La filosofia ‘tutta politica’ di Costanzo Preve: un intellettuale non omologato
mag 2nd, 2016 | Di Maurizio Neri | Categoria: Recensionidi Stefano Sissa
È con grande piacere che ho accolto il cortese invito di Luigi Tedeschi ad introdurre questo libro-intervista a Costanzo Preve, cui sono legato da affinità intellettuale e da sincera amicizia, in un’epoca in cui l’amicizia disinteressata e l’onestà intellettuale sono sempre più rare. Il presente libro è l’ideale prosecuzione del precedente Alla ricerca della speranza perduta, edito nel 2008; allo stesso tempo, però, è una pubblicazione del tutto autonoma che – se volete – potete leggere anche senza un ordine preciso, in quanto ogni capitolo affronta un plesso tematico in sé compiuto, anche se tutti convergono nel delineare una radicale critica all’attuale situazione sociale, politica e culturale.
Fare esperienza di Costanzo Preve, leggendo i suoi scritti, guardando le sue videointerviste in rete, o avendone conoscenza personale, come ha avuto la fortuna il sottoscritto, significa potersi riconciliare, per certi versi, con la figura dell’intellettuale; figura oggi quanto mai equivoca. Occorre infatti intendersi bene su questo termine. Preve indirizza una critica radicale a quanti vengono riconosciuti pubblicamente come gli intellettuali. Se Preve è tecnicamente un intellettuale (è un pensatore colto e originale, con una foltissima produzione di libri e articoli), non lo è sociologicamente, in quanto non appartiene a quella categoria di persone cui viene affidato il compito di produrre e diffondere idee compatibili con il sistema, in cambio di un riconoscimento ufficiale e di una collocazione stipendiale negli apparati di produzione del consenso.
Come ‘intellettuale’, Preve non risulterebbe assolutamente conforme – né in ciò che dice, né in come lo dice – ai codici che regolano la produzione e la diffusione di idee nel nostro paese (e certamente non solo nel nostro). E perciò è inevitabilmente condannato all’esclusione dai circuiti istituzionali e mediatici attraverso i quali passa la cultura ‘ufficiale’. Tutto ciò è comprensibile, del resto; nessuno, infatti, accoglierebbe nei propri ranghi un ‘nemico’. Uso di proposito un’espressione semanticamente molto marcata come quella di ‘nemico’, piuttosto che impiegare – come convenzionalmente si fa – termini come ‘critico’ o tutt’al più ‘avversario’. La critica filosofico-politica di Preve, in effetti, è un attacco senza quartiere al sistema di riproduzione di un pensiero omologato, che anche quando sembra porsi come antagonistico, svolge in realtà soltanto la funzione di ‘valvola di sfogo’ puramente virtuale, legittimando nei fatti gli equilibri vigenti. In effetti, la cerchia sociale che costituisce l’intellighenzia può occasionalmente anche ospitare pensatori originali e dissacranti, ma solo a patto che il loro profilo complessivo sia tale da non mettere realmente in discussione né l’ordine del discorso nel suo complesso, né i presupposti economici e politici dello stesso. Tali figure, anzi, sono spesso apprezzate, poiché catalizzano un disagio latente verso l’ordine sociale stabilito, offrendo solo delle ‘gratificazioni sostitutive’ e delle alternative puramente estetiche, contribuendo nei fatti a rinforzare i rapporti di dominio presenti.
Preve parla giustamente di “ritorno del clero”, riferendosi a quella schiera di persone variamente collocate (‘clero secolare’: i giornalisti, ‘clero regolare’: i professori universitari) che – in analogia alla funzione svolta nel Medioevo dal ceto sacerdotale – operano per fornire una legittimazione ideologica a quell’insieme integrato di rapporti di forza di cui essi sono dipendenti.
«Il clero giornalistico secolare ha il compito di organizzare una rappresentazione quotidiana profana, il cui scopo è quello di simulare la sacralità del dominio della Nuova Nobiltà finanziaria transnazionale ultracapitalistica e postborghese. Il clero giornalistico secolare è organizzato in una chiesa invisibile, o meglio ultravisibile, che definiremo circo mediatico. […] Il circo mediatico è più importante della comunità universitaria, perché dà e toglie la parola a chi vuole, e controlla dunque i flussi comunicativi fondamentali. È però nella comunità universitaria mondiale che vengono elaborate per ora le forme culturali […]. Il circo mediatico effettua la saturazione comunicativa di ciò che è stato prima elaborato nella forma della frammetazione produttiva»[1].
Si tratta di circuiti molto influenti, dunque; eppure rimangono ‘dipendenti’, in quanto non sono direttamente innestati nei processi di produzione della ricchezza sociale, al contrario di quanto può accadere per altre professionalità intellettuali che non vengono però designati come “gli intellettuali”: si tratti di economisti, tecnocrati, alti ingegneri, esperti di diritto al servizio delle corporations, ecc. Il gruppo sociologico degli “intellettuali” costituisce, invece – per usare un’espressione di Pierre Bourdieu – una “frazione dominata della classe dominante”, che in certi casi può persino inscenare blande forme di antagonismo ritualizzato, ma nella sostanza non ha alcun interesse ad opporsi realmente ad un sistema che li beneficia, se pur in posizione subalterna. E in virtù di tale posizione (dominati tra i dominanti), essi sviluppano sovente forme accentuate di opportunismo e di cinismo, peraltro funzionali al raggiungimento di sufficienti posizioni di carriera in una competizione sempre più serrata. Cinismo che però si traveste, mostrandosi essi molto più ‘umanitari’ di quanto non siano realmente, attraverso una generica rivendicazione di libertà e una pomposa celebrazione dello spirito di critica verso tutti i dogmi, che però – sorprendentemente – ne lascia alcuni del tutto intoccati. Facciamo qualche esempio: il primato dell’individualità sul sociale (e quindi la condanna di ogni regime che non sia liberale), il ruolo guida dell’Occidente nella civilizzazione mondiale (anche quando è travestito da alter-mondialista), la virtù dello sradicamento cosmopolitico contrapposta all’attaccamento alla propria patria (visto sempre e solo come una forma di ottusità nazionalistica), l’imparagonabilità a priori del genocidio ebraico con altri genocidi storici, la dottrina dei diritti umani come sommo apice della morale civile (impiegata in realtà come formula di legittimazione degli interventi armati degli USA e dei loro alleati per abbattere regimi politici incompatibili con le loro mire egemoniche).
