INTERVISTA A DOMENICO MORO
mar 6th, 2019 | Di Thomas Munzner | Categoria: IntervisteIntervista a Domenico Moro: Critica del neoliberismo e critica dell’europeismo devono procedere assieme
Il titolo del tuo ultimo libro “La gabbia dell’euro” non lascia spazio a troppe interpretazioni. Ci spieghi, in sintesi, perché la zona euro dovrebbe essere intesa come una camicia di forza dalla quale liberarsi il prima possibile? Cosa rispondi alle critiche di coloro che vedono nell’uscita, dati gli attuali rapporti di forza, un evento che andrebbe ad avvantaggiare esclusivamente i partiti nazionalisti?
DM: L’integrazione europea, in particolare quella monetaria, aliena alcune importati funzioni – bilancio e moneta – dallo Stato alle istituzioni sovranazionali europee. Lo scopo è sottrarre le decisioni economiche fondamentali all’influenza dei Parlamenti, ossia alla sovranità popolare e ai lavoratori, allo scopo di ricondurle sotto il controllo dello strato superiore e fortemente internazionalizzato del capitale. L’integrazione europea modifica, insieme al funzionamento delle istituzioni dello Stato, anche i rapporti di forza tra classi sociali, lavoratori salariati e capitalisti, a favore di questi ultimi. Per questa ragione, in Europa al centro di una politica democratica e favorevole alle classi subalterne non può che esserci il superamento dell’euro e dei Trattati, in pratica il superamento della Ue. Dire che per uscire bisogna aspettare rapporti di forza favorevoli è sbagliato. Infatti, se uscire espone a dei rischi e rimanere è disastroso, qual è l’alternativa? Una tale posizione è ingenua e impolitica, condannando alla irrilevanza e all’impotenza qualsiasi posizione politica progressiva e di classe. I rapporti di forza si modificano attraverso la politica, cioè mediante la creazione di consenso e la costruzione di organizzazione attorno a posizioni forti e adeguate alla fase storica. Uscire dall’euro è una di queste posizioni, anzi al momento è quella centrale, imprescindibile nella definizione di un programma di sinistra e socialista.
A maggio si terranno le elezioni europee. A parte che un eventuale spostamento dei rapporti di forza si andrebbe a realizzare in un organo, il Parlamento europeo, dal peso specifico assai relativo, c’è anche da dire che il PPE e il PSE, forze che si richiamano a un europeismo di matrice neoliberale, quasi certamente manterranno la maggioranza. Insomma, ad oggi sembra alquanto difficile immaginare, come fanno alcuni sovranisti di destra, dei cambiamenti sostanziali circa gli equilibri vigenti. Cosa ne pensi?
DM: Secondo diversi sondaggi, è molto probabile un netto arretramento dei partiti espressione del capitale europeo, il Partito popolare europeo (Ppe) e il Partito socialista europeo (Pse), che poi sono quelli su cui si è imperniato per decenni (in alcuni Paesi dalla fine della guerra) il sistema bipolare-bipartitico di alternanza tra centro-destra e centro-sinistra. Questi partiti, soprattutto quelli afferenti al Pse, sono stati pesantemente sanzionati dagli elettori già a livello nazionale. È, quindi, molto probabile che Ppe e Pse si dovranno affidare a una alleanza con forze europeiste meno screditate, come i verdi. Questo potrebbe consentirgli di contrastare l’opposizione delle cosiddette forze euro-scettiche, come la Lega, il Front national, Fidesz, la Fpö, il M5s, i Finlandesi, ecc, che comunque avrebbero, in base ai risultati previsti, una maggiore voce in capitolo su nomine e decisioni europee. Ma le vere domande sono altre: queste forze cosiddette euroscettiche, sono veramente contro l’essenza neoliberista, incarnata nell’integrazione europea, quali interessi di classe rappresentano, in quale direzione vorrebbero modificare o indirizzare l’Europa? Per iniziare, bisogna dire che le forze classificate come euroscettiche sono molto diversificate tra di loro, cosa che le rende non facilmente coalizzabili in un blocco unico. Soprattutto, non le ritengo realmente contrarie alle filosofia neoliberista di fondo di questa Europa. Ognuno di questi partiti persegue gli interessi non dei lavoratori del proprio Paese né tanto meno di quelli europei, ma gli interessi delle proprie borghesie nazionali, se necessario anche mettendosi contro i partiti presunti “fratelli”. Si è vista quale fosse la solidarietà tra questi partiti, quando la Commissione europea ha attaccato il governo italiano per lo sforamento del deficit, e gli altri governi “sovranisti”, tra cui la Fpö, si sono schierati per il rispetto dei vincoli di bilancio. Stesso discorso sull’immigrazione, con il rifiuto dei governi “sovranisti” di sostenere le posizioni italiane. La mia opinione è che, come per la Lega, anche per questi partiti l’Europa sia criticabile solo nella misura in cui gli interessi dei settori di capitale e di imprese che rappresentano non sono garantiti. Il punto è che le rigidità e i meccanismi dell’euro hanno creato o allargato i divari nazionali, che generano tensioni tra i vari settori del capitale europeo. Per i lavoratori italiani e europei affidarsi a questi partiti sarebbe suicida, sebbene le contraddizioni all’interno della borghesia europea e della Ue, generate dalle forze euroscettiche di destra, possano essere utili per aprire varchi in quello che fino ad ora è stato il monolite europeista. A patto che questi varchi siano successivamente allargati e sfruttati da forze politiche, genuinamente di sinistra e di orientamento socialista, che, in forma autonoma dal punto di vista di classe, rappresentino realmente il cambiamento e i lavoratori.
