L’Impero virtuale. Colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale
apr 18th, 2016 | Di Maurizio Neri | Categoria: RecensioniIncontro-dibattito sul libro L’Impero virtuale. Colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale, Renato Curcio (Sensibili alle foglie, 2015) presso La casa in Movimento, Cologno Monzese (MI), 14 febbraio 2016
Renato Curcio
L’Impero virtuale, nonostante il titolo, non è un lavoro su internet; internet è solo lo sfondo, è un territorio che oggi fa parte dello spazio in cui viviamo e quindi in qualche modo, parlando di questo libro, lo attraverseremo. Non è neanche un sermone contro le tecnologie, che esistono fin da quando un uomo ha preso in mano una clava, ossia uno strumento, e che quindi accompagnano l’intera storia dell’umanità. Non si tratta dunque di essere né pro né contro, ma di mantenere vivo un pensiero critico – che in quest’epoca fa un po’ difetto – anche sugli strumenti, soprattutto quelli che non sono né secondari né trascurabili per il fatto che investono la nostra vita, sia lavorativa che relazionale. Intendo la nostra vita di specie, cioè una vita che è trasversale e ci mette sullo stesso piano di un cittadino cinese, spagnolo, del Sudafrica ecc. È una riflessione necessaria perché queste nuove tecnologie, a differenza di quelle precedenti della società industriale, si implementano a una velocità straordinaria, per cui abbiamo di fronte a noi un percorso di trasformazione sociale che va talmente veloce che la nostra capacità di coglierne il senso dello sviluppo, il significato e le implicazioni, come singoli cittadini e anche ricercatori e soprattutto come lavoratori che vivono in vario modo questi territori, è disorientata. Un disorientamento che assume due facce: quella dell’accettazione, spesso acritica, di queste tecnologie, come se fossero ormai una normalità; oppure un’accettazione molto dolorosa, perché chi deve fare i conti con un bracciale che monitorizza la sua vita lavorativa per ogni secondo di spazio e di tempo, ha certamente una relazione diversa con questi dispositivi rispetto a una persona che li utilizza in maniera acritica o superficiale.
In questo libro è importante il sottotitolo: Colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale. La proposta di ragionamento è infatti sulle tecniche e sulle modalità di colonizzazione dell’immaginario, indubbiamente la materia prima più preziosa che esista sul pianeta, perché se perdiamo la capacità di immaginare in modo autonomo prospettive che ci facciano bene, è certo che può esserci chi è interessato a immaginare per noi delle prospettive che, al contrario, tanto bene non ci fanno.
Siamo abituati a pensare la colonizzazione per ciò che la storia ci consegna, una storia atroce di prepotenze e di atti di forza, di guerre, di tentativi di subordinazione di altri Paesi, ma cosa significava e cosa significa in termini di pensiero critico? Per prima cosa vuol dire immaginare un ordine diverso di un certo territorio, e poi imporlo ai propri fini. Per esempio, vedo una bella prateria, immagino di trasformarla in un allevamento intensivo di mucche, ed ecco che mi approprio con la forza di quel territorio e trasformo il suo ordine in un ordine produttivo per me, al di là della storia, della cultura, di tutto ciò che quel territorio costituisce storicamente e culturalmente. La storia del colonialismo è quindi la storia dell’imposizione a dei territori di un ordine immaginario a fini produttivi.
È una storia violenta, realizzata in nome di una ideologia e di grandi miti, per esempio in nome della superiorità dell’Occidente che va a portare la sua cultura in altri territori. L’Italia conosce molto bene la pochezza di questo ragionamento, dalla seconda metà dell’Ottocento a tutto il periodo fascista siamo andati in Africa a portare la cultura imperiale, colonizzazioni che si sono tradotte in uso di gas tossici, iprite, arsenico… Questo ha significato anche costruire grandi fabbriche, la Montecatini è nata sulla produzione di queste sostanze che nel 1922 erano già state messe fuori legge, ma che noi abbiamo usato negli anni ‘40 soprattutto, prima in tutto il Corno d’Africa e poi nel periodo tra il ‘42 e il ‘43 nell’area più a nord.
