistra ha la benché minima possibilità di formare un governo – né oggi, né in un prevedibile futuro. Ciò significa che senza i voti arabi, la sinistra non può neanche porre delle condizioni alla sua partecipazione a una coalizione dominata dalla destra»”.
Da quanto afferma Avnery si dedurrebbe che gli arabi in Israele contano e molto. Ma non è così. Semmai la sua affermazione spiega perché tanto spesso in Israele nascono dei governi di unità nazionale (come quello attuale di Kadima, del partito laburista e della estrema destra di Avigdor Lieberman). Ad esserne esclusi sono immancabilmente i palestinesi che non hanno voce in capitolo. Un governo di un solo partito giunto al potere con il voto determinante dei palestinesi sarebbe in parte costretto a tener conto delle esigenze dei palestinesi. A noi occidentali può sembrare innaturale che destra e sinistra vadano al governo insieme, ma questo è del tutto ovvio in Israele. I sostenitori di Israele continuamente sbraitano che lo Stato di Israele è uno Stato democratico perché prevede le elezioni e un sistema parlamentare. Ma da una analisi più approfondita risulta evidente che il sistema elettorale è congegnato in modo tale da rendere sempre ininfluente il voto della minoranza palestinese o addirittura di renderlo funzionale al sionismo che lo utilizza per portare più deputati ebraici in parlamento. Si limita la presenza degli eletti palestinesi a quanto basta per poter proclamare al mondo che Israele è una «democrazia». Ai palestinesi, d’altra parte, è fatto divieto di costituire un partito che propugni la trasformazione dello Stato ebraico in uno Stato per tutti i suoi cittadini. Per legge lo Stato deve essere ebraico e solo ebraico. Questo divieto è fatto anche a quegli ebrei antisionisti che si battono per uno Stato democratico multirazziale.
“I palestinesi d’Israele hanno solo diritti politici limitati, rispetto agli ebrei. Hanno certo il diritto di votare nelle elezioni sioniste, hanno il diritto di fondare partiti politici, tenere riunioni politiche, concorrere all’elezione di loro rappresentanti nella Knesset, e addirittura diventare membri del parlamento ebraico. Ma non sono autorizzati a fondare partiti politici che prevedono nel loro programma uno Stato multi-culturale in cui palestinesi ed ebrei si dividono il potere”.57
Ancora più chiaramente si esprime l’ebreo antisionista Noel Ignatiev il quale si chiede argutamente cosa succederebbe se in Occidente noi utilizzassimo lo stesso criterio sionista:
“In questo «avamposto della democrazia», nessun partito che si opponga all’esistenza dello Stato ebraico è autorizzato a concorrere alle elezioni. Sarebbe come se gli Stati Uniti si dichiarassero Stato cristiano, affermassero che si è cristiani non solo per credenza religiosa ma anche per discendenza, e poi approvassero una «legge bavaglio» che proibisse ogni pubblica discussione sull’argomento”. 58 Come se ciò non bastasse i sionisti sono stati così accorti da impedire perfino che si possa presentare alle elezioni parlamentari, anche tra i ranghi di un partito tradizionale, un candidato singolo con un programma personale antisionista.
“La Corte Suprema israeliana ha perfino stabilito che non può partecipare alle elezioni parlamentari una persona che si opponga all’idea che Israele debba essere uno Stato ebraico o che si opponga al principio che in Israele debba esserci una maggioranza 56 Citato in William Cook, Democrazia israeliana, realtà o finzione? Cit. 57 John Lynch, Lo Stato per Soli Ebrei in Palestina: L’assoluta oscenità del razzismo esclusivistico ebraico, cit. 58 Noel Ignatiev, Toward a Single State Solution: Zionism, Antisemitism and the People of Palestine, Counterpunch, 17 giugno 2004, vedi sito web: http://www.counterpunch.org/ignatiev06172004.html . 28
ebraica”. (1989, decisione della Corte Suprema israeliana, riportata nella Israel Law Review, 1991, vol. 25, p. 19, pubblicata dalla Facoltà di Legge presso l’Università Ebraica di Gerusalemme). 59 Per John Lynch, la cosiddetta «democrazia israeliana» non ha niente a che vedere con una vera democrazia borghese occidentale. E in realtà è proprio così, visto che il sistema politico israeliano è la conseguenza diretta di un nazionalismo del tutto particolare, quel nazionalismo razzista o tribale di cui abbiamo detto. Lo scopo di questa finta democrazia è per Lynch quello di ingannare il mondo.