Al di sotto di questo livello, si colloca un contingente ben più ampio di professionisti dal profilo intellettuale decisamente più modesto, che possiamo definire “ceto medio semi-colto” (composto per lo più da insegnanti, addetti alla cultura, lavoratori non manuali che leggono romanzi e frequentano festival letterari e filosofici, ecc.) che si collocano nelle frange istruite della piccola borghesia e che costituiscono un gruppo sociale chiaramente dominato. Essi costituiscono in realtà un settore subalterno della cultura di massa, soltanto che hanno la pretesa di differenziarsene in quando dispongono di titoli di studio e praticano forme di consumo distintive rispetto alla maggioranza, che è di bassa istruzione. Ad esempio seguono i programmi di Augias e Fazio, non vanno in vacanza ad Ibiza o Sharm El Sheik, preferendo semmai le città d’arte o gli agriturismo, leggono i quotidiani, visitano mostre piuttosto che frequentare lo stadio, socializzano manifestando apertamente il loro antiberlusconismo in ogni circostanza, ecc.
Nonostante lo sbandierato principio di ‘autonomia di giudizio’ e un retorico appellarsi ai presìdi morali della tradizione umanistica, costoro non fanno che recepire le istanze del clero intellettuale nella loro forma essoterica, ossia vestite in foggia genericamente ‘umanitaria’, laddove sul piano esoterico si tratta, in realtà, di istanze nichilistiche e relativistiche, incompatibili col vecchio umanesimo. Tali istanze, già accolte in forma semplificata, vengon poi diffuse con modalità quasi sloganistiche, in un allineamento completo ai dogmi del politicamente corretto, diffusi in particolar modo da giornali e TV.
L’engagement intellettuale di questa categoria sociale consiste per lo più nella lettura giornaliera di quotidiani come La Repubblica, nell’organizzazione di visite di istruzione per le scuole ad Auschwitz, in un pacifismo semplicistico e sprovvisto di ogni minima nozione geopolitica, in una concezione puramente moralistica della vita politica, nell’idea del primato della società civile, sempre intesa come momentaneo e mutevole rassemblement di opinioni individuali e mai riferite alle posizioni di classe. La nozione di classe sociale viene, anzi, esplicitamente rifiutata e sostituita da altre categorie sociologiche di maggiore appeal presso il pubblico, come le donne, i giovani, i gay, gli immigrati, tutti però concepiti al di fuori di ogni precisa determinazione, come se una donna, un giovane, un gay, un immigrato ricchi e ben collocati nel sistema fossero da intendere alla stessa stregua di uno che non ha accesso alle risorse e al potere.
Ciò che accomuna questi due livelli ben differenziati di intellettuali, ossia il ‘clero’ e i ripetitori mid-brow (ossia i ‘semi-colti’) è un atteggiamento farisaico. Ai processi di disgregazione sociale e di asservimento di fatto delle coscienze viene opposta una prosopopea dell’umanità che ha ormai poco o nulla a che vedere con la tradizione dell’umanesimo, che sia quello classico oppure quello civile di età moderna. Si riconduce – nel solco della tradizione liberale – la soggettività umana alla mera individualità, presunta libera e autonoma a priori, e perciò in grado di affrontare le questioni sul piano di un ‘aperto confronto’ all’interno della società civile. Una società civile non intesa hegelianamente come “sistema dei bisogni”, ma illuministicamente come arena pubblica dove si esprimono le opinioni (ossia la relativistica doxa) e si eserciterebbe il controllo pubblico del potere, anche attraverso la ricezione presso le istituzioni formali delle istanze emerse nel dibattito civile. Senonché si finge di non vedere che tale spazio di rappresentanza pubblica è ormai da tempo configurato come uno spazio virtuale di sola ‘rappresentazione’, cioè di pura ‘messa in scena’ delle prerogative democratiche, senza reale possibilità di incidenza; mentre i processi decisionali si svolgono certamente altrove. L’intellettuale stipendiato ha la funzione di mantenere in piedi questa illusione, attivandosi, più o meno consapevolmente, per stornare ogni possibile istanza che preveda il passaggio dal piano puramente ideologico a quello di una prassi trasformatrice o quantomeno ad una resistenza organizzata e fattiva.
Mi permetto di documentare un concreto caso specifico, ma esemplare, di trasmissione ideologica dal clero alla manovalanza intellettuale. Nel 2010 il sottoscritto ha partecipato ad una serie di incontri organizzati dall’Istituto Gramsci dell’Emilia Romagna sulle “voci della democrazia” (tale istituto si propone ancor oggi di porre in atto strategie per una ‘gramsciana’ egemonia culturale: c’è da chiedersi, però, in quale direzione e a beneficio di quali gruppi sociali). La direzione e la conduzione di tali incontri era affidata al professor Carlo Galli, docente all’Università di Bologna, noto editorialista de La Repubblica, oggi presidente della Fondazione che guida la sezione emiliana dell’Istituto Gramsci, nonché deputato eletto per il Partito Democratico alle elezioni politiche del 2013. Galli è un serio e preparatissimo studioso di dottrine politiche. Uno degli incontri aveva come titolo “democrazia e conflitto: il repubblicanesimo” ed aveva come ospite il professor Marco Geuna, dell’Università Statale di Milano, che avrebbe fatto da relatore sulla tradizione del pensiero repubblicano nell’ambito della storia delle dottrine politiche. Durante l’apprezzabile esposizione delle articolazioni storiche del concetto di repubblicanesimo, è emerso come esso si regga su due concetti chiave: libertà intesa nel senso di “non essere dominati” (da nemici esterni, da soggetti privati interni troppo potenti) e virtù, intesa come sobrietà nei costumi e disponibilità a dedicare parte di sé alla cosa pubblica, inclusa la disponibilità a combattere – letteralmente – per difenderla. In conclusione della dotta esposizione, entrambi i professori hanno sottolineato come la tradizione repubblicana potrebbe e dovrebbe essere un antidoto alla rassegnazione, al rifugio nel privato, alla sopportazione della dominazione che caratterizzano la condizione attuale. Secondo loro, l’odierna democrazia liberale non ha mantenuto le sue promesse, ha assistito ad un trionfo della proceduralità sulla libertà sostanziale e sulla partecipazione; in ultimo, si è trasformata in una spregiudicata oligarchia di fatto, garantita da una messa in scena puramente mediatica della sovranità popolare. Diagnosi pienamente condivisibile. Tuttavia colsi una reticenza, come segnalai durante il dibattito in coda alla relazione. In fondo, nel concetto stesso di virtù è già implicita anche la nozione repubblicana di libertà, in quanto la vir-tù è la facoltà del vir, cioè dell’uomo, ma inteso assiologicamente come uomo valoroso, ‘virile’, appunto, e quindi anche pronto a combattere, all’occorrenza, contro la possibile dominazione. E per ‘combattere’ non si può intendere ipocritamente solo la ‘battaglia delle idee’ o le rituali contese parlamentari (ché allora si tornerebbe nella strettoia della liberaldemocrazia di cui si era detto), ma anche l’eventualità – in casi estremi – di usare effettivamente la violenza organizzata; infatti per la tradizione repubblicana, “il popolo libero è il popolo in armi”. Capendo dove volevo andare a parare, i due professori si son preoccupati di riprendersi tosto la parola e di precisare letteralmente che “alla critica delle armi”, preferivano “le armi della critica”, ribaltando un celebre enunciato di Marx, che contestava la ‘pura critica’ degli intellettuali borghesi progressisti del suo tempo. Non solo: si è precisato che il primato assiologico della nozione di vir escluderebbe le donne dalla pienezza delle prerogative politiche. Mi si è opposto, insomma, un argomento tipicamente politically correct. Argomento capzioso, poiché nulla vieta a priori alle donne emancipate della società di oggi di assumere – all’occorrenza – i valori ‘marziali’ della difesa repubblicana; eppure l’argomento è risultato subito decisivo per convincere il resto del pubblico in sala, composto per lo più da quel ceto medio semi-colto di cui sopra. Pubblico che si è sentito subito rassicurato dal fatto di sentirsi dire dagli esimi professori che, nella sostanza, nessuno dei presenti avrebbe dovuto scomodarsi o correre dei rischi personali. Tutto avrebbe potuto rimanere così com’è: la critica alla democrazia liberale era soltanto una lamentatio consolatoria, momentaneamente catartica, in quanto la soluzione prospettata consisteva alla fine proprio nel ribadire la legittimità esclusiva di quelle pratiche che, solo sulla carta, erano state messe in discussione dagli interventi dei due dotti.