Colonizzazione quindi storicamente è significato questo, ma il colonizzatore non ambisce solo ad appropriarsi delle risorse del territorio, vuole anche cambiare il modo di pensare delle popolazioni, far digerire l’idea che è un bene essere colonizzati. Questa seconda operazione culturale è quella che va sotto il nome di immaginario, ed è chiaro che è importante perché da ciò dipende una condiscendenza, un’assenza di resistenza, un’accettazione di un fatale destino; è importante che le persone accettino la schiavitù senza bisogno di mettere loro una palla al piede, perché in questo modo la partita è vinta. Il colonialismo del Novecento questa partita l’ha persa, la disfatta è sotto i nostri occhi, i Paesi colonizzatori sono ancora lì con armi di ogni tipo a cercare di averla vinta nei territori che ritengono strategici per motivi militari o economici.
Ma la novità che mi interessa mettere in evidenza è che questo discorso, ancora valido per alcuni aspetti, sta per essere superato da un’intuizione piuttosto geniale. Sono una decina d’anni che il modo di produzione capitalistico, attraverso una serie di passaggi che sono stati la finanziarizzazione e poi più recentemente l’entrata in campo di nuove tecnologie digitali, ha intuito che si poteva catturare l’immaginario senza fare delle guerre e senza dichiararlo, ma seminando per il mondo una serie di dispositivi tecnologici gestibili individualmente, ossia non solo sul piano lavorativo; dispositivi che avessero in sé la capacità e la potenzialità di imporre a chi li utilizzava un ordine del discorso non legato alla parola, non legato quindi a tutta quella straordinaria fatica che è stata fatta nei secoli passati per imporre un ordine del discorso e del pensiero alle popolazioni colonizzate.
Detto in altre parole: se io produco un oggetto che per qualche ragione diventa attraente, riesco a trasformarlo in un oggetto del desiderio e di consumo, che consente a chi lo possiede di fare una serie di operazioni e anche di divertirsi, nonché di fare cose utili, allora posso pensare di costruire degli oggetti che funzionano a due livelli: l’uso pratico e le sue potenzialità utilizzative, e un ordine del discorso che è necessario per farlo funzionare. Per usare uno smartphone dobbiamo entrare nella sintassi di quello strumento: ha tasti, schermi, applicazioni, modalità di connessione ecc., e nella misura in cui entriamo in questo ordine di utilizzo entriamo in una sintassi di pensiero. Una modalità che porta con sé un mito potente e un’ideologia: questa è una tecnologia rivoluzionaria, che sta cambiando il modo di comunicare delle persone, che produce più libertà per tutti, afferma il mito; ma è anche un passaggio nella storia del modo di produzione capitalistico, che in tal modo si allontana dalla brutta immagine che di sé ha lasciato nei secoli precedenti e conquista un territorio di gradimento. La colonizzazione dell’immaginario è questa operazione.
La conduce un gruppo ristretto di grandi imprese che soltanto dieci anni fa non esistevano, e questo è un primo dato molto interessante. Google, per esempio, è del 2005, Facebook del 2004 ma dentro l’università, quando ha cominciato a diventare impresa era già il 2007. Quindi abbiamo due imprese che forniscono delle piattaforme straordinariamente curiose perché sono gratuite, e dunque siamo indotti a usare uno strumento che può essere utile per tantissime operazioni. Chiaramente la domanda diventa: come hanno fatto queste due aziende, in così pochi anni, a diventare due delle società con il più alto fatturato del mondo? E come hanno fatto a diventare le due imprese che hanno anche il più alto livello di profitto all’interno del fatturato? E ancora, come hanno fatto queste due imprese, che occupano pochissima gente, a essere due delle aziende con il più alto fatturato al mondo? Perché se guardo l’azienda che detiene il primato del fatturato, ossia la Walmart, la più grande impresa di distribuzione, ho davanti una società che ha una gigantesca struttura e che porta al suo attivo 1,3 milioni di lavoratori direttamente e un altro paio di milioni indirettamente; quindi un’azienda che fa il più alto fatturato del mondo attraverso il lavoro di circa 3 milioni di persone. Dunque come fa Facebook a fare il suo altissimo fatturato con appena 25.000 lavoratori? Come fa Google, che ne ha 50.000 ma nell’intero gruppo, quindi circa 200 aziende?
