Dell’origine della disuguaglianza
mar 24th, 2016 | Di Maurizio Neri | Categoria: Cultura e societàDell’origine della disuguaglianza
Com’è che nati liberi finimmo in catene
di Pierluigi Fagan
Due secoli e mezzo fa, il filosofo ginevrino J.J. Rousseau, partecipando ad un concorso indetto dall’Accademia di Digione, presentò il suo lavoro: Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes – 1755, conosciuto anche come Secondo Discorso per chi è pratico della messa a fuoco critica dell’intera opera dell’Autore o Discorso sull’ineguaglianza[1]. Non vinse il concorso, aveva vinto quello precedente in cui aveva inaspettatamente risposto negativamente al quesito se il progresso delle scienze e delle arti avessero apportato benefici all’umanità, ma la sua opera rimase nei secoli lì ad occupare in bella solitudine lo spazio dell’indagine sull’ineguaglianza sociale. Prima ancora che nella argomentata risposta di Rousseau, il bello stava già nella domanda in quanto essa stessa dava per scontato che ci fosse una origine della diseguaglianza, che non fosse stato sempre così nella storia umana come i più sono oggi portati a credere. Rimanendo attoniti davanti al fatto che a metà del XVIII° secolo ci fossero accademie che stanziavano borse per premiare elaborati su tali questioni, abbiamo tenuto lì a memoria l’indagine dello svizzero come mappa per avventurarci, anche noi ed ancora una volta[2], sullo stesso sentiero.
La prima cosa che abbiamo scoperto, è che le orme di Rousseau sono ancora ben leggibili, a distanza di tanto tempo, nei lavori di altri che hanno percorso la stessa incerta strada. L’opera ha quindi una sua attualità per quanto possa averla un’opera su fatti indagati a lume di ragione e quindi senza il conforto di tutto il registro paleo-antropologico, antropologico comparativo, archeologico, storico, sociologico, biologico molecolare successivamente prodotto. Da cui la considerazione che non si è gradi filosofi ovvero pensatori di pensiero, per caso. La seconda cosa che abbiamo scoperto è che invero assai pochi si sono avventurati su quel sentiero[3]. Forse l’ineguaglianza è stata data per spiegata dalle teorie marxiste per quanto queste solo in alcuni casi hanno indagato l’origine[4]. Forse ci si è abituati alla questione o c’è un imperativo dell’immagine di mondo dominante che ci ha convinti che si tratta di un fatto naturale e probabilmente eterno ma forse c’è anche altro. Questo altro è il paradigma scientifico che domina le scienze sociali, paradigma che pretende prove e certezze che nel nostro argomento, sembrano semplicemente impossibili. Il guaio dei paradigmi o meglio, di come li subiamo nella nostra mentalità, è il ritenerli degli assoluti e non dei relativi. Condannarsi a sapere solo ciò che è certo (certo poi per chi, in base a cosa, a quale criterio di verità), significa auto recludersi nei limiti delle proprie vaste ignoranze[5].
L’archeologo inglese Cristopher Hawkes[6], ebbe a formulare nel 1954 una sentenza, che gli addetti ai lavori ritengono ormai proverbiale, che classificava l’affidabilità di interpretazione dei dati archeologici. Agevole era quella sulla tecnologia antica, abbastanza facile quella sulle attività di sussistenza, nettamente più difficile quella sulle istituzioni sociali, impossibile in via di principio quella sulle ideologie e la vita spirituale. L’origine della disuguaglianza si dovrebbe collocare tra l’ultima e la penultima, tra il nettamente più difficile e l’impossibile, ed è quindi questione che non frutta borse di studio e finanziamenti di ricerca e pubblicazioni utili a far carriera, quindi la si lascia lì a collezionare qualcosa in più o qualcosa in meno intorno a ciò che aveva detto Rousseau. Peccato, perché la faccenda della disuguaglianza, ora è di gran moda. E’ sempre stata un pallino di anarchici, marxisti, socialisti e democratici radicali ma di recente, anche altri se ne sono interessati. I dati come quelli del Rapporto Oxfam per i quali, nel mondo, i 67 individui più ricchi possiedono la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di individui meno ricchi[7] fotografano un indice di diseguaglianza che punta dritto al paradossale. La cosa comincia a preoccupare anche chi non giudica all’ombra degli astratti principi di giustizia ma per la semplice considerazione utilitaria che la sparizione della classe media e la contrazione dei redditi delle fasce medio – basse e basse porta ad un impoverimento di domanda che deprime l’intera circolazione dell’idraulica di sistema che chiamiamo economia moderna o capitalismo[8].
Ma tutto ciò, la fenomenologia della diseguaglianza, non ha ancora nulla a che fare con l’origine. L’origine sembra perdersi in una terra di nessuno che si troverebbe oltre le terre civilizzate e scritturate di più di 5-6000 a.f. o al limite proprio all’inizio di quel limite temporale. Indagare oltre quel limite è ciò che dobbiamo tentare e ritentare. Hegel pensava che il motore della storia fosse nello spirito, una logica immanente ad uomo, società e natura, Marx gli rispose che forse era più nelle relazioni che gli uomini intrattenevano tra loro per risolvere il problema della sussistenza. Procedendo oltre, si potrebbe dire che quello che emerge dopo decenni di ulteriori conoscenze è che effettivamente si tratta anche di relazioni che gli uomini intrattengono tra loro ma al fine di adattarsi nel miglior modo possibile alla relazioni con altri gruppi di uomini e con la natura in cui siamo tutti immersi. La sussistenza è parte importante di questa strategia adattiva ma non è l’unico ordine da tenere in considerazione. Le cause del mutamento storico non sono solo quelle interne all’uomo o alle sue relazioni con altri uomini dentro la sua società, c’è un mondo lì fuori ed è da sempre , quello il motore che a pieno regime produce incessantemente cambiamento al qual dobbiamo adattarci. Le società sono forme complesse adattive, l’adattamento è appunto una relazione. L’origine della gerarchia è l’origine del modo primitivo, del modo a gerarchia fissa (sul modello meccanico), che gli umani hanno sino ad ora trovato utile e possibile per loro, per ordinare società che fossero veicoli adattativi.
Oggi, arrivati a 7,3 miliardi di individui, più di 200 stati, con un modo di stare al mondo che crea una sempre meno sostenibile pressione sulla natura che ci contiene e che ha sempre portato, in passato, a formare gerarchie planetarie (nord-sud, ovest-est, occidentali vs resto del mondo) foriere di conflitto, con una radicalizzazione delle gerarchie tra ricchi e poveri (tra società ed internamente alle società), potremmo trovarci ad uno scalino adattivo, uno di quei momenti quale si presentò a gli antenati 6-8000 anni fa. Indaghiamo quindi l’origine della diseguaglianza perché potremmo trovarci al limite in cui è necessario produrre una nuova origine, l’origine di un diverso percorso che ci faccia superare la preistoria sociale. Questo nuovo percorso, molte anime ispirate e lucide, l’hanno più e più volte immaginato, sognato, agognato ma oggi, oltre alle nostre ispirazioni ideali, potremmo trovarci in un più concreto stato di necessità. Al ripensare l’ordine gerarchico delle società che non è, come vedremo, una costante naturale ma uno stadio culturale, oggi potremmo esser spinti per ragioni di necessità, per ragioni adattative.
