Riduzione del tempo di lavoro

mar 4th, 2019 | Di | Categoria: Capitale e lavoro

 

Riduzione dell’orario di lavoro

di Renato Gatti

In molti post che affrontano il tema della digitalizzazione e della robotizzazione viene affermato che un modo di affrontare il problema è quello della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.

Ammetto che proporre che l’incremento della produttività vada distribuito anche al lavoro salariato o come aumento della paga oraria o della riduzione del tempo di lavoro, abbia una sua logica economica valida per un’economia keynesiana, lungi, quindi, dall’essere perseguita in questa unione europea in cui ci troviamo ad operare.

Va da sé, tuttavia, che una riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario comporta necessariamente un problema di competitività dei nostri prodotti rispetto a quelli prodotti all’estero ed in particolare nei paesi dell’UE. A questo proposito va esaminato il raffronto del costo del lavoro nel nostro paese e negli altri paesi, va inoltre esaminato se l’argomento della riduzione dell’orario di lavoro sia già all’ordine del giorno negli altri paesi UE.

Venendo al primo argomento val la pena fare alcune precisazioni:

  • i netti delle buste paga dei diversi paesi UE non sono comparabili perché ci sono retribuzioni, come il tfr, la sanità o le pensioni, non sono ugualmente regolamentati nei vari paesi;
  • il costo del lavoro include il lordo dovuto al lavoratore più i contributi previdenziali posti a carico del datore di lavoro;
  • il costo del lavoro va tuttavia commisurato al valore aggiunto che quel lavoro produce. Se ad esempio io costo 110 e produco 11 unità di prodotto, il mio costo per unità di prodotto CLUP è di 10 mentre se tu costi 80 ma produci 6 unità di prodotto, allora il tuo CLUP è pari a 13.33. Quindi io ad un costo di 110 costo meno di chi ha un costo di 80.

Questo confronto è quindi molto interessante vedere la seguente tabella (tratta da La rincorsa frenata di Patrizio Bianchi Il Mulino)

Paese               Valore aggiunto       Costo del lavoro               Costo del lavoro

per addetto               per addetto               per unità di prodotto

Sw                           118                                 62                                   53

Uk                            108                                53                                   49

De                              79                                56                                   71

Ch                              77                                52                                    68

Fr                               74                                51                                    69

It                                60                                46                                    77

Quindi pur essendo il costo del lavoro per addetto il più basso (Bnl escluso) tra i paesi più industrializzati, il CLUP ovvero il costo del lavoro per unità di prodotto risulta essere il più caro. Quindi siamo già i meno competitivi di altri paesi e una riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario comporta preoccupazioni che non vanno sottovalutate. Si noti inoltre che non stiamo dicendo che i nostri lavoratori costano troppo, stiamo dicendo che il sistema paese Italia è a bassissimo valore aggiunto (deficienza del capitale che non investe e degli imprenditori affetti da nanismo) causando così un costo del lavoro per unità di prodotto poco concorrenziale. A questo proposito non va dimenticato, oltre all’orario giornaliero, quante ore di lavoro si facciano nei diversi paesi. Vediamo in ordine decrescente:

Messico                        2.255        USA            1.783     Uk             1.676       Francia       1.472

Sud Corea                    2.069         Italia          1.730     Austria      1.669       Olanda        1.430

Grecia                           2.034         Giappone  1.713    Finlandia   1.653       Danimarca  1.410

Russia                           1.974         Spagna       1.695    Svezia         1.621      Germania    1.363

Da questa comparazione risulta evidente che la riduzione dell’orario di lavoro è una realtà già in essere in molti paesi europei, e che quindi l’argomento non è campato per aria anche se non va disgiunto dal tema della produttività oraria che incide in modo significativo nel calcolo del Clup.