“Sebbene i palestinesi d’Israele possono costituire i loro partiti politici ed essere eletti alla Knesset, c’è da chiedersi perché lo fanno se poi gli viene impedito di legiferare su i temi della proprietà, l’immigrazione, il razzismo, le strade, le colonie, la programmazione, la politica estera, la natura dello Stato per soli ebrei, ecc., ecc. Il solo e unico scopo di questa finta democrazia è di impedire al mondo di comprendere la natura razzista dello Stato per soli ebrei in Palestina. Si può solo restare sbalorditi davanti all’impudenza vera e propria, e alla incredibile faccia tosta degli ebrei che difendono risolutamente lo Stato per soli ebrei mentre contemporaneamente si fanno sostenitori di una rivoluzione permanente che porti vari paesi a diventare democratici. L’intento dei sionisti è di concentrare l’attenzione su qualsiasi male della terra pur di impedire al mondo di vedere il veleno che lo Stato per soli ebrei in Palestina va spargendo ovunque può. Uno dei dirigenti dello Stato per soli ebrei, Nathan Sharansky, il quale ritiene che anche Sharon è troppo tenero con i palestinesi, è diventato il faro che ha formulato la dottrina della politica estera dell’amministrazione Bush volta a democratizzare il mondo. Sharansky pretende che tutti i paesi diventino democratici, salvo naturalmente lo Stato per soli ebrei in Palestina. «In breve, Sharansky pone l’obiettivo dell’esclusivismo ebraico ben al di sopra dell’ideale della democrazia universale. L’etnocentrismo ebraico ha la meglio sul concetto di uguaglianza di tutti i cittadini»”. 60 In quarto luogo, nello Stato ebraico, per le solite questioni di «sicurezza», non è concesso ai cittadini non ebrei di partecipare a tutti gli incarichi statali. Questo è particolarmente evidente per quanto riguarda compiti di polizia e del ministero della Difesa. Se i drusi e i beduini possono richiedere di entrare nell’esercito (i drusi sono un’infima minoranza, i beduini sono circa 90.000), questo non è concesso ai palestinesi. I palestinesi evidentemente non avrebbero il grilletto facile nei confronti dei loro compatrioti e inoltre palestinesi armati potrebbero rappresentare un pericolo per lo Stato ebraico. Ma c’è dell’altro. Siccome Israele è una società estremamente militarizzata, essa premia e offre vantaggi ai suoi cittadini che si distinguono nelle operazioni militari o di polizia. Da questi premi e vantaggi sono naturalmente esclusi i palestinesi che non possono far parte dell’esercito. Daniel Elazar, riflettendo su questo rompicapo dell’era postmoderna, nota come una discriminazione ne causa un’altra e come tutto ciò
“rende impossibile allo Stato distinguere tra i diritti acquisiti dei cittadini ebrei e altri diritti ottenuti sulla base di doveri e adempimenti compiuti: per esempio, la concessione di più benefici a un cittadino che abbia svolto il servizio militare rispetto a uno che non lo abbia svolto”. 61
I cittadini israeliani di religione musulmana o cristiana non hanno quindi gli stessi diritti accordati agli ebrei che svolgono il servizio militare, né ricevono gli stessi benefici di coloro che svolgono il servizio militare. Questo è un vero e proprio pasticcio legale (cioè illegale) in quanto questo problema non coinvolge solo i palestinesi ma anche gli ebrei stessi. Ci riferiamo al fatto che in Israele gli ebrei ultra-ortodossi hanno ottenuto «il diritto» di non svolgere il servizio militare. Molti dei coloni sono ultra-ortodossi; essi e tutti i loro partiti sono ultrasionisti, cioè intransigenti espansionisti, ma non svolgono il servizio militare. Tocca dunque ai cittadini non ortodossi o laici sobbarcarsi il compito di difenderli, dal momento che essi non possono rifiutare il servizio militare. L’ironia della sorte ha voluto che numerosi soldati laici siano morti effettuando un turno di guardia a difesa proprio di colonie di ultra-ortodossi nei territori occupati. Qualora si rifiutino di svolgere il loro servizio nei territori occupati vengono arrestati e messi in prigione. Non vogliamo dire con questo che i coloni ultra-ordossi sono religiosi pacifici e disarmati, tutti sanno che sono invece armati fino ai denti. Comunque, gli ebrei ultra-ortodossi non ricevono i vantaggi legati all’effettuazione del servizio militare, ma in compenso, ricevono mille altri benefici riservati solo ad essi e non ai laici e naturalmente nemmeno ai palestinesi.
59 John Spritzler, Should People Opposed to Bigotry and Antisemitism Support Israel? 6 febbraio, 2005, vedi sito web: http://newdemocracyworld.org/War/Should-People.htm . 60 John Lynch, Lo Stato per Soli Ebrei in Palestina: L’assoluta oscenità del razzismo esclusivistico ebraico, cit. La citazione interna è da Stephen J. Sniegosky, Sharansky, Weissglas, and the Inaugural Address: The Israeli Connection Continues, 2 febbraio, 2005. 61 Citato in William Cook, Democrazia israeliana, realtà o finzione? Cit. 29
In quinto luogo, i non-ebrei sono soggetti ad un regime di tassazione più duro da quello dei cittadini israeliani e i quartieri nei quali vivono ricevono meno dei quartieri ebraici. Recentemente, il 12 giugno del 2002, il giornalista Paul Martin, in un articolo per il Washington Times, ha scritto:
“Gli arabi israeliani sono impegnati in una lotta per abolire una nuova legge che riduce i benefici familiari, sostenendo che è stata deliberatamente redatta in un modo tale da colpire gli arabi in modo più duro rispetto agli ebrei”. 62 Recentemente durante la guerra di luglio-agosto 2006 con il Libano, molte case di cittadini palestinesi d’Israele sono state distrutte o danneggiate dai razzi katiusha di Hezbollah. Sui 43 civili israeliani morti, 18 erano palestinesi. Un così alto numero di vittime palestinesi è stato causato dalla scarsità di rifugi antiaerei costruiti per gli arabi; questo è, ovviamente, indice di razzismo ma dopo il danno è venuta anche la crudele beffa.
“Un legale (palestinese, ndt) si è recato presso la Corte Suprema d’Israele su incarico di commercianti e imprenditori arabi del villaggio di Fassuta, affermando che gli arabi israeliani non stanno ricevendo gli stessi compensi degli ebrei per le perdite sostenute durante la recente guerra di frontiera. Il ministero delle finanze ha iniziato a pagare compensi a migliaia di commercianti e imprenditori che vivono e operano vicino al confine col Libano e i cui negozi o imprese sono stati danneggiati durante la guerra di 34 giorni contro Hezbollah. Il suddetto ministero ha definito una «zona di frontiera» della larghezza di 6 miglia dal confine, all’interno della quale commercianti ed imprenditori vengono risarciti al 100% per le perdite. Ma quattro villaggi israeliani abitati da arabi – tra cui Fassuta, che si trova a sole due miglia dal confine – sono stati esclusi da questi benefici. «Questo è razzismo», ha affermato Samuel Dakwar, un avvocato che difende alcuni commercianti e imprenditori delle zone arabe colpite, «ho cercato di trovare altre ragioni, che non fosse la discriminazione razziale anti-araba, che potevano aver spinto un essere razionale come il ministro delle finanze a prendere una simile squallida e irragionevole decisione. Non sono riuscito a trovarne». 63 Pur se pagano più tasse, i palestinesi d’Israele ricevono meno dallo stato degli ebrei e non solo, come in questo caso, per quanto riguarda i compensi per danni ricevuti, ma anche (ed è più grave) nella normale amministrazione. Infatti, lo Stato per soli ebrei, che ha nazionalizzato, cioè «redento» il 92% della terra a esclusivo vantaggio degli ebrei, spende molto di più per i villaggi e città su questa terra «redenta» che per i villaggi e le terre «non redente» dei palestinesi.
“Né vi è uguale trattamento di tutti cittadini nello Stato ebraico. Il governo «collettivista» di Israele spende molto più denaro per i suoi cittadini ebrei di quanto ne spenda per i cittadini palestinesi dello Stato per soli ebrei. Per esempio, il Ministero dei Lavori Pubblici spende circa 30 dollari per le città ebraiche, rispetto a ogni singolo dollaro che spende per quelle abitate da cittadini palestinesi.” 64
Come vogliamo chiamare questa distorsione? Vogliamo continuare a definire «democratico» uno Stato che si comporta in modo così sfacciatamente favorevole solo ad una parte dei suoi cittadini?