= 0 =
La complessità sociale ovvero la complessità della stratificazione sociale che si compone in una gerarchia, sembra esser funzione del rapporto tra dimensione del gruppo osservato, stadio delle credenze condivise nel gruppo e le condizioni dell’ambiente in cui il gruppo vive. Le condizioni dell’ambiente in cui si vive sono di due tipi, quelle naturali che vanno dalla geografia (zone aperte, chiuse, collegate e tutti gli stati intermedi tipo semi-aperte etc.), alla flora e fauna, al clima (incluse improvvise catastrofi o comparsa di periodi eccezionalmente favorevoli tipo la post glaciazione) e quelle della più o meno densa presenza di altri gruppi che possono avere dimensioni, forme organizzative e modi di vita anche assai diverse da quelle del gruppo osservato.
Le variabili in gioco per descrivere come si giunse e come poi si evolse la complessità sociale sono molteplici. Il loro intreccio porta a relazioni non lineari. C’è dunque una complessità precedente la complessità sociale ed in un certo senso, la seconda è una risposta adattiva alla prima e la prima ha concorso di cause interne ed esterne al gruppo umano intrecciate tra loro per tempi non brevi.
A livello di comportamento collettivo la distinzione principale è quella tra mobili ed immobili ovvero tra nomadi e stanziali ma tra le due ci sono le forme del semi-nomadismo che può prendere la forma di un nomadismo ricorsivo (un circuito preciso entro una certa area che tende ad esser percorso ricorsivamente) con la possibilità di ridursi al passaggio stagionale (inverno – estate o autunno-primavera) tra due fuochi che fa dei semi-nomadi, dei semi-stanziali. Altresì è ben evidente la differenza tra stanziali non agricoli e quelli successivi che dall’agricoltura, iniziano una sequenza di complessità (e relativa multi-stratificazione sociale) che arriva allo Stato.
A livello di comportamento collettivo rispetto alla natura in funzione della sussistenza, la divisione principale è quella nota tra cacciatori – raccoglitori ed allevatori – agricoltori. La tipizazione di questo passaggio è stata ed è tutt’ora ingombrata dal concetto di Rivoluzione agricola o neolitica introdotto dall’archeologo di fede marxista V. G. Childe negli anni ’30. Ma il presupposto temporale di Childe era una cronologia molto corta e compressa. Si è poi scoperto che quella che Childe riteneva una rivoluzione fu una transizione lunga forse 10.000 anni in cui le gradazioni intermedie sono molteplici. Innanzitutto sono esistiti gruppi che, a seconda del tipo di territorio in cui si sono trovati, si sono dedicati più alla caccia che alla raccolta o viceversa. Altri hanno integrato i due modi con la pesca. Ad un certo punto, si è sviluppato una sorta di pre-allevamento nel senso che il gruppo rimaneva mobile come il gregge o la mandria da cui dipendeva ma selezionando i capi da uccidere (non ad esempio le femmine in età fertile o i capi troppo giovani o bilanciando i rapporti tra maschi e femmine). Altri hanno cominciato a seguire la produzione naturale spontanea (il selvatico), aiutandola con l’irrigazione, la protezione dagli animali, il disboscamento per ampliare l’area di riproduzione naturale delle piante utili. L’agricoltura intenzionale è stata ampiamente anticipata dall’orticultura che assieme a piccole domesticazioni ha rappresentato un importante scalino intermedio in cui l’aleatorietà della pura caccia e raccolta veniva ridotta dalla certezza di una parte della sussistenza prodotta intenzionalmente. Compaiono quindi regimi di sussistenza misti a orticultura e piccole domesticazioni che favorivano la semi-stanzialità o la piena stanzialità non agricola come si registra nella cultura natufiana. Infine, l’agricoltura che per principio è la stessa cosa dell’orticultura (cioè sapere che piantando un seme ed irrigandolo, col tempo nasce una pianta), era nota da molto tempo addietro rispetto a quando si registrano le piena società agricolo – stanziali e per lo stesso lungo tempo (forse 10.000 anni) ha rappresentato solo una integrazione della dieta passando da percentuali più basse (10-20%) a quelle più alte. Così l’allevamento. Ma l’allevamento si è anche biforcato tra quello stanziale ad integrazione e complemento prima dell’orticultura e poi dell’agricoltura e quello seminomade diventando una specialità a sé per gruppi di precedente specializzazione di caccia. Nel tempo, il conflitto per la terra (tra agricolo stanziali e allevatori seminomadi)[9] ha portato a relazioni conflittuali, ma prima o accanto, quelle relazioni erano di scambio (surplus vegetale vs animale e viceversa). E’ nel corso di questi adattamenti progressivi che producono maggior complessità che si formano i presupposti per il fatidico passo successivo.
A livello di comportamento collettivo rispetto alle relazioni con altri gruppi umani, abbiamo meno certezze. L’interpretazione prevalentemente anglosassone che è poi quella che domina l’accademia che conta, ha a lungo declinato il paradigma hobbesiano che parte da una concezione egoista, aggressiva e violenta della presunta natura umana. Invero, l’idea stessa possa definirsi con precisione una natura umana sembra impropria. La “natura umana” sembra un grande pianoforte a coda che potenzialmente può suonare tutti gli spartiti che siano stati mai scritti, più tutti quelli che ancora debbono esser scritti, più tutti gli strimpellamenti meno armonici che possono derivare da pianisti inesperti. In regimi di relativa abbondanza e scarsa densità non c’è nessuna ragione di credere che i gruppi umani rischiassero di perdere la vita, aggredendosi a vicenda, perché “aggressivi di natura”. Anche in regimi di relativa scarsità e crescente densità c’erano talvolta altre possibilità come lo spostamento migratorio, la naturale contrazione demografica, lo scambio delle relative abbondanze vs scarsità, la formazione di gruppi più grandi in cui si facilitava la redistribuzione perché maggiore era il prodotto lordo, le federazioni, le confederazioni, l’accesso ai nuovi livelli di sussistenza che abbiamo prima descritto (meno caccia più orticultura ad esempio). Lo spostamento delle tecniche dalla caccia alla guerra si è certo riprodotto ovunque nella storia umana e la guerra, da un certo unto in poi, è una costante antropologica[10], tanto quanto la ricerca della pace. Sta di fatto che l’uso sistematico della guerra per estendere senza limiti il dominio di una etnia su tutte le altre è una caratteristica di pochissimi popoli, tra cui i barbari e gli anglo sassoni che sono appunto di derivazione barbara. In Micronesia, Hobbes avrebbe venduto pochissime copie del Leviatano[11]. Il fatto più interessante di questa relazione tra gruppi umani è proprio quello della pluralità delle interrelazioni in cui, accanto all’evitarsi fino a che è possibile o una guardinga curiosità, accanto alla guerra che comunque è caso tardo, ci sono anche lo scambio saltuario o sistematico (di cose, idee, persone), la cooperazione occasionale o sistematica, la formazione di proto-reti di semi-nomadi e poi stanziali in cui un punto diventa centro di gravità che condensa la rete in uno Stato con centro e periferia e molto altre variazioni.