Sul secondo argomento, è interessante vedere negli altri paesi come sia gestito l’orario di lavoro:

In Germania l’accordo tra il sindacato metalmeccanici IG Metall e gli industriali prevede la riduzione volontaria della settimana lavorativa fino a 28 ore per un periodo minimo di sei mesi fino ad un massimo di 24 mesi. L’orario settimanale standard è di 35 ore, chi vuole può lavorare anche 40 ore. Se i motivi della riduzione sono familiari o legati ad un lavoro usurante, il lavoro non subisce nessun taglio dello stipendio. L’accordo riguarda il Baden-Wurttemberg (la regione di Porsche e Daimler) e riguarda 900.000 lavoratori su circa 4 milioni di metalmeccanici.

In Francia, la legge sulle 35 ore, la cui definitiva entrata in vigore data dal 2002, ha appena compiuto 15 anni e che continua a rappresentare una sorta di tabù, di inviolabile mito della sinistra che neppure la destra ha mai osato abbattere. Per varie ragioni. Perché le 35 ore – con il loro corollario di ulteriori giorni di “vacanza” – sono ormai saldamente radicate nelle abitudini, anche familiari, dei francesi. Perché, quindi, la loro scomparsa avrebbe un impatto economico non irrilevante sull’industria del turismo. Perché nel settore privato l’orario effettivo di lavoro è rimasto sostanzialmente inalterato e quindi consente a gran parte dei dipendenti di incassare le maggiorazioni previste dagli straordinari (che scattano ovviamente dalla 36ma ora). Perché le imprese, soprattutto le grandi, si sono da tempo organizzate sulla base dell’orario ridotto e cambiare nuovamente questa organizzazione comporterebbe costi e complessità che preferiscono non affrontare. Perché, infine, le aziende ricevono dallo Stato circa 12 miliardi all’anno (in media, dal 2002 a oggi) sotto forma di alleggerimenti contributivi, decisi a suo tempo per attenuare l’impatto delle 35 ore sul costo del lavoro. E a quei 12 miliardi non vogliono rinunciare. La legge di Lionel Jospin è ancora in vigore, ma verrà di fatto aggirata e vanificata dalla detassazione delle ore di straordinario lavorato, oggi colpite da un’aliquota speciale del 25%. Una misura costosa, ma fortemente voluta dal Presidente e dagli industriali per incentivare – al contrario – a lavorare di più per guadagnare di più.

In altri paesi a bassa disoccupazione, come quelli scandinavi: a Copenhagen negli uffici municipali della capitale danese si sta discutendo un progetto pilota che prevede una settimana lavorativa di 30 ore. Stessa cosa in Svezia, dove in una casa di riposo di Goteborg è stata provata una giornata lavorativa di sole sei ore, con un aumento dei costi salariali (tra l’altro, sono stati assunti lavoratori extra per coprire i turni), ma anche con un netto miglioramento della soddisfazione dei lavoratori, meno assenze per malattia, e gli anziani assistiti molto meglio trattati. Anche alcune imprese private del settore informatico, come Brath Ab e Filimundus, hanno introdotto riduzioni dell’orario di lavoro; a suo tempo ha adottato un turno di sei ore anche la Toyota di Göteborg, ricavandone anche un aumento degli utili.

In Belgio il leader del Partito socialista francofono, l’ex premier Elio Di Rupo, cerca di rivitalizzare il partito con la proposta della Rctt, la Reduction Collective du Temps du Travail, ovvero 30 ore e 24 minuti a settimana. Un taglio del 20% da conseguire lasciando margini di manovra alla contrattazione sindacale.

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Il mio intento è di collegare i seguenti punti: evitare che il capitale si appropri dei frutti della produttività e del sapere sociale, tenere presente la realtà attuale del costo del lavoro per unità di prodotto e della sua rilevanza nella competitività mondiale ed in particolare nell’UE, pensare alla perdita di posti di lavoro che non solo in futuro, ma già da anni (pensiamo alla robotizzazione delle catene di montaggio delle auto) il nuovo modo di produzione 4.0 comporta.