In sesto luogo, una enorme disparità di trattamento tra cittadini ebrei e cittadini palestinesi d’Israele è determinata dalle leggi edilizie che sono apertamente a vantaggio degli ebrei e permettono ai loro villaggi e quartieri di espandersi mentre puniscono i palestinesi e li costringono a vivere in aree sovraffollate cercando di portarli all’emigrazione.
“Nel 1965, il governo israeliano ha approvato il Decreto Edilizio ed Edificatorio, che stabilisce le zone in cui i cittadini israeliani, ebrei da una parte e palestinesi dall’altra, possono vivere. Lo spazio destinato all’espansione di ogni comunità è stato circoscritto e fissato su una mappa del paese per mezzo di una linea blu che delimita questo spazio intorno ad ogni comunità. All’interno della linea blu ci può essere espansione, all’esterno l’espansione è proibita. Tuttavia, nel caso delle comunità ebraiche, le relative linee blu sono state tracciate con generosità per permettere una grande espansione nel futuro. Lo Stato ha anche continuato ad aggiungere nuovi villaggi e comunità ebraiche alla lista del 1965. Al contrario, le linee blu che riguardano le comunità palestinesi sono state tracciate proprio intorno alle già esistenti costruzioni del 1965, in modo da non lasciare spazio all’espansione. (Di fatto, lo Stato di Israele si è sempre rifiutato di tracciare le linee blu intorno a decine di comunità palestinesi che esistono da prima della creazione dello Stato di Israele, così «annullandole». Oggi circa 100.000 palestinesi vivono in questi «villaggi non riconosciuti». Per la legge tutte le case che si trovano in questi «villaggi non riconosciuti» sono considerate illegali e quindi soggette a demolizioni). Dal 1965, non è stata approvata nessuna nuova comunità o nuovo villaggio palestinese”. 65 62 Citato in William Cook, Democrazia israeliana, realtà o finzione? Cit. 63 Sunday Telegraph, 25 settembre 2006 64 Stephen J. Sniegoski, Sharansky,Weissglas,and the Inaugural Address: The Israeli connection continues, 2 febbraio 2005, www.tlaxcala.es/pp.asp?reference=728&lg=it – 59k 65 Jonathan Cook, Apartheid Targets Palestinian Home-Howners inside Israel, The Electronic Intifada, 10 marzo 2005, http://electronicintifada.net/v2/article3674.shtml . 30
Non solo i palestinesi non possono espandere i loro quartieri, i loro villaggi e le loro città secondo le esigenze della crescita demografica, essi non possono nemmeno trasferirsi su quel 92% della terra che lo Stato ebraico ha nazionalizzato e destinato solo agli ebrei (vedi capitolo III). Questa terra non può essere né venduta, né affittata a non ebrei, in quanto terra «redenta», quindi destinata a essere goduta privatamente o collettivamente dagli ebrei soltanto. Nemmeno a qualche ricco cittadino palestinese d’Israele o a qualche ricco non ebreo straniero è concesso entrare nei quartieri ricchi degli ebrei. Non si tratta quindi di distinzioni di classe come avviene in tutti i paesi capitalisti, ma bensì proprio di distinzioni di razza. Scrive Jonathan Cook:
“[Ci sono] piccole comunità ebraiche di lusso note in ebraico come «mitzpim». Queste «mitzpim», a cui è attribuito un vasto terreno su cui i suoi abitanti possono costruire, devono, per legge, passare al vaglio chiunque desideri andarci a vivere. Sempre per legge, i non ebrei non sono autorizzati a fare richiesta di entrare in queste comunità”.66
Si noti che in queste comunità di lusso spesso dei ricchi ebrei di nazionalità americana, francese, ecc. acquistano una proprietà. Sono ufficialmente cittadini di un altro paese ma sono ebrei e quindi contano più di un cittadino arabo di Israele. Costoro, spesso, risiedono nella loro proprietà solo pochi giorni all’anno.
In settimo luogo, c’è lo scandalo dei cosiddetti «presenti-assenti». Con questo ossimoro si indicano quei palestinesi che avrebbero diritto di essere annoverati tra i cittadini israeliani, perché nati in Israele, ma o sono stati espulsi o sono emigrati e non possono più rientrare.
“Oggi ci sono circa sei milioni di cittadini ebrei e un milione di cittadini non-ebrei; dei cittadini non-ebrei, circa 250.000 sono classificati come «presenti-assenti» (secondo la Legge sulla Proprietà degli Assenti del 1950) e in conseguenza di ciò vengono loro negati – per sempre – tutti i loro diritti di proprietà, ai quali non viene più riconosciuta alcuna validità a partire dalla creazione dello Stato israeliano nel 1948. Un ebreo tuttavia non può essere classificato come «presente-assente» nello Stato ebraico di Israele.” 67
In ottavo luogo, sebbene i palestinesi d’Israele sembrano godere di molti diritti politici, in realtà essi non hanno gli stessi diritti legali degli ebrei, il che è certamente indicativo del valore dei loro diritti politici. É indicativo anche della scarsa opinione che lo Stato sionista e i suoi cittadini ebrei si fanno della democrazia.