A livello infine dell’organizzazione interna i gruppi, si segnalano tre tipi principali. La società di piccole dimensioni, egalitaria. La società di medie dimensioni che presentano la più ampia variabilità di forme sia di comportamento collettivo, sia di forme di sussistenza, sia di forme nelle relazioni con gli altri gruppi pur rimando sostanzialmente egalitaria. Le società di grandi dimensioni che iniziano la sequenza della stratificazione fissa, della gerarchia, della diseguaglianza, di vari tipi di élite che gestiscono il potere, si dotano di burocrazia, esercito e polizia, leggi scritte, alleanza col potere sacerdotale, trasmissione del potere per linea di sangue, sfruttamento economico ed accumulazione di ricchezze etc.
L’origine della diseguaglianza ha premessa nel secondo tipo di organizzazione sociale e nel come e perché si è passati dal secondo al terzo tipo, leggendo i sincronici cambiamenti avvenuti a livello di dimensioni, sussistenza, mobilità, natura e densità in un certo territorio. Tale processo è asincrono dipendendo da condizioni locali che cambiano a seconda si sia nella Mezzaluna fertile, piuttosto che presso i grandi fiumi cinesi e multi causato essendo un fenomeno complesso che dà vita a livelli incrementali di complessità. I processi complessi multi causati sono reti di azioni e retroazioni non lineari quindi scordiamoci di poter raffinare una ricetta standard, lineare, semplice. L’origine della diseguaglianza ci apparirà allora come una sopravvenienza adattiva. Siamo in regime di diseguaglianza solo da 5-6000 anni su 3 milioni di anni di vita del genere homo, perché è questa la più elementare forma di autorganizzazione che i gruppi umani hanno trovato possibile e conveniente perseguire fino ad oggi per adattarsi al mondo naturale ed umano che loro stessi sono andati modificando e creando. In sostanza, la diseguaglianza ovvero la formazione di un ordine gerarchico è la forma più elementare di adattamento alla complessità e la complessità è aumentata per varie ragioni sebbene il suo marcatore principale appaia chiaramente l’aumento delle dimensioni dei gruppi. Questa aumento è un anello alimentato da varie retroazioni in cui il passaggio progressivo dalla mobilità alla stanzialità e quello dalla sussistenza occasionale a quella intenzionale sono al contempo cause ed effetti. La diseguaglianza nei gruppi umani non è un fatto naturale ma culturale. Di una cultura allo stadio primitivo quale non può non essere una sequenza storica di appena 5-6000 anni su, si spera, una scala potenziale di possibili 3 – 4 miliardi di anni prima che l’espansione solare cominci a surriscaldare l’ambiente. Se prima non lo surriscaldiamo troppo noi.
= 0 =
Passiamo allora ad una visione più a gran fine di questi tre stadi di organizzazione sociale cercando soprattutto di illuminare tentativamente, i passaggi dall’uno all’altro, passaggi su cui gli studiosi sono in genere abbastanza evasivi.
IL GRUPPO PICCOLO EGALITARIO. Rousseau, nella sua ricostruzione a lume di ragione, estremizza la condizione di stato di natura, per certi versi, al pari di Hobbes. Lo stato di natura veniva allora immaginato come individuale, dell’uno contro l’altro per Hobbes, dell’uno pre-morale che occasionalmente si accoppiava per Rousseau. In realtà, anche con la successiva teoria di Darwin che pone l’uomo nella famiglia dei primati ed il successivo sviluppo dell’etologia e nello specifico della primatologia, poi della paleoantropologia, si è convenuto che l’umano è un animale sociale, nato e sviluppatosi tale. Di contro, Rousseau fa un’osservazione interessante riguardo il fatto che l’umano, a differenza degli altri primati, avrebbe una istintiva forma di inalienabile sovranità su se stesso, oggi diremo un portato del livello auto coscienziale del nostro genere, probabilmente ulteriormente definitosi nella specie sapiens. Questo pone una barriera nel trasferimento consequenziale dei modi dei primati nei modi umani. Allo stato di comportamento collettivo di tipo nomade o seminomade che è il comportamento in assoluto più longevo occupando più del 99% del tempo del genere homo , i gruppi umani erano limitati nel numero da questo stesso stile di vita. La caccia e raccolta poteva qualche volta esser abbondante e altre volte scarsa ma in linea generale, c’era una oscillazione intorno ad un punto di equilibrio ben preciso e questo punto faceva sì non si eccedesse mai oltre i 120-150 individui. L’impegno a risolvere quotidianamente il problema della sussistenza del gruppo era costante e fondamentale per tutti i facente parte, per quanto alcuni studiosi oggi hanno invertito l’immagine dell’ ansiosa scarsità preistorica[12] . Non si potevano certo portare troppe suppellettili o figli tra uno spostamento e l’altro, per cui si viaggiava leggeri e quindi si era pochi e si aveva poco. La partizione tra caccia e raccolta era variabile a seconda delle stagioni e dei territori. I cacciatori di mammut e grandi alci, ad esempio, erano più focalizzati su questa caccia potendo, tra l’altro, stoccare carne nel terreno ghiacciato (permafrost). Altri delle fasce più temperate probabilmente cacciavano saltuariamente e per lo più si affidavano alla raccolta o a trappole per piccoli animali. Altri ancora sembrano essersi precocemente stanzializzati in riva al mare, sfruttando i frutti di mare portati dalla maree. In base all’esistenza ancora tarda di segnali in tal senso, così come si può pensare che la caccia non fosse sempre e solo attività maschile, così a maggior ragione la raccolta, riguardava tutti. Passando alla pura speculazione, si può supporre che a livello mentale, gli stessi individui, non fossero pienamente individualizzati nel senso che la percezione delle differenze tra individuo e gruppo e tra gruppo e natura non fosse molto pronunciata[13]. Si tratterebbe di una mentalità pienamente olistica e facendo tutti più o meno le stesse cose (incluso pare l’ accudire la prole, ritenuta “bene comune”) e dovendo tutti dare lo stesso contributo, oggettivamente le differenze tra individui non erano molto presenti o comunque senz’altro non sottolineate, non incentivate e quindi poco sviluppate. L’aspetto per noi decisivo, quello di cui seguiremo l’evoluzione poiché è quello che riteniamo il catalizzatore del processo di perdita dell’uguaglianza e di comparsa di tutte le successive ineguaglianze è la dinamica che si forma nel gruppo per rispondere alla domanda -chi decide?- , cioè come si suddivide e si forma l’intenzionalità condivisa.
