Terrorismo e guerra: conflitto di civiltà o strategia imperiale del caos?
dic 24th, 2015 | Di Maurizio Neri | Categoria: Primo PianoDal blog http://radicamenti-koinonia.blogspot.it
Lorenzo Dorato
E’ ormai trascorso quasi un mese dagli attentati di Parigi! La distanza temporale consente di osservare con maggior lucidità i fatti e il contesto politico che li circonda.
La forza dell’evento è stata con tutta evidenza enorme, sia per la sua estrema brutalità oggettiva, sia per la gigantesca enfasi mediatica dedicata cui si accompagna l’alto livello di allerta esasperato in queste settimane dalle autorità politiche di molti paesi europei.
A ciò si è aggiunta la concatenazione convulsa e contraddittoria di reazioni internazionali e più di recente il cruento episodio della strage di San Bernardino in California dai contorni ancora assai poco chiari.
Uno scenario confuso che lascia spiazzati e rivela il caos politico internazionale in cui da ormai molti anni siamo immersi.
In questi giorni è stato possibile misurare il tenore delle reazioni espresse dal governo francese e dai governi dei vari paesi europei e di tutto il mondo. Lo scenario internazionale che si sta delineando è decisamente fosco e vede simultaneamente apparenti azioni concertate da parte di un’immaginaria e retorica alleanza internazionale anti-terrorismo e la realtà di una guerra più o meno silente tra potenze giocata a colpi di provocazioni (la più clamorosa delle quali è stata sicuramente l’abbattimento dell’aereo russo da parte della contraerea turca).
Al momento, la certezza più evidente è che gli attentati di Parigi hanno costituito uno spartiacque e un potente casus belli nella strategia di interventismo militare occidentale nello scenario medio-orientale che fa perno attorno alla Siria, ma vede implicata in realtà l’intera macro-regione.
Il ruolo attivo della Russia in Siria nella difesa dei propri interessi è, come nel più vicino caso dell’Ucraina, la vera variabile inedita rispetto alle precedenti avventure neo-coloniali orchestrate dai paesi occidentali nell’ultimo quindicennio (dalla guerra del Kosovo del 1999 in poi).
Il ruolo attivo della Russia in Siria nella difesa dei propri interessi è, come nel più vicino caso dell’Ucraina, la vera variabile inedita rispetto alle precedenti avventure neo-coloniali orchestrate dai paesi occidentali nell’ultimo quindicennio (dalla guerra del Kosovo del 1999 in poi).
I tragici e brutali attentati di Parigi impongono riflessioni che investono molti aspetti.
Per fare ordine e non finire schiacciati dal tritacarne dell’informazione istantanea che impone l’immagine di eventi di corto respiro ad alto impatto emotivo, occorre osservare con attenzione il contesto generale.
Per fare ordine e non finire schiacciati dal tritacarne dell’informazione istantanea che impone l’immagine di eventi di corto respiro ad alto impatto emotivo, occorre osservare con attenzione il contesto generale.
L’evento in sé naturalmente ha avuto un impatto scioccante, come tutti gli eventi che accadono a poche centinaia di chilometri di distanza da noi (distanza culturale in realtà più che fisica). Che sia la distanza culturale e non geografica a fare la differenza lo dimostrano le reazioni ben più composte e distaccate di fronte agli attentati avvenuti nella vicinissima Tunisia nell’estate appena trascorsa oppure la scarsissima partecipazione emotiva agli eventi tragici che hanno colpito l’Ucraina dal 2013, o ancora, tornando indietro nel tempo, ad un passo dalla nostra frontiera, le continue sciagure belliche che hanno funestato l’ex-Jugoslavia negli anni ’90.
Da un lato, il forte coinvolgimento emotivo è del tutto ovvio e giustificato sia per la vicinanza culturale del paese colpito, sia per le modalità dell’attacco terroristico che richiamano al massimo grado il senso di totale vulnerabilità della vita quotidiana facendoci sentire dei possibili bersagli casuali.
Tuttavia, da un altro lato non si può non notare l’indifferenza emotiva che numerosi altri eventi funesti spesso ben più tragici nelle proporzioni comportano. E questo più che il segno di una vicinanza culturale tra “vicini di casa” è piuttosto il sintomo di un occidentalismo suprematista indotto dal sistema mediatico, per cui in fondo in fondo la vita di un siriano, di un palestinese, di un iracheno o di un afghano, ma anche di un russo, contano meno della vita di un europeo o di un nord-americano.
“Sono diversi, lontani, hanno un’altra cultura della vita, saltano in aria come niente, sono abituati alla ‘normalità’ della morte violenta, sono sempre in guerra per colpa loro”…e via via discorrendo, banalizzando e autoassolvendosi al cospetto delle innumerevoli tragedie che si consumano nel mondo.
L’indifferenza per i morti “diversi”, del resto, è un processo psicologico sofisticato e stratificato la cui funzione è quella di deresponsabilizzarci da responsabilità che sono invece evidenti e del tutto visibili a chi vuol vedere.
Se la forza delle reazioni fosse davvero motivata dalla vicinanza degli eventi e quest’ultima fosse correttamente misurata sulla base dei vincoli di dipendenza e di ingerenza dei nostri paesi nei vari scenari mondiali, dovremmo dormire sonni inquieti e tormentati quotidianamente ormai da molti anni.
Naturalmente, in questo come in tutti i casi, l’apparato mediatico ha giocato e sta giocando la sua parte fondamentale nel manipolare l’emotività collettiva incanalandola su sentieri determinati. Così come dopo gli attentati dell’11 Settembre, anche in questo caso l’enfasi solenne riposta sull’evento da tutti i mezzi di informazione con elementi di evidente e ricercata morbosità (racconti dettagliati delle vite delle vittime) e con una sfacciata insistenza sulla parola d’ordine “siamo sotto attacco”, hanno incanalato l’opinione pubblica verso un’inedita attenzione ai fatti.
Si sono raggiunte vette parossistiche anche nei dettagli meno evidenti, come ad esempio in Italia, l’invito da parte del Ministero dell’Istruzione di dedicare un’ora in ogni scuola ad una riflessione sui fatti di Parigi oltre ad un minuto di silenzio per le vittime. Non che una riflessione a scuola sul tema sia un fatto negativo, tutt’altro! Ma colpisce l’aura di eccezionalità che le istituzioni e i media hanno dato all’evento al cospetto di altre tragedie sociali e militari che si consumano ogni giorno nel mondo. Qualcuno, negli anni più recenti, ha mai chiesto un’ora di riflessione nelle scuole per la guerra in Iraq che ha causato più di un milione di morti? O sui recenti massacri israeliani in Palestina? E’ mai stata suggerita da un ministro dell’istruzione un’ora di riflessione e un minuto di silenzio per i massacri neo-nazisti avvenuti nella vicinissima Ucraina orientale dal 2013? O sugli attentati terroristici che dilaniano la Siria dal 2011? E l’elenco potrebbe continuare all’infinito…
Come all’indomani dell’11 Settembre 2001 è chiaro che l’obiettivo è insinuare un sentimento di eccezionalità assoluta dell’evento mobilitando le passioni collettive per fini ben specifici. L’evento deve apparire eccezionale, unico, isolato da ogni contesto e terrorizzante.
In queste settimane, la lettura dei quotidiani e di molti commenti e articoli in rete ha mostrato la presenza di diverse narrazioni dell’evento.
A seguito di fatti di questa forza esiste sempre una danza delle reazioni dell’opinione pubblica che segue copioni piuttosto consolidati. Si tratta di copioni che ricalcano quello che è il generale modo di porsi in rapporto alla realtà sociale, politica ed economica.
Da un lato vi è una narrazione dominante, sostenuta dai principali media televisivi e cartacei che ci dà sempre una prima misura generale di quali siano gli obiettivi fondamentali perseguiti dalle elites al potere. Questa narrazione dominante, spudoratamente falsa e ipocrita, generalmente presenta sempre una doppia variante. Una versione dura e volgare, quasi macchiettistica, persino ridicola se non avesse tragiche conseguenze culturali; ed una versione edulcorata, più “progressista”, più vendibile e fatta propria dalla gran parte degli intellettuali integrati e dalla maggioranza dell’opinione comune. Le due versioni si completano e costituiscono l’ossatura dell’ideologia dominante ad uso e consumo dei progetti egemonici dell’oligarchia al potere.
Di fronte alla narrazione dominante sorgono poi altre reazioni.
In primo luogo una reazione “apolitica” che vede nel terrorismo una sorta di rappresentazione generica dell’odio, della violenza e del male, rinunciando alla comprensione dei meccanismi politici che lo inquadrano. In secondo luogo una reazione fatalistica e rinunciataria che a fronte della complessità degli eventi rinuncia a cercarne una chiave di lettura, rifuggendo dal tentativo di dare senso al contesto stesso in cui l’evento terroristico si inquadra. Si invoca così un gioco di potere troppo grande e sfuggente per essere compreso e si percepisce con tragica impotenza il nostro ruolo di vittime di fronte ad un caos imponderabile e privo di senso.
In terzo luogo una reazione “complottistica” che generalmente rovescia di 360° la versione dominante e pretende di incasellare ogni evento in un perfetto gioco di potere facilmente smascherabile.
E infine, lodevoli tentativi critici ragionati di comprendere la realtà, tra i quali si distinguono interpretazioni che considero errate e fuorvianti ed altre che mi sembra si avvicinino molto di più alla verità.
Non è semplice orientarsi nel marasma delle opinioni, delle suggestioni e degli eventi che si accavallano di giorno in giorno. E’ tuttavia fondamentale, per non precipitare in narrazioni preconfezionate, o ancora peggio rinunciare del tutto a capire, fissare alcuni punti fermi che, senza alcuna pretesa di far quadrare ogni pezzo del puzzle, diano le coordinate fondamentali di orientamento.
Non è necessario capire tutto! Ne è necessario che ogni dettaglio abbia un senso specifico e inquadrabile! E’ necessario provare a cogliere gli aspetti essenziali di quanto è accaduto e sta accadendo, cercando di tenere insieme il passato e il presente e respingendo i tentativi mediatici di fare a pezzi la storia portando gli eventi ad un’isolata sovraesposizione.
