Comunismo e comunità

ago 1st, 2015 | Di | Categoria: Teoria e critica

 

di Costanzo Preve

 

Possiamo ancora mantenere il termine “comunismo”, al di là del fatto che questo termine è stato abbondantemente “usurato” (per usare un cortese eufemismo) nella storia del ventesimo secolo, oppure è possibile invece non solo mantenerlo ma addirittura rivendicarlo nella situazione storica attuale?

 

Si tratta di una domanda assolutamente legittima, che apre un insieme di problematiche. In questo saggio, che voglio esplicitamente programmatico ma non “definitivo”, perché intendo contribuire ad una discussione i cui esiti finali non devono essere dati per scontati, esporrò quanto intendo dire in tre punti successivi.

In primo luogo, mi interrogherò sui significati del termine “comunismo”, e per brevità mi limiterò a ricordarne tre (ma sarebbero molti di più), che poi analizzerò uno per uno separatamente. In secondo luogo, mi interrogherò sul termine di comunità e di comunitarismo, con la radicalità critica necessaria. In terzo luogo, infine, concluderò con una riflessione ancora largamente generica sulla natura “assoluta” ed incondizionata del capitalismo contemporaneo, e lo farò proprio perché alla pretesa di radicalità di questo capitalismo stesso non è possibile opporre correttivi concettuali che ne accettino preventivamente la sovranità incondizionata, ma è necessario almeno concettualmente proporre un’alternativa altrettanto radicale, all’altezza della sfida che questo capitalismo ci pone.

 

A. Tre significati storico-filosofici di comunismo

 

In estrema sintesi, e trascurando qui molte altre “piste di ricerca” secondarie, possiamo distinguere tre concetti diversi di “comunismo”:

  1. Il comunismo inteso nel senso di Marx. Con tutti i suoi limiti filosofici ed i suoi errori di previsione sulla dinamica del modo di produzione capitalistico, Marx resta un pensatore imprescindibile per concettualizzare il significato moderno di comunismo, da tenere ben distinto dai suoi numerosi significati precedenti di tipo precapitalistico. Qui sta la sua specifica attuale “insuperabilità”. E’ infatti facile dire che si è “oltre” Marx, ma è anche inutile, se poi concretamente ci si muove ancora nel raggio del suo pensiero.
  2. Il comunismo storico novecentesco realmente esistito. Sebbene esso esista formalmente ancora in una serie di paesi (Cina, Cuba, Vietnam, eccetera), da un punto di vista di movimento mondiale esso si può considerare come un fenomeno concluso, e lo si può datare dal 1917 al 1991. Personalmente, considero largamente “residuali”, anche se non del tutto negativi, i partiti formalmente neocomunisti, che sono poi in realtà o veterocomunismi o del tutto postcomunisti.
  3. Il comunismo inteso come fenomeno metastorico ed infrastorico, e cioè come inestinguibile tendenza umana associata a negare ed a contrastare le strutturazioni classistiche della società.

 

Esaminiamo questi tre concetti separatamente.

 

  1. Il comunismo inteso nel senso di Marx.

 

Engels, l’amico di Marx, connotò la teoria del suo amico in termini di “passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza”. Nonostante la sua formale opposizione al positivismo del tempo, la formulazione di Engels era positivistica al cento per cento, per almeno due ragioni di fondo. In primo luogo, essa ricalcava quasi alla lettera la formulazione del patriarca del positivismo Auguste Comte, che aveva parlato di passaggio dal sapere di tipo teologico e metafisico al sapere di tipo “positivo”, e cioè scientifico. In secondo luogo, perché la concezione positivistica di sapere scientifico lo intendeva come un sapere fondato su previsioni basate sulla conoscenza di “leggi scientifiche” di tipo deterministico-evolutivo non solo possibile e/o probabile, ma addirittura necessario. E così fu inteso il passaggio dal capitalismo al socialismo-comunismo dalla sistematizzazione marxista elaborata congiuntamente da Engels e Kautsky nel ventennio di fondazione 1875-1895.