Naturalmente nessuno pretendeva che dei cattedratici incitassero alla rivolta o si spendessero per organizzare dei gruppi d’azione, ma almeno avrebbero potuto lasciare intendere, anche implicitamente, che tutto ciò era forse auspicabile o quantomeno lasciare la mia sollecitazione al giudizio del pubblico, senza controbattere. Se hanno agito diversamente è perché invece la loro funzione è proprio quella di istruire la manovalanza intellettuale presente tra gli uditori a tradurre sempre il potenziale conflitto sociale in formule retoriche e in astratte istanze moraleggianti, in modo da stornare la pur remota possibilità che si erga pian piano una reale opposizione, consapevole ed organizzata, al sistema.
Ecco, Costanzo Preve non è e non sarà mai questo genere di intellettuale: non è reticente, né uno che getta acqua sul fuoco; anzi. Certo, nemmeno da lui ci si deve aspettare che faccia da promotore di iniziative politiche. È un filosofo, non un militante politico. Eppure il suo essere filosofo è totus politicus. E questo non perché egli si interessi esclusivamente di filosofia politica o di questioni sociali, come ci si può pure aspettare dati i suoi trascorsi marxisti, ma perché in generale il suo modo di interrogarsi filosoficamente (ad esempio anche sul pensiero degli antichi greci o sulle questioni del soggetto moderno) passa sempre attraverso l’assunzione del ruolo determinante della vita associata e della dialettica storica in cui le comunità umane si rapportano tra loro in virtù dell’accesso alle risorse e ai mezzi di potere.
È proprio a livello metodologico – o meglio ancora: epistemologico – che Preve è filosofo ‘politico’, in quanto per lui la ‘verità’ filosofica è un sempre prodotto, non arbitrario però, della vita associata. Il suo modello operativo è quello della deduzione sociale delle categorie filosofiche, ossia l’assunto che le categorie del pensiero, pur potendo anche assurgere a valore teoretico universale, siano sempre il prodotto e allo stesso tempo l’espressione di condizioni storico-sociali-politiche ben determinate. Attenzione: non si sta qui dicendo la cosa ovvia – che ogni professore di liceo decente direbbe ai propri studenti – che le teorie dei filosofi van comprese contestualizzandole storicamente. In affinità con certa sociologia europea di derivazione marxista (Franz Borkenau, Alfred Sohn-Rethel), ma anche con il Durkheim de Le forme elementari della vita religiosa, egli ritiene che gli stessi concetti filosofici siano una implicita rappresentazione – se pur mediata dal pensiero (cioè non un im-mediato rispecchiamento) – della configurazione dei rapporti sociali, politici ed economici in cui si collocano gli uomini che hanno prodotto quei concetti. Tanto per fare un esempio: la filosofia dei cosiddetti ‘presocratici’, incentrata su concetti come quello di arché, di logos, di metron, riferiti alla realtà naturale (physis) o all’essere in generale, è il precipitato storico dell’esperienza sociale della costituzione della polis, ossia della comunità politica, che non era più la comunità tribale, garantita a priori da rapporti ascrittivi di tipo clanico. La polis presuppone la presenza di soggetti pensanti, educati all’uso della ragione, che stabiliscano un fondamento stabile della loro unità politica e regolino i rapporti interni secondo criteri di ‘giusta misura’, una giusta misura che si articola nel rapporto tra divenire, cioè un relativo dinamismo sociale, e permanenza, ossia la necessaria stabilità istituzionale e la conservazione dei rapporti comunitari. Si tratta di presìdi istituzionali (uso qui il termine ‘istituzione’ nel senso ampio che ne dà l’antropologia sociale) che non possono essere dati per scontati, in quanto la polis era investita in quel frangente, proprio anche in virtù del suo sviluppo, da tendenze sociali che potevano anche tradursi in spinte dissolutrici, come ad esempio il potenzialmente s-misurato incremento dell’interesse privato e l’espansione dell’economia monetaria e mercantile.