“La visita (delle aree palestinesi e beduine all’interno di Israele) – scrivono Kathleen e Bill Christison – si avverò essere un’illustrazione drammatica della discriminazione e del razzismo inerente in un sistema progettato specificatamente per conservare una maggioranza ebraica – un sistema basato sulla superiorità degli ebrei su tutti gli altri. I palestinesi e i beduini che vivono all’interno di Israele sono cittadini dello Stato. Possono votare alle elezioni; i beduini, ma non gli altri palestinesi, effettuano addirittura il servizio militare. Tuttavia, per quanto riguarda la legge e i provvedimenti istituzionali inerenti all’assetto di Israele in quanto Stato a maggioranza ebraica, i palestinesi e i beduini, dato che non sono ebrei, non hanno affatto diritti uguali né ricevono affatto uguali servizi dallo Stato. Non solo devono affrontare un genere di discriminazione del tipo di quella che colpiva i neri negli Stati Uniti – le loro scuole sono inadeguate, anche i servizi comunali sono inadeguati, devono vedersela con la discriminazione nel campo dell’occupazione e del lavoro, le loro città spesso si trovano vicino a discariche di materiali tossici a cielo aperto, o altri luoghi pericolosi dal punto di vista ambientale – ma siccome Israele è esplicitamente uno Stato ebraico, i palestinesi non possono godere per legge degli stessi benefici statali di cui godono gli ebrei né possono vivere in alcuna maniera allo stesso modo degli ebrei”.68
Negli stessi termini e quasi con le stesse parole si esprime John Spritzler:
“I non-ebrei nello Stato di Israele subiscono una discriminazione in vari modi, alcuni de jure, molti de facto. I non-ebrei sono esclusi dai quartieri per soli ebrei e sono costretti a vivere in villaggi e città per soli arabi, i quali ricevono molto meno dallo Stato di quanto ricevano i villaggi e le città per ebrei. La differenza tra gli ambienti di vita per ebrei e per non-ebrei è simile a quella che esiste negli Stati Uniti tra un ghetto all’interno di una città e una raffinata area residenziale periferica.”69
66 Jonathan Cook, Apartheid Targets Palestinian Home-Howners inside Israel, cit. 67 John Spritzler, Should People Opposed to Bigotry and Antisemitism Support Israel? 6 febbraio, 2005, vedi sito web: http://newdemocracyworld.org/War/Should-People.htm . 68 Kathleen & Bill Christison, ‘Finally it Broke my Heart’: Random Impressions from Palestine, 24 settembre 2004, http://www.counterpunch.org/christison09242004.html . 69 John Spritzler, Should People Opposed to Bigotry and Antisemitism Support Israel? cit. 31
I non ebrei sono quindi discriminati in mille modi rispetto agli ebrei. Come nel Sud Africa dell’apartheid però, il governo di Israele accorda qualche piccolo diritto in più a delle minuscole minoranze non ebraiche rispetto ai palestinesi musulmani e cristiani. Questi, sono i «neri» d’Israele; i drusi e i beduini sono anch’essi discriminati ma un po’ meno dei loro fratelli come in Sud Africa avveniva con gli ebrei o gli asiatici. Per avere qualche piccolo vantaggio, drusi e beduini, devono però accettare di servire nell’esercito contro gli altri palestinesi.
In nono luogo, la democrazia non esiste se la gente è tenuta nell’ignoranza riguardo alle politiche, ai procedimenti e alle azioni intraprese da un governo a nome di quella stessa gente che lo ha eletto. L’ignoranza è determinata spesso dal divieto imposto a dei cittadini di accedere in quei luoghi (come i territori occupati) dove l’esercito israeliano opprime le popolazioni civili palestinesi svolgendo operazioni non-democratiche. Il silenzio dei rappresentanti del popolo riguardo alle ragioni di operazioni intraprese dal governo è corrosivo della democrazia. Per anni è stato impedito ai giornalisti progressisti israeliani di accedere in alcune zone dei territori occupati. Non esiste totale libertà di movimento dei giornalisti nei territori occupati. Oggi, reporter israeliani o attivisti di sinistra rischiano grosso se tentano di documentare ciò che viene fatto nel nome degli elettori. Alcuni hanno pagato con il carcere l’aver disubbidito ai divieti. Alcuni giornalisti europei hanno invece pagato con la vita. Il fotografo italiano Raffaele Ciriello è uno di questi. Israele fa di tutto pur di impedire ai suoi cittadini, compresi i pacifisti, o a cittadini di altri paesi, di sapere come esso agisce nei confronti dei palestinesi. Alcuni semplici cittadini stranieri hanno perso la vita nel cercare di fermare gli abusi contro la popolazione civile. Tutti ricordano il tragico caso della giovane americana Rachel Corrie schiacciata da un bulldozer mentre cercava di impedire la demolizione di una casa. Addirittura Israele rifiuta a commissioni internazionali di svolgere inchieste sulle sue malefatte. Il rigetto di una inchiesta dell’ONU sul massacro di Jenin è solo un esempio. Per tutte le ragioni sopra esposte e tante altre ancora, per riportare le quali ci vorrebbe più di un grosso volume, sono spesso gli stessi ebrei democratici a negare l’attributo di «democratico» allo Stato israeliano. Ecco come conclude un giornale progressista ebraico americano:
«Una democrazia riservata solo ad una categoria di gente non può esistere, per la ragione elementare che lo Stato Democratico moderno si definisce sulla base della sua rivendicazione di principi universali». ,70 La grande contraddizione di Israele è proprio questa: vuole essere lo Stato degli ebrei e contemporaneamente vuole essere democratico. Così però non può applicare principi universalistici a tutti i suoi cittadini, visto che buona parte di essi non sono ebrei. Uno Stato che si vanti di avere una forma democratica di governo deve accettare l’uguaglianza di tutti coloro che risiedono entro i suoi confini e deve riconoscerli come legittimi cittadini, indipendentemente della loro razza, etnia, credo, religione, appartenenza politica o sesso. Se uno Stato si definisce «democratico» e poi riserva il diritto di cittadinanza solo ad un gruppo scelto, nega nei fatti la democrazia. É un inganno, nel caso israeliano, l’uso del termine «democrazia».