Nell’individuo, tutta la complessione biomorfica è già ben ordinata per risolvere questo problema dell’intenzionalità. Contrariamente alle immagini iper-razionali o addirittura basate su una gerarchia elementare mente – corpo dettata dai vincoli dell’immagine di mondo della religione cristiana, oggi sappiamo che noi decidiamo su sollecitazioni esterne, in base ad un complessa rete interna di imput tra loro connessi per rinforzare o inibire questa o quella decisione. Ma se l’individuo è per sua natura un ente intenzionale, il gruppo degli individui non lo è pur dovendosi esso stesso comportare come un individuo, cioè decidere cosa fare, come farlo, quando e perché. Nei piccoli gruppi è escluso vi fossero impalcature sovrastrutturali che rendessero i gruppi disponibili a credere che qualcuno fosse più in grado di altri di dare questa risposta. Rimarrebbe l’atto di forza per subordinare i tutti all’uno ma come scrive e descrive bene lo stesso Rousseau, se ci immaginiamo concretamente come ciò sarebbe potuto accadere, vediamo che non è materialmente possibile. Uno studio recente sul tema dell’origine della diseguaglianza, è tutto centrato sulla dinamica per cui non appena uno o più d’uno (comunque pochi) manifestavano questa pulsione al comando, sistematicamente tutti gli altri mettevano da parte le loro reciproche differenze per unirsi come opposizione. Opposizione delle volontà tra i pochi ed i molti che hanno sempre la meglio, in base al fatto che nei piccoli gruppi i numeri contano ed i pochi non possono mai prevalere su i molti[14]. Infine l’aspetto che riteniamo più importante. Ognuno aveva una moderata differenza rispetto all’altro, tutti dovevano fare più o meno le stesse cose, tutti sapevano in egual misura cosa succedeva tra il gruppo e l’esterno (natura, geografia, offerta di sussistenza) e cosa doveva succedere all’interno del gruppo (eguale divisione di oneri ed onori). Il contenuto della decisione era in sostanza uguale, così la procedura per prenderla, l’intenzionalità del gruppo era pienamente condivisa, nessuna diseguaglianza era allora possibile. Non solo, oltre che non possibile non era neanche auspicabile perché qualsiasi diseguaglianza avrebbe depotenziato la formazione gruppale, evenienza che, con tutti i problemi più concreti che c’erano ai tempi, era da evitare prioritariamente come minima strategia adattiva. L’unione fa la forza è un concetto più tardo, quando già il gruppo si era frantumato ma questa piccola scheggia di saggezza, può darsi registri inconsciamente i tempi in cui il gruppo era, in sostanza, un individuo macroscopico in via naturale.
PASSAGGIO 1. La descrizione dei vari stati quale qui sviluppiamo è relativamente facile potendosi poggiare sia su fatti rilevati dall’archeologia, della biologia, dell’antropologia, sia su ricostruzioni largamente accettate. Quello che però in genere sfugge è il motore del cambiamento, come e perché si passa da uno stato al successivo. Nel caso in questione, il passaggio 1 è il passaggio dai gruppi piccoli ai gruppi medi, quelli che oscillano dai 120-150-200 individui a di più, stante che il limite di questo “di più” è sfumato e variabile. Questo passaggio è essenziale perché ciò che è legge di natura è che gli altri primati, mai ed in nessun caso, eccedono questo limite dei piccoli gruppi, è quindi una proprietà o meglio una facoltà, tipicamente umana averlo superato. Ma non di tutte le specie umane (homo = genere, sapiens = specie). Si ritiene che i Neanderthal, ad esempio, vivessero in gruppi piccoli e con una bassa densità territoriale quindi parrebbe tipicamente sapiens l’attitudine a vivere in gruppi più grandi. Potrebbe quindi esserci stato qualcosa nella complessione sapiens che favoriva maggiormente quella interrelazione sociale che è l’infrastruttura portante le varie dimensioni dei gruppi. Trovate condizioni migliori e sviluppate appieno maggiori potenzialità gruppali tipo l’affinamento del linguaggio e la condivisione di un primo repertorio simbolico, una più fine teoria della mente (io so quello che tu pensi), aspetti biomorfici[15], i gruppi sapiens cominciarono ad esplorare le società oltre il fatidico limite. Il successo adattativo dei sapiens che hanno sostituito tutte le altre specie umane e si sono riprodotti senza limiti occupando tutto il pianeta, adattandosi ai -40° come ai +40°, fino a dominare (più o meno) tutta la natura ed andare a curiosare su Marte, potrebbe risiedere proprio in questa facoltà di creare gruppi più grandi perché più resilienti ed efficaci in termini adattativi. La vera innovazione adattativa della specie non fu una tecnologia o un modo di produzione ma la capacità di formare gruppi più grandi. Questa propensione sarebbe solo un nuova condizione di possibilità che definisce i sapiens in diversità con la altre specie e, sebbene cominci a lavorare su i piccoli numeri sin da subito, i suoi effetti non sono da subito visibili. Più tardi, questa condizione di possibilità diverrà in atto su pressanti sollecitazioni esterne che libereranno le potenzialità interne e giunta alle varie soglie di limite ulteriore, le sfonderà creando un processo ad albero di ampliamenti a soglia, che porterà ai grandi gruppi stanziali e gerarchici.
= 0 =
IL GRUPPO MEDIO EGALITARIO. Questo stato è in genere poco indagato per via del fatto che è assai difficile avere prove concrete su cui appoggiare le ipotesi. Inizialmente, quando tali prove provenivano solo nel registro litico, ovviamente, non si sentì il bisogno di presupporlo. Ma poco dopo, già tra Paleolitico e Neolitico, si era cominciato ad infilare uno stadio intermedio detto Mesolitico o Epipaleolitico[16], uno stato di transizione, sebbene può darsi che le novità strutturali che cerchiamo di indagare non corrispondano affatto ad una qualche innovazione negli strumenti di pietra[17]. Nel tempo e soprattutto con l’avvento della radio datazione e lo sviluppo dei metodi d’indagine, nonché ampia progressione degli scavi e delle possibilità di interpretarli, emersero alcuni fatti nuovi. Abbiamo sepolture di rango cioè sepolture che segnano la distinzione del seppellito ma senza che questa significhi per forza un suo ruolo sociale e politico di comando[18]. Abbiamo opere straordinarie come il sito di Gobleki tepe (11.500 a.f., molto prima degli ziggurat sumeri e delle piramidi egizie), frutto di un imponente sforzo collettivo senza per questo avere schiavi o servi, società gerarchiche e forse neanche stanziali, élite che manipolano surplus[19]. Prima ancora abbiamo centri rupestri affrescati come Lascaux o Chauvet che non possono esser opera di un solo piccolo gruppo, né è credibile che un solo piccolo gruppo ne fruisse. Abbiamo ipotetici segnali di simbolismo molto più precoci del ritenuto, blocchetti di ocra e strani graffi su ossa e pietre che hanno datazioni incredibilmente antiche, molto più antiche delle pitture rupestri. Sicuramente abbiamo siti stanziali (natufiani, balcanici, cinesi, giapponesi) ed anche ceramica (Siberia, Asia) ma senza agricoltura[20]. Abbiamo la comparsa di quei comportamenti mediani di cura del selvatico o proto allevamento dello stato brado, la comparsa dell’orticultura quando i gruppi si fermavano stagionalmente o addirittura in pianta stabile. Più tardi, nei Balcani, abbiamo addirittura scrittura (Vinca) tremila anni prima dei burocrati sumeri[21]. C’era quindi una grande pluralità di comportamenti adattivi ed una complessità in pieno sviluppo, prima del salto stanziale – agricolo.