Per Preve non si può mai discutere di filosofia in astratto, prescindendo dai rapporti di forza che disegnano il campo di praticabilità del pensiero e dell’azione autonoma e razionale. La ragione filosofica si intreccia con una determinata prassi, poiché necessita che siano assolte precise condizioni per essere praticata senza divenire pura ideologia giustificatrice del dominio esistente oppure una dottrina consolatoria per il ritiro nel privato. La filosofia ha bisogno di persone che dialogano razionalmente tra loro in condizioni di relativa libertà, ossia dove non accada che si affermi una tesi soltanto in virtù del potere o della forza de facto di chi la pronuncia. La filosofia si afferma in virtù della combinazione politicamente riconosciuta di isonomia, eguaglianza davanti alla legge, isegoria, ovvero libertà e parità di parola, parresia, dovere di non essere reticenti e impegno a dire la verità. Occorre insomma che ci siano le condizioni perché possa dispiegarsi la cosiddetta ragione comunicativa di cui parla Habermas. Purtroppo, però, il filosofo tedesco, allontanatosi a partire dalla fine degli anni ’70 dalla matrice hegeliano-marxiana della scuola di Francoforte per approdare ad una sorta di trascendentalismo kantiano, ha finito per declinare tale concetto in una chiave formalistica affine allo stereotipo propagandato dalle liberaldemocrazie, anziché precisare le articolazioni storico-politiche per cui quella ragione comunicativa può essere praticata piuttosto che conculcata. Esattamente ciò che invece Preve si preoccupa di fare, come vedrete in queste pagine, qui con particolare riferimento agli anni che stiamo vivendo. Infatti, così come dice che «la democrazia ateniese non sarebbe stata possibile con una guarnigione persiana sull’acropoli», Preve ritiene pure che oggi non sia possibile in Europa avere i mezzi per praticare pubblicamente una filosofia critica (ossia una filosofia che sia tale e non pura ideologia, anche se rimane sempre un quantum di componente ideologica che non può essere eradicato dal pensiero filosofico) finché sussistano sul territorio europeo le basi militari americane, la cui presenza soft, non deve ingannare: si tratta della garanzia ultima che il nostro paese rimanga permanentemente subalterno, sul piano culturale non meno di quello politico od economico. Infatti a nessuno è concesso di introdursi nei gangli degli apparati di potere così come nei luoghi illustri della produzione intellettuale se è in aperto contrasto con quella ferma dominazione, che è tanto discreta e ‘vellutata’ presso di noi quanto si manifesta aperta e brutale in altre aree del mondo.
L’antiamericanismo di Preve – e la correlata ostilità al paese che costituisce nello scacchiere mediorientale la testa di ponte dell’egemonia occidentalista, ossia Israele – non è dovuto ad un pregiudizio ideologico e neppure ad una assolutizzazione della chiave di lettura geopolitica, che pure Preve ritiene giustamente essenziale, ma non in sé esaustiva. Preve è antiamericano perché è anticapitalista. Egli sa benissimo, come tutti, che il modo di produzione capitalistico non è certo nato negli Stati Uniti e inoltre che esso è fondamentalmente un “processo senza soggetto” che di suo – cioè se non incontra una strenua resistenza – tende a scardinare e progressivamente omologare a sé ogni altra forma eterogenea di organizzazione sociale ed economica. Tuttavia è negli USA che il capitalismo ha raggiunto il suo culmine identificando con se stesso l’intera società. È là che il capitalismo è entrato nella fase speculativa del suo sviluppo dialettico, ha inverato cioè la sua essenza fino al punto di rispecchiarsi in se stesso come forma compiuta. È dunque a partire da là che si diffondono nel mondo i tratti di un capitalismo assoluto-totalitario, stabilitosi come una sorta di orizzonte ‘naturale’ intrascendibile, che fa sembrare ogni proposta di alternativa sistemica una pretesa assurda e ogni altra forma di organizzazione socio-economica con cui entra in attrito un intralcio atavico da spazzar via al più presto.
Anche se le centrali del capitalismo possono essere dislocate altrove (la più classica è la City di Londra), allo stato attuale delle cose, sono gli Stati Uniti, con gli alleati NATO come corollari, in virtù della loro forza militare e del suadente colonialismo culturale, ad essere il più potente e pericoloso ‘agente di trasmissione’ mondiale di questo vero e proprio virus sociale, portatore di sfruttamento, accaparramento inconsulto di risorse, mercificazione di tutti i rapporti sociali, alienazione della condizione umana.
Non a caso ho introdotto il tema dell’alienazione. Preve è stato direttamente allievo del filosofo marxista Louis Althusser, avendo studiato alla Sorbona negli anni immediatamente antecedenti al ‘68. È risaputo che la lettura critica di Marx fatta da Althusser introduce l’idea di una vera e propria coupure épistémologique tra il giovane Marx idealista e il Marx maturo dell’analisi strutturale del modo di produzione capitalistico, con le sue caratteristiche di dominazione e sfruttamento. In questa lettura, il tema dell’alienazione – che presupporrebbe una sorta di essenza dell’uomo alterata poi dai rapporti di produzione capitalistici – viene concepito come un residuo idealistico, hegeliano e borghese della filosofia del primo Marx, il quale è approdato solo in seconda istanza ad una teoria sociale compiutamente scientifica. Orbene, Preve ha maturato negli anni un distacco sempre più ampio dall’impostazione del problema data dal suo maestro, cui comunque riconosce una opportunità contingente ai tempi in cui venne fornita. Secondo Preve, la poderosa formulazione teorica del Marx del Capitale non necessariamente comporta il decadimento del tema dell’alienazione; considera anzi quest’ultimo come un architrave irrinunciabile della teoria di Marx. Egli opera una rilettura in chiave ‘idealista’ del pensiero di Marx[2], ma invertendone il giudizio assiologico. Il filosofo di Treviri è così chiaramente ricollocato in pieno nel solco della filosofia classica tedesca e in particolare nella linea di Fichte e di Hegel, troppo presto ridotti dalla storiografia marxista a semplici alfieri di una borghesia in cerca di accreditamento sociale nell’ambito del nascente capitalismo industriale tedesco. Borghesia e capitalismo non costituiscono un’endiadi senza residuo. Il capitalismo è stato indubbiamente innescato e veicolato dalla borghesia, ma tale classe sociale non può essere identificata tout court come l’intrinseco supporto sociologico di un processo sociale così complesso. In effetti, tale processo si è rivelato capace di trascendere ampiamente il solo supporto della borghesia, come si è visto negli ultimi decenni, in cui abbiamo assistito ad un sostegno incondizionato al capitalismo anche da parte del proletariato occidentale, stregato dai comfort e dai livelli di consumo che gli ha garantito fino all’altro ieri.
In realtà, alcune frange della borghesia – che peraltro si articola in più componenti differenziate – hanno rappresentato anche una forma di ‘coscienza infelice’ della civilizzazione capitalistica, offrendo il destro anche al sorgere della critica anticapitalistica di forma dialettica (diversa da quella puramente nostalgica e ‘reazionaria’), che ha avuto in Marx il suo esponente più robusto. Per il moderno pensiero dialettico, elaborato in seno a quelle frange sociali di cui sopra, la vicenda umana si qualifica attraverso il processo di autocomprensione del rapporto di reciproca determinazione tra il soggetto e l’altro da sé, cioè l’oggetto. L’uomo perviene alla verità di se stesso – che è una verità relazionale – attraverso quella prassi storica che gli consente la comprensione di come il suo essere vada concepito a partire dal punto dinamico di incontro/scontro tra Io e Mondo, tra soggetto e realtà; il che bandisce sia il puro soggettivismo che il realismo ingenuo. La condizione alienata è quella in cui l’uomo è lontano o impedito a compiere questa autocomprensione, che avrebbe un effetto liberatorio perché consentirebbe sia di rimuovere gli ostacoli di una oggettività pietrificata, sia di rimettersi dagli svianti sogni di onnipotenza del soggetto.