Per provare a trovare le coordinate del contesto, iniziamo a ragionare a partire dalla narrazione dominante, la più nota e senza dubbio la più pericolosa, carica di cattive intenzioni e foriera di drammatiche conseguenze culturali, politiche e militari.
Questa narrazione riprende perfettamente lo schema interpretativo dell’11 Settembre 2001 aggiornato al 2015.
Vi sarebbe un mondo islamico fondamentalista che odia la civiltà occidentale e i nostri valori (libertà e democrazia) e che ha dichiarato guerra a tutto l’occidente. Nel 2001 colpendo gli Stati Uniti, nel 2015 colpendo la Francia e l’Europa, fari di libertà e democrazia.
Da qui in poi la versione dura e la versione morbida della narrazione dominante divergono. La prima sostiene che la cultura dell’odio sia un elemento intrinseco dell’Islam, che l’Islam radicale sia una variante più violenta di una religione comunque intrisa di odio. L’Islam politico diventa così una vera e propria civiltà e cultura nemica che odia la libertà dell’occidente e vuole imporre al mondo la propria egemonia. L’Islam, in aggiunta, finisce per identificarsi per estensione con tutto il mondo medio-orientale o persino genericamente “orientale”, creando una dicotomia conflittuale Occidente-Oriente. Occidente libero democratico, cristiano e illuminista. Oriente oscurantista, premoderno, antidemocratico, dittatoriale. Questa opposizione porterebbe ad un insanabile conflitto di fondo. L’occidente avrebbe il dovere di reagire in qualsiasi modo per combattere una civiltà dell’odio che colpisce la nostra libertà in modo violento e subdolo attraverso il terrorismo. Si tratta dello schema ben descritto dal celebre testo di Samuel Huntington “The Clash of Civilization”, uno dei manifesti di propaganda occidentalista più spudorati mai scritti. Si tratta dello stesso filone in Italia ben incarnato in passato dalla vena polemica, islamofoba di Oriana Fallaci e da molti altri personaggi in tinte più o meno edulcorate.
La versione morbida della narrazione dominante distingue invece l’Islam in sé dall’Islam radicale e fondamentalista, ma condivide come motivo di fondo l’opposizione tra un occidente libero e democratico e un oriente oscurantista e antidemocratico.
In termini del tutto astratti e privi di una vera sostanza la difesa dell’occidente viene alternativamente associata ad una difesa dei valori cristiani e-o ad una difesa dei valori illuministi e moderni.
In termini del tutto astratti e privi di una vera sostanza la difesa dell’occidente viene alternativamente associata ad una difesa dei valori cristiani e-o ad una difesa dei valori illuministi e moderni.
In tutte le sue versioni, questa narrazione si fonda su basi fragilissime, su una totale ignoranza dei rapporti economici diseguali internazionali da cui deriva l’estromissione delle categorie di colonialismo e imperialismo; su un ossessivo riferimento a valori puramente procedurali (democrazia, diritti umani come valori estraniati dai contesti reali) come parametro per giudicare le vicende interne ai diversi paesi del mondo; e infine, nel dettaglio dell’area geografica più legata ai fatti qui commentati, sulla totale ignoranza della storia più recente del medio-oriente (dalla caduta dell’Impero ottomano ad oggi).
In tale lettura, le categorie con cui si legge la realtà mediorientale, così come del resto tutta la realtà internazionale, diventano concetti astratti generici: dittatura (contro democrazia), fondamentalismo religioso (contro laicità e tolleranza). E tali concetti vengono usati in modo confusionario astraendo totalmente dai fatti storici, dai contesti, dalle reali circostanze, mischiando realtà completamente differenti in un unico calderone che evochi nel suo insieme lo spettro di un nemico malvagio.
Il fondamentalismo religioso, con i suoi innegabili orrori, assurge così ad un tassello fondamentale della propaganda imperiale dell’Occidente, dimenticando completamente, come vedremo, la sua genesi, il suo ruolo, la sua funzione oggettiva e i suoi rapporti politici (alleanze, finanziatori etc).
L’Isis, come per molti anni Al Qaeda, viene, in questa chiave, spiegato come una forza oscura, incarnazione del male, nata dal caos di un preesistente medio-oriente egemonizzato da dittature sanguinarie e repressive.
La narrazione dominante ha il preciso ed evidente scopo di arruolare l’opinione pubblica nella crociata neo-coloniale contro il medio-oriente, il nord-africa e l’Asia centrale, scenari geopolitici chiave in cui si gioca l’egemonia tra le potenze, in particolare tra un blocco occidentale dominato dal decadente e sempre più aggressivo potere statunitense (e in subordine europeo) e l’influenza crescente delle potenze emergenti (Russia e Cina in primis) contro le quali gli Stati Uniti stanno adottando da anni un piano di accerchiamento e contenimento contrassegnato da un ciclo di spaventose guerre di confine nei paesi limitrofi o legati alle potenze nemiche da stretti rapporti politici ed economici.
Un modo sicuramente differente di intendere gli eventi, che tuttavia giunge ad un medesimo misconoscimento delle loro reali concause politiche e sociali, è quello di considerare il terrorismo un’espressione generica del male e della violenza non meglio qualificata. In questo caso non si cade nella pericolosa deriva della spiegazione del terrorismo su basi puramente culturali destrutturalizzate (“Islam cattivo” oppure “islamismo radicale cattivo”) e la chiave di lettura diventa psicologica o al limite sociologica (il male come tendenza generica deviata dell’essere umano che sorge più facilmente in contesti di degrado sociale). Se questa lettura ha il pregio di analizzare alcuni aspetti sociali (importanti, anche se relativamente marginali) della genesi del terrorismo, tuttavia ancora una volta non coglie affatto l’aspetto politico e storico del problema.
La lettura complottistica degli eventi è invece un’esasperazione distorta di quelle che possono essere corrette interpretazioni critiche del contesto di politica internazionale. Tanto più perché indirizzato spesso su obiettivi corretti, tale approccio risulta particolarmente controproducente.
Sia chiaro che l’accusa di complottismo mossa verso chiunque osi mettere in discussione la versione ufficiale di un determinato fatto è diventata un’arma micidiale della propaganda ufficiale per ridicolizzare punti di vista diversi e alternativi togliendogli a priori ogni legittimità. Pertanto va rigettata completamente la tendenza a derubricare nella categoria di “complottistico” ogni tentativo eterodosso di interpretare la realtà.
Detto questo, tuttavia, è pur vero che alcune letture degli eventi, per la smania di classificare con sommaria certezza e puntuale identificazione ogni singolo dettaglio finiscono per risultare del tutto inappropriate, a volte forzate, se non addirittura false. La narrazione complottistica pretende di incasellare ogni minuzia in un progetto studiato dall’alto. Nulla sfuggirebbe alla razionalità del complotto, tutto seguirebbe un’unica matrice causale. E’ chiaro che il rischio di queste letture parossistiche è quello di gettare involontariamente discredito su altre interpretazioni critiche più ragionate e prudenti. Insomma, in breve, entrando nel merito dei fatti qui commentati, se si vuole ad esempio dimostrare la verità dello stretto legame politico tra terrorismo islamista e potenze occidentali, non è necessario affermare ad ogni costo che l’attentato di Parigi è frutto certo dell’azione diretta dei servizi segreti francesi o statunitensi o legati alla NATO. Non significa che ciò debba essere escluso, ma di certo non è sensato né utile affermarlo con perentoria certezza fino a che non vi siano prove chiare che lo possano dimostrare.
Una maggior pulizia e prudenza di analisi, come vedremo, non toglie nulla ad un’argomentazione critica che parta da dati storici inconfutabili e da ragionamenti logici rigorosi.
Ma riprendiamo ora l’analisi degli eventi in corso nel loro contesto attuale e storico.
Chi è davvero il mediatico “nemico dell’Occidente” che in questi giorni sta scatenando la chiamata alle armi per la guerra di civiltà tra il Bene e il Male?
Osserviamo dapprima quali sono state le tempistiche dell’uso propagandistico di questo nemico dal 2001 in poi e a seguire approfondiamo il contesto storico e politico di lungo periodo in cui tale realtà prende effettivamente forma.
Osserviamo dapprima quali sono state le tempistiche dell’uso propagandistico di questo nemico dal 2001 in poi e a seguire approfondiamo il contesto storico e politico di lungo periodo in cui tale realtà prende effettivamente forma.
L’uso del fondamentalismo religioso islamista come mostro e capro espiatorio, a ben vedere, ha seguito dal 2001 in poi percorsi e fasi cronologiche totalmente dipendenti da eventi cruenti, ma estremamente puntuali e circoscritti avvenuti in occidente, a loro volta coincidenti temporalemente con la strategia di destabilizzazione dei diversi paesi dell’area medio-orientale da parte delle potenze occidentali. L’uso retorico del nemico islamista appare invece del tutto indipendente dalle atrocità e i crimini commessi dai gruppi terroristici, in modo ben più continuo e micidiale, nell’area medio-orientale, nord-africana e asiatica nel corso degli ultimi 20 anni.
Di fatto, in occidente, il mostro “terrorista islamico” è stato mediaticamente alternato ai “mostri sanguinari laici” dei vari capi di governo scomodi da rimuovere per realizzare il disegno di un mondo arabo asservito al potere economico nord-americano ed europeo (Iraq-Siria, Libia), a dimostrazione dell’uso puramente strumentale e variabile dei capri espiatori.
Il primo clamoroso arruolamento di massa dell’opinione e delle coscienze, in relazione allo scenario mediorientale, si verificò, come ben noto, dopo gli attentati alle Torri gemelle nel tentativo di avallare il ciclo di guerre scatenate dagli USA e dai suo alleati subordinati (guerra contro l’Afganistan, l’Iraq, tentativi di destabilizzazione dell’Iran). D’improvviso l’Islam divenne il nemico assoluto dell’occidente e sorse in breve tempo una sterminata letteratura volgare e “razzista” sul necessario legame tra Islam terrore e violenza. Già da allora, tuttavia, il capro espiatorio dell’islamismo venne alternato al capro espiatorio delle cosiddette “dittature sanguinarie” che con l’islamismo evidentemente non avevano nulla (come il governo laico di Saddam Hussein). L’esportazione della democrazia divenne così la nuova parola d’ordine complementare dei dominatori.