La visione metafisica andava chiarendosi e l’indistinto Uno-tutto in cui affluivano individui, gruppi, natura, credenze, si popola di antenati ed anime o spiriti della natura. Più chiara è anche la presenza degli intermediari col trascendente, gli sciamani[22] che erano anche medici ed officianti i riti sociali viepiù importanti laddove i gruppi si ampliavano. I gruppi di caccia avevano un loro capo ma non è detto che questo fosse poi anche il capo del gruppo fuori dell’attività di caccia. Inoltre, chiari gli oneri di pertinenza del capo non è detto che gli onori fossero più che simbolici[23]. Attività e mobilità più complesse nei vasti territori, speciarono probabilmente i primi geo-cosmografi che leggevano i segni del terreno, ricordavano le rotte, si orientavano col cielo. Un inizio di divisione del lavoro permetteva di diversificare le attività nel gruppo senza che il gruppo perdesse la sua omogeneità interna e questa maggior efficienza permetteva gruppi un po’ più grandi, qualche nascita in più, qualche maggior cura ai malati o la longevità degli anziani[24]. Gli anziani permettevano la trasmissione della tradizione ma anche la trasmissione delle conoscenze e questo cominciava a fare “la storia” dei gruppi. Storia e tradizioni che poi si raffinava in identità, storia comune e quindi identità in comune che era un collante in più per gruppi un po’ più vari e grandi. La seconda parte di questo processo aumenta le quantità ma fa comparire anche nuove qualità. All’aumento della dimensione e resilienza dei gruppi, dovette aumentare anche al densità territoriale e le dimensioni maggiori frenarono il nomadismo. La densità territoriale spinse fisicamente alla reciproca interrelazione, probabilmente di scambio[25]. Scambio di eccedenze con mancanze poiché ogni gruppo aveva più di qualcosa e meno di qualcos’altro a seconda dei territori frequentati, scambio di parole e narrazioni, scambio di persone e di donne. L’esogamia cominciò ad imporsi e con essa le prime culture miste e le proto-lingue. Ciò portò anche grande benefici in termini di scambio genetico, culturale e comparsa di molteplicità eterogenee, nonché reti parentali composte da più tribù e non più solo individui, ovvero reti di alleanze. La diversificazione individuale (complessità varietale), andava aumentando con la precisazione dell’identità individuale. Nei casi di stanzialità periodica o fissa, l’orto, un primo artigianato, i figli (più di uno), la cucina forse ancora collettiva, la raccolta nei dintorni, l’approvvigionamento d’acqua, diventarono i compiti di chi si occupava del raggio interno; caccia, trappole, raccolta a lungo raggio, esplorazione, contatti con altre tribù, i compiti di chi si occupava del raggio esterno ma non è detto che la partizione in questi due gruppi fosse quella rigida che abbiamo immaginato tra maschi e femmine. Mano a mano che procediamo verso il passaggio 2 ed allo stadio successivo, compare anche l’affiancamento delle prime produzioni di agricoltura ed allevamento intenzionale e l’economia, spesso potenziata dallo scambio, diventa assai mista e variegata.
Sta di fatto che rispetto al nostro catalizzatore, la risposta alla domanda -chi decide-, segniamo solo una mezza novità. La mezza novità è quella che chiamiamo “delega funzionale” ovvero divisione del lavoro parziale[26], episodica e controllata. L’individualizzazione della psiche, dell’immagine di mondo e delle funzioni procede ma è parallela all’interrelazione all’interno del gruppo e non si perde ancora la condivisione dell’orizzonte degli eventi del gruppo come uno. Si annunciano le diversità ma non le diseguaglianze, non c’è una norma terza che sanziona una gerarchia delle diversità. Le decisioni fondamentali, il potere dell’intenzione del gruppo come uno, è ancora condivisa. Qualcuno, rispetto a qualcosa di specifico, ha più voce in capitolo, voce competente ed apprezzata da tutti ma i linguaggi sono ancora reciprocamente comprensibili, i problemi tanti, le voci che portano le idee tante, la decisione una. Questa lievitazione numerica e delle distinzioni è come un panettone in cottura in cui le uvette si distanziano relativamente ma rimangono nello stesso, unico e condiviso oggetto sociale, il gruppo come uno.