Uno Stato coloniale razzista
Se si prende in esame la situazione attuale dei palestinesi in Israele e, accanto a questa, la negazione dei diritti storici dei palestinesi dei territori occupati, emerge chiaramente la natura colonialista e razzista dello Stato ebraico. Secondo il progetto storico del sionismo il destino dei nativi era il «transfer», l’espulsione in quanto la costituzione di uno Stato degli ebrei (possibilmente tutti gli ebrei) non poteva coesistere con uno Stato palestinese, né con la presenza di una numerosa popolazione araba entro i suoi confini. L’idea di un paese esclusivamente ebraico è stata sempre l’aspirazione profonda dei sionisti. Lo prova la propaganda sionista che ha sempre sostenuto che la Palestina era “un paese senza un popolo” (mentre gli ebrei sarebbero stati “un popolo senza un paese”), che il territorio tra il mediterraneo e il Giordano era un deserto, poi “trasformato in un giardino” dai coloni sionisti, ecc. ecc. Secondo Gherson Shafir il progetto sionista è sempre stato ed è tutt’ora quello di una colonia di “puro insediamento” ebraico. 71Alla stessa maniera degli Stati Uniti, che, nati come colonia di popolamento di bianchi a danno dei nativi indiani, i quali sono stato praticamente sterminati. Non sono stati gli indiani a contenere l’insediamento dei bianchi in America, è stato l’Oceano Pacifico. Una colonia di puro insediamento non prevede fusione tra i colonizzatori e i nativi. Questo tipo di colonizzazione è perciò intrinsecamente razzista. Il colonialismo europeo non si è comportato sempre così. Nelle “colonie a piantagione” dove si sfrutta la manodopera locale si finisce per creare un tipo di società, in cui la popolazione bianca, almeno in parte, si fonde con i nativi, come è successo con il colonialismo
70 Joel Kovel in Tikkun, rivista bimensile ebraica di sinistra, pubblicata in America e diretta dal Rabbino Michael Lerner, citato in William Cook, Democrazia israeliana, realtà o finzione? Cit. 71 Gherson Shafir, Sionismo e colonialismo in Giancarlo Paciello, La conquista della Palestina, cit. pp. 174-188. 32
portoghese in Brasile. Il problema per i sionisti è che nel 1948 non sono riusciti a portare fino in fondo il loro progetto di insediamento puro. Per quanto essi siano riusciti a uccidere e cacciare dei nativi, per quanto continuino a farlo, i palestinesi sono ancora lì e lottano per restare. I sionisti però non hanno mai rinunciato al progetto originario come tutta la loro politica dal 1948 ad oggi lo dimostra, al di là delle chiacchiere e della propaganda. Amos Elon, comunque, afferma che il colonialismo sionista è stato peggiore di quello francese o inglese.
“Nelle colonie francesi o inglesi – egli sostiene – c’erano i matrimoni misti. In India, per esempio. Ma soprattutto nelle colonie francesi. Nel letto i francesi sono più liberi degli inglesi, la cosa è risaputa. Ma sia i francesi che gli inglesi hanno cercato di cooptare le elite. Di regola, ogni volta che una nazione europea conquistava un territorio nel terzo mondo, cercava di accettare l’elite. Israele non ci ha nemmeno provato. Non ci sono stati matrimoni misti, non c’e stato alcun tipo di cooperazione commerciale significativa. L’unica complicità umana è avvenuta al livello più basso possibile: il crimine”.72
Oltre agli Stati Uniti c’è un altro Stato in cui si è evitato rigorosamente il matrimonio e la fusione con i nativi. Il Sud Africa dell’apartheid. Numerosi universitari e giornalisti israeliani come Ilan Pappe, Tanya Reinhart et Amira Hass, hanno descritto la situazione dei palestinesi presentandola come regime di apartheid. Monsignore Desmond Tutu ha fatto esattamente lo stesso. Nel 2003 (oggi la situazione è peggiorata) un documento dell’ONU si esprimeva negli stessi termini. Il professore sudafricano di Diritto John Dugard, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati e ex-membro della «Commissione Verità e Riconciliazione» del suo paese ha scritto nel suo rapporto all’Assemblea Generale dell’ONU che
“nei territori (palestinesi occupati da Israele, ndt) regna un regime di apartheid ben peggiore di quello che esisteva un tempo in Africa del Sud”. 73
É probabile che se i palestinesi avessero la pelle nera il loro dramma sarebbe da tempo stato risolto. Il fatto che abbiano la pelle bianca sembra condannarli a subire un regime di apartheid che è “ben peggiore” di quello sudafricano ma che l’Occidente sembra voler dimenticare. O è forse perché nel loro caso gli oppressori sono ebrei? 5) La nazione ebraica dei sionisti è solo un mito
Il popolo ebraico esisteva certamente oltre duemila anni fa. Ma esiste ancora oggi? La gente di religione ebraica costituisce un popolo unico? Se chiediamo (ma non lo facciamo mai) se gli egizi di oltre duemila anni fa sono gli egiziani di oggi ci sentiamo rispondere che gli egiziani sono un popolo arabo per lingua e religione e che tutt’al più, dal punto di vista genetico, si ritrova in Egitto un sostrato egizio. E i copti cosa sono? Indubbiamente la parola deriva dal termine greco Eguptos (egiziano). Ma i copti sono una religione e non un popolo né una nazionalità, visto che di nazionalità hanno quella egiziana. E gli italiani sono i romani di un tempo? E i francesi sono i galli di Vercingetorige? Indubbiamente no! In duemila anni molte cose sono cambiate. Per gli ebrei invece ci vogliono far credere che le cose sono rimaste come erano oltre duemila anni fa. Ma gli ebrei sono effettivamente quelli di un tempo? Sono il popolo eterno? Sono un popolo e una nazionalità o sono una religione? Ci vogliono far credere che la questione è già stata definitivamente risolta. In realtà il dibattito non è stato mai chiuso e ancora oggi gli ebrei antisionisti continuano a sostenere che l’ebraismo è una religione e non è né una nazionalità, né un popolo, ancor meno una «razza». Se si studia la storia della religione ebraica si scoprono alcune cose interessanti. Prima di tutto che non è vero che il giudaismo non abbia nel passato conosciuto un’espansione fuori dal gruppo etnico degli ebrei di Palestina. Alcune popolazioni assai lontane dalla Palestina si sono convertite alla religione giudaica: i cazari, alcune tribù arabe yemenite