Ora, non vi è dubbio che il sistema capitalistico, che pure ha sprigionato enormi potenziali di razionalità tecnica e scientifica, comporti per l’uomo un sempre più marcato esproprio della sua capacità di autodeterminarsi, raggelato com’è in un insieme di rapporti sociali che funzionano alla stregua di ‘cose’ (reificazione) e che gli impediscono di soggettivarsi realmente. Il capitalismo porta progressivamente alla mercificazione di tutti i rapporti sociali, ossia alla sussunzione di ogni attribuzione sociale di valore al solo valore di scambio. Dato che il sistema di mercato prevede una serrata competizione in cui necessariamente il capitale più grande divora quello più piccolo, ciascuno – sempre più – vien trattato da ciascun altro come mero strumento per l’accumulazione di capitale, che non è solo il denaro, ma tutto ciò che conferisce un astratto potere di scambio nella relazione di mercato. Questo non avviene senza conseguenze radicali per la condizione umana; per cui è opportuno parlare di ‘alienazione’, che significa allontanarsi da sé stessi, alterando ciò che essenzialmente si è. Per Preve è corretto usare questo termine non perché debba esistere un’essenza umana da intendersi come substrato già dotato all’origine di tutte le sue determinazioni, almeno in nuce, com’è nella metafisica classica, ma perché comunque ritiene che esista una natura umana sulla base quale è comunque possibile pensare una ontologia dell’essere sociale (per dirla con György Lukács, un altro dei punti di riferimento di Preve).
«Il fatto è che il termine alienazione, o meglio il suo uso filosofico, presuppone un precedente fatto storico, e cioè che la totalità dei rapporti sociali possa essere intuita come “alienata”. Ed alienata significa allora “allontanata”. Ed allontanata da che cosa? Ma è chiaro. Allontanata non tanto da un’origine nel frattempo decaduta e perduta e che si tratta allora di “recuperare” con un ritorno alla primitività […], quanto allontanata da un’Idea di Genere Umano realmente razionale»[3].
Per Marx la natura dell’uomo consiste nel suo essere un ente naturale generico che si specifica sempre nella determinatezza dei rapporti storico-sociali, dato che l’uomo in società è allo stesso tempo prodotto e produttore di se stesso. Preve è d’accordo, ma anziché inferirne – come ha fatto lo storicismo – che allora l’identità umana è null’altro che un vuoto caleidoscopio totalmente in balìa della contingenza storica, egli vi innesta qui l’altra grande ‘bussola’ del suo pensiero filosofico, ovvero la tradizione greca di età classica, e in particolare la definizione della natura umana fornita da Aristotele, per il quale l’uomo è zoon logon echon e zoon politikon. La prima espressione significa che l’uomo è un essere vivente ‘attrezzato per stare’ nel logos, ossia è potenzialmente capace di produrre discorsi razionali e calcolare la ‘giusta misura’ nell’ordine delle cose; la seconda che è un essere comunitario, ossia l’uomo può esistere come tale solo nella dimensione di una partecipata socialità pubblica, poiché laddove questa dimensione manchi, esso si riduce allo stato di bruto, cioè al suo solo funzionamento biologico.
Ecco perché il sistema capitalistico, pur non essendo certo l’unica forma di dominazione e oppressione della storia (che anzi, ne è pienissima) è tuttavia il nemico per eccellenza, un nemico mortale. In altri sistemi storici vi erano le condizioni affinché solo una parte della società potesse estrinsecare i caratteri propri della natura umana; al prezzo, certo, di pesanti discriminazioni: ricordiamo come nella filosofia della storia di Hegel la ‘libertà’ (che poi è la soggettività, non la pura libertà negativa dei liberali) sia prima di uno solo, nel dispotismo asiatico, poi di molti, ma non di tutti, nel mondo classico. Nella modernità capitalistica, vi è infine – potenzialmente – la ‘libertà’ di tutti; nei fatti, invece, vi è l’annichilimento progressivo della natura dell’uomo in quanto tale e non solo dei proletari, che semmai son quelli sui quali la tormenta capitalistica infierisce per primi, con più ferocia e senza rete di protezione. Nel capitalismo, l’uomo è stato ridotto prima a mero prestatore d’opera sul mercato, poi a semplice consumatore privato e infine ad una vera e propria precarietà ontologica (homo precarius). Con la precarietà assurta a paradigma normativo dell’esistenza (da quella nel lavoro a quella negli affetti, ecc.), la natura razionale e comunitaria dell’uomo viene terremotata nelle sue fondamenta e rimane soltanto di essere delle appendici dei meccanismi ciechi del profitto e atomi esistenziali alla deriva. Nessun sistema, insomma, per quanto odioso, era arrivato al punto tale di mettere a repentaglio la stessa natura umana (e a questo potremmo aggiungere la natura in generale, dato l’impatto smisurato sull’ecosistema).
Ribadisco che parliamo di ‘uomo’ e non soltanto di determinate classi non perché l’analisi di classe non rimanga comunque fondamentale sul piano squisitamente sociologico, ma perché il meccanismo capitalistico è talmente poderoso e pervasivo da assimilare progressivamente una massa sempre più ampia di persone fino a trascendere le differenze di classe. In un capitalismo sviluppato in pieno, insomma, vengono sfruttate solo determinate classi, ma viene alienata l’umanità nella sua interezza.
La speranza di Preve (ecco il senso del titolo del libro) è che ci sia ancora una chance di invertire o almeno frenare questa corsa al precipizio, contando sul fatto che la natura umana, per sua stessa costituzione, ha ancora qualche residuo potenziale per potersi opporre ad una deformazione incessante e senza misura. Per questo Preve si affida alla filosofia degli antichi greci e al loro senso del limite, alla nozione di giusta misura, contrapposta all’abisso caotico dell’indeterminato, che è la rappresentazione in foggia cosmologica e ontologica di una società anomica che si disgrega e si cannibalizza dall’interno.