PASSAGGIO 2. E’ chiaro che qui si compie il misfatto. Ora, l’unica condizione comune cui sono stati soggetti i vari territori che vanno dalla Mezzaluna fertile alla Cina, fu il processo di de-glaciazione. Questo è un tempo sincronico ma al passaggio 2 non tutte i nuclei di quelle che poi saranno le civiltà storiche, arrivano nelle stesse condizioni, né i territori hanno le stesse caratteristiche per cui la tempistica finale di nascita di queste proto-civiltà, il passaggio allo Stato, alla gerarchia, alla proprietà privata e quindi alla finale diseguaglianza, non sarà sincronico. Una condizione comune delle terre che passarono al nuovo regime climatico furono[27]: ritiro dei ghiacci e quindi allargamento delle terre vivibili da una parte, restringimento delle coste dall’altra, grande abbondanza d’acqua, rigoglio della natura vegetale con nuova abbondanza, esplosione demografica delle specie animali in ragione delle precedenti condizioni (sebbene quelli abituati a neve e ghiaccio si ritirino sempre più a Nord creando un problema alle tribù che della loro caccia vivevano), clima umido, piogge abbondanti. L’abbondanza d’acqua è qualche volta eccessiva com’è nelle varie cronache dei diluvi e nella comparsa nella mitologia cinese dopo Nüwa (che è forse il corrispettivo femminile di Noè)[28] del mitico imperatore Yu[29] la cui qualità era appunto l’aver irreggimentato le acque[30]. Successivamente però, queste condizioni eccezionali si stabilizzano e parzialmente s’invertono. I mari sono saliti e quindi si sono allontanate le linee di costa ed i fiumi terminano le grandi portate e si restringono anch’essi, spesso cambiano anche corso deposizionando i siti, il clima diventa più secco, appare una nuova scarsità relativa, relativa al precedente regime d’abbondanza. Il restringimento delle acque è probabile che abbia spinto popolazioni prima disperse ad addensarsi presso i grandi fiumi, con relativi problemi di diritto, di terra, convivenza, comprensione linguisica ed attrito dentro e tra i gruppi. Tutte le grandi successive civiltà saranno dette potamiche poiché originano in riva ai grandi fiumi (Nilo, Tigri-Eufrate, Indo, Fiumi Azzurro e Giallo). Anche questo “paradiso perduto” è registrato nelle varie mitologie. Dio dirà ad Adamo “col sudore del tuo volto mangerai il pane (Genesi, 3,19)”, segnando l’improvviso sincronico maggior ricorso a quella agricoltura che già nota, da complemento, diverrà standard obbligato per popolazioni ormai stanziali e di medio-grosse dimensioni, improvvisamente esposte a regimi di relativa scarsità[31], sempre più legati ad una sola forma di sussistenza. La ricca e resiliente economia mista diventa monoculturale e quindi più fragile. Il limite più alto dei gruppi umani era stato fino ad allora talvolta raggiunto ma così come fanno i primati, come era successo in passato e come ancora faranno molti popoli tribali (ad esempio i primi angli e sassoni migranti dal continente verso la Britannia o i vichinghi), al raggiungimento del limite, i più giovani erano usciti ed avevano fondato un nuovo gruppo in cerca di nuova terra. Ora, la densità abitativa in alcuni territori, impediva questa strategia, occorreva trovare un modo di crescere dentro lo stesso gruppo. Ma il processo di crescita dei gruppi, favorito dall’abbondanza post glaciale, prese a restringere le sue stesse condizioni di possibilità e le cose si fecero, improvvisamente, ancora più difficili quando le condizioni ambientali diedero una nuova, brusca, sterzata.
IL GRUPPO MEDIO EGALITARIO CRESCE, SI TROVA IN UN NUOVO REGIME DI SCARSITA’E DIVENTA GERARCHICO, SI AFFERMA LA PIENA DISEGUAGLIANZA. In pratica, il passo decisivo, dovrebbe esser stato quello per cui una già spinta al limite relativa complessità sociale basata su un processo di diversificazione tenuto ancora assieme dall’esercizio della delega funzionale, passa abbastanza celermente ad un esercizio stabile dei diversi poteri non più delegati. Soprattutto, l’orizzonte degli eventi di ciò che succede fuori del gruppo ma anche la conoscenza fine e sincronica in ogni punto della compagine sociale di ciò che succede dentro il gruppo, non è più presente in parti uguali in ogni mente. Gli stessi interessi individuali sono ormai traguardati all’ambito particolare e non più a quello generale. Solo per alcuni, l’interesse personale perfettamente coincide con quello di qualche funzione generale, questa saranno le successive élite. Il passaggio è reso repentino e quindi urgente e quasi necessitato dalla dipendenza che si ebbe dalle condizioni esterne, condizioni ambientali che pur avevano favorito la crescita dando abbondanza ora la toglievano e presto compare il disordine geopolitico tra tribù in competizione per le risorse e la terra, lavori ciclopici per portare acqua costante nei campi visto che non giungeva più dai cieli, ripetuto caos organizzativo che produsse miseria, estrema sensibilità alle condizioni ambientali, in breve: domanda di un potere problem – solving[32]. In assenza di capacità dei molti, la domanda riceverà risposta dai pochi, a volte, dall’Uno.
La proprietà privata segue questi avvenimenti con una propria dinamica. Già ancora quando le società si ingrandivano e diversificavano prudentemente ed il regime politico rimaneva diciamo democratico e la redistribuzione tendenzialmente egalitaria, si cominciarono a creare problemi poiché le diversità pretendevano una gestione meno livellante delle risorse. Non era ancora diseguaglianza ma adattamento alla incipiente diversificazione. La richiesta proteica di un agricoltore non poteva esser quella di un artigiano, quella del maschio con le sue nuove funzioni specializzate non era quella della femmina con le sue nuove funzioni specializzate, quella di chi aveva tre figli non era quella di chi ne aveva uno. I magri bottini di caccia o pesca e la raccolta in territori più piccoli e più poveri, non permettevano porzioni eque per duecento o più convitati. E’ quindi probabile che la gestione dell’uguaglianza nella sussistenza si fece viepiù problematica. Tra l’altro, mentre per lungo tempo la divisione del cibo era fatta da tutti davanti a tutti, ora c’era sicuramente l’afferenza del prodotto ad un posto centrale ed una funzione centrale di redistribuzione. E’ quindi probabile che una qualche forma di proprietà privata, di autoproduzione ovvero di prodotto trattenuto e non versato all’in comune, si formò spontaneamente con possibile comune e democratica ratifica della sua necessità. C’era una produzione per sé ed una produzione per l’in comune ma è facile che questo regime si disordinò presto poiché ormai si era sanzionata la biforcazione tra interesse personale e collettivo, tra il particolare ed il generale. I surplus che in regime di abbondanza erano stati gestiti senza problemi per lo scambio e le relazioni esterne (quelli per le funzioni improduttive non erano surplus ma normale redistribuzione all’interno del gruppo che aveva bisogno di quelle funzioni e le manteneva di buon grado e comune accordo), in regime di scarsità dovuta alla contrazione di possibilità dettate dall’ambiente e di produzione collettiva minata dall’accaparramento personale, sparirono improvvisamente e chi aveva delega funzionale al coordinamento del gruppo ormai complesso, sanzionò aumenti di produzione, aumenti che confinarono sempre più gli individui nelle loro funzioni ma che prima o poi portarono anche all’esproprio della produzione privata (a questo punto solo di alcuni, i più socialmente deboli, le ultime famiglie associate al gruppo, il gruppo più piccolo affluito in quello più grande, i profughi ed i migrati economici) per il bene comune che poi diventava sempre più il bene di alcuni. Quando il sistema andò a regime, queste divennero le tasse con la loro burocrazia di riscossione e gestione. I conflitti inter-tribali che avevano convertito cacciatori sempre più part-time o allevatori in funzioni militari, accrebbero la domanda specifica e le neo-élite favorirono questa specializzazione creandosi anche la necessaria “forza” ad uso interno ai gruppi che nei gruppi piccoli non poteva esser usata ma in quelli grandi sì. La funzione sciamanica evolveva in quella sacerdotale, da protettiva e materna passava a prescrittiva e paterna, prescrivendo il -come in cielo così in terra-, un “come” evidentemente conforme alle nuove necessità ed ai nuovi poteri in cui si osserva lo specchiamento reciproco tra re in terra e dio del cielo. Le gerarchie divennero frattali, gli anziani su i giovani, alcune famiglie su altre, alcune tribù di una certa provenienza su altre, i maschi sulle femmine, il raggio interno su quello esterno, le funzioni generali su quelle particolari, il saper parlare sul saper zappare, il rango divenne status, l’esibizione dello status comunicava il tipo di relazione da intrattenere tra individui che mal si conoscevano ed ormai poco o nulla avevano davvero “in comune”. La trama plurilivello della gerarchia diventava l’infrastruttura che teneva in piedi e funzionante, una società sempre più grande in cui la diversità sempre più pronunciata, diventava diseguaglianza.
