IL RACCONTO DEI RACCONTI – TALE OF TALES (Matteo Garrone, 2015)
ott 7th, 2015 | Di Maurizio Neri | Categoria: Cultura e societàQuello che avevamo compreso, noi non siamo andati a dirlo alla televisione Non abbiamo aspirato ai sussidi della ricerca scientifica,
né agli elogi degli intellettuali di giornale.
Noi abbiamo portato olio là dov’era il fuoco.
(Guy Debord)
Pino Bertelli
A giudicarla dal cinema che ha prodotto negli ultimi quarant’anni, la nostra storia sarà stata tutto, tranne che intelligente. L’idioma d’accatto del cinema italiano è il luccichio da tappeto rosso che esibisce su schermi di desolazione… è lo spettacolo sfigurato di una grande stagione neorealista o della commedia di costume al veleno… risparmieremo i particolari. Gli spettatori sono accecati da tante banalità filmiche e hanno soltanto da scegliere tra storie senza contenuti o deliri artistici senza sostanza… è difficile distinguere tra le sfumature del peggio. La condizione mercantile del cinema è la stessa che lo annulla. Stupidità e “cassetta” sono sinonimi. Perciò, dinanzi alla sfilata di mediocrità cinematografiche correnti e spesso fregiate di premi altisonanti, non ci resta che cercare una via di lettura fra il disprezzo e l’arte di gioire di tanta stupidità.
Matteo Garrone, uno tra i migliori registi italiani, certo… ha licenziato un filmetto tutto colorato, ben scenografato e fotografato, zeppo di buoni attori, tutto proteso verso il raggiungimento di riconoscimenti festivalieri e del botteghino… non sappiamo i risultati degli incassi e nemmeno c’interessa quante medaglie, nastri o coppe prenderà… ciò che c’importa studiare è la fattura filmica di questa lucida operazione commerciale. Naturalmente, la critica velinara e il pubblico domestico hanno gridato al capolavoro. Tutto falso. Il cinema non è cosa facile. Vi si segnalano pagliacci, istrioni o parassiti in formato grande… come i politici che governano questo paese (e questo cinema) hanno il senso dell’opportunità e poiché ogni regime assicura ai suoi servi un posto in società, il loro cinema si adatta a tutte le malagrazie del caso. In una società da operetta, l’unico ordine di grandezza al quale essi possono giungere è quello della genuflessione.
Ne Il racconto dei racconti Garrone saccheggia, anche con abilità, la raccolta di fiabe più antica d’Europa (forse), Lo cunto de li cunti, scritta in lingua napoletana fra il 1634 e il 1636 da Giambattista Basile e pubblicata postuma. Garrone ne estrapola tre racconti, La regina, La pulce e Le due vecchie. Amore, crudeltà, violazione dei sentimenti… gli ingredienti di un’opera barocca scritta per il divertimento delle corti ci sono tutti. Ogni storia si lega alle altre e dentro il genere fantasy si dipana in un’architettura seriale, rituale, alchemica, che muove dalla commedia dell’arte e si riflette nelle saghe televisive (rivolte al pubblico giovanile, specialmente, con un grande successo planetario).
La regina. La regina di Selvascura è sterile… per diventare madre un negromante le consiglia di mangiare il cuore di un drago marino, appena cotto da una vergine. Il re s’immerge nelle acque di un lago e uccide il drago che, con un colpo di coda, uccide il sovrano. La regina mangia il cuore cucinato dalla vergine… la notte stessa lei e la serva partoriscono due gemelli. Sedici anni dopo, il figlio della serva (Jonah) e quello della regina (Elias) sono stretti da una profonda amicizia (che la regina non disapprova). La regina tenta di uccidere Jonah… il ragazzo decide di fuggire… prima però trafigge le radici di un albero e ne fa sgorgare dell’acqua… dice al principe che se un giorno vedrà del sangue al posto dell’acqua vorrà dire che è in pericolo. Jonah si perde in un bosco… un mostro alato lo sta per uccidere… arriva in suo soccorso Elias, lo salva e lo porta al villaggio dalla sua famiglia. Il mostro alato si decompone e rivela il corpo della madre morta.
La pulce. Il sovrano di Altomonte ha un particolare rapporto amoroso con una pulce… la cura così bene che diviene così grossa che muore soffocata. Per elaborare il lutto indice un torneo per dare la figlia (Viola) in sposa a chi, dopo averla annusata, riconoscerà a quale animale appartiene la pelle (della pulce). La risposta giusta è quella di un orco. Il gigante porta la giovane nella sua grotta sulla montagna, la tiene prigioniera e la stupra. Una carovana di saltimbanchi cercano di liberare la ragazza… l’orco uccide i saltimbanchi e si carica la ragazza sulle spalle… Viola gli taglia la gola con un coltello che aveva trovato nel carro dei saltimbanchi e torna a palazzo… nella sala del trono mostra al padre la testa dell’orco… il re cade in ginocchio e lei piange.
Le due vecchie. Nel regno di Roccaforte il re si diletta in orge e sbornie con regale disinvoltura… un giorno s’innamora della voce di una donna misteriosa che proviene da una tintoria… qui vivono due anziane sorelle (Imma e Dora)… il re invita Dora al castello, la vecchia accetta a condizione che il loro incontro d’amore avvenga al buio. Al mattino il re si accorge dell’inganno e fa gettare Dora dalla finestra (che resta impigliata tra i rami di un albero). Il sortilegio di una buona strega la fa ringiovanire e va in sposa al re. Al matrimonio è invitata anche Imma, però non dovrà dire a nessuno che è la sorella della regina. Quando finisce la festa la vecchia grida che è la sorella della regina… l’insegue fin nella camera da letto per sapere come ha fatto a ringiovanire e Dora le dice che si è fatta scorticare. Imma viene allontanata dal castello… vaga nel bosco e in cambio del proprio vestito e dei gioielli che ha addosso, un arrotino accetta di scorticarla viva.