Una seconda clamorosa ondata propagandistica legata ad un nuovo arruolamento ideologico è esplosa nel 2011 con la guerra alla Libia di Gheddafi e poi con la destabilizzazione permanente della Siria e la manipolazione delle primavere arabe. In quel caso lo spauracchio si è tutto concentrato sui supposti dittatori sanguinari (laici) e la loro repressione delle supposte rivolte popolari (primavera araba).
Ora, quattro anni dopo, a seguito degli attentati di Parigi, torna alla ribalta l’incubo del terrorismo legato ancora al fondamentalismo islamico, con il protagonismo dell’Isis e riparte l’onda anti-islamica e lo spettro ideologico di quello scontro di civiltà ossessivamente declamato dopo i fatti del 2001.
Insomma un nemico a corrente alterna che viene rilanciato ad ondate emotive sulla base di precise strategie di conquista.
Ma, al di là dei tempi che hanno scandito l’uso strumentale e propagandistico del “nemico islamista”, da dove ha origine lo spazio politico e militare del fondamentalismo islamico nel mondo arabo e medio-orientale? Qual è la sua origine storica oltre alle narrazioni destoricizzate profuse dai media?
L’ascesa de fondamentalismo islamico risponde ad una logica storica ben precisa che deve essere raccontata.
Si tratta di una storia che affonda le sue radici nella caduta dell’Impero ottomano dopo la fine della prima guerra mondiale. Il mondo arabo che aspirava alla costituzione di una nazione araba unificata, venne spezzettato in Stati costituiti a tavolini dalle due potenze coloniali vincitrici (Francia e Gran Bretagna) dai confini del tutto arbitrari. Ebbero così origine protettorati europei, divisi da frontiere casuali, con all’interno un mosaico di popoli e con il popolo arabo diviso in Stati-nazione diversi.
Il processo di decolonizzazione si estese dagli anni ’30 al dopoguerra a seconda dei paesi dando luogo a Stati formalmente indipendenti retti da monarchie del tutto subordinate agli interessi delle vecchie potenze coloniali. Negli anni ’50 e ’60 una serie di rivoluzioni e colpi di Stato portarono al potere movimenti panarabisti laici, nazionalisti e di orientamento socialisteggiante. Personalità carismatiche come Nasser in Egitto, Aflaq in Siria e poi in Iraq, Gheddafi in Libia, rappresentarono il sogno di indipendenza di paesi fino a quel momento colonie di diritto e poi di fatto dell’Occidente, in un’area del mondo aspramente contesa per la presenza massiccia di petrolio e altre materie prime strategiche e per il suo ruolo geografico di cerniera tra Europa e potenze orientali (Cina e Unione Sovietica, poi Federazione russa).
In quei decenni, contrassegnati dal bipolarismo Usa-Urss, molti paesi arabi poterono avviare percorsi di sviluppo economico endogeno trainato dal controllo statale dei ricchi giacimenti petroliferi. Siria, Iraq, Egitto e Libia in particolare, guidati da formazioni politiche laiche e nazionaliste con forte vocazione sociale, conobbero due decenni di crescita economica a carattere progressivo con forte redistribuzione del reddito a favore delle classi meno abbienti, sviluppo di un solido sistema di Stato sociale, generalizzazione dell’alfabetizzazione, garanzia di laicità dello Stato con piena libertà di culto per tutte le religioni (ivi compresa la nutrita e fiorente comunità cristiana, assai prospera in Siria e Iraq), un’avanzata condizione sociale della donna e un appoggio solido alla causa della resistenza palestinese contro il colonialismo israeliano.
A partire dagli anni ’80 il carattere socialmente progressivo del socialismo arabo andò attenuandosi declinando del tutto in Egitto dopo la morte di Nasser e perdendo le sue spinte rivoluzionarie negli altri paesi. La graduale “normalizzazione” in senso filo-occidentale dei governi laici e nazionalisti arabi, favorita da forti pressioni da parte degli Stati Uniti e delle ex-potenze coloniali europee intenzionati a recuperare il proprio controllo su territori geopoliticamente strategici, non è stata tuttavia totale e paesi come l’Iraq, la Siria e la Libia hanno mantenuto un profilo di moderata autonomia politica ed economica nel corso degli anni ’80-’90 e primi 2000, nonché di attivismo geopolitico in direzione di alleanze con potenze diverse da quelle occidentali (Cina e Russia).
Allo stesso tempo altri paesi mediorientali guidati da governi legati all’Islam politico oscillavano tra accondiscendenza agli interessi occidentali e tentativi di parziale sganciamento da questi ultimi, conditi da una retorica culturale anti-americana e anti-occidentale. Era il caso dell’Afghanistan precipitato in una terribile guerra civile dopo la rivoluzione filo-sovietica del 1978 brutalmente annichilita dalla guerriglia islamista sostenuta dagli Stati Uniti. Ed era il caso dell’Iran dopo la rivoluzione Khomeinista del 1979.
E’ a partire dagli anni ’80 e ’90 del ventesimo secolo che i gruppi islamisti diventano sempre più forti nella vita politica del medio-oriente. La loro ascesa non è il risultato di una naturale tendenza della cultura politica arabo-islamica (come spesso si sente dire), ma è il frutto inevitabile del fallimento (ampiamente facilitato dalle potenze occidentali) del nazionalismo socialista pan-arabista e del graduale peggioramento delle condizioni sociali delle masse nei paesi arabi a partire degli anni ’80 con accrescimento delle disuguaglianze e tramonto dei sogni di emancipazione e progresso.
La tendenza al consolidamento di forze politiche di stampo conservatore è stata, così come in molte altre parti del mondo, l’esito naturale della caduta del patto sociale dei decenni del dopoguerra colpito al cuore dalle politiche neo-liberiste imposte dalla logica della cosiddetta globalizzazione dei mercati (leggasi estensione dell’imperialismo nel contesto del tramonto del bipolarismo USA-URSS).
La tendenza al consolidamento di forze politiche di stampo conservatore è stata, così come in molte altre parti del mondo, l’esito naturale della caduta del patto sociale dei decenni del dopoguerra colpito al cuore dalle politiche neo-liberiste imposte dalla logica della cosiddetta globalizzazione dei mercati (leggasi estensione dell’imperialismo nel contesto del tramonto del bipolarismo USA-URSS).
L’Islam politico si consolida quindi in un contesto di crisi politica e sociale del mondo arabo. Si presenta peraltro, come vedremo, come realtà estremamente variegata e contradditoria con orientamenti diversi sia in politica interna che in politica internazionale.
Sicuramente è un fatto storicamente accertato che le forze islamiste a carattere più reazionario, divengono fin dalla fine degli anni ’70 e dagli anni ’80 un prezioso alleato delle potenze occidentali, lautamente sostenute per indebolire i regimi laici e nazionalisti.
Lo Stato più fedelmente alleato ai paesi occidentali si confermerà in quei decenni essere l’Arabia saudita, il paese del mondo islamico con la più rigida applicazione della Sharia nonché aperto sostenitore di gruppi fondamentalisti in molti casi legati al terrorismo internazionale. Simile ruolo sarà assunto dagli Emirati Arabi Uniti e dal Qatar.
Allo stesso tempo, proprio in quegli anni, sorgono in molti paesi forze islamiste dal carattere anti-imperialista ostili all’occidente, a conferma del ruolo ambivalente assunto da tale fenomeno politico.
Dagli anni ’90 si consolida il ruolo ambiguo dell’Islam politico rispetto ai rapporti con l’Occidente. Osteggiato dai paesi occidentali nelle sue componenti più sensibili alla trasformazione della società in una direzione non pienamente compatibile con le pure leggi del mercato e allo stesso tempo sostenuto nelle sue componenti più reazionarie per minare la stabilità dei paesi più laici o per seminare il caos e la distruzione in contesti geopolitici di estrema criticità (come in Afghanistan, in Pakistan e in Palestina).
Il sostegno di lungo periodo fornito alla guerriglia afghana antisovietica di orientamento islamista, dal 1979 in poi, diverrà uno dei punti fermi della politica estera statunitense e una delle più clamorose prove del rapporto strumentale e manipolativo tra imperialismo americano e frange estremiste e terroristiche di stampo islamista.
La guerriglia dei mujaeddin in Afghanistan, alimentata con il ruolo attivo dell’Arabia saudita e l’”esportazione” di guerriglieri dalla penisola arabica e dal Pakistan, diventerà una vera e propria focina inesauribile di militanti pronti a combattere in molteplici scenari dando vita ad una sorta di esercito flessibile che verrà utilizzato dalle potenze occidentali, negli anni successivi, per destabilizzare numerosi scenari geopolitici, con due clamorosi esempi interni al contesto europeo e russo: la delicatissima regione del Caucaso nel corso degli anni ’90 (in particolare nella tormentata Cecenia) con la sistematica destabilizzazione della Russia lungo le proprie frontiere meridionali e l’appoggio attivo a tale operazione da parte degli Stati Uniti; e i Balcani, con il ciclo delle guerre jugoslave (guerra civile 1991-1995) e la guerra alla Serbia (1999) e la nota infiltrazione di jiahadisti cosiddetti “afghani” (in realtà provenienti da numerosi paesi islamici e già usati nella guerriglia afghana anti-sovietica) nelle fila di miliziani bosniaci e poi kosovari, in chiave anti-serba. Anche in questo caso è più che noto il ruolo di sostegno attivo del caos balcanico da parte dei servizi segreti tedeschi e statunitensi in particolare.
Dal 2001, a seguito dell’attentato alle Torri gemelle, lo scenario mediorientale cambia brutalmente e all’improvviso il fondamentalismo islamico internazionale diventa il suo apparente nemico e capro espiatorio. Nell’Ottobre del 2001 viene bombardato e invaso l’Afghanistan, ritenuto responsabile di proteggere i terroristi di Al Qaeda, dalla coalizione internazionale Usa- Gran Bretagna sostenuta poi dal 2002 da una missione Nato avallata dall’Onu.