Si deve sottolineare che nulla di realmente economico o di innovazione nei modi di produzione, fu causa prima di questo processo anche se certo questi furono anelli di retroazione che lo rinforzarono. La disuguaglianza precede l’istituzione della proprietà privata o meglio il suo affermarsi come unico modo di ripartire la produzione. Il processo fu multi-causato, dipese da un disallineamento repentino tra condizioni ambientali ed organizzazione umana che si era spinta molto in là in regime di abbondanza ma soprattutto, ebbe il suo centro decisivo nei cambiamenti politici, i cambiamenti strutturali ed impersonali che portarono al frazionamento dell’intenzionalità e quindi alla privatizzazione del diritto, dovere e potere di rispondere alla domanda -chi decide?-, in gruppi sempre più grandi ed eterogenei. La gerarchia s’impose date le condizioni ed il fallimento della democrazia naturale, non adatta a gestire problemi complessi e crisi continue in medio – grandi gruppi. La democrazia fallì, forse più tardi di quanto siamo soliti ritenere[33] ma fallì perché la democrazia è una istituzione culturale legata da una proporzione inversa alla dimensione del gruppo in cui si esercita ed inversa al tasso di diversità naturale. La più decisiva diversità però fu quella nella restrizione del raggio di competenza ed interesse negli individui. Gli individui omogenei dei gruppi piccoli egalitari dovevano adattarsi solo alla natura, quelli dei gruppi grandi, già diversificati, dovettero per lo più imparare ad adattarsi al gruppo sociale stesso stante che qualcun altro decideva di come questo si sarebbe adattato all’ambiente (naturale ed umano) esterno[34]. Prima di perdere il diritto alla equa partecipazione politica si perse la competenza per poterlo pretendere. Da allora, è questa mancanza di competenza la prima ragione che si oppone a chi chiede conto alle élite della decisione presa anche in loro nome e per conto. Così come Dio non dà giustificazioni delle sue intenzioni, il pastore non fa certo le riunioni di briefing sentendo cosa ne pensa il gregge, così il sacerdote, così il generale, così l’amministratore delegato o il direttore o il caporale di giornata. Il dominio dell’uomo sull’uomo fondato sull’asimmetria delle conoscenze era sancito, imposto ma anche accettato e, date le condizioni di primitiva coscienza sociale umana, strutturalmente senza alternative.
= 0 =
IN SINTESI. L’intero processo può dunque condensarsi nelle grande linee a questo: una specie, l’homo sapiens, ha mostrato una maggior attitudine psico-fisica all’interrelazione inter-individuale. Questo ha dato al sapiens, accesso ad una fase mediana in cui i gruppi hanno raggiunto una maggior dimensione relativa. Questo processo è stato accompagnato da una maggior differenziazione interna i gruppi, differenziazione dei caratteri e delle funzioni. Questi sotto processi si sono vicendevolmente rinforzati aumentando la resilienza del gruppo e con essa, sia un aumento della natalità, sia della vita media, cose che hanno portato più gruppi sull’orlo demografico del terzo livello, quello dei gruppi-società più grandi. Ma fino a che era possibile, gli individui più intraprendenti hanno lasciato i gruppi natali e ne hanno formato di nuovi. L’aumento relativo della densità territoriale ha favorito lo scambio e lo scambio in genere, favorisce l’aumento di differenziazione e resilienza interna ai gruppi. L’intero processo multifattoriale ha subito una accelerazione repentina con la fine dell’era glaciale, a partire da 12.000 a.f., accelerazione ed intensificazione di tutti i precedenti processi formativi anche in ragione di una relativa maggior abbondanza. Le nuove dimensioni dei gruppi umani hanno richiesto l’inizio di qualche strategia di sussistenza intenzionale poiché prevedibile (cura del selvatico, orticultura, piccolo allevamento). L’intenzionalità di gruppo, ancora a questo stadio, è rimasta condivisa sebbene la funzionalità interna ed esterna si sia resa più complessa, incluso l’utilizzo della delega funzionale ed una prima divisione delle funzioni e dei lavori. Quando circa 5000 a.f., intorno a questo processo accrescitivo sono cambiate drasticamente le condizioni poiché si era esaurita l’eccezionalità post glaciale e la densità territoriale restringeva le possibilità di scorporo, tutti i processi si sono disordinati, si è rotto l’equilibrio generale arrivato alla sua massima tensione, una parte della società (una società più piccola, i pochi) si è gerarchicamente imposta sull’altra (la società più grande, i molti). Il modulo gerarchico si è riprodotto a cascata a tutti i livelli, in tutte le funzioni, nelle funzioni tra loro, nei territori tra tribù, prima, più o meno conviventi in equilibrio. Fu questa la prima e più semplice soluzione che si diede al problema della decisione del bene comune in regimi di complessità crescente: affidarla (pretenderla – farsela dare) ad un gruppo più piccolo che governasse su quello più grande, poiché solo i pochi erano in grado di rispondere alla domanda -chi decide?- ed i molti, non più.
= 0 =
La nostra attuale società è giunta all’apice di queste tendenze. Fondata sia sulla divisione esasperata dei lavori, delle funzioni e delle conoscenze[35], sia sull’estrema privatizzazione in capo all’individuo, riproduce il modulo gerarchico in ogni dove, nei rapporti tra gruppi e natura, tra gruppi e gruppi (civiltà, etnie, nazioni, stati), tra i sottogruppi di uno stesso gruppo (caste, élite, classi), tra generi, generazioni e tra individui. Ovviamente, l’impianto è riflesso fedelmente nelle immagini di mondo perché è a questo punto che l’unica cosa davvero in comune che rimane è la cultura, la visione del mondo, la narrazione dominante. In Occidente, la gerarchia è riflessa dalle religioni monoteistiche, in specie quella cristiana, dalle filosofie derivate più o meno consapevolmente dal platonismo (e pitagorismo) mentre anche le scienze con la loro scelta di fare e non pensare (riflessivamente) si subordinano al regime gerarchico a cui a capo c’è il committente di ricerca coi suoi volgari interessi e tutto l’eterogeneo complesso è ridotto a poche leggi di natura e fuori del raggio di certezza oggettiva della formulazione matematica, non si fanno ipotesi.