Preve insomma, oltre ad inserirsi nell’alveo del pensiero dialettico tedesco, è anzitutto un erede della filosofia classica dei greci. Attenzione, però. L’affiliazione di Preve allo spirito degli antichi non ha nulla a che vedere con il neopaganesimo scimmiottato dei postmoderni, dei quali anzi si dichiara strenuo avversario. E non è un caso che mentre questi siano fondamentalmente anti-cristiani, Preve invece – pur da non credente – riconosce al cristianesimo un contenuto veritativo – oltre che etico – universale, fondato ontologicamente e non solo convenzionalmente. Ai neopagani odierni, di cui l’antesignano fu Nietzsche (che però almeno, nella sua unilateralità, era comunque geniale, a differenza di costoro), interessa soltanto il ‘politeismo dei valori’, contro l’idea di ragione universale, in modo da lasciare soltanto al mercato la funzione di medium universale dell’umanità. Invece, la riaffermazione previana della natura umana in chiave aristotelica contraddice il decostruzionismo radicale del soggetto portato avanti con gioiosa incoscienza (quando non anche con perfida fregola) dagli intellettuali postmoderni, le cui preferenze rispetto al mondo antico vanno semmai verso l’epoché degli scettici (che però in loro si traduce in nichilismo) o l’edoné degli epicurei (che però in loro si traduce in consumismo); non a caso scuole filosofiche successive all’età classica della polis, cioè quella del cittadino comunitario, di cui proprio Aristotele ha assistito al tramonto, con gli esordi dell’età ellenistica.
Altrettanto deleterio – nota Preve – è il versante non liberale del postmodernismo, ossia quello ‘radicale’ che fa capo agli insegnamenti di Foucault, Deleuze, Toni Negri, ecc. Nelle loro filosofie – o per esser più precisi, nella ‘vulgata’ che ne circola negli ambienti della sinistra più o meno antagonista, fatti di ricercatori universitari dall’aria ‘alternativa’ o militanti dei centri sociali – alberga un notevole potenziale deflagrante della soggettività, sia sul piano teoretico che su quello pratico. Si tratta di concezioni letteralmente an-archiche, ossia demolitrici di ogni fondamento (arché) della responsabilità sociale dell’uomo, in virtù del libero gioco dell’infinita produttività del desiderio o dell’esplosione delle differenze; che però, a dispetto di quanto ne pensino i loro sostenitori, finisce per assecondare e legittimare di rimbalzo le logiche individualistiche e di mercato che sulla carta si vorrebbero contrastare.
Da quanto detto, non risulterà sorprendente il profilo per molti aspetti ‘conservatore’ di Preve. Beneficamente conservatore, però. Conservatore dei presìdi essenziali della natura umana e della tenuta del legame sociale, così come del patrimonio di esperienza e saggezza morale che deriva dal passato storico, mediato però dal pensiero razionale (ossia non accettato acriticamente come un dato). Conservatore perché patriottico e oppositore della logica dello sradicamento universale che ci vorrebbe tutte pedine in balìa dei flussi impersonali del capitalismo, che mobilizza costantemente uomini, merci e capitali al solo fine del profitto, senza alcun riguardo verso le esigenze più profonde della vita sociale, che hanno bisogno, invece, di essere coltivate con pazienza e in un quadro di relativa stabilità (è così per la famiglia, l’amicizia, l’amore di coppia, l’onesta cooperazione nel lavoro, la vita pubblica consapevole e partecipata). Preve, cioè, non è conservatore nel senso della difesa dei privilegi di classe quale viene attuata dai detestabili partiti conservatori odierni, che peraltro sono ancora più nichilisti e asserviti al capitalismo di quanto non siano già quelli progressisti, i quali semmai sono in compenso più ingenui, ipocriti e fuorvianti. Preve è un conservatore comunista, ossia è un comunista comunitarista. Comunista perché si oppone al capitalismo in direzione di una società umana guidata dalla razionalità e orientata in senso emancipativo con carattere universalistico; da raggiungere non astrattamente, però, quanto piuttosto nella continua mediazione dialettica delle diverse esperienze storiche delle comunità locali e delle statualità nazionali. Perciò non è per il cosmopolitismo (che in realtà è un’ideologia di legittimazione delle élite internazionali), ma è un comunitarista, ossia è per la conservazione dei legami preventivi del tessuto sociale, per il radicamento, anche territoriale (che non significa grossolanamente ‘etnico’), per i codici di dignità e onore che il mondo della tradizione custodiva: tutti fattori senza i quali ogni argine allo tsunami capitalistico diviene impensabile.
In questa ottica, patria, famiglia e religione non appaiono più soltanto come feticci di una anacronistica destra reazionaria oppure come slogan filistei e copertura ideologica, com’è nelle destre affaristiche allineate al sistema. Patria, famiglia, religione, almeno laddove non vengano assolutizzate, strumentalizzate, imposte acriticamente, sono anche il precipitato storico della naturale socialità umana; sono presìdi a beneficio della continuità dei rapporti e di una reciprocità interna, contrapposti all’individualismo, all’opportunismo cinico, al nichilismo. Presìdi, beniteso, che possono certo avere (e tante volte hanno avuto) sviluppi negativi, opprimenti, ferocemente discriminatori, ma non sono con ciò da abrogare a priori, proprio come non si “butta via il bambino con l’acqua sporca”.
Così si spiega anche il giudizio fortemente critico che Preve dà della cultura scaturita dal Sessantotto. Non parliamo del ‘68 in quanto tale, poiché in realtà in quel frangente storico (che è durato ben più di un anno) si intrecciarono istanze sociali variegate, complesse e anche contraddittorie, su cui sarebbe incongruo dare un giudizio assiologico univoco. Parliamo invece di una mentalità, di un senso comune che si è sviluppato a partire da mutamenti sociali e culturali dovuti più all’affermazione di una moderna società dei consumi che ad una genuina lotta sociale anticapitalistica, che pure vi fu, in mezzo a tante altre cose, ma – possiamo ben dire, oggi – fu la linea perdente all’interno del movimento di contestazione. «Vietato vietare», «vogliamo tutto e subito», «l’immaginazione al potere» sono gli slogan più frappants di quel periodo. Slogan che fanno pensare più alle spacconerie di un gruppo di adolescenti viziati, che ad una realistica capacità di organizzarsi per sfidare quel modello politico ed economico che a parole si diceva di voler abbattere. Non è un caso, allora, che la linea vincente all’interno del movimento sia stata quella congeniale alle esigenze dell’ingresso del capitalismo nella sua fase assoluta-totalitaria. Tale fase necessitava il superamento della vetusta morale borghese (funzionale all’accumulazione, ma poco al consumo) e l’estrema fluidificazione dei rapporti sociali, in direzione di un individualismo edonista, negatore di ogni autorità e di ogni valore della trasmissione culturale e normativa per via di tradizione.