o ancora il gruppo etnico detto dei falascià in Etiopia. Il gruppo più interessante che prenderemo brevemente in considerazione sono i cazari. Storicamente i cazari nascono come confederazione di popolazioni turche seminomadi originarie delle steppe dell’Asia Centrale in cui confluirono elementi iranici, slavi ed i Goti Orientali di Crimea (che erano numerosi, forse il gruppo più numeroso tra quelli citati). Nel VII secolo tutte queste etnie fondano il khanato di Khazaria nelle regioni tra il lago d’Aral, il Mar Caspio, il Caucaso e la costa settentrionale del Mar Nero. Oltre a parte della regione oggi chiamata Kazakhstan, il khanato comprendeva anche parti dell’Ukraina, l’Azerbaijan, il sud della Russia e la penisola di Crimea. Nel primo periodo dopo la fondazione del khanato di Khazaria, i cazari si convertono all’ebraismo. Questo popolo, o meglio queste varie etnie mescolatesi nel corso dei secoli, non hanno un’origine palestinese (ma turca, iranica, slava, germanica, ecc). Questa è la ragione per
72 Intervista con Amos Elon, Il sionismo si è esaurito, CounterPunch, 27 dicembre 2004. In America e in Australia non ci sono stati matrimoni misti tra britannici e pellerossa o aborigeni. 73 Réseau Voltaire, 8 settembre 2003, http://www.voltairenet.org/article11362.html . 33
cui molti ebrei askenaziti sono biondi, con la carnagione chiara e gli occhi azzurri, caratteristiche che si trovano frequentemente tra le popolazioni slave o germaniche. La fusione di queste etnie nei cazari e la loro conversione all’ebraismo hanno dato origine a quelli che sono oggi gli ebrei askenaziti, spostatisi, nel tempo, dalle loro terre vicine al Caucaso e al Mar Caspio, verso il Nord ovest della Russia, i paesi baltici, la Polonia e l’Europa centrale. Essi non sono semiti e la loro lingua, lo yiddish, non è una lingua semitica. Essi non sono semiti né per origine, né per lingua, né per cultura. Sono solo di religione ebraica.74 Lo stesso si può dire dei falascià (di pelle nera e di etnia etiopica). Qualcosa del genere si può dire anche degli ebrei yemeniti, sebbene costoro sono etnicamente i più vicini agli ebrei di origine palestinese, in quanto, in origine, prima di convertirsi all’ebraismo, erano arabi e gli arabi sono semiti. Ma costoro hanno sempre conservato caratteristiche culturali dello Yemen, arabe, e ancora oggi in Israele sono un gruppo culturalmente distinto.75 L’ortodossia ebraica non parla di etnia ebraica (termine moderno) usa invece il termine biblico ‘razza’. Secondo il giudaismo infatti “la donna trasmette la razza”. É ebreo chi è figlio di madre ebrea, chi ha avuto una nonna o una bisnonna ebrea. Ma è ebreo anche chi si converte alla religione giudaica. Il figlio, il nipote o pronipote di una donna ebrea rimane ebreo anche se si dichiara ateo, cioè rinuncia alla religione dei suoi avi. L’episodio biblico a fondamento della trasmissione della razza da parte della donna è l’episodio di Abramo Sara e Agar. É interessante ripercorrerlo brevemente. Come tutti sanno, il vecchio Abramo, dopo il ritorno dall’Egitto, ricevette da Dio il dono della «terra promessa»: “Alla tua discendenza io do questo paese dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate” (Genesi 15). Ma Abramo non aveva ancora discendenza; la moglie Sara, ormai anche lei avanti con gli anni, non era riuscita a dargli un figlio. Sara aveva però una schiava egizia di nome Agar, bella e giovane. Rivolgendosi ad Abramo, Sara disse “Ecco, il Signore mi ha impedito di avere prole; unisciti alla mia schiava; forse da lei io potrò avere figli” (Genesi, 16). Così infatti fu: Sara ebbe un figlio da Abramo tramite Agar. Secondo il diritto mesopotamico, una sposa sterile poteva dare a suo marito una schiava per moglie e poi riconoscere come suoi i figli nati da questa unione. Abramo chiamò Ismaele il figlio suo e di Agar, alla nascita del quale egli aveva 86 anni. Successivamente, però, 14 anni dopo, Dio volle che Abramo avesse un figlio da Sara. “Io la benedirò e anche da lei ti darò un figlio; la benedirò e diventerà nazioni e re di popoli nasceranno da lei”(Genesi,17). Abramo si chiese “Ad uno di cento anni può nascere un figlio? E Sara all’età di novant’anni potrà partorire?” (Genesi, 17). Dio, naturalmente, può tutto e ribadì ad Abramo “Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio e lo chiamerai Isacco. Io stabilirò la mia alleanza con lui come alleanza perenne, per essere il Dio suo e della sua discendenza dopo di lui” (Genesi, 17). É l’intervento divino quindi che fa nascere un figlio alla novantenne Sara, perché il Dio degli ebrei è selettivo e non gli va bene il figlio di un’egizia. Solo con Isacco e la sua discendenza, Dio stabilisce la sua alleanza, “per essere il Dio suo e della sua discendenza dopo di lui”. Ismaele e Isacco sono entrambi figli di Abramo, ma il primo è figlio di una egizia e a Dio questo non va bene; per cui egli sceglie di stabilire la sua alleanza solo con i discendenti dell’ebrea Sara. Quella è la sua razza eletta, quello è il popolo a cui egli ha dato il “paese dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate”. Da Ismaele invece nasceranno gli arabi e a loro niente terra, almeno niente terra tra il Nilo e l’Eufrate. Oggi sappiamo che le «razze» non esistono e che non basta una madre a «trasmettere la razza». Una donna trasmette al figlio una parte (la metà) del proprio patrimonio genetico. L’altra metà viene dal padre. Il figlio di una ebrea e di un goy sarebbe dunque «ebreo» per metà. Una donna ebrea, figlia di una donna ebrea che ha sposato un non ebreo, qualora sposasse a sua volta un non ebreo trasmetterebbe a suo figlio solo un quarto del patrimonio genetico della nonna. Suo figlio sarebbe ebreo solo per ¼. E così di seguito. L’idea quindi che una donna ebrea trasmette la «razza» al figlio è molto vagabonda. Se gli ebrei fossero una «razza» veramente, sarebbero una razza non pura. Quante conversioni di non ebrei all’ebraismo ci sono state? Quanti matrimoni non religiosi tra ebrei e non ebrei? Molti «ebrei» hanno scoperto la loro «ebraicità» dopo aver appreso che un loro lontano progenitore era ebreo. Perché per trasmettere le caratteristiche della «razza» ebraica ai discendenti, tutti i matrimoni ebraici dovrebbero avvenire tra ebrei e solo tra ebrei. A meno che non si pretenda che gli ebrei sono fatti di una sostanza particolare, per cui anche una piccola quantità di questa sostanza è sufficiente per fare di chi la possiede un ebreo. In realtà alcuni ebrei sostengono proprio questo. La maggior parte degli ebrei che ritengono che la donna trasmetta la «razza» sono sostenitori del matrimonio endogamico (tra soli ebrei). La ragione è che se anche basta la donna a fare di un neonato un ebreo, un matrimonio misto può creare dei problemi se il figlio cresce in un