Sono domande che ci dobbiamo porre perché noi utilizziamo gli strumenti che queste due aziende forniscono tutto il giorno, nel lavoro e nella vita privata, e la risposta è molto importante perché ci porta a guardare come sta cambiando la nostra vita sociale.
Una prima risposta è molto tecnica e nello stesso tempo molto chiara: quando facciamo una ricerca in Google noi produciamo un documento, e Google a sua volta produce un secondo documento sul nostro, che dice: alle ore 20.45 di mercoledì 7 gennaio 2015 dal computer xyz è stato prodotto il documento in questione; dopodiché lo registra in un server. Visto che il popolo degli utilizzatori è molto vasto, in un giorno, un mese, un anno, all’interno di Google si producono miliardi di documenti. Cosa potrà mai fare un’azienda che si ritrova con miliardi di dati? Mappe concettuali dei desideri e delle necessità delle persone di questo pianeta. Può estrarre, per esempio, tutti i dati di coloro che chiedono dei farmaci contro il mal di stomaco, e per farlo ha bisogno semplicemente di un bravo matematico che introduca uno strumento tecnico, che si chiama algoritmo, capace di estrarre dei dati. Qualsiasi tipo di dato, che va a formare dei profili della tendenza di consumo: gusti musicali, sessuali, della moda ecc. Chiaramente, con in mano questi profili Google può andare da chi produce farmaci, musica, vestiti, libri, qualsiasi cosa… e venderglieli. Al contrario di quello che facciamo noi, che regaliamo la nostra domanda/ricerca a Google. E altrettanto chiaramente si possono estrarre anche dei profili molto più sottili, che non solo registrano la tendenza già data ma predittivi; si possono poi costruire delle sofisticate architetture che consentono di estrarre dati che possono interessare Stati e servizi di sicurezza, non solo aziende. Ecco quindi che abbiamo un mercato del nostro lavoro.
Guardiamo bene questo lavoro gratuito, perché ci siamo tanto scandalizzati, e giustamente, per il lavoro gratuito di Expo, soprattutto perché quella di far lavorare gratuitamente le persone è una tendenza, ma qui siamo di fronte a un gruppo di imprese che fa lavorare gratuitamente circa tre miliardi di persone senza imporlo, e con quel lavoro gratuito fa montagne di denaro. Se ne appropria, che in termini di analisi sociale vuol dire quello che Marx chiamava estrazione di plusvalore assoluto, cioè estraggo denaro e non ho un costo del lavoro. È esattamente, da un punto di vista tecnico, l’equivalente dello schiavismo, dei campi di concentramento, nei quali si faceva lavorare alla Volkswagen, alla Thyssen, gente rastrellata da tutta Europa. Noi stiamo assistendo al fatto che un gruppo di imprese rastrella lavoro gratuito e plusvalore assoluto in giro per il mondo, ed è per questa ragione che in pochissimi anni e con pochissimi lavoratori pagati queste aziende realizzano profitti da capogiro.
Profitti che ci devono interessare non tanto perché loro diventano ricchissimi e noi ci guadagniamo la vita a fatica, e non è certamente una bella cosa vedere dei processi sociali di questo genere, ma soprattutto perché queste imprese stanno investendo i capitali così rastrellati nella ricerca delle alte tecnologie, vale a dire nella ricerca di quegli strumenti che potranno consolidare sempre più il loro dominio. Questi investimenti sulla robotica, sull’intelligenza artificiale, sui territori che oggi sono a fondamento di tutte le più grosse imprese economiche, stanno portando via la ricerca al mondo sociale, e sono ormai in mano a pochissimi gruppi: Amazon, Google, Facebook, Microsoft, Apple. Da qui l’idea di guardare queste imprese non tanto come società singole ma come un’oligarchia, perché questo sono: un’oligarchia che si implica e si tiene. Facebook può esistere solamente perché ci sono Apple e Microsoft, perché è chiaro che la prima produce una piattaforma ma solo perché le altre due producono lo strumento per entrare in relazione con quella piattaforma. Quindi queste imprese si tengono a vicenda, e diventano così sempre più potenti, proprio come hanno fatto le oligarchie nel passato.