Nel 2003, con la scusa del possesso di presunte armi chimiche e di legami con il terrorismo internazionale, viene bombardato e invaso l’Iraq dando inizio ad una delle più devastanti aggressioni imperialistiche degli ultimi decenni, sotto la regia di Usa e Gran Bretagna e con l’attiva complicità secondaria di altri paesi europei (tra cui l’Italia). L’Iraq da paese relativamente prospero e socialmente molto avanzato (malgrado i 12 anni di criminali sanzioni economiche imposte dalle Nazioni unite, dalle tragiche conseguenze umanitarie), si trasforma in un’infernale polveriera e regredisce all’età della pietra. Alle distruzioni drammatiche provocate dalla guerra aerea e terrestre si sommano anni di guerra civile tra milizie sanguinarie con continui attentati, in un contesto di spaventosa frammentazione territoriale.
Nel 2005 in Iran vince le elezioni Ahamdinejad, il presidente più laico e “progressista” dal tempo della rivoluzione khomeinista. Ha inizio una martellante campagna mediatica e diplomatica contro il paese con continue minacce di aggressione militare con l’obiettivo ufficiale di porre fine al programma di dotazione nucleare civile portato avanti dalla nazione persiana.
Tra il 2009 e il 2014, intanto, la Palestina conosce alcuni tra i suoi più tragici momenti degli ultimi 70 anni di colonialismo israeliano, in particolari con le operazioni militari “piombo fuso” nel 2009 e “margine di protezione” nell’estate del 2014, che causano almeno 3500-4000 morti civili in Palestina. Il tutto con l’avallo complice, passivo o attivo delle nazioni occidentali.
Nel contempo l’apparente guerra al terrorismo islamico globalizzato non impedisce alle potenze occidentali, Stati Uniti in testa, di mantenere silenziosamente stretti rapporti con numerosi gruppi fondamentalisti. Rapporti che torneranno alla ribalta all’inizio dell’attuale decennio con lo scoppio delle cosiddette primavere arabe.
Proprio in concomitanza di tali eventi (complessi e variegati nel loro insieme) si apre una nuova fase contrassegnata da nuovi tentativi di destabilizzazione di nazioni sovrane in medio-oriente e Africa mediterranea. Ed è qui che ci avviciniamo non solo cronologicamente ma anche logicamente agli eventi di questi giorni.
La strategia statunitense cambia del resto con l’amministrazione Obama (in termini di modalità esecutive, non certo di fini e conseguenze): non più politiche militari di aggressione diretta (con operazioni di invasione di terra), ma destabilizzazione e distruzione delle nazioni ostili attraverso la creazione del caos attraverso l’uso di forze interne a tali paesi.
Con la scusa di una presunta repressione unilaterale della rivolta libica da parte del governo Gheddafi, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti (questi ultimi paradossalmente con un ruolo più marginale) avviano una campagna di bombardamenti contro la Libia, con il successivo avallo della Nato e il contributo di altre nazioni tra cui l’Italia (legata peraltro alla Libia da un precedente trattato di amicizia). Mentre gli aerei occidentali lavoravano dall’alto dei cieli distruggendo il paese e le sue infrastrutture e seminando morte, dal basso i cosiddetti ribelli armati e addestrati preventivamente dalle nazioni occidentali, seminavano caos, massacri e distruzione. L’epilogo dell’avventura bellica fu l’uccisione di Gheddafi nell’Ottobre del 2011. Il paese da allora è precipitato in un caos senza via d’uscita, dilaniato da signori della guerra che spadroneggiano tra le diverse aree e tribù, gruppi islamisti radicali in conflitto tra loro in un contesto di totale instabilità. Una sorta di guerra civile permanente a bassa intensità.
Sempre nel 2011, mentre i disordini politici in Tunisia ed Egitto vengono riportati all’ordine incanalando la protesta verso la creazione di governi fedeli agli interessi occidentali (in continuità con quelli precedenti, lì già ben consolidati), un altro paese subisce un’operazione di forte destabilizzazione: la Siria.
Una rivolta composita costituita da settori variegati dell’opposizione siriana viene immediatamente elevata al rango di scontro armato frontale con il governo di Assad. A dimostrare la volontà di una guerra civile da parte delle frange estremiste dei ribelli vi è la morte fin dai primissimi momenti della rivolta di un gran numero di poliziotti e soldati (dinamica molto simile a quanto accadrà in Ucraina solo due anni e mezzo dopo).
E’ da questo caos, unito al caos iracheno, che nasce e prospera l’Isis, lo Stato Islamico di Iraq e Siria, noto anche come Daesh.
Derivazione di Al Qaeda, l’Isis si propone come soggetto politico intenzionato a creare uno Stato islamico fondamentalista tra Iraq e Siria abbattendo il governo di Assad e il debole governo fantoccio iracheno, considerato troppo filo-iraniano (e dunque non allineato agli interessi dell’Arabia saudita, burattinaio diretto dell’Isis). Vi sono prove chiarissime dell’addestramento e finanziamento dei miliziani dell’Isis da parte di Arabia Saudita, Qatar e Turchia nell’ambito di una vera e propria guerra regionale totale intesa a far sparire la Siria come stato sovrano, operazione ampiamente appoggiata dagli Stati Uniti, dalla Francia e dalla Gran Bretagna, che, analogamente a quanto avvenuto in Libia, hanno attivamente finanziato e preparato a operazioni di guerriglia e terrorismo i gruppi più violenti dell’islamismo fondamentalista (tra cui lo stesso Isis).
La Siria conosce una tragica guerra civile da quasi 5 anni che ha causato centinaia di migliaia di vittime difficilmente quantificabili con esattezza (le cifre riportate sono molto divergenti), la distruzione di numerose infrastrutture del paese e del suo eccezionale patrimonio archeologico e la divisione in aree di influenze. Una riedizione esatta del caos iracheno e libico, con un epilogo tuttavia al momento assai differente (il legittimo governo di Assad è ancora al potere e controlla una parte cospicua del territorio siriano) dovuto in buona parte al diverso ruolo assunto dalla Russia, che diversamente dal caso libico, per la difesa dei propri stessi interessi, non ha permesso, fortunatamente, il totale sfaldamento dello Stato siriano.
Nel contempo l’Isis, come Al Qaeda negli anni ’90 e primi 2000 si trasforma in un cavallo impazzito e sfugge al controllo dei suoi stessi burattinai passando da un ruolo di forza di destabilizzazione ad un ruolo attivo di protagonista dello scenario siriano desideroso di quote di potere, nonché di esportazione del terrorismo verso altri paesi.
E arriviamo così agli attentati di Parigi del 13 Novembre 2015 e alla successiva mobilitazione della Francia, degli Stati Uniti e della Gran Bretagna (e probabilmente di altri paesi interni alla NATO tra cui la Germania) per un intervento militare approfondito e su larga scala in Siria inteso (ufficialmente) a colpire le postazioni dell’Isis.
A questo punto è legittimo chiedersi se le azioni dell’Isis sono ancora controllate dai suoi finanziatori e sostenitori (Arabia Saudita, Turchia e paesi occidentali), oppure se il giocattolo si è trasformato in un mostro fuori controllo che colpisce realmente e in modo indipendente gli interessi delle stesse potenze che lo hanno sostenuto fino a ieri (fino all’exploit degli attentati di Parigi). Sono domande molto serie, complesse e più che legittime, ma probabilmente non essenziali al cospetto della comprensione generale del contesto storico di fondo in cui gli eventi attuali si svolgono.
Indipendentemente dalle risposte a queste domande puntuali sul presente, il punto focale è infatti la totale e grottesca inconsistenza della narrazione dominante sul ruolo del fondamentalismo e terrorismo islamico e sulle motivazioni che spingono i paesi occidentali ad intervenire militarmente in Siria e in medio-oriente.
Il fondamentalismo islamico, come visto, in quanto forma radicale di islamismo politico, prende piede in un contesto in cui, già a partire dagli anni ‘80 i regimi politici laici iniziano a vacillare tradendo le proprie aspirazioni emancipative e le speranze delle masse impoverite e marginalizzate del mondo medio-orientale. Speranze tradite che si vanno ad incanalare verso soluzioni conservatrici immediatamente cavalcate e manipolate a proprio vantaggio dall’imperialismo occidentale che ha fatto di una parte dell’Islam radicale un valido alleato per i propri disegni egemonici, basati su una strategia di “divide et impera”, sulla deflagrazione degli Stati nazionali sovrani e la generalizzazione del caos, nel contesto di una guerra tra potenze intesa a contenere gli interessi della Russia e della Cina in tale area strategica e a depredare il ricchissimo territorio medioerientale delle sue materie prime, consentendo allo stesso tempo la strategia espansionistica di Israele come potenza regionale alleata.
Nel contempo l’islamismo fondamentalista è stato usato come facile e apparente nemico ideologico usato a corrente alterna per giustificare operazioni militari dirette o indirette in aree geografiche ritenute strategiche.
Nel contempo l’islamismo fondamentalista è stato usato come facile e apparente nemico ideologico usato a corrente alterna per giustificare operazioni militari dirette o indirette in aree geografiche ritenute strategiche.
Di fronte a tale scenario caotico, è quindi sufficiente porsi alcune domande fondamentali, molto semplici ma sempre evitate dalla retorica propagandistica e silenziate dal flusso isterico delle reazioni ai singoli eventi ad alto impatto emotivo.
Il primo ordine di domande è: sulla base di quale motivo scatenante le potenze occidentali sotto l’egida degli Stati Uniti e della NATO con in subordine i paesi europei (con in testa Francia e Gran Bretagna) stabiliscono di intervenire militarmente in determinati paesi? Qual è il vero scarto tra
motivazioni ufficiali propagandistiche e ragioni reali?