Tale screditamento di autorità non cancella con ciò stesso il potere, ma provvede a sgretolare tutte quelle configurazioni in cui l’esercizio del potere doveva accompagnarsi anche ad un certo senso di autorevolezza e responsabilità collettiva: dallo stato repubblicano alla famiglia, alla scuola, all’apprendistato nel lavoro, ecc. L’eclisse del Super-Io che caratterizza il libertarismo di derivazione sessantottesca, anziché condurre l’uomo ad una maggiore realizzazione della sua esistenza, come si è voluto credere, lo ha invece consegnato mani e piedi all’azione coattiva dei meccanismi sistemici e dei persuasori occulti, cui non riesce più ad opporre la minima resistenza, una volta che si manchi di padroneggiamento, serietà, disciplina. L’esaltazione incondizionata del principio di piacere in tutte le fasi della socializzazione (dall’educazione del bambino, alla scoperta del sesso nell’adolescenza, al consumismo vacanziero e da centro commerciale del lavoratore adulto) comporta, poi, lo sviluppo di personalità narcisistiche, tanto più pretenziose e desiderose di incessante gratificazione quanto, in realtà, intimamente fragili e insicure, come ha ben evidenziato Lasch nel suo La cultura del narcisismo. Si tratta in realtà di personalità perfette per fungere da massa di manovra di quel meccanismo di mercificazione di ogni rapporto sociale che è il capitalismo.
Se si è ben capito il senso delle righe precedenti, non dovrebbe sbalordire che Preve eserciti oggi una critica particolarmente accanita nei confronti della odierna cultura di sinistra. Molti invece se ne stupiscono, qualificandolo sbrigativamente come un ex filosofo di sinistra ormai pentito e passato alla destra, alla stregua di un Armando Plebe. Ciò anche in virtù del fatto che alcuni suoi libri, anche importanti, sono stati pubblicati da case editrici appartenenti all’area della destra radicale. Non si entrerà qui nella questione dell’attualità e validità o meno delle categorie di destra e sinistra, così come delle differenti valenze che hanno in ambito politico piuttosto che culturale[4]. È bene però precisare che Preve è stato per decenni un filosofo non ‘di sinistra’, ma marxista, per approdare poi – come si è detto – ad una sintesi originale tra pensiero greco classico, idealismo e marxismo (conservato soprattutto nella sua deduzione sociale delle categorie filosofiche). Il marxismo, così come il comunismo, non coincide con la cultura di sinistra (che è tipica della borghesia progressista), anche se storicamente ci sono state sovrapposizioni e convergenze a livello sia di dottrina politica che di blocchi sociali impegnati nella contesa politica. Queste sovrapposizioni e convergenze non sono ormai più attuali nella situazione presente. Infatti oggi la cultura di sinistra, ridotta quasi esclusivamente a forme più moderate o più radicali del politically correct, non è altro che l’altra faccia della medaglia (quella più ‘presentabile’) della dominante ‘destra del denaro’ (quella incardinata sul tipo umano rappresentato in modo esemplare da un film come Wall Street). La prima è quella che riveste di un multicolore manto di moralità la plumbea assenza di scrupoli della seconda, svolgendo così propriamente una funzione ideologica. Lo si vede in tanti frangenti: dalle guerre imperialistiche che diventano ‘interventi umanitari’ per abbattere le ‘dittature sanguinarie’ (ossia quei regimi che – pur con tutti i difetti e limiti di questo mondo – comunque si oppongono al Nuovo Ordine Mondiale), alla celebrazione di una open society senza frontiere, per cui le masse popolari, sia occidentali che non, dovrebbero aspirare a vivere in condizioni di perenne mobilizzazione come segno supremo di libertà individuale; il che in realtà favorisce i processi di dislocazione capitalistica e accumula perennemente ‘eserciti industriali di riserva’ per ricattare i lavoratori già impiegati e spingerli ad accettare condizioni sempre più gravose e precarie.
In conclusione, affinché nessuno possa muoverci accuse di reticenza, provo anche a rispondere all’obiezione del “cui prodest?”. C’è chi dice infatti: “se certe case editrici della destra radicale hanno pubblicato testi di Preve, vorrà pur dire che ne ricavano una qualche utilità”. Va fatta innanzitutto una premessa: il panorama dei profughi della destra estrema dei decenni scorsi è tanto composito e contraddittorio al suo interno quanto lo è quello dell’estrema sinistra. Come in questa si posson trovare stalinisti, trotskisti, anarchici, autonomi operaisti oppure del cognitariato globale, terzomondisti, pacifisti, animalisti, militantismo femminista o gay, generici no global, insurrezionalisti black bloc, ecc.; così pure in quella si può trovare di tutto: dai nostalgici del Ventennio ai naziskin, ma anche i convertiti al liberalismo e all’americanismo, i cultori dell’arcaico e i futuristi, i sovranisti statalisti e i federalisti sostenitori delle comunità locali, i neopagani e i cattolici tradizionalisti, gli individualisti nietzschiani e i nazi-maoisti, gli autoritari e libertari, gli ecologisti concentrati sui minuti equilibri dei luoghi specifici e gli industrialisti orientati ai grandi spazi della geopolitica. Questo solo per precisare che quando si parla di destra radicale si dovrebbe dire a quale famiglia si fa riferimento, sapendo che poi case editrici o testate possono nel tempo mutare indirizzo o avere nella stessa redazione anche tendenze differenti. Detto questo, è chiaro che all’interno di quel bacino sussistono ancora oggi aree caratterizzate da preoccupanti pulsioni xenofobe, da revanscismi paranoici, da biechi autoritarismi e intolleranza, da infami logiche da “capro espiatorio”. Tuttavia occorrerebbe che tutti quello che vengono da sinistra evitassero a loro volta di ragionare ‘fascisticamente’, pensando che esistano categorie di persone ‘ontologicamente’ diverse e per loro stessa ‘essenza’ condannate ad una perenne incompatibilità col tessuto ‘sano’ della società. Questi vigilantes dell’antifascismo (cui un po’ di buona psicoanalisi rivelerebbe a loro stessi con quale facilità proiettino su altri anche le proprie inconsce pulsioni ‘fasciste’) ritengono che esista un Ur-fascismo, un fascismo perenne, un nucleo di ‘sostanza’ irrimediabilmente orrida e incorreggibile che può solo tentare travestimenti tattici, mantenendo inalterato il suo recondito piano diabolico di annientamento di tutto ciò che è umano. Esistono certamente persone o gruppi dagli obiettivi torvi che si mimetizzano con temi e gerghi cari alla sinistra al fine esclusivo di farsi sdoganare, per poi egemonizzare dall’interno alcuni ambienti antagonistici collocati dalla parte opposta dei tradizionali schieramenti. È altrettanto vero, tuttavia, che ve ne sono altri che hanno attraversato un sincero travaglio intellettuale ed esistenziale, per giungere alla fine della loro elaborazione a posizioni che possono risultare a ciascuno più o meno condivisibili, ma che sono comunque degne di attenzione, rispetto e interlocuzione, e che non escludono ampie convergenze strategiche: uno su tutti è Alain de Benoist, con cui Preve ha stabilito un dialogo ed un’amicizia personale[5]. Così come un’amicizia personale e una convergenza si è stabilita anche con Luigi Tedeschi, che è colui che ha realizzato questo libro-intervista e che ha spesso ospitato interventi di Preve sulla rivista da lui diretta: Italicum, riconducibile all’area del cosiddetto socialismo nazionale, ma pensato nell’ampia prospettiva dei rapporti geopolitici internazionali. Anche Tedeschi ha militato da giovane nella destra radicale. Scelta che fu – ci dice – prima che politica, di carattere esistenziale: “una forma di ribellione ad uno stato di omologazione culturale, di vuoto morale, disgusto per l’adeguamento di massa al pensiero dominante”. Non la nostalgia del ventennio ha motivato la sua giovanile scelta di campo dunque, ma forse l’orgoglio un po’ maudit del proscritto (per dirla col titolo di un noto romanzo di von Salomon), di chi preferisce combattere sul fronte dei perdenti e presidiare, con un gruppo sparuto, l’ultima ‘trincea’. Quella che non fu difesa, certamente, dal postfascismo istituzionale, presto convertitosi al collaborazionismo filoamericano e a un perbenismo di facciata, funzionale soltanto alla conservazione dei rapporti di potere da parte dei gruppi dominanti. Motivo per cui Tedeschi, e altri della sua generazione, operarono lo strappo dal MSI e animarono l’esperienza della cosiddetta Nuova destra, che però non trovò un adeguato corrispettivo politico rispetto all’elaborazione culturale, che comunque tentò il rinnovamento.