C’è una differenza, però: per la prima volta siamo di fronte a un’oligarchia che non è di area, cioè non è italiana, tedesca, francese ecc.; è americana, sicuramente, per la stragrande maggioranza del suo capitale – ma non solo, è anche un po’ araba e cinese – però indipendentemente da questo è un’oligarchia che ragiona in termini di mondo. Ad Amazon interessa nulla vendere i suoi prodotti in Spagna piuttosto che in Grecia, interessa vendere in tutte le parti del mondo. Gli interessa insomma creare un sistema dentro il quale le persone diventano insieme utilizzatori dei servizi e riproduttori del sistema, e questo ci mette di fronte a un movimento che, dal punto di vista della logica dello sviluppo, possiamo chiamare ricorsivo. Ossia: io produco un documento, e quel documento si ritorce contro di me come minore livello della mia libertà. È il principio delle manette americane: se muovi i polsi, le manette si stringono di più. Ecco allora che il problema diventa serio, perché non è un problema di tecnologie ma di quali tecnologie, e queste fanno male ai polsi, alla mia libertà.
Richelieu diceva “datemi una parola e vi impicco un uomo”; figuriamoci se diamo tutto il nostro archivio di parole, quante impiccagioni ci aspettano sull’uscio. Questo è il punto. Il controllo, gli algoritmi, le interazioni con i siti per acquistare o scaricare applicazioni, programmi ecc. sono gestiti da computer, non più da essere umani; sono macchine quelle che incamerano i documenti, e questo ci deve preoccupare anche perché nel momento in cui, per esempio, un giorno decido di tirare il collo alla gallina del mio vicino perché fa un chiasso infernale e divento un criminale, l’algoritmo andrà a vedere tutto quello che ho fatto fino a quel momento e scoprirà che, caso mai, quindici anni fa ho scritto dei versi contro le galline… e allora ecco la prova!, c’è una costanza nel tempo! Ciò che voglio dire è che queste tecnologie non solo non sono ingenue, ma essendo ricorsive ci mettono in un doppio stato di soggezione: non ci si può sottrarre e nello stesso tempo se si usano si moltiplicano i loro effetti negativi.
Ci sono altri due aspetti particolarmente importanti su cui riflettere: la sorveglianza panottica della società e la produttività nel mondo del lavoro.
Nel Novecento ci siamo abituati a osservare il controllo sociale perché è stato un secolo di conflitti. Chiunque fosse in lotta con il mondo aveva di fronte a sé una parte politica, i carabinieri, la polizia, e se aveva in mente qualche pratica poco legale, come l’at-tacchinaggio notturno, per esempio, doveva stare attento, e se veniva preso si trovava segnato quello che aveva fatto su un cartellino; molte persone, quando poi sono andate a lavorare dopo un po’ di militanza giovanile, si sono sentite ripetere quel che era stato scritto su quel cartellino. Questo per dire che esisteva una memoria, ma il controllo era effettuato su chi si muoveva: il normale pensionato che viveva la sua vita tranquillo aveva nulla da temere, nel senso che nessun organo di polizia si interessava particolarmente a lui perché sarebbe stato uno spreco inutile di tempo.
Oggi questo sistema di controllo non c’è più. Proprio perché queste tecnologie lo consentono, il controllo è cambiato, ha rovesciato il suo paradigma: non ha più bisogno di controllare chi si muove, nella sua logica non ha più senso, perché chi si muove un giorno fa un attacchinaggio e un altro giorno no; ciò di cui ha bisogno è poter controllare chi si muove nel giorno e nel momento in cui vuole controllarlo, e in quel momento poter avere tutto di lui. E siccome è possibile farlo, controlla preventivamente tutti.