A proposito di equilibri internazionali, nei giorni scorsi è stato firmato il Trattato di Aquisgrana che toglie il velo sui presunti processi democratici europei, e vede la nascita di una diarchia che affonda le sue radici nel Trattati di matrice ordo-liberale. Che ne pensi? Questo patto potrebbe esacerbare le differenze tra centro e periferia, minando la tenuta stessa dell’integrazione differenziata?
DM. Il trattato di Aquisgrana è una alleanza politica, diplomatica e militare tra due stati sovrani, la Francia e la Germania. Il primo aspetto da rilevare è che manda in soffitta qualsiasi aspirazione non solo a una unità politica europea ma anche soltanto al funzionamento collegiale delle istituzioni attuali. Il trattato è un passo in avanti rispetto all’asse franco-tedesco del passato, realizzando un blocco che prende regolarmente e formalmente decisioni prima dei consessi europei, imponendole agli altri Paesi. Gli effetti dell’accordo, però, si estendono ben al di là dei processi decisionali europei. Francia e Germania stabiliscono un accordo di mutuo aiuto militare in caso di minaccia dall’esterno, fatto curioso dal momento che gli accordi europei e soprattutto la Nato, all’interno della quale sono tutti e due i Paesi, prevedono la stessa cosa. Di fatto, il Trattato è uno scambio tra Stati. La Francia garantisce la copertura militare nucleare, mediante la sua force de frappe, e il suo impegno diplomatico affinché la Germania venga inserita come membro permanente nel consiglio di sicurezza dell’Onu. In pratica, la Germania supera la sua condizione di gigante economico e di nano politico, lascito della sconfitta della Seconda guerra mondiale e della vergogna del nazismo, riacquistando uno status di grande potenza. La Francia, un Paese in grave difficoltà economica e sempre più dipendente dalla sua politica espansionistica all’estero, ottiene la conferma dell’appoggio economico della Germania e soprattutto il sostegno alla sua politica imperialista in Africa. Di fatto, a dispetto di chi ritiene finito lo stato nazionale, il Trattato di Aquisgrana conferma il ruolo degli Stati nazionali, ovviamente quelli più forti e imperialisti, rispetto agli organismi sovranazionali, non solo europei ma anche atlantici. Inoltre, il Trattato sancisce la crisi della Ue e della Uem, rappresentando una ulteriore crepa nelle loro architetture, che ne rende ancora più precaria la tenuta, specie nel caso del ripetersi di una nuova crisi del tipo di quella del 2009-2011. Intanto, sono aumentate le tensioni tra Stati, rimandando la memoria all’epoca dei conflitti coloniali tra potenze. In particolare sono aumentati i contrasti tra la Francia e l’Italia. Al di là dei pretesti occasionali di polemica, le ragioni sono strutturali: il controllo delle risorse dell’Africa, dove i due stati si scontrano di frequente, soprattutto in Libia ma non solo, e la frustrazione della riconquista di un ruolo internazionale da parte dell’Italia, anche all’Onu, visto che la nostra diplomazia aveva puntato tutte le sue carte su un seggio permanente alla Ue. La Ue e la Uem, riducendo la domanda interna e accentuando la tendenza espansiva all’estero dei capitali, risultano essere, anziché fattore di mantenimento della pace, come taluni si illudono, la causa della riacutizzazione di vecchie competizioni coloniali e di conflitti, per ora, per procura.