Se metto insieme tutti questi elementi la riduzione del tempo di lavoro mi pare una soluzione che:

  1. se fatta a parità di salario emarginerebbe il nostro paese nella competitività globalizzata. Ci sarebbe un effetto benefico sui consumi e quindi sulla domanda aggregata, ma spingerebbe il capitale o a chiudere e dirottare i suoi fondi nel finanziario o ad accelerare la meccanizzazione in modo selvaggio contro i lavoratori e senza essere condizionato da una valutazione di impatto occupazionale;
  2. se fatta a salario commisurato al ridotto tempo di lavoro non minerebbe la competitività aziendale e ridurrebbe la disoccupazione (non incrementando però le ore lavorate), non avrebbe effetti sulla domanda aggregata, ma non affronterebbe il problema di come essere protagonisti nel gestire il nuovo modo di produzione 4.0.

Entrambe sarebbero comunque misure temporanee che non danno una soluzione radicale al problema specialmente quando proiettassimo gli sviluppi della robotizzazione al momento in cui tutto fosse prodotto dalle macchine e fosse scomparso il lavoro vivo.

Per affrontare il problema in modo più sistematico ritengo invece che occorra in modo globale e sistematico, tenendo presenti le difficoltà attuali del nostro sistema produttivo, consci che viviamo in un sistema capitalistico che non siamo in grado di scalzare, ma che siamo in grado, con le nostre capacità, di modificare o condizionare a favore della razionalità socialista. Capisco la necessità di prevedere, in una società completamente robotizzata, un reddito di cittadinanza, ma esso non avrebbe nulla a che vedere con il reddito di cittadinanza che il governo ci propone. Quello che mi perplime è che questo reddito di cittadinanza sia finanziato in deficit e non si pensi in alcun modo a come strutturare una sistematica che finanzi i fondi destinati a sostenerlo. Mi ferisce la primitività dell’approccio e la demagogia della proposta, costretta, proprio per queste carenze, a inventare limitazioni e condizioni che contraddicono l’incondizionalità del reddito di cittadinanza.

Dobbiamo quindi, a mio modo di vedere:

  • privilegiare l’incremento di produttività dell’azienda Italia, favorendo la digitalizzazione, la robotizzazione e l’innovazione, e operando in modo da superare il nanismo del nostro assetto industriale.
  • nel contempo dovremmo registrare ogni agevolazione fiscale data alle imprese non come “regalo al capitale” ma come partecipazione societaria della comunità nel capitale sociale delle imprese beneficiarie. In tal modo non si toglie all’impresa alcun vantaggio previsto dalle agevolazioni fiscali, ma l’erogazione di tali agevolazioni va alla comunità piuttosto che al capitale. In fondo le agevolazioni fiscali vengono dai contribuenti e non dal capitale, ovvio quindi riconoscerne la titolarità alla comunità e non al capitale, con la creazione di un fondo di solidarietà, di memoria Meidneriana.
  • prevedere nella rilevazione dell’utile societario, un accantonamento obbligatorio al fondo di solidarietà di cui sopra come riconoscimento della quota di beneficio creato dalla innovazione tecnologica, che va riconosciuta alla comunità;
  • riduzione dell’aliquota dell’Ires per una quota pari alla quota da accantonare obbligatoriamente al fondo di solidarietà previsto al punto precedente;
  • prevedere nei rinnovi di contratto sindacali, una quota contrattuale da destinare al fondo di solidarietà, introducendo la partecipazione dei lavoratori nei consigli di amministrazione o di vigilanza delle società in proporzione al fondo di solidarietà accumulato;
  • favorire l’aggregazione delle piccole imprese in forme sociali aggregate capaci di elevare il livello tecnologico dell’aggregato, capace quindi di elevare la quota di valore aggiunto e ridurre nel contempo il costo del lavoro per unità di prodotto.

Insomma, al di là dei suggerimenti buttati di getto più sopra, avere una visione globale del problema che disegni una nuova società capace di adeguarsi agli sviluppi schumpeteriani dell’economia e in grado di governarli nei limiti delle sue capacità.

 

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