Siamo quindi di fronte a una società in cui ognuno di noi è soggetto a un controllo, non perché abbia fatto qualcosa ma semplicemente perché esiste, e quindi è un potenziale criminale. Quando prendiamo la metropolitana siamo ripresi dalle telecamere, non stiamo facendo niente di male eppure veniamo filmati, perché si suppone che un giorno qualcuno possa mettere un ordigno da qualche parte, e in quel caso la polizia potrà ripescare tutte le informazioni catturate intorno a quell’evento: le mail spedite in quei giorni, i documenti prodotti, i filmati realizzati dalle varie telecamere. Avrà una massa di documenti che, unita a banche dati molto precise, potrà consentire delle comparazioni tra i volti noti e i volti catturati. Faccio l’esempio delle banche dati delle immagini perché piattaforme come Instagram, Facebook, che invitano i loro utilizzatori a mettere sempre più foto taggate, ossia che abbiano il riferimento al nome della persona, consentono di costruire banche dati di volti, e oggi il controllo visivo delle facce è in grado di compararle e leggere.
Siamo quindi passati da un controllo a posteriori e mirato, a un controllo a priori che potrà essere mirato qualora fosse necessario, perché il materiale per farlo esiste.
Questo ci mette già di fronte all’idea di una società della sudditanza, perché una popolazione soggetta a un controllo di polizia a priori è una popolazione in stato di sudditanza. Il suddito è colui che non decide le pratiche di potere che si sviluppano su di lui, le subisce e nient’altro, in nome di un’ideologia che è quella della sicurezza. Ed è francamente un’idea di sicurezza, che comporta il fatto che volontariamente e passivamente noi ci assoggettiamo a questo tipo di pratiche.
Anche nel mondo del lavoro è mutato il sistema di controllo a distanza dei lavoratori. Nella società industriale, fino a qualche anno fa e ancora tutt’oggi in moltissime aziende, il controllo passava attraverso dei controllori umani – il capo squadra, il capo reparto, il capo officina ecc. – quella che i sociologi chiamavano la catena del potere e che è stata studiata a lungo. L’ultimo anello controllava che il lavoratore svolgesse delle prestazioni utili per l’impresa, per esempio controllava il tempo impiegato per una certa operazione, e per farlo utilizzava un altro umano, il cronometrista, una figura che si metteva alle spalle del lavoratore e prendeva il tempo. Poi diceva: stai andando troppo piano, perché tizio per fare la stessa operazione ci mette tot secondi in meno. A quel punto si apriva una contrattazione – ma tizio è tre volte più grande di me… – c’era dunque un dialogo tra umani, che a volte era un conflitto, a volte una lotta, a volte uno sciopero. Questa è la storia del movimento dei lavoratori lungo tutto il Novecento, una lotta di contrattazione della propria sopravvivenza nel mondo del lavoro, per far sì che lo sfruttamento non diventasse estremo e consentisse di rifiatare; spesso si perdeva, talvolta si riusciva a guadagnare qualche frammento di secondo, ed ecco che si respirava un po’.
Questo paradigma oggi è sparito. La logica dell’intero apparato produttivo, essendosi digitalizzata, ora funziona intorno a un altro paradigma, quello della concorrenza internazionale, che consente di fare studi di settore. Quanto tempo impiegano alla Volkswagen a fare l’operazione di verniciatura di una scocca, per esempio? 42 secondi. Quanto ci mettono in Giappone? 36 secondi. Quanto ci mette questo stabilimento? Un minuto. Quindi, in nome della competizione internazionale, fuori dalla quale non c’è mercato, l’azienda chiude, l’impresa stabilisce un tempo di produzione che è un tempo a priori rispetto al lavoratore, è un tempo ‘atteso’, così viene definito. Per cui l’azienda firma un contratto di lavoro, di quelli che si fanno oggi, ossia non di categoria ma singolo, in cui dice al lavoratore: vuoi venire a lavorare qui? Va bene, firmi un contratto per fare quella operazione in 32 secondi, perché il tempo atteso è questo.
E c’è anche un altro aspetto: il tempo atteso è controllato da un computer, perché sono i computer che fanno girare le linee di produzione, i sistemi di lavoro, a quella velocità.