Per finire. Nel regno di Altomonte Viola viene incoronata regina… il popolo applaude… c’è anche il nuovo sovrano di Selvascura, Elias, il sovrano di Roccaforte e la regina Dora… mentre un saltimbanco volteggia nell’aria, Dora avverte qualcosa sulla pelle: si sta trasformando in una vecchia e fugge verso il castello… la festa continua.
Morale ereticale: i figli delle regine muoiono un po’ d’infelicità, i poveri sopravvivono nella miseria ma sono più liberi. Non si possono dare in sposa le principesse agli orchi né amare una pulce senza quel minimo di demenza che contraddistingue re, primi ministri, capi di stato o papi… tutta gente che ha prodotto la fame secolare, senza mai averla provata. Le chimere del potere sono le disgrazie del popolo e alla scuola dei tiranni ci si abbevera e si preserva il crimine in piena gloria… e tutto per cercare di sconfiggere l’inclemenza del tempo.
Federico Fellini, Comencini, Monicelli, Quentin TarantinoIl racconto dei racconti (girato in lingua inglese per interessi di coproduzione) è costato 14,5 milioni di dollari e quattro mesi di riprese… e pensare che c’è qualcuno che ha scritto che non c’è stato tempo né denaro per rifinire il film alla maniera consueta del regista! La sceneggiatura di Garrone, Edoardo Albinati, Ugo Chiti, Massimo Gaudioso è spumeggiante, una sorta di caleidoscopio pop imperniato sulle figure femminili che invita a sognare l’amore come retorica del desiderio. Naturalmente il principe azzurro deve essere ricco! Come il pubblico vuole. Dicono che Garrone abbia attinto al cinema di Fellini, M. Night Syamalan, Bava, Comencini, Monicelli… vero niente. Il racconto dei racconti semmai contiene le furbizie seduttive di un celebrato asino del cinema internazionale, Quentin Tarantino. Tutto qui. Quando i ribelli vestono i panni del padrone, sono anche più terribili.
Gli interpreti sono a dire poco ingessati o esagitati… Salma Hayek (regina di Selvascura) sembra promuovere una marca di vestiti e quando fa la cattiva ricorda molto le stregacce dei cartoni animati… Vincent Cassel (signore di Roccaforte) fa il re come un emarginato della periferia parigina… John C. Reilly (sovrano di Altomonte) che uccide il drago, sfiora il ridicolo… i soli che se la cavano nel pastificio generale sono Bebe Cave (Viola) e Guillame Delaunay (l’orco). Degna di attenzione è la leggerezza con la quale Toby Jones (re di Altomonte) ama una pulce con stimata professionalità.
La fotografia di Peter Suchitzky è la cosa migliore del film… mai scontata, imprime all’intero lavoro un’atmosfera fiabesca di notevole autorialità. Il montaggio di Marco Spoletini è scolastico e insieme alla scenografia di Dimitri Capuani e Alessia Anfuso, agli effetti speciali di Andrea Eusebi, Elio Terribili e Andrea Giomaro, confezionano un prodotto amabile, che poco si identifica con l’immaginale popolaresco di Basile. La musica di Alexandre Desplat (come del resto molta dei Beatles, Rolling Stone, Michael Jackson o di Madonna) non si può sentire senza mettersi dei tappi nelle orecchie (sento già arrivare i latrati dei fan), e poco o nulla c’entra con la tessitura filmica dei racconti di Garrone. Il cielo sopra il cinema italiano è vuoto… evaporato insieme all’illusione che ogni film furbo rappresenta.
Dove c’è cinema non c’è merce… il carattere feticistico di un cinema retto dall’economia mercantile riproduce un’arte senza qualità… i processi di produzione padroneggiano gli autori, ma gli autori non padroneggiano per niente i processi produttivi. Nell’economia capitalista/liberista la visione del cinema è profondamente diversa da quella – qualche volta eversiva – del passato. La macchina/cinema è un dispositivo di prodotti tutti astrattamente uguali tra loro, distinguendosi solo per la maggiore o minore quantità di denaro impiegato nell’impresa… la ciclicità dei film-merce ammorba la vita quotidiana, costruisce un tempo di consumo immediato e lo spettatore diventa parte integrante di pseudo-eventi a sostegno dell’organizzazione dominante della vita.
Nelle democrazie consumeriste, o nei regimi comunisti… la vita si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli… «lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto fra individui, mediato dalle immagini» (Guy Debord)1. Tutto ciò che era direttamente vissuto dalle genti è finito in una rappresentazione e la merce ha trasformato la percezione (la trasmissione del desiderio) nel discorso poliziesco che l’ordine presente tiene su se stesso. I mercati globali sono l’autoritratto del potere al tempo della gestione totalitaria dell’immaginario sociale. La critica radicale non può che essere che la critica complessiva della società, una critica che non scende a patti con nessuna forma di adulazione e pronuncia la separazione tra la vita sociale alienata e la rivolta sociale che viene.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 9 volte settembre 2015
1 Guy Debord, La società dello spettacolo, Vallecchi, 1979.