Ecco cosa scandalizza quei marxisti che rifiutano Preve: il fatto di interloquire anche con alcune figure intellettuali che provengono da queste esperienze. Ma quello che questi marxisti non capiscono è che non tutti costoro son rimasti a crogiolarsi nel loro risentimento da perdenti, come già fu nelle ultime drammatiche esperienze della Repubblica di Salò, in cui la percezione della sconfitta imminente e la sensazione di essere stati traditi li condusse a un nichilismo in virtù del quale ogni rappresaglia – anche la più atroce – era concessa. C’è anche chi elaborato retrospettivamente quel senso di sconfitta e anziché inalberarsi sul proprio ‘cuore nero’, ha innescato una dialettica produttiva. Uso il termine ‘dialettica’ in senso propriamente filosofico perché – come dice lo stesso Tedeschi – la filosofia dialettica ci insegna che ogni pensiero contiene in sé la sua opposizione e se i cosiddetti ‘opposti estremismi’ si sono scontrati anche nelle piazze in un altro periodo della nostra storia, ora che essi vengono dal ‘pensiero unico’ additati tout court come ideologie assassine, può accadere che si superi l’unilateralità delle loro radici e si trovino nuove, più misurate, convergenze. Fu infatti in occasione di una manifestazione svoltasi a Roma a seguito degli eventi dell’11 settembre, organizzata congiuntamente da gruppi radicali di opposta matrice politica, che Tedeschi ha conosciuto Costanzo Preve e ha intrecciato con lui un confronto culturale che è ancora in corso. Parliamo dunque di un vero confronto dialettico, in cui le proprie posizioni si arricchiscono realmente dei contributi dell’altro. Il che non è la stessa cosa di nutrire un mero interesse ad utilizzare strumentalmente le idee di Preve. Per gli intellettuali tradizionalmente ascrivibili all’orizzonte della destra radicale, infatti, Preve può risultare appetibile per svariati motivi: come proveniente dalle fila del marxismo che però critica la cultura di sinistra, per la sua ripresa di alcuni valori ‘conservatori’, in virtù del suo antiamericanismo, ecc. Ma probabilmente ciò che interessa più di ogni altra cosa è che la proposta di Preve comporta un cospicuo riposizionamento della tradizione filosofica e politica europea rispetto ai suoi principali affluenti storico-culturali. Se molti considerano la tradizione di pensiero occidentale come il frutto dell’incontro/scontro tra due grandi paradigmi, rappresentati dalle immagini emblematiche di Atene e di Gerusalemme, la proposta di Preve prevede di ricollocarsi solidamente su Atene, ravvisando un sostanziale fallimento dell’altra matrice. Il che significa alcune cose di non poco conto: ristabilire il primato della ragione sulla fede, del Logos sulla Legge, delle virtù civili della polis sull’attesa messianica. È quest’ultimo punto che interessa alla destra radicale, che concepisce il messianismo come una forma di svalutazione in chiave moralistica dell’ordine naturale delle cose. In questa ottica, l’attesa messianica si è secolarizzata, in età moderna, traducendosi nella presunzione di poter realizzare il Regno dei Giusti attraverso una continua ‘fuga in avanti’, che – in sequenza – ha potuto assumere nella storia i tratti del liberalismo, del progressismo, della democrazia, del socialismo, del comunismo, del globalismo cosmopolitico del libero mercato; tutte concezioni negatrici della tradizione, della gerarchia, del radicamento etnico-territoriale. Da qui un’ostilità preconcetta verso quella linea di appartenenza etno-culturale. Orbene, Preve non ha però alcuna ostilità preconcetta; non è giudeofobo. Alcuni dei suoi autori di riferimento, ad esempio, sono di origine ebraica: da Spinoza a Marx a Lukács. Così come è alieno dalla giudeofobia, egli lo è però altrettanto dalla giudeofilia, ossia dal pregiudizio incondizionatamente favorevole verso tutto ciò che è prodotto della cultura ebraica; posizione talmente diffusa e propagandata oggi negli ambienti intellettuali, giornalistici, diplomatici da sembrare quasi una patente di ingresso per i circoli più prestigiosi.
Un messianismo, più o meno secolarizzato, ha contribuito ad alimentare quella speranza di una società più giusta che ha animato il movimento operaio, così come la dottrina marxista. Non si è però rivelato, sulla lunga distanza, un fattore vincente per quella lotta; anzi, porta oggi alle promesse di fantomatiche liberazioni globali da parte delle moltitudini che – al di là delle intenzioni di chi formula tali dottrine (Toni Negri, ad esempio) – finiscono soltanto per essere funzionali alla globalizzazione capitalistica, che mira a creare una massa omogenea di sradicati da dislocare e manipolare. Viceversa il messianismo secolarizzato ha funzionato molto bene nel sostenere – piuttosto – il fronte capitalistico. Un “mito di elezione” di origine veterotestamentaria caratterizza l’autopercezione che hanno gli Stati Uniti rispetto al resto del mondo. Se la cosiddetta dottrina del “destino manifesto” risale all’Ottocento, è però sin dalla fondazione delle colonie americane da parte dei puritani Padri pellegrini che il Nuovo Mondo assume il ruolo di nuova Gerusalemme terrena, non compromessa dal vizio e dal peccato come la Vecchia
Fonte: Italicum