Veniamo ora alle questioni interne: Conte ha da poco dichiarato che nel quarto trimestre ci sarà un’ulteriore contrazione del PIL. Detto che siamo di fronte a un marcato rallentamento delle crescita globale, che cosa ne pensi dell’ultima manovra economica, in particolare di “quota cento” e del reddito di cittadinanza?
La verità è che l’economia mondiale è ancora in quella che significativamente Summers ha definito “stagnazione secolare”, ispirandosi all’espressione usata da Alvin Hansen nel 1938 durante la Grande depressione. Per la verità a trovarsi in difficoltà sono soprattutto le aree di più antico sviluppo capitalistico, Usa, Regno Unito, Area euro e Giappone, dove si manifestano la sovraccumulazione di capitale e il calo tendenziale del saggio di profitto. Gli Usa hanno registrato risultati migliori dell’Europa occidentale solamente perché lì lo Stato è intervenuto massicciamente a sostegno delle imprese e delle banche in crisi con lo stimolo della spesa pubblica, che l’area euro non ha potuto utilizzare per via dei vicoli al bilancio pubblico. L’Italia ha registrato risultati ancora peggiori della media dell’area euro, sia perché ha applicato le regole europee e l’austerity con maggiore disciplina, sia perché, avendo un più importante settore di partecipazione statali, le massicce privatizzazioni l’hanno maggiormente danneggiata. Inoltre, ormai la manifattura italiana è, come quella tedesca, orientata quasi completamente all’export. Di conseguenza è dipendente dal mercato mondiale, in particolare dai Paesi avanzati che sono i suoi maggiori clienti. Quindi, quando Germania, Francia, Regno Unito e Usa rallentano, si trova in grave difficoltà. “Quota cento” scambia una uscita anticipata con una riduzione dell’ammontare pensionistico. Il reddito di cittadinanza è una misura tampone, che viene attaccata dalla Confindustria, perché potrebbe spingere a un rialzo dei minimi ridicoli di certe retribuzioni, specie quelle dei giovani nei servizi. Rimane il fatto che l’Italia è il paese in cui, durante la crisi, gli investimenti privati e pubblici sono calati di più in Europa. Quindi, il punto è aumentare gli investimenti pubblici e con essi l’intervento statale in economia, rinazionalizzando le imprese e reinternalizzando le attività dei servizi pubblici. Solo così si può aumentare l’occupazione e il salario. Queste misure però trovano un vincolo serio nei parametri europei e nella linea liberista e pro-impresa della Lega. Di conseguenza senza mettere in discussione Europa e neoliberismo – spesso la stessa cosa – si fa poca strada.
Maurizio Landini è il nuovo segretario generale della CGIL: credi che con lui alla guida del più grande sindacato italiano qualcosa possa mutare a favore del mondo del lavoro, oppure i margini di manovra, dentro l’Unione economica e monetaria fondata sulla deflazione salariale, sono proprio nulli?
DM. La CGIL, come sindacato complessivo e al di là delle singole categorie, viene fuori da una stagione pluridecennale di collaborazione con Confindustria e con le politiche di contenimento salariale. Sul piano politico la CGIL, mentre si è battuta energicamente contro Berlusconi, è stata molto più acquiescente nei confronti del centro-sinistra di Prodi e del Pds-DS-Pd, malgrado le responsabilità di questi sulle controriforme del mercato del lavoro e delle pensioni. C’era sicuramente uno scambio tra centro-sinistra e sindacato e c’era, ancora di più, l’interesse a difendere il ruolo concertativo con le imprese, anche contro il governo se necessario, come accadde in alcune occasioni con il governo Prodi. La concertazione e il legame con il Pd si sono, però, logorati insieme alla capacità del sindacato di difendere anche i settori più forti dei lavoratori sotto i colpi della crisi e dell’austerity. Infatti, il ruolo di concertazione del sindacato è indebolito dalla ristrutturazione della dialettica sociale in senso neoliberista, basata dalla eliminazione del ruolo dei corpi intermedi e della sovranità democratica da parte dei meccanismi europei. Particolarmente grave è stata l’incapacità della CGIL di reagire, durante il governo Monti, contro le pesanti controriforme delle pensioni e del mercato del lavoro imposte dall’Europa. Ormai il sindacato è ridotto soprattutto a un ruolo semi-corporativo di difesa di questo o quell’altro settore e di erogatore di servizi, anche attraverso la collaborazione con Confindustria negli enti bilaterali. Certamente da anni non è più in grado di svolgere un ruolo di difesa delle condizioni del lavoro salariato complessivamente inteso. L’elezione di Landini, per la sua storia e il suo prestigio, sembrerebbe un tentativo di rilanciare il ruolo del sindacato in senso più complessivo nella lotta per il lavoro e per il salario. Tuttavia, nei documenti circolati fino ad ora, la CGIL si limita a una critica alle misure del governo, chiedendo più investimenti, senza cogliere la necessità di rompere con il passato concertativo e con i trattati europei, proprio per rilanciare investimenti e mano pubblica. Senza un cambiamento di linea effettivo non credo che Landini da solo possa fare granché. Anzi, c’è il concreto rischio che proprio il prestigio della persona possa in qualche modo illudere ancora per alcuni anni sull’effettiva capacità della CGIL di rilanciare una battaglia sociale e ritardare ancora la ricostruzione di un sindacato di classe e di lotta invece che collaborativo.