Oggi non possiamo più a mio avviso condividere questa impostazione, e non dobbiamo limitarci a “riformarla”. Dobbiamo cambiarla in modo qualitativo e radicale. Il modello di Marx può essere definito di tipo scientifico-utopistico, e chi non sopporta questo ossimoro e ne rifiuta la fisiologica contraddittorietà si condanna a muoversi in circolo senza poterne venire fuori, e questo per un insieme di ragioni che qui dovrò limitarmi a sunteggiare in modo sintetico.

Marx aveva in effetti avanzato almeno due ipotesi di tipo “scientifico”. In primo luogo, la previsione che ad un certo punto del suo sviluppo tecnologico il modo di produzione capitalistico sarebbe divenuto “stagnante”, così come era in precedenza avvenuto per i modi di produzione asiatico, schiavistico e feudale, e che sarebbe insorta una contraddizione storico-sociale fra lo sviluppo delle forze produttive e la natura stagnante-classista dei rapporti sociali classisti di produzione. In secondo luogo, la previsione per cui si stesse formando un soggetto rivoluzionario di tipo inter-modale, che non era semplicemente la classe operaia, salariata e proletaria di fabbrica e dei servizi, ma era il lavoratore cooperativo collettivo associato, alleato con le stesse potenze intellettuali della produzione, connotate da Marx con il termine inglese di General Intellect.

Entrambe queste (logiche e razionali) previsioni sono state per ora abbondantemente smentite e falsificate dal corso storico dell’ultimo secolo, anche se non c’è qui lo spazio per analizzare in dettaglio le ragioni di queste smentite. Non possiamo quindi seriamente continuare a difendere il termine “scientifico” nel senso di Engels. E tuttavia resta un nucleo indebolito ma non del tutto esaurito del termine “scienza”, se la si intende nel senso di Aristotele (1) come sapere basato sulla nozione di possibilità oggettiva fondata sulla potenzialità di una determinata configurazione ontologica di un insieme sociale, e nel senso di Hegel (2) come sapere sistematico di una totalità elaborato dialetticamente (in questo caso, la totalità del modo di produzione e del concetto di capitale). In questo senso non-positivistico, il termine “scienza” può ancora essere usato anche per Marx, purché si sappia che si parla di una “scienza filosofica”, cioè di un sapere basato su premesse di valore, e non di una “scienza” basata su di una quantificazione matematica della natura nel senso di Galileo oppure di una “scienza” basata sulla avalutatività, e cioè sulla separazione fra giudizi di fatto e giudizi di valore nel senso di Max Weber.

L’utopia in Marx permane e non è affatto da lui eliminata. Si tratta di un’utopia di tipo tardo-romantico della riconciliazione integrale fra l’elemento naturale e l’elemento sociale dell’uomo, che mira ad una sorta di società della trasparenza assoluta. L’estinzione dello stato in Marx si basa di fatto su di un presupposto sansimoniano, per cui ad un certo punto la semplice amministrazione delle cose post-classista può instaurare una sorta di leibniziana armonia prestabilita fra unità produttive gestite in modo consiliare. L’estinzione della famiglia è pensata come regno della individualità assoluta, e cioè di fatto come regno sociale di atomi individuali che scelgono di volta in volta i rapporti affettivi e sessuali che più gli piacciono (in linguaggio hegeliano, di riduzione integrale dell’eticità alla moralità). E potremmo continuare.

In sintesi: è normale che al momento della fondazione sistematica del marxismo esso venisse pensato come “passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza”; questo avveniva sulla base di una concezione positivistica di scienza come previsione basata sulla corretta conoscenza di “leggi sociali”, e di una concezione tardo-romantica di utopia come conciliazione integrale fra l’elemento naturale e l’elemento sociale dell’uomo; oggi, però, il nucleo razionale ed emancipativo del concetto di comunismo in Marx deve essere “salvato” dai suoi elementi positivistici ed utopistici ricollocandolo in modo sobrio nell’alveo di una tradizione filosofica che ha in Aristotele ed in Hegel i suoi momenti principali.