In linea generale la propaganda ufficiale ha sempre proposto due tipi di motivazioni per giustificare una guerra. 1- Il paese attaccato rappresenta una minaccia per la sicurezza dei paesi occidentali; 2- Il paese attaccato si è reso artefice di crimini orribili e gli occidentali buoni devono intervenire per fermarli.
Ad un’analisi minimamente attenta entrambe le motivazioni appaiono chiaramente risibili.
L’Afghanistan rappresentava in sé una minaccia alla sicurezza nazionale statunitense? La risposta è del tutto negativa. Al Qaeda nasce come organizzazione terroristica dal mondo saudita-yemenita, come caratterizzazione estremistica di quel particolare filone dell’Islam, detto wahhabismo.
I veri protettori di Al Qaeda si trovavano quindi nella penisola arabica. Se l’Afghanistan rappresentava senza dubbio una focina inesauribile di jihadisti ebbene la causa di questo va proprio ricercata nella storica alleanza degli Stati Uniti con l’islamismo radicale in chiave anti-sovietica proprio nel teatro di guerra afghano dal 1979 in poi. Vi sono prove inconfutabili del ruolo attivo della CIA nel finanziamento massiccio della guerriglia afghana condotta in buona parte dalle frange estremiste dell’Islam con guerriglieri addestrati in Arabia Saudita e Pakistan. Così come è innegabile il ruolo attivo degli Stati Uniti nel sostegno della stessa Al Qaeda, come ha seraficamente ammesso Hillary Clinton pochi giorni fa.
Allo stesso tempo gli Stati Uniti da decenni hanno tra i loro alleati preferenziali nell’area medio-oriente proprio l’Arabia Saudita il Quatar e gli Emirati Arabi, paesi protettori dei gruppi islamisti fondamentalisti e del terrorismo internazionale nonché patrie e sponsor di Al Qaeda.
Dunque qualcosa non torna. Perché attaccare l’Afghanistan nel 2001?
La risposta è ovviamente economica e geopolitica. L’Afghanistan venne attaccato pochi mesi dopo il fallimento della trattativa tra Talebani e governo USA sul passaggio di un fondamentale oleodotto che avrebbe dovuto portare il petrolio dal Caspio al Golfo Persico rifornendo il ricchissimo mercato asiatico. Inoltre l’Afghanistan è il cuore dell’Eurasia, collocato a cavallo tra potenze ostili agli interessi americani, e potenziali (nel 2001) e oggi ormai effettive concorrenti. Un Afghanistan fantoccio del tutto piegato agli interessi americani, utilizzabile come base militare permanente nel cuore dell’Asia, era senza dubbio un obiettivo appetibile.
L’Iraq nel 2003 rappresentava un pericolo per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, e poi dell’Italia, della Spagna e degli altri paesi subordinati che hanno seguito l’iniziativa criminale anglosassone di invadere lo Stato sovrano e prospero iracheno?
No, nella maniera più assoluta. Al di là della ridicola bufala delle armi chimiche (con la celeberrima e grottesca provetta di Colin Powell), tra l’Iraq di Saddam e il terrorismo islamista di Al Qaeda non vi era ovviamente alcun legame. Anzi non vi era Stato medio-orientale più lontano dal terrorismo islamista fondamentalista del laico Iraq pre-2003.
C’entrava forse qualcosa allora la famosa esportazione della democrazia da parte dei benintenzionati governi anglo-americani? Qui ogni commento credo sia superfluo. Basta gettare uno sguardo ai paesi meno democratici del mondo degli ultimi 50 anni e alle loro eccellenti relazioni con gli Stati Uniti: Arabia Saudita, Emirati Arabi, Cile, Argentina, Uruguay e Brasile negli anni delle feroci dittature filo-Usa, Grecia dei colonnelli….e il lunghissimo elenco è appena agli inizi, ma credo possa bastare.
La risposta della guerra all’Iraq è ancora una volta economica e geopolitica.
L’Iraq era ed è uno dei paesi con la più alta concentrazione di petrolio del medio-oriente. Il governo baathista di Saddam Hussein era da anni inviso alle potenze occidentali e ad Israele in quanto troppo sovrano e indipendente e in grado di rappresentare una potenza regionale autonoma. In Iraq le risorse petrolifere erano nazionalizzate e usate per programmi di sviluppo sociale del paese. La presenza di una dittatura e di un partito unico (con repressione politica delle opposizioni), fenomeno comune ad altre centinaia di paesi nel mondo, si accompagnava tuttavia ad un progresso sociale impensabile nella stragrande maggioranza di altri paesi dell’area (ad eccezione, guarda caso della Siria e, allargando il campo all’Africa araba, della Libia).
La prosperità e l’indipendenza dell’Iraq sono stati i motivi della sua distruzione totale da parte dei neo-colonizzatori (con centinaia di migliaia di morti e un paese letteralmente sepolto di macerie, ivi compreso il suo millenario patrimonio storico archeologico e artistico cancellato dalla storia)
L’attentato terroristico dell’11 Settembre è stato quindi una mera scusa per una rinnovata politica imperialista in Medio-oriente da parte degli Stati Uniti.
Questa asserzione, puramente logica, implica forse che gli attentati dell’11 Settembre 2001 debbano essere necessariamente interpretati come una enorme messa in scena orchestrata come casus belli? No, non è assolutamente necessario dimostrare questa tesi, come del resto non è fondamentale né utile confutarla.
Ciò che conta è il nesso tra lo spettacolare e tragico attentato e il ciclo di guerre aperto dopo il 2001. Un nesso affermato come esistente nella propaganda degli aggressori, ma in realtà del tutto inesistente nella logica dei fatti. Iraq e Afghanistan non avevano alcun legame con gli attentati dell’11 Settembre, né con la sicurezza nazionale degli Stati Uniti o dell’Europa né tanto meno con le leggende della democrazia, dei diritti umani e via fantasticando.
Ogni indagine seria sul casus belli dell’11 Settembre naturalmente è del tutto benvenuta. Tuttavia sostenere la tesi dell’auto-attentato (con tutte le varianti di questa possibile tesi) oppure, al contrario, dell’attentato condotto da Al Qaeda in modo indipendente all’insaputa del governo americano e di tutte le alte gerarchie politiche e militari, non cambia di una virgola la critica radicale del criminale intervento bellico da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati subordinati in Afghanistan e in Iraq che con l’attentato dell’11 Settembre non ha nessun nesso logico né una correlata giustificazione morale o politica.
Tesi complottiste che insistono in modo preponderante sulla spiegazione dell’attentato in termini di auto-attentato (o attentato indipendente di cui si era però già prima a conoscenza) sono senz’altro legittime e spesso anche interessanti e fondate, tuttavia insistono su un punto non cruciale e che rischia di deviare l’attenzione dal problema principale che è l’assenza di nesso logico (non solo di proporzionalità come è ovvio, ma proprio di nesso causa-effetto) tra il presunto casus belli e la successiva barbarie della guerra di distruzione e colonizzazione.
Lo stesso tipo di domande possono e devono essere poste in occasione di ogni guerra con relativo casus belli declamato.
Per restare agli ultimi 20 anni, basti pensare alla prima grande guerra di invasione e distruzione di un paese sovrano avvenuta dopo la fine della guerra fredda Usa-Urss: la guerra del Kosovo, ovvero la guerra di distruzione della Serbia da parte della Nato con il protagonismo statunitense, preceduta pochi anni prima da una terribile guerra civile jugoslava aizzata dalle potenze europee con il ruolo protagonista della Germania (paese che fin dagli anni ’90 ha concentrato le sue mire espansioniste sullo scenario est-europeo)
Nel caso della guerra alla Serbia del 1999, la scusa per l’intervento fu la necessità di una “missione umanitaria” per salvare la popolazione albanese-kosovara oppressa dai serbi.
Si trattò naturalmente di una scusa risibile per nascondere il vero obiettivo di annichilire la Serbia di Milosevic, troppo indipendente economicamente e troppo vicina alla Russia geopoliticamente.
Adottiamo ora la stessa logica e poniamo gli stessi dubbi ai più recenti eventi di guerra contro la Libia (2011) e di destabilizzazione permanente della Siria (dal 2011 ad oggi).
La versione ufficiale ci racconta che in Libia era necessario intervenire per fermare presunte stragi di Gheddafi contro i “ribelli”.
La storia ci racconta invece che una ribellione armata ha avuto inizio ben prima delle reazioni del governo libico, a partire dai territori separatisti della Cirenaica già da tempo ostili al governo centrale. Tale ribellione ha visto come protagonisti aggiunti gli islamisti del LIFG e di Ansar al Sharia, questi ultimi legati strettamente ad Al Qaeda.
A seguito della reazione militare del governo centrale (ovvia e scontata visto che si contrapponeva ad una ribellione armata), ha avuto inizio la propaganda martellante sui presunti crimini del governo Gheddafi, dando origine ad una gara di numeri impossibili (si parlò di 10.000 morti dopo pochi giorni e di fosse comuni mai esistite). Da lì, a breve, l’intervento militare della Francia coordinato con Gran Bretagna e USA.
Era forse la salvaguardia della popolazione libica il vero obiettivo dei bombardatori? Naturalmente no, altrimenti ci dovrebbero spiegare il perché nessuno mosse un dito in quegli stessi mesi per fermare i massacri in altre aree del mondo, ad esempio quelli perpetrati in Bahrein proprio in quei mesi da forze saudite amiche dell’occidente e così in altre decine centinaia di scenari di repressione in tutto il mondo nel presente e nel passato.
L’obiettivo dei bombardamenti in Libia era la rimozione del governo Gheddafi da sostituire con un governo fantoccio al servizio dell’occidente.
In Libia, così come in Iraq prima del 2003, il petrolio era in buona parte nazionalizzato. Il paese, malgrado la virata in senso maggiormente liberista delle politiche di Gheddafi dagli anni ’90, rimaneva ancora costituito su un solido Stato sociale finanziato con i proventi di un petrolio. Elevata alfabetizzazione, bassa disoccupazione, livelli di vita inimmaginabili in qualsiasi altro paese africano. La Libia era inoltre orientata vero un panafricanismo politico ed economico con programmi di investimenti e collaborazione economica tra i paesi Africani, visto con paura dai colonialisti d’occidente, il cui obiettivo è naturalmente uno stato di sottosviluppo economico e dipendenza permanente di tutti i paesi del terzo mondo.