Prendiamo per esempio Amazon. Noi apprezziamo il fatto che se andiamo sul suo sito a cercare un libro che non troviamo ormai da nessuna parte, perché magari è fuori produzione, lì lo troviamo, è anche scontato e in due giorni arriva a casa; perfetto. Pago con la mia carta di credito, entro quindi nel sistema, il libro arriva e io sono soddisfatto. Ma qual è l’implicazione? Che per farmi avere il libro in quel modo Amazon utilizza 15.000 robot nei suoi magazzini, vale a dire fa funzionare la velocità con cui elabora il mio ordine in un tempo preciso, per esempio due minuti, di cui un minuto e 40 secondi sono per il robot, che andrà a prendere il libro in qualche scaffale, e il tempo rimanente è riservato all’imbustatore, che non può quindi che lavorare a quella velocità. E allora Amazon, che ha stabilito il tempo atteso a priori, fa parcheggiare le ambulanze fuori dai suoi magazzini di logistica, e il lavoratore che crolla viene immediatamente tolto dalla linea, sostituito con un altro, messo sull’ambulanza e portato via – è uscito su Le Monde diplomatique, sul Times, sul Guardian, sui più grandi giornali internazionali, un lavoro di ricerca davvero ben fatto sul rapporto tra la salute di questi lavoratori e la velocità a cui devono lavorare, che produce capogiri, svenimenti ecc. Noi siamo felici di ricevere il libro in tre giorni, ma molte persone vengono stritolate da questo dispositivo totalmente automatizzato, gestito da un sistema di computer, e che noi mettiamo in movimento quando chiediamo un libro ad Amazon; perché siamo noi che lo mettiamo in movimento. Amazon, come la Walmart, dice ai suoi lavoratori che se è diventata in pochissimi anni la più grande azienda di commercializzazione è perché fornisce dei servizi rapidi, efficaci, efficienti, e quindi se le persone la premiano andando sul suo sito a comprare, vuol dire che ha ragione: la legittimazione della sua operatività viene dai suoi utilizzatori.
È un discorso su cui dovremmo interrogarci molto, e che pone una questione di fondo. È un po’ scabrosa, perché ci chiama in ballo: stiamo parlando di un’oligarchia di imprese, di una nuova fase del modo di produzione capitalistico, ma stiamo parlando di noi. Questo insieme di dispositivi funziona alla sola e unica condizione che ciascuno di noi lo faccia funzionare. Nessuno lo impone, è un dato di fatto della storia dentro la quale siamo capitati, e a un certo punto, svegliandoci, ci troviamo a interrogarci, visto che non possiamo più fare a meno di questo tipo di strumenti per milioni di ragioni, su quale sia il nesso tra lo sviluppo del capitalismo digitale e la nostra responsabilità singola di utilizzatori dei suoi sistemi. È una domanda inquietante perché al fondo pone la questione della responsabilità etica, una questione con cui è sempre stato difficile fare i conti, ma che nel Novecento veniva affrontata all’interno di grandi sguardi, della ragione storica del raggruppamento in cui ognuno si trovava e nella quale univa la sua azione politica e la sua responsabilità individuale, che si collocava quindi nel quadro di una militanza. Oggi siamo in una società di solitudini, dove certo esistono ancora gruppi, anarchici, comunisti o rivoluzionari di qualche genere, ma la stragrande maggioranza dei cittadini è dentro un’estrema confusione nelle sue prospettive, nelle sue pratiche, nei ricatti che subisce, nella lentezza della sua capacità di accedere a una consapevolezza dei dispositivi dentro i quali gira, che ci fanno intravedere una condizione penosa di forti solitudini che ognuno deve in qualche modo masticare e addomesticare; e ovviamente, in queste solitudini, nessuno di noi può pensare di sfidare il mondo, sarebbe non solo temerario ma anche stupido, pensare di rispondere a tutto questo alzando una bandiera personale… prendo il telefonino lo schiaccio contro una ruspa e vado a vivere nel bosco. Possiamo anche fare scelte di sottrazione, ma il mondo del lavoro, della cittadinanza, della scuola, non può affrontare un passaggio così violento rispetto alla sociabilità delle persone, sottraendosi. Occorre affrontarlo. E il primo passo per farlo è la ripresa di due elementari considerazioni.