Tutto ciò, ad alcuni, è sembrato a lungo ingiusto ma oggi ci sono nuove ragioni e considerazioni per ritenere tutto ciò dis-adattativo. E’ il venirsi a formare di una proto-forma di gruppo umano, il gruppo di tutti i gruppi fatti di umani, la discontinuità. Questo neo-gruppo non è più solo un vago concetto (l’umanità) e non è ancora un vero gruppo (come pretenderebbero gli apologeti del villaggio globale) ma tende a diventarlo per via dell’inflazione demografica (quantitativa ma, ovviamente, anche qualitativa) che va a sbattere contro il fisico limite ambientale, limite di dimensione spaziale del pianeta, limite nelle risorse, limite della sopportazione che l’ambiente ha della nostra violenza ed acefala perturbazione, limite che non separa più i popoli tra loro, allacciati ad una unica rete di interrelazioni. Le disordinate retroazioni in questo nuovo stato del mondo, dicono che il modo competitivo tra civiltà e stati o nazioni dovrebbe evolvere verso una maggior cooperazione. In geopolitica che a questo punto diventa una disciplina privilegiata per leggere le dinamiche dei gruppi umani (civiltà, stati, nazioni), sul proscenio planetario, ciò è noto come fine dell’uni o bipolarismo ed inizio di una fase multipolare. A cascata, si aprono fitte agende di cambiamenti necessari: il destino degli stati formati nei precedenti secoli (soprattutto quelli europei), il cambio dell’ordinatore del nostro vivere associato che non può più esser quello economico (peggio ancora finanziario), il cambio degli stili di vita, il ruolo del lavoro e del tempo libero, le priorità di ricerca del nuovo (ricerca scientifica ma anche rinnovamento della riflessione che chiamiamo filosofia e dei modi pratico-politici), la ricerca di senso sociale, per chi ne sente la necessità un ritorno dello spirituale, la convivenza tra le diversità, la necessaria programmazione poiché non ci è più data la possibilità di un atteggiamento di spensierata caccia e raccolta nei cicli di produzione in cui immettiamo energie e materie per ottenere prodotti e financo servizi come se fossimo immersi nell’infinito e nell’eterno. La convivenza tra gruppi umani e quella tra umanità e pianeta concludono la lista delle novità che chiedono un nuovo modo di stare al mondo[36]. La grande inflazione di complessità porta una inedita cascata di decisioni su i limiti da porre, porci, rispettare. Tutte queste decisioni afferiscono all’intenzionalità del gruppo, portano di nuovo a domandarci chi e come deve rispondere alla domanda -chi decide?-.
L’ordine dell’uguaglianza nella decisione (l’uguaglianza politica) è propriamente quella che chiamiamo democrazia ma non certo quella forma bislacca che informa le società occidentali, quella naturale per la quale tutti decidono sul tutto. Quando i gruppi umani hanno cominciato la loro scalata alla complessità, hanno trovato utile dare una qualche parziale delega funzionale, controllabile e ritirabile a giudizio. Sia la forma pienamente diretta che quella parzialmente delegata di democrazia, presuppongono però un dato fondamentale: sapere di ciò che si deve decidere e fare. E’ quando non si realizza più questa condizione di eguaglianza della conoscenza che, a cascata, si formano tutte le asimmetrie che portano alla gerarchia. In preda al panico da complessità o da caos, si arriva addirittura ad invocare il tiranno purché rimetta le cose in ordine e restituisca prevedibilità all’esistenza individuale e comune.
L’azione adattativa principale che si suggerisce a singoli e gruppi che vogliono agire intenzionalmente per darsi, darci e dare a tutti gli altri, maggiori chance adattative al mondo che noi stessi abbiamo e stiamo creando è quindi quella di distribuire quanto più equamente possibile la conoscenza. Non possiamo tornare ai piccoli gruppi che vivono semplicemente ed ogni mattina si pongono il problema della sussistenza con davanti territori immensi, ricchi ed abbondanti, sgombri e semmai animati da anime e spiriti da farsi amici. Non possiamo immaginare la perfetta programmazione e redistribuzione in complessi così grandi e fitti fatta dalla centralità statale che primo non è in grado e poi comunque diventa l’ennesima élite fuori controllo. Né ci è possibile immaginare un ritorno alla piena indifferenziazione delle capacità e funzioni. Né sopporteremmo il livellamento coatto delle irreversibili differenze individuali perché solo con l’identità degli indiscernibili si ottiene l’Uno. L’unica cosa che possiamo e dovremmo tornare a fare è metterci diffusamente in quella posizione strutturale primigenia in cui alla domanda -chi decide?- si risponde: tutti! A sì che l’intenzionalità dei gruppi torni ad esser la volontà generale[37] e che non solo possa, ma ne sia anche in grado[38]. Farlo nei gruppi grandi e non più dove è naturale e facile, nei gruppi piccoli. Questo sembra indicare lo scalino adattivo.
Come farlo è oggetto di un altro capitolo del discorso. Ma una doppia condizione preliminare ci sentiamo di segnalare: il tempo. Nulla di questa millenaria e complessa storia si modifica con un salto. Quello che ci sembra oggi impossibile va scomposto in livelli, molti livelli ascendenti, in cui si realizza progressivamente anche perché la nostra esperienza e quindi capacità di costruzione sociale intenzionale è quasi nulla. Occorre aver ben chiaro il prossimo livello e lasciar sfumati i successivi che si chiariranno cammin facendo. Sono secoli che sogniamo di cambiare lo stato d’ingiustizia scrivendo utopie, poi addirittura illudendoci esista la versione “scientifica” della storia umana, organizzando élite combattenti e carbonare, affidandoci a qualche Big Men ispirato, presupponendo il ruolo salvifico e liberatore di qualche specifico (classe, partito, ribellione sociale, etnica, di genere, dei più vessati) ed il risultato è dallo scarso al nullo. Abbiamo anche provato con le “rivoluzioni” ma come l’idra, tagliata la testa ai re sono comparsi altri tiranni o confraternite di tiranni o la tirannia autoimposta di strutture e sistemi impersonali da cui alcune élite traggono rinnovata linfa. La gerarchia ha sede in noi[39], nei nostri limiti di non saperla limitare. Forse dobbiamo liberare una strategia progressiva e darci obiettivi e tempi cedibili per raggiungerli. Più che in ogni altro campo, per il cambiamento sociale e la costruzione intenzionale, s’impone l’adozione di una cultura della complessità. Ma il tempo è necessario anche come precondizione per liberare la individuale cognizione umana. Le persone, i molti, hanno bisogno di leggere, studiare, dibattere, condividere, animare l’unica attività che di sua natura tende all’in comune -la politica- altrimenti l’intenzionalità, a qualsiasi livello e per qualsiasi scopo, non sarà mai condivisa e se non sarà condivisa fallirà sistematicamente il riequilibrio delle ineguaglianze e la gestione della democrazia che è poi cosa tutta da reinventare. La sfida è economica solo nel senso di come ottimizzare la risorsa che è scarsa è passibile di utilizzi alternativi, appunto, il tempo[40] .
_______________________________________________