Infine il governo Gheddafi era geopoliticamente ostile al blocco delle tre potenze bombardatrici, poiché negli ultimi anni aveva rivolto le proprie attenzioni principali all’Italia, nel mediterraneo, e alle potenze orientali (Cina e Russia). Da ricordare il trattato di “amicizia italo-libico” siglato nel 2009 dal governo Berlusconi in continuità con una forte azione diplomatica già iniziata dai precedenti governi, con cui a coronamento di una definitiva pacificazione post-coloniale, i due paesi sancivano una politica attiva di collaborazione: in cambio di infrastrutture costruite nel paese, all’Italia venivano date garanzia ingenti forniture di petrolio tramite l’ENI. La guerra in Libia cui l’Italia stessa vergognosamente parteciperà cedendo le proprie basi militari ai bombardatori e a sua volta mettendo a disposizioni propri aerei e navi da combattimento, fu, tra le altre cose, anche una guerra intra-europea contro gli interessi energetici dell’Italia.
Ecco quindi i variegati motivi reali della guerra alla Libia. Contesa del petrolio tra le potenze occidentali e ostilità per un governo indipendente che pratica una politica autonoma panafricanista e in una certa misura “terzomondista” e si orienta troppo verso altre potenze mondiali egemoni.
Identici motivi ispirarono la destabilizzazione armata della Siria avvenuta nel 2011. Anche qui la narrazione ufficiale parlò di pacifica protesta antigovernativa violentemente stroncata dal governo di Assad. Stesso identico copione di sempre.
Nel caso siriano per diversi anni non si è arrivati ad un intervento militare diretto degli Stati Uniti e degli accoliti europei probabilmente per il ruolo ben più attivo giocato dalla Russia a difesa dei suoi interessi (la Siria di Assad era ed è un paese fortemente legato agli interessi russi anche dal punto di vista militare).
In Siria transitano importanti oleodotti che conducono il petrolio mediorientale verso il mediterraneo. In Siria, come in Serbia prima del 1999, in Iraq prima del 2003, in Libia prima del 2011, vi è un governo dotato di una propria linea autonoma, che, similmente al caso libico, malgrado una virata recente verso politiche aperte al mercato, aveva mantenuto saldo un solido Stato sociale, un sistema con il più alto grado di sviluppo umano del medio-oriente, una totale laicità delle istituzioni che garantiva tra l’altro la prosperità delle fiorenti e libere comunità cristiane. Era infine un baluardo regionale contro l’espansionismo indiscriminato di Israele.
Stati Uniti, Regno Unito e Francia, in stretta alleanza con Turchia, Arabia Saudita e le altre petromonarchie del golfo, con il beneplacito di Israele, hanno per anni contribuito ad addestrare gruppi di ribelli armati sia laici che islamisti per preparare il terreno ad una rivolta armata contro Assad gettando il paese nell’anarchia di una terrificante guerra civile che tutt’ora lo dilania e consegnandolo di fatto, a seguito di una fase di caos e lotta per l’egemonia tra le fazioni anti-governative, nelle mani delle frange più estremiste e organizzate, tra cui l’ormai celebre Isis (Daesh), lo Stato islamico, gruppo islamista fondamentalista nato a sua volta in Iraq dalle macerie di quel paese dopo il 2003.
Quali sono stati e quali sono oggi allora gli obiettivi della distruzione della sovranità siriana? Ancora una volta gli stessi obiettivi delle guerre precedenti. Un cambio di regime per favorire l’ascesa di un governo amico che serva gli interessi economici e geopolitici dell’occidente e soprattutto indebolisca la Russia che nella Siria di Assad ha un fedele alleato. Cambio di regime ottenibile anche, come alternativa, tramite il diretto sfaldamento dello Stato siriano da spezzettare in Stati etnici o etnico-religiosi, privi di qualunque forza e sovranità effettiva al servizio degli interessi neo-coloniali statunitensi ed europei.
Oltre la patina della retorica bellicista dell’inevitabile scontro di civiltà e oltre alla risibile mitologia dell’esportazione della democrazia e dei diritti umani i veri obiettivi comuni di ogni guerra imperialista sono in realtà sempre gli stessi: annientare la sovranità politica di Stati indipendenti ostili agli interessi economici e geopolitici dell’Occidente. Stati spesso collocati in aree del mondo strategiche o per la presenza di ricchi giacimenti di petrolio e gas naturale, o per il transito di condutture per il loro trasporto. Oppure Stati che giocano un ruolo sgradito nella contesa internazionale tra potenze.
Il vero nemico delle oligarchie economiche occidentali al potere non è il terrorismo islamico, né le dittature autocratiche laiche, né la leggendaria e risibile contrapposizione di valori tra occidente e oriente.
Il vero nemico sono gli Stati prosperi e indipendenti che adottano una propria linea di sviluppo endogeno, che instaurano relazione economiche e politiche con potenze diverse da quelle occidentali e che pretendono di gestire le proprie ricchezze per proprio conto.
Vi è in proposito un’interpretazione critica che considero errata, tipica di una certa sinistra che confonde il sacrosanto internazionalismo dei popoli con la generalizzazione di una dicotomia semplificata in cui vi è sempre e comunque uno Stato cattivo e oppressore e un popolo buono pronto a ribellarsi. Si tratta di una volgarizzazione del trotkismo storico che finisce per prestare il fianco, senza volerlo, alla retorica dell’imperialismo occidentale consistente nell’enfatizzare le malefatte vere o presunte di dittatori autocratici (veri o presunti) con il solo fine di demolire le sovranità statuali scomode.
All’indomani dei fatti di Parigi il Nouveau Parti Anticapitaliste francese, di orientamento neo-trotzkista, ha diffuso un comunicato la cui tesi fondamentale era che l’aggressione francese e occidentale alla Siria era fin dal 2011 finalizzata a stroncare la ribellione del popolo siriano contro il dittatore Assad. E’ un’interpretazione relativamente diffusa all’interno di alcune correnti politiche anticapitalistiche. Lo stesso tipo di chiave di lettura venne data per il caso libico. Anche lì si parlò di tentativo di frustrare la proteste del popolo libico contro il dittatore Gheddafi.
Non pretendo di addentrarmi con precisione nelle dinamiche sociali interni alla Siria o alla Libia, che ammetto di conoscere in modo sicuramente approssimativo. Tuttavia mi sembra estremamente azzardato eliminare da un’analisi dei rapporti di forza internazionale tutti quei passaggi intermedi (perfettamente analizzati del resto dalla teoria marxista dell’imperialismo a partire da Lenin), che ci mostrano l’esistenza di scontri tra Stati e di una ben precisa gerarchia tra Stati forti e Stati deboli, nonché l’esistenza di Stati che, sebbene lontani anni luce dall’applicazione di sistemi economici socialisti, assumono storicamente orientamenti non del tutto conformi ai desiderata del capitalismo dominante e più pericoloso e aggressivo, che in questa fase storica è ancora senza dubbio quello degli Stati Uniti.
Ritenere quindi, anche con il senno di poi, che la distruzione deliberata della Libia in quanto Stato indipendente, precipitata nel più brutale caos politico e sociale e la gravissima destabilizzazione della Siria (soltanto frenata, fortunatamente,a dal reiterato intervento russo, sia sul piano diplomatico che, da ultimo, militare) risponda ad una strategia di difesa dei regimi al governo in quei paesi da parte dell’Occidente, appare quanto meno azzardato.
Che Stati Uniti e alleati europei nel caso della Siria abbiano potuto esitare nel dare un incondizionato appoggio ai cosiddetti ribelli per paura di esiti non chiari nella lotta di potere che ne sarebbe seguita, è sicuramente più che plausibile. Ma da qui a negare il carattere di aggressione contro lo Stato siriano in quanto governato da una classe dirigente non del tutto piegata ai piani egemonici occidentali, passa una grande distanza. Questa lettura produce un grave errore interpretativo che altro non fa che nascondere i rapporti di potere gerarchici internazionali, dietro l’illusoria immaginazione di un’unitaà dei popoli oppressi in lotta contro ogni forma di potere costituito. Nulla di più errato.
Oggi il vero obiettivo dell’imperialismo non è certo quello di stroncare spontanee ribellioni popolari (ahinoi!) per lo più ridotte a fenomeni marginali, ma quello di fare piazza pulita di ogni capacità di resistenza da parte di Stati non allineati oppure allineati con potenze ostili all’imperialismo occidentale.
Affermare questo, naturalmente, non significa non poter rilevare le macroscopiche malefatte o persino i crimini dei paesi nemici del nemico principale, ma significa quanto meno usare la massima prudenza nel valutare l’ordine prioritario degli eventi e la loro gerarchia.
Che piaccia o no, i veri argini all’illimitata espansione dell’imperialismo sono proprio la residua e sempre più compromessa sovranità di Stati che hanno mantenuto un profilo di minima indipendenza nonché la presenza di un crescente equilibrio multipolare in grado di dissuadere almeno in parte la potenza militarmente ancora egemone (gli USA) da un illimitato allargamento dei fronti di guerra.
Questa è la dinamica storica e politica entro cui si collocano il terrorismo islamista, gli attentati di Parigi, le reazioni politiche e militari e tutti gli eventi a ciò connessi di queste settimane.
Un medio-oriente ridotto da anni di guerre di invasione e ingerenze organizzate dai paesi occidentali ad uno spaventoso caos politico e sociale. Stati sovrani relativamente prosperi precipitati nell’anarchia e trasformati in terre infernali dominate da scontri tra fazioni rivali e gruppi fondamentalisti di tagliagole in lotta tra loro. Dilagante fanatismo religioso, comunità cristiane deportate e decimate. Devastazione materiale di interi paesi, ridotti all’età della pietra da una precedente condizione di relativa prosperità e pace.
In una parola implosione di ogni forma di civiltà in luoghi del mondo in la civiltà storica è nata 6000 anni fa.