Primo: questo territorio di cui stiamo parlando si chiama modo di produzione capitalistico, vale a dire un modo di produzione all’interno del quale alcuni, per realizzare dei profitti, sfruttano tutti gli altri. Questo è un punto fermo che non può essere cancellato dall’ideologia della rete, che dice che siamo nel regno della libertà, che adesso ognuno può fare qualcosa di più; no, siamo all’interno di una situazione in cui un’oligarchia capitalistica sta pensando di estendere lo sfruttamento in una nuova forma, e con una capacità di forte colonizzazione dell’immaginario su tutto il pianeta. Quindi una situazione infinitamente più pericolosa di ieri.
Secondo: dobbiamo prendere assolutamente contezza della nostra lentezza. Noi siamo in ritardo, siamo lenti nel leggere le operazioni di potere che si realizzano attraverso il nostro corpo. È facile citare Foucault e la microfisica del potere – che significa: guarda il modo in cui il potere ti attraversa, e il modo in cui operi e agisci con le tue azioni – ma è proprio questo. Concludo quindi con un’immagine di Foucault, che ci racconta la nostra condizione ma solo a metà, proprio perché il tempo è andato così veloce che anche questa grande immagine della microfisica del potere, quella del panottico, non regge più.
Il panottico era un’idea portata avanti alla fine del Settecento da Bentham, un giurista inglese che in realtà aveva rubato l’idea al fratello, un industriale che lavorava per la Russia e aveva messo in piedi un grande campo di lavoro, di tipo schiavistico, per l’estrazione di sostanze all’interno di un’area. Questo industriale aveva bisogno di esercitare un controllo estremamente forte sui lavoratori, per cui si era inventato un interessante dispositivo: una torretta molto alta al centro del campo, dall’interno della quale qualcuno osservava i lavoratori. Ma l’intuizione brillante era che questo qualcuno non doveva essere visibile ai lavoratori, che dovevano sapere che c’era ma non vederlo, perché altrimenti sarebbe dovuto essere una presenza costante all’interno della torretta, e anche con mille occhi. Quindi Bentham aveva immaginato un situazione coperta, in cui i lavoratori sapevano di essere controllati ma non potevano vedere se il controllore li stava effettivamente guardando. È un sistema che è filtrato anche nella nostra società, per esempio il carcere di San Vittore è costruito sull’idea panottica. L’intuizione di Bentham è chiara: siccome tu sai di essere controllato, ti comporterai esattamente come io voglio che tu ti comporti, altrimenti sei uno stupido. Quindi, di fatto, non serve nemmeno che io ti controlli, perché tu farai comunque quello che voglio, perché pensi di essere controllato. Questo era il panottico e oggi, molto spesso e a sproposito, si dice che internet è un panottico grande come il mondo. Non è vero. Internet è il rovesciamento dell’idea panottica, ed è molto più grave.
La rete parte dall’idea che tu non sei sorvegliato. Nei protocolli di Facebook trovate scritto che il principio fondamentale della piattaforma è la trasparenza, dunque se tu ti nascondi, se non metti tutti i tuoi dati, gli amori, cosa hai mangiato per colazione la mattina, sei un tipo sospetto: se non hai niente da nascondere butta tutto ciò che sei in Facebook, socializza e il mondo della sociabilità ti aprirà infinite porte. Da queste strutture parte quindi una proposta anti-panottica: chiedi e ti sarà dato, ti dice Google, butta le tue fotografie su Instagram, metti i tuoi post in Twitter e Facebook e ti saranno restituiti come like. E allora ecco che questa operazione diventa insidiosa, perché se le persone si convincono di non essere controllate non solo diventano i primi fornitori di quei documenti che producono tutta la ricchezza che abbiamo visto, ma anche coloro che producono tutte le informazioni che porteranno al loro controllo biopolitico, vale a dire il controllo della loro salute, delle relazioni, dei gusti ecc. È il sogno del capitalismo, trasformare il mondo in un sistema di merci, in cui non c’è solamente la merce che si compra e si vende ma anche quella che si autoproduce. È il punto estremo di un percorso che possiamo considerare piuttosto rischioso.
Fonte: http://www.rivistapaginauno.it/paginauno-numero47.php