74 Arthur Koestler, La tredicesima tribù, Torino, UTET, 2003. 75 Il prossimo acquisto e trasferimento Israele di popolazione «ebraica» nel mondo pare che debba essere quello della tribù dei Lemba, disposti a trasferirsi nello Stato ebraico per entrare nel mondo dei ricchi. I Lemba, ci dice Israel Shamir, sono una popolazione nera che vive ai confini tra il Sudafrica e lo Zimbawe. Sostengono di avere diritto alla cittadinanza israeliana perché praticano la circoncisione e non mangiano la carne di maiale. Anche tutti gli arabi potrebbero quindi ottenere la cittadinanza ebraica visto che anche loro praticano la circoncisione (molti di essi almeno) e non mangiano la carne di maiale. Quanti ebrei russi invece mangiano carne di maiale e non sono circoncisi? Siamo alla follia pura. 34
ambiente non ebraico e quindi si allontana culturalmente e dal punto di vista religioso dal mondo ebraico. Oggi molti ebrei pensano che il matrimonio endogamico è essenziale per preservare la «razza» e per non giungere ad un «olocausto» per così dire volontario, auto-inflitto, cioè la scomparsa degli ebrei tramite assimilazione volontaria con il resto dell’umanità. Comunque, la posizione che viene più ampiamente condivisa tra gli ebrei di tutto il mondo, come dice lo scrittore ebreo americano Philip Roth e come ribadisce il suo compatriota Charles Silberman, è quell’ “atteggiamento mentale che può essere tradotto in quattro parole: «Gli ebrei sono meglio»”.76 Termini laici per esprimere il biblico concetto del “popolo eletto”. Non una «razza» quindi ma una mentalità. L’idea di ebraicità non è quindi una sola, è in realtà un coacervo di posizioni diverse, delle quali è difficile capire quale sia più e quale meno razzista. Se si tiene conto che gli ebrei (askenaziti, sefarditi) derivano da un miscuglio di etnie diverse e non da una sola etnia palestinese e se si tiene in altrettanto debito conto che nel Medioevo gli ebrei in Europa, minacciati di scomparsa per calo demografico e desiderosi di accrescere le loro comunità religiose, hanno fatto ricorso di frequente a conversioni fondate su matrimoni di donne ebree con non ebrei, è lecito chiedersi dove sta la «razza»? dove sta l’etnia? dove sta la nazione? E solo un “atteggiamento mentale” come dice Roth, è solo il mito razzista di una razza fittizia. Amos Elon, il sionista pentito, ha dichiarato:
“L’intera faccenda del Giudaismo inteso come nazione è assai problematica. Esclusi i sionisti, nessuno più sostiene che gli ebrei sono una nazione (…). Non penso che sono una nazione. Non lo penso. Il Giudaismo è una religione (…). Io non voglio che il Giudaismo sia un tatuaggio sulla mia fronte. E non posso dire che sono un ebreo perché sono una persona totalmente laica”.77
Se ha ragione Amos Elon, gli ebrei non sono una nazione ma una religione. La confusione nasce perché questa religione parla di popolo eletto e lo intende come popolo etnicamente o razzialmente determinato. Questo non è scientifico, come abbiamo visto, e deriva da una visione antica di quando i popoli e le etnie si caratterizzavano per le loro religioni tribali e per le loro divinità etniche. Invece di operare affinché la religione ebraica superasse la fase tribale e divenisse una religione a vocazione universale, come il cristianesimo o l’islam, o come in più riprese nella sua storia lo stesso giudaismo aveva tentato di fare (con la conversione dei casari, di alcune tribù yemenite, dei falascià), i sionisti, che pure erano laici, definirono nazione quello che era una religione.
“Quando poi sorsero, in Europa, i movimenti nazionali moderni e apparve chiaro che gli ebrei non vi avevano un posto, (nelle democrazie liberali un posto lo avevano invece, sia come religione sia come etnia, ndt) i fondatori del sionismo decisero che gli ebrei dovevano costituirsi loro stessi in nazione indipendente e creare un proprio Stato. La comunità etnico-religiosa fu semplicemente ridefinita come una nazione, e così nacque una nazione che era anche una religione e un religione che era anche una nazione. Tutto ciò era, ovviamente, una finzione, ma una finzione necessaria al sionismo, il quale esigeva la Palestina per la nazione giudaica. Per poter condurre una lotta nazionale, si sa, ci deve essere una nazione” (corsivi nostri). 78
La scienza etnologica e gli studi sulle popolazioni umane hanno da tempo stabilito che il concetto di razza non trova fondamento scientifico. Il concetto di etnia, poi, è principalmente culturale e non biologico. Una nazione, che di solito riunisce più gruppi umani e più culture su un determinato territorio, non può trovare fondamento su caratteristiche razziali, etniche o religiose.
“Nessuna nazione (cioè nessuno Stato nazionale) – scrive Etienne Balibar – possiede di fatto una base etnica, il che vuol dire che il nazionalismo non potrebbe essere definito come etnocentrismo, se non precisamente nel segno della produzione di un’etnicità fittizia” (corsivi dell’autore).79 Se il nazionalismo ebraico non può essere definito come etnocentrismo, se esso ha prodotto una etnicità fittizia allora perché uno Stato ebraico reale? Anche troppo reale. Perché uno Stato per soli ebrei? Perché una politica di espulsione e di oppressione dei palestinesi anche troppo reale? Gli ebrei sono uniti solo dalla religione, sono solo una religione. Che pensino pure, se ciò loro piace, di essere una «razza», che pensino pure, se questo li inorgoglisce, di essere il «popolo eletto di Dio», ma non si tolleri che alcuni tra loro rivendichino una terra che a loro non appartiene e ne privino i legittimi proprietari.