Tutto questo grazie alla criminale politica estera di invasione diretta o deflagrazione indiretta dei paesi mediorientali più prosperi e strutturati da parte degli Stati Uniti e dei paesi europei.
Un vero e proprio abominio realizzato nel corso di quindici anni che ha implicato centinaia di migliaia (forse milioni) di morti, di feriti, mutilati e orfani.
In una parola implosione di ogni forma di civiltà in luoghi del mondo in la civiltà storica è nata 6000 anni fa.
Tutto questo grazie alla criminale politica estera di invasione diretta o deflagrazione indiretta dei paesi mediorientali più prosperi e strutturati da parte degli Stati Uniti e dei paesi europei.
Un vero e proprio abominio realizzato nel corso di quindici anni che ha implicato centinaia di migliaia (forse milioni) di morti, di feriti, mutilati e orfani.
E’ allora evidente che ogni associazione logica che cerchi di inquadrare i fatti di politica internazionale in termini di valori divergenti incasellati in schemi apparentemente sensati è per forza di cose totalmente errata e fuori binario.
Non esistono blocchi di alleati e nemici accomunati da simili identità apparenti. Non esiste l’Islam politico nemico dell’occidente, come del resto non esiste un Islam politico unitario che serva (celatamente) gli interessi occidentali. Le alleanze dei paesi occidentali non sono strutturate su profili ideologici. Alleati e nemici si plasmano sulla base della maggiore o minore propensione ad assecondare gli interessi economici delle potenze mondiali egemoni. L’ultra-confessionale e anti-democratica Arabia Saudita è da decenni il migliore alleato dei paesi occidentali e nessuno si è mai sognato di agitare lo spettro dei crimini commessi ogni giorno da questo paese dentro e fuori le proprie frontiere. Islamisti oggettivamente filo-occidentali sparsi in tutto il medio-oriente si scontrano apertamente con gruppi politici ispirati all’Islam di orientamento invece anti-imperialista (Hezbollah in Libano ad esempio o Hamas in Palestina).
L’unica costante rintracciabile è l’esigenza da parte dell’imperialismo occidentale, laddove venga scartata l’opzione dell’invasione diretta, di servirsi di alleati e burattini il più possibile brutali e disposti ad azioni di efferata violenza per portare a termine con successo i fini di asservimento dei paesi più riottosi a cedere la propria sovranità.
Che tali alleati e burattini siano gruppi neo-nazisti (Ucraina 2013-14), islamisti tagliagole (medioriente), dittatori sanguinari neo-liberisti (Sudamerica anni ’70), gruppi di narcotrafficanti, separatisti usati per spezzare le unità nazionali politiche, è un dettaglio di scarso rilievo, utile forse per pubblicare libri su improbabili scontri di civiltà, ma del tutto marginale per comprendere le dinamiche di potere che spiegano la realtà.
Sia chiaro che i burattini non sempre sono forze completamente asservite e controllate. In primo luogo perché la base sociale su cui si costituiscono è in larghissima parte convinta di agire per proprio conto e sulla base di proprie spinte ideologiche o propri interessi. I legami politici si manifestano sempre ai piani alti delle strutture, mai con la loro base.
In secondo luogo perché è sempre possibile che gruppi inizialmente utilizzati per azioni di destabilizzazione si trasformino poi in forze parzialmente autonome decise a perseguire in modo relativamente indipendente i propri progetti. In terzo luogo perché i legami di alleanza anche a priori non sono sempre chiari e determinati. E’ sempre possibile infatti che alcune forze politiche vengano sì sostenute, ma solo in modo parziale, magari con una politica di doppio gioco volta a contenere fazioni in lotta tra loro reciprocamente. Infine è spesso possibile che all’interno dell’establishment di un paese dominante che pratica una politica di aperta ingerenza internazionale si creino forti spaccature (con cordate di potere interessate a seguire alcuni percorsi di politica internazionale ed altre che remano in una direzione parzialmente divergente almeno in relazione ai metodi prescelti). Ed è su questa complessità che spesso la narrazione complottista esasperata cade in interpretazioni semplicistiche e fuorvianti.
Tale complessità, che sicuramente turba i sogni di chi vorrebbe trasformare la politica internazionale in una facile partita di risiko, deve essere considerata per prevenire eccessive semplificazioni.
Allo stesso tempo è una complessità che non impedisce affatto di cogliere le dinamiche più generali storiche e politiche assumendo un punto di vista lucido sugli eventi nel loro complesso, in un’ottica di lungo periodo.
I fatti di Parigi e agli eventi di questi giorni possono essere letti entro la lente interpretativa chiarita in queste pagine.
In relazione all’evento in sé è evidente che le ipotesi sulla matrice effettiva degli attentati possono essere molteplici. Si può ritenere che l’Isis abbia autonomamente e per propri fini voluto portare il terrore in Europa. I fini strategici non sarebbero affatto chiari visto che una simile azione, isolata e a casaccio, non apporta alcun beneficio concreto ai possibili interessi politici dello Stato islamico, né produce forme di pressione sulla Francia e l’Europa verso una maggiore accondiscendenza ai piani di espansione dell’Isis in medio-oriente. Semmai produce ritorsioni militari (già ampiamente annunciate)! Si può allora pensare ad un mero atto irrazionale di ostilità contro l’occidente come vendetta per l’interventismo militare in Siria, diretto (sebbene in minima parte) anche contro le postazioni dell’Isis.
O ancora si potrebbe pensare all’azione di cellule autonome che agiscono come schegge impazzite senza alcun piano dietro la generica sigla internazionalizzata dell’Isis.
Queste prime interpretazioni considerano l’Isis una realtà in qualche misura autonoma che agisce per proprio conto come soggetto indipendente sullo scenario internazionale.
Vi sono poi altre interpretazioni che, partendo dal fatto incontrovertibile dell’aperto sostegno militare fornito dai paesi occidentali ai gruppi di ribelli siriani (ivi incluse le frange islamiste radicali, tra cui l’Isis) nell’ambito della campagna per la destabilizzazione della Siria di Assad, ritengono l’Isis una vera e propria creatura manipolata dell’occidente stesso e pienamente controllata in ogni suo movimento. Se così fosse gli attentati di Parigi sarebbero il frutto di un vero e proprio complotto organizzato dai servizi segreti dei paesi occidentali (in accordo o in conflitto tra di loro) per disporre di un potente casus belli che spinga le scelte dei governi in direzione di una guerra aperta in medio-oriente.
Ebbene, alla luce di quanto fin’ora esposto, ritengo relativamente poco utile e tediosa una domanda alla quale probabilmente per molti anni non sarà possibile dare una risposta chiara.
E’ davvero così importante sapere se l’Isis agisce ormai per proprio conto oppure se è una creatura integralmente manipolata (e se sì da chi esattamente) oppure se è solo in parte sotto il controllo di qualcuno ma ha acquisito parziali margini di indipendenza?
Personalmente ritengo che l’ipotesi che l’Isis goda di parziali margini di indipendenza e volontà propria all’interno di una precedente strategia di controllo e manipolazione sia la più plausibile. Credo però che non sia fondamentale avere un’idea definitiva su questo punto e che le domande appena riportate non siano dunque essenziali.
Ciò che è invece essenziale, esattamente come nei giorni immediatamente successivi all’11 Settembre 2001, è la chiara conoscenza del retroscena storico-politico e una schietta riflessione sul “cui prodest”!
Il retroscena storico-politico è stato abbondantemente scavato a fondo e di certo non fornisce una patente di affidabilità o credibilità a coloro che, da Occidente, dichiarano che occorre scatenare una guerra internazionale contro l’Isis! Piuttosto tale intenzione appare risibile e chiaramente intenzionata a rafforzare le posizioni dei paesi belligeranti in Siria e in medio-oriente. Se fosse mai esistita realmente la volontà di smantellare l’Isis e tutti i gruppi terroristi islamisti non si sarebbero realizzate politiche di distruzione degli Stati più laici del medio-oriente usando per giunta come bassa manovalanza proprio il contributo di tali gruppi; non si sarebbe osteggiata l’azione militare promossa dalla Russia contro le postazioni dell’Isis e non si continuerebbe ad affermare che è necessaria la caduta del governo di Assad.
Il “cui prodest” dei fatti di Parigi, appare altrettanto evidente. Un’opinione pubblica occidentale scioccata è sicuramente più ben disposta ad accettare da qui ai prossimi mesi e anni un’intensificazione degli impegni militari dei paesi occidentali in medio-oriente, in Africa e in Asia, ovunque vi possano essere frammenti dell’organizzazione internazionale dell’Isis o di gruppi ad esso legati. La lezione dell’11 Settembre 2001 è in questo senso assolutamente emblematica.
Lo scenario geopolitico da allora è fortemente mutato. L’unipolarismo assoluto statunitense è stato in questi 14 anni trascorsi sfidato dalla crescente influenza della Cina e della Russia (nonché di altre potenze intermedie in continua crescita). Questo da un lato ha frenato di fatto le pretese espansionistiche degli Stati Uniti, dall’altro ha però reso la contesa internazionale ancora più aspra accelerando il declino della potenza americana e con esso anche l’aggressività della sua politica estera (più o meno coordinata e confliggente con quella europea), sempre più isterica e ad un passo da confronti internazionali di estrema pericolosità. Quanto avvenuto in Ucraina due anni fa, all’interno di un’area di diretta influenza russa dimostra che il pericolo di un confronto diretto tra potenze non è affatto scongiurato e che le continue avvisaglie di una guerra mondiale sono sempre in agguato.
Quello che è certo è che, in maniera ben più generalizzata di quanto sia avvenuto durante l’epoca della guerra fredda, i paesi che si trovano nelle aree di frontiera di un possibile scontro diretto tra le grandi potenze o che assumono posizionamenti geopolitici autonomi o sgraditi all’occidente, subiscono le tragiche conseguenze della sistematica destabilizzazione, che può assumere forme più o meno violente ed estreme (dalle ingerenze indirette alla guerra di invasione e annichilimento).