Torniamo su questioni di respiro internazionale. Si è fatta molta confusione sul golpe di Guaido, con gli Usa che hanno immediatamente riconosciuto l’autoproclamato presidente per poi rendersi conto che i vertici delle forze armate erano in larga misura, e lo sono tuttora, fedeli a Maduro. Inoltre, i canali informativi mainstream, assai solerti nel porre l’accento sugli errori in ambito economico del governo venezuelano, sono piuttosto restii a ricordare che il Paese latinoamericano, un tempo guidato da Chávez, sta subendo delle pesanti sanzioni che gli impediscono di comprare medicine, alimenti e di operare trasferimenti bancari. Qual è il tuo giudizio sulla vicenda?
DM. La concezione classica dell’imperialismo dice che lo sviluppo diseguale, tipico del capitalismo, crea competizione tra settori del capitale e quindi tra gli stati, che ne esprimono gli interessi generali. Nella fase attuale il perdurare della crisi economica e le trasformazioni della globalizzazione creano o approfondiscono contrasti all’interno delle aree capitalistiche di vecchia formazione, tra Usa e Ue, e tra queste ultime e le aree emergenti. In particolare, si assiste a un aumento della competizione per le materie prime e il controllo delle aree di importanza geostrategica tra Usa e Ue, da una parte, e Russia e Cina, dall’altra. Queste contraddizioni danno luogo a guerre per procura, come in Siria e Libia, e a colpi di stato “bianchi”, come in Ucraina. Quello in atto in Venezuela è un vero e proprio tentativo di golpe sostenuto dagli Usa e dalla Ue nei confronti di un presidente eletto, contro il quale, ricordiamolo, solo qualche mese fa c’era stato un attentato, con esiti, per puro caso, non mortali. L’interesse di Usa e Ue per il Venezuela è legato alla volontà di controllarne le riserve di petrolio, le maggiori del mondo, impedendo che altri stati possano in qualche modo avvantaggiarsene. È anche legato alla volontà di neutralizzare un governo e di un popolo che hanno dimostrato di volere e potere sottrarsi alla sudditanza nei confronti dell’imperialismo occidentale, contribuendo alla formazione di una rete di stati sudamericani indipendente dagli Usa. Il governo chavista, inoltre, ha messo all’angolo la borghesia compradora, alleata dell’imperialismo, favorendo la redistribuzione ai settori più poveri della ricchezza derivante dalla rendita petrolifera. Sicuramente gravi errori sono stati commessi dal governo venezuelano. In primo luogo, a livello economico. Ma c’è da dire, che, per un Paese con sistema economico da sempre basato su una mono-produzione (prima agricola ora petrolifera), era complicato sviluppare l’economia in modo diversificato. In ogni caso, gli errori economici e politici sono da criticare dal punto di vista di classe e socialista e non hanno nulla a che fare con quanto è strumentalmente rimproverato dagli Usa. Il nostro appoggio al presidente eletto Maduro non deve essere messo in discussione, perché è un appoggio al legittimo governo contro le mire imperialiste di Usa e Ue. Un’ultima notazione. Qualcuno, anche recentemente, ha sostenuto che la Ue poteva rappresentare una alternativa al dominio Usa. Proprio gli ultimi avvenimenti in Venezuela dimostrano, invece, che la Ue non solo non può essere alternativa in alcun modo agli Usa, ma che è essa stessa una realtà imperialista, proprio a causa del predominio, che come abbiamo visto, vi hanno i grandi gruppi capitalistici.
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