76 Charles Silberman, A Certain People: American Jews and their Lives Today, citato in Norman Finkelstein, L’industria dell’olocausto, Milano, Rizzoli, 2002, p. 47. 77 Intervista con Amos Elon, Il sionismo si è esaurito, CounterPunch, 27 dicembre 2004. 78 Uri Avnery, Una nazione? Quale nazione? CounterPunch, 3 ottobre 2004. 79 Etienne Balibar, Razzismo e nazionalismo, in Etienne Balibar, Immanuel Wallerstein, Razza, Nazione, Classe, Roma, Edizioni Associate, 1990, p. 70. 35
La religione ebraica, o una forte corrente in essa, porta oggettivamente la responsabilità di aver creato con i suoi miti del «popolo eletto», della «terra promessa da Dio», della «razza ebraica» una concezione inaccettabile di particolarismo e razzismo ebraico. Ma oggi, questi miti religiosi sono patrimonio dei sionisti (laici e ortodossi), i quali li hanno fatti propri e inseriti all’interno di un’ideologia politica nazionalista e colonialista. Gli ebrei devono ritrovare la strada di un giudaismo spirituale, devono riformare l’ebraismo così come esso è prevalentemente, renderlo più universalistico e più umano. Afferma con forza l’umanista Israel Shahak:
“Per un ebreo che sinceramente cerca la liberazione dal particolarismo e dal razzismo ebraico e dalla mano morta della religione ebraica” la soluzione è intraprendere “la strada di una genuina rivoluzione nel giudaismo – di renderlo umano, di permettere agli ebrei di capire il loro passato, e quindi di rieducarsi ed uscire dalla sua tirannide”. 80
L’ideologia sionista e lo Stato che essa ha prodotto hanno rilevato la tirannide del particolarismo, del razzismo ebraico e anche della mano morta della religione (che, come abbiamo visto, ha abbracciato in modo prevalente il nazionalismo sionistico). Questa è la ragione per cui il sionismo non riesce a sciogliere il nodo tra religione e nazionalismo esclusivistico. Questa è la ragione del paradosso per cui i fondatori di Israele, i sionisti «socialisti», primo tra tutti David Ben Gurion, si sono sempre serviti della mitologia biblica. Non è possibile costruire uno Stato su una mitologia religiosa. E che Stato! Uno Stato per solo ebrei che si sta, peraltro, dimostrando essere una gabbia razzista, un nuovo ghetto per gli stessi ebrei, continuando contemporaneamente ad essere una prigione insostenibile per i palestinesi. Tutto il concetto di nazione o popolo ebraico non è solo problematico, come dice Amos Elon, è assurdo. Tanto assurdo che lo stesso Dipartimento di Stato americano, nel 1964, quando ancora non era stato conquistato dalla lobby sionista USA, espresse con molta chiarezza che «popolo ebraico» non è un concetto di diritto internazionale. Scrive lo studioso della storia del Medio Oriente, Philip Daumas:
“Come ha recentemente ricordato nel suo libro il mio collega Richard Marienstras, professore di letteratura inglese all’Università di Parigi VII, soltanto per l’ideologia sionista esiste un popolo ebraico. Il professore americano Mallison nel suo articolo sulla nozione di popolo ebraico, cita molto a proposito, la lettera del Dipartimento di Stato americano al Consiglio Americano per il Giudaismo del 20 aprile 1964 che dice chiaro e tondo: “di conseguenza dovrebbe essere chiaro che il Dipartimento di Stato non considera il concetto di «popolo ebraico» come un concetto di diritto internazionale”. 81
Ricordare questo fatto oggi può turbare il sonno della ragione di tutti coloro che si sono lasciati incantare dalle sirene sioniste e che, pur rischiando di restare coinvolti o subire le conseguenze dell’incendio mediorientale, preferiscono dormire i sogni degli ipocriti e degli infingardi. La posizione americana di principio non nasce nel 1964 ma è di molto anteriore. Paradossalmente, questa posizione netta fu presa in seguito ad accordi tra il Dipartimento di Stato e un gruppo ebraico antisionista.
“Nel novembre 1942 nacque negli Stati Uniti un organismo antisionista, l’American Council for Judaism, fondato da Morris S. Lazaron, Lessing J. Rosenwald, Elmer Berger, Sidney Wallach ed altri, che sottolineava il carattere religioso, non nazionale del giudaismo e che opererà negli anni successivi fortissime pressioni sul mondo politico americano per contrastare il passo al movimento sionista. In un documento del settembre 1944 Rosenwald si premurava di sottolineare a Cordell Hull (segretario del Dipartimento di Stato, ndt) che gli ebrei erano «un gruppo religioso, non nazionale» e che l’American Council for Judaism si opponeva alla «creazione di uno Stato o di un commonwwealth ebraico in Palestina od in qualsiasi altro luogo». Ma quello che più conta è il tono della risposta di Hull: «Sono molto contento che lei mi abbia inviato questo documento, che è stato attentamente registrato da questo Dipartimento … É molto importante aver ricevuto questo documento ulteriore delle vostre posizioni perché esso è particolarmente penetrante»”. 82
Questa è stata la posizione ufficiale del Dipartimento di Stato americano e a noi risulta che lo sia ancora, anche se da quando la lobby sionista a Washington è riuscita a prendere in mano la politica estera americana (dai tempi del presidente Lyndon Johnson e ancora più con il Segretario di Stato Henry Kissinger) gli Stati Uniti si comportano come se questa posizione di principio non fosse mai esistita. Siamo nel XXI secolo. L’Europa e l’Occidente si sono liberati della vecchia concezione dello Stato etnico e dell’idea perversa della «razza» che tanto sangue hanno fatto scorrere. É stata una liberazione sofferta avvenuta nel corso della II Guerra Mondiale, lottando contro il nazismo. In seguito, si è dovuto riprendere la lotta per eliminare lo Stato di
80 Israel Shahak, Jewish History, Jewish Religion, The Weight of Three Thousand Years, cit, p. 73, 74. 81 Philippe Daumas, La Palestine et le Mandat britannique, 1920-1948, in AA.VV. Palestine et Liban, promesses et mensonges de l’Occident, Parigi, Librérie Éditions de l’Harmattan, 1977, pp. 106-130. 82 Antonio di Donno, Gli Stati Uniti, il sionismo e Israele (1938-1956), Roma, 1992, Bonacci Editore, p. 59. 36
apartheid del Sud Africa. Alla fine del XX secolo, dopo aver irresponsabilmente causato la frantumazione dei Balcani, l’Europa e l’Occidente hanno dovuto contrastare l’idea degli Stati etnici nella ex-Yugoslavia; oggi ancora l’Unione Europea è impegnata nel Kosovo a combattere la politica dei nazionalisti albanesi mirante ad espellere i serbi e i macedoni. Perché questi principi non possono essere applicati anche in Palestina? Dopo la pulizia etnica effettuata, con lo sterminio, dagli Hutu in Ruanda contro le popolazioni Tutsi, perché l’inammissibilità delle pulizie etniche non si applica alla Palestina?
Segue!
Mauro Manno