L’estensione di un capitalismo privo di qualunque forma di mediazione politica all’intero globo, sostenuta da interessi economici sempre più ristretti e concentrati provoca la totale intolleranza da parte delle oligarchie che detengono il potere per qualunque forma di sovranità politica che possa in qualche misura frenare la conquista integrale di ogni spazio geografico ed esistenziale non ancora asservito alla logica del mercato globale. Tale dinamica si verifica all’interno di ciascun paese e all’esterno nei rapporti di forza internazionali. All’interno, con la messa in pratica in ogni Stato di politiche di generalizzazione della logica del mercato ad ogni ambito della vita sociale (distruzione dello Stato sociale, schiavizzazione del lavoro, invasione da parte del mercato di ambiti della vita fino a pochi anni fa considerati “sacri” e protetti); all’esterno, nelle relazioni internazionali, attraverso i brutali rapporti di forza e la distruzione della sovranità politica degli anelli più deboli della catena gerarchica globale.
Il compimento di tale logica espansionistica, che risponde ad una lotta di classe interna e internazionale dall’alto verso il basso, sempre più priva di argini e capacità reattive dal basso verso l’alto, necessita naturalmente di un sistema capillare di consenso, attivo o passivo.
E’ in questa logica che si innesta il fenomeno del terrorismo, tanto più del terrorismo brutale e indiscriminato. Cui prodest?
Il cui prodest del terrorismo, ieri come oggi, è fin troppo evidente: è la logica di affermazione della repressione, del controllo e della guerra su scala globale, presentata come reazione inevitabile e conseguente al corso degli eventi.
Il terrorismo produce uno stato di tensione, di insicurezza, di ansia sociale, di isteria, tale da generare quell’atmosfera di passivo consenso verso il potere e la sua logica di affermazione. Logica che include, tra i suoi capisaldi, la generalizzazione della guerra negli scenari strategici globali.
Tutte le reazioni politiche e securitarie successive agli attentati del 13 Novembre, del resto, hanno assunto un carattere volutamente estremizzato, il cui punto culminante, dopo la Francia, è stato toccato in Belgio con la militarizzazione di Brussels: un’intera città mantenuta irresponsabilmente in uno stato di terrore ed emergenza per giorni.
Tutte le reazioni politiche e securitarie successive agli attentati del 13 Novembre, del resto, hanno assunto un carattere volutamente estremizzato, il cui punto culminante, dopo la Francia, è stato toccato in Belgio con la militarizzazione di Brussels: un’intera città mantenuta irresponsabilmente in uno stato di terrore ed emergenza per giorni.
Questa consapevolezza del “cui prodest” non implica affatto necessariamente letture complottistiche degli attentati di Parigi e di altri simili eventi. Non vi è alcun bisogno logico di descrivere attentati orchestrati ad hoc dall’interno per ottenere effetti politici, come del resto non vi è alcuna necessità di escludere una simile evenienza. Entrambe le posizioni non colgono il punto essenziale, oscillando tra i due poli in fondo complementari del complottismo e dell’ingenuità, e perdono di vista la logica più generale di affermazione del potere, che prescinde dal controllo stretto di ogni singolo dettaglio della realtà, ma allo stesso tempo è pronto ad utilizzare ogni mezzo (compresi i più spietati e impensabili) per ottenere i propri fini.
Ci sono centinaia di eventi cruenti nella storia le cui responsabilità dirette e indirette possono essere definitivamente chiarite soltanto dopo molti anni dal loro verificarsi.
Ciò che conta nell’immediato, per interpretare il presente, è saper contestualizzare tali eventi inquadrandoli storicamente, valutare la conseguenzialità logica delle reazioni a catena che da essi ufficialmente prendono spunto e infine comprendere, a posteriori, la scia di eventi successivi che i primi hanno oggettivamente contribuito a tracciare.Alla luce dell’inquadramento storico e politico dei recenti eventi, la “risposta” politica deve assumere una direzione ben chiara: si deve rifiutare con la massima determinazione l’ennesimo arruolamento di massa dell’opinione pubblica verso nuove e tragiche campagne militari dirette e politiche di ingerenza indiretta in Medio-oriente e ovunque nel mondo. Occorre rifiutare categoricamente la retorica dello scontro di civiltà, denunciare il ruolo di diffusione di caos e distruzione giocato dalle politiche neo-colonialiste dei paesi occidentali e la connivenza di tali politiche con il terrorismo. Occorre difendere il principio di sovranità degli Stati ponendo fine alla strategia del divide et impera che da decenni dilania e indebolisce gli Stati nazionali politici a favore del sorgere di microstatualità etniche impotenti Occorre inoltre auspicare un equilibrio geopolitico di forze che consenta la difesa sostanziale delle sovranità statuali frenando le volontà espansionistiche dell’imperialismo.Gli effetti immediati di politica interna degli eventi di Parigi sono altrettanto devastanti e richiedono un pari grado di attenzione e lucidità. I governi europei, all’indomani dell’accaduto hanno gettato la maschera chiarendo che non vi saranno limiti di spesa pubblica agli investimenti in sicurezza e in spese militari. Da un lato vincoli di bilancio rigidissimi per la spesa sociale, le pensioni, la sanità, gli investimenti in infrastrutture etc; dall’altro totale libertà di spesa per guerra e sicurezza.
Le fasi di emergenza del resto, hanno spesso il “pregio” di rendere più trasparente il carattere meramente ideologico della copertura retorica delle scelte politiche dominanti.
Dal punto di vista delle opzioni securitarie è più che evidente la propensione ad adottare provvedimenti da vero e proprio stato di eccezione che, oltre ad incrementare il clima di paura e tensione, restringeranno la libertà di espressione dei cittadini. E’ proprio di due giorni fa la notizia della possibile approvazione di una legge in Francia per la detenzione preventiva senza processo sul modello di Guantanamo negli Stati Uniti. Si tratta di un segnale estremamente inquietante cui prestare l’adeguata attenzione nei prossimi tempi! Ciò che oggi viene ufficialmente usato per sospetti terroristi islamici un domani potrà essere un’efficace arma di controllo di qualunque forma di dissenso!
La vittoria del Front National in Francia nelle elezioni regionali va inquadrata invece come esito naturale non solo e non tanto dell’impatto degli eventi di Parigi, quanto piuttosto dello stato di crescente sfiducia verso le istituzioni europee e nazionali nella gestione della crisi economica e dei suoi impatti sociali più devastanti. Il partito di Marine Le Pen segue un’ondata di crescita costante che prosegue ormai da anni. Pensare che il suo successo sia legato esclusivamente al clima post-attentati significa ignorare completamente la responsabilità dei partiti al potere nel finto bipolarismo politico europeo nella macelleria sociale che prosegue da venti anni. In assenza di una forte alternativa sociale credibile e coerente, è purtroppo inevitabile che il consenso politico si sposti ovunque su false soluzioni di carattere reazionario. Inveire contro i partiti “populisti” e reazionari come realtà decontestualizzate non serve a nulla se non si capisce che la classe politica di sistema in tutte le sue varianti (di centro, di destra, di centro-sinistra) è la prima responsabile della situazione sociale drammatica in cui versano i paesi europei, stretti nella morsa delle politiche neo-liberiste di austerità.Un unico filo logico tiene legata la politica estera e la politica interna.L’opposizione alla retorica bellicista internazionale esasperata dal casus belli degli attentati parigini, deve necessariamente muoversi di pari passo con il rilancio di una seria alternativa politica interna che inverta radicalmente il senso delle politiche sociali ed economiche degli ultimi anni.Solo percorrendo tale strada è possibile opporsi coerentemente (respingendo allo stesso tempo ogni falsa alternativa) alle scelte politiche che stanno devastando le nostre società.
Le fasi di emergenza del resto, hanno spesso il “pregio” di rendere più trasparente il carattere meramente ideologico della copertura retorica delle scelte politiche dominanti.
Dal punto di vista delle opzioni securitarie è più che evidente la propensione ad adottare provvedimenti da vero e proprio stato di eccezione che, oltre ad incrementare il clima di paura e tensione, restringeranno la libertà di espressione dei cittadini. E’ proprio di due giorni fa la notizia della possibile approvazione di una legge in Francia per la detenzione preventiva senza processo sul modello di Guantanamo negli Stati Uniti. Si tratta di un segnale estremamente inquietante cui prestare l’adeguata attenzione nei prossimi tempi! Ciò che oggi viene ufficialmente usato per sospetti terroristi islamici un domani potrà essere un’efficace arma di controllo di qualunque forma di dissenso!
La vittoria del Front National in Francia nelle elezioni regionali va inquadrata invece come esito naturale non solo e non tanto dell’impatto degli eventi di Parigi, quanto piuttosto dello stato di crescente sfiducia verso le istituzioni europee e nazionali nella gestione della crisi economica e dei suoi impatti sociali più devastanti. Il partito di Marine Le Pen segue un’ondata di crescita costante che prosegue ormai da anni. Pensare che il suo successo sia legato esclusivamente al clima post-attentati significa ignorare completamente la responsabilità dei partiti al potere nel finto bipolarismo politico europeo nella macelleria sociale che prosegue da venti anni. In assenza di una forte alternativa sociale credibile e coerente, è purtroppo inevitabile che il consenso politico si sposti ovunque su false soluzioni di carattere reazionario. Inveire contro i partiti “populisti” e reazionari come realtà decontestualizzate non serve a nulla se non si capisce che la classe politica di sistema in tutte le sue varianti (di centro, di destra, di centro-sinistra) è la prima responsabile della situazione sociale drammatica in cui versano i paesi europei, stretti nella morsa delle politiche neo-liberiste di austerità.Un unico filo logico tiene legata la politica estera e la politica interna.L’opposizione alla retorica bellicista internazionale esasperata dal casus belli degli attentati parigini, deve necessariamente muoversi di pari passo con il rilancio di una seria alternativa politica interna che inverta radicalmente il senso delle politiche sociali ed economiche degli ultimi anni.Solo percorrendo tale strada è possibile opporsi coerentemente (respingendo allo stesso tempo ogni falsa alternativa) alle scelte politiche che stanno devastando le nostre società.