2. Il comunismo storico novecentesco realmente esistito 1917-1991.

 

Nato dall’iniziativa bolscevica di Lenin del 1917 e dalla sua generalizzazione politica del 1919 con la fondazione della Terza Internazionale, il comunismo storico realmente esistito non deriva da Marx né direttamente né indirettamente, ma utilizza il pensiero di Marx come ideologia di autolegittimazione politica, sia russa che internazionale. Esso deve essere quindi giudicato indipendentemente da Marx, sia che lo si giudichi bene sia che lo si giudichi male.

Non potendo qui per ragioni di spazio soffermarmi sulla sua analisi storica e sociale (posto del comunismo nella storia universale dell’umanità pensata unitariamente con un solo concetto trascendentale riflessivo; natura sociale delle formazioni autodefinitesi socialiste e comuniste alla luce della stessa categorizzazione di Marx), mi limiterò a discuterne tre sole connotazioni interpretative oggi diffuse: l’interpretazione neoliberale dell’”incidente della storia” dovuta alla follia ideologica totalitaria novecentesca; l’interpretazione neostaliniana del “massimo possibile nelle condizioni storiche date”; ed infine l’interpretazione prevalentemente neotrotzkista della “rivoluzione anticapitalistica legittima e meritoria rovinata però dalla burocrazia, e dalla burocrazia staliniana in particolare”. Nessuna di queste tre interpretazioni è soddisfacente, e bisogna quindi avviarsi in una direzione nuova ed inedita.

  1. L’interpretazione neoliberale dell’incidente della storia dovuta alla follia ideologica del totalitarismo novecentesco è oggi con tutta evidenza un’ideologia di legittimazione apologetica indiretta dell’odierno capitalismo neoliberale globalizzato, garantito militarmente dall’impero ideocratico-messianico USA potentemente armato e distruttore di ogni residuo diritto internazionale, ed avallato ideologicamente dalla consorteria unificata del clero regolare degli apparati universitari politicamente corretti e dal clero secolare degli apparati mediatici sia cartacei sia (prevalentemente) televisivi.
  2. L’interpretazione neostalinista del comunismo storico novecentesco come il massimo che la storia poteva produrre nella situazione storica data è ovviamente un’interpretazione di tipo giustificazionistico, o più esattamente storicistico-giustificazionistico, che interpreta scorrettamente l’equazione di Hegel “tutto ciò che è reale è razionale” nel senso (fortemente scorretto) per cui il “reale” sarebbe l’insieme di tutto ciò che è concretamente accaduto nei fatti, e non come adeguamento dei fatti stessi al “concetto” che se può legittimamente ricavare con un’operazione filosofica veritativa di tipo ontologico-dialettico.
  3. L’interpretazione neotrotzkista della rivoluzione anticapitalistica legittima e meritoria, ma poi purtroppo rovinata dalla burocrazia, e dalla burocrazia staliniana in particolare è un’interpretazione di tipo demonologico, in cui la burocrazia occupa il posto del buon vecchio diavolo nelle concezioni teologico-religiose della storia. Trascurando qui il fatto, peraltro non irrilevante, per cui Stalin fu storicamente il terrore dei burocrati assai più che il loro general manager, l’individuazione ossessiva della burocrazia come il “verme nella mela” del socialismo esercita la funzione ideologica di tranquillizzare sulla bontà della teoria marxista classica, salvandone la purezza originaria, e “scaricandone” sul cattivo Stalin tutti i lati negativi.

In sintesi: la critica ragionata delle tre interpretazioni neoliberale, neostalinista e neotrotzkista deve fare da premessa ad una quarta interpretazione, non ancora esistente ma per ora soltanto accennata, che inquadri l’intero fenomeno del comunismo storico novecentesco all’interno di un più ampio quadro di filosofia della storia universale. Se lo si inquadra in questo modo, il comunismo storico novecentesco, di cui non ha alcun senso negare gli errori e anche gli orrori, si mostrerà dotato di almeno due elementi di legittimazione storica e filosofica.In primo luogo, il fatto di essere nato come legittima interruzione rivoluzionaria della sanguinosa mattanza scatenata nel 1914 dalla borghesia capitalistica ed imperialistica, e solo da essa. In secondo luogo, il fatto di essere momento storico specifico della “lunga storia ideale eterna” (il termine è di Vico, e lo adopero coscientemente) della legittima rivolta degli sfruttati contro gli sfruttatori. Ma questo ci porta direttamente al terzo ed ultimo significato di comunismo.

 

3. Il comunismo inteso come fenomeno metastorico ed infrastorico di una “storia ideale eterna” di resistenza degli sfruttati agli sfruttatori

 

Sebbene sia molto diffusa fra i marxisti l’(erronea) concezione per cui in Marx non ci sarebbe una filosofia della storia universale cosmopolitica, e Marx sarebbe esclusivamente uno scienziato sociale del modo di produzione capitalistico senza nessun presupposto “metafisico” (Louis Althusser), oppure sarebbe soltanto un autore che gioca la sua credibilità scientifica unicamente sulla base delle prognosi storica sull’evoluzione del capitalismo così com’è (Karl Korsch), è bene contestare questi pur rispettabili pensatori, e riaffermare che in Marx c’è (eccome se c’è!) una filosofia generale dell’intera storia umana intesa come unico concetto trascendentale. Si tratta di un concetto unitario di storia universale nato in ambito illuministico (Koselleck), e poi corretto e perfezionato da Hegel con l’introduzione di una logica di tipo dialettico (Hyppolite, Ilienkov, Lukàcs, eccetera).

Se accettiamo questa linea di lettura, che chi scrive ha esposto in modo analitico in diversi lavori, peraltro profondamente unitari nella concezione e nell’impostazione, possiamo individuare nell’insegnamento di Marx due distinti livelli di lettura. In primo luogo, una teoria specifica del solo modo di produzione capitalistico, che lo articola ulteriormente attraverso tre concetti interconnessi che lo sostanziano (forze produttive sociali, rapporti sociali di produzione, ideologia e sistemi ideologici). In secondo luogo, una filosofia generale della storia universale di tipo necessariamente “idealistico”, in cui l’”idea” è appunto la totalità ideale del processo storico complessivo dell’uomo sociale, concepita unitariamente come luogo conflittuale della lotta fra servo e signore e come sede di una sintesi possibile nel comunismo (e si vedano in proposito i Manoscritti economico-filosofici del 1844, in cui il ventiseienne Marx tematizza sia il concetto di alienazione che quello di comunismo).

In sintesi: la collocazione (filosofica) del comunismo marxiano e la collocazione (storica) dell’esperienza del comunismo storico novecentesco recentemente concluso (1917-1991) devono essere unificate attraverso un’operazione ideale del pensiero all’interno di un concetto di storia universale del genere umano (ente naturale generico, Gattungswesen) inteso come un solo concetto trascendentale riflessivo. Marx appare così allievo sia dell’illuminismo (storia universale dell’uomo pensata unitariamente sotto il concetto unificatore di progresso), sia soprattutto dell’idealismo tedesco di Fichte e di Hegel (inserimento del concetto di prassi trasformatrice consapevole all’interno del determinismo anonimo del “progresso” e soprattutto problematizzazione dialettica del progresso stesso). Questo ci permette di ricostruire il passato della storia umana e di “riscattarlo” (Benjamin), in modo fortemente dialettico, sostituendo alla dossografia casuale delle opinioni filosofiche una storia costruita sulla base della deduzione sociale delle categorie del pensiero, deduzione sociale delle categorie vista non come un carnevale relativistico-sociologico, ma come il teatro di una storia sensata del procedere di un’istanza veritativa e non solo ideologico-giustificativa.

E questo ci porta direttamente al tema della comunità.

 

B. Il tema della comunità e del comunitarismo

 

Tradizionale cavallo di battaglia del pensiero conservatore e della nostalgia “organicistica” per un (mai esistito) buon vecchio mondo antico in cui le cose sarebbero andate meglio di oggi, e che si tratterebbe appunto di “restaurare”, il tema della comunità e del comunitarismo deriva invece dialetticamente proprio dal rilevamento delle contraddizioni degenerative del mondo moderno, e dalla stessa riflessione autocritica radicale sulla stessa esperienza del comunismo storico novecentesco. Lungi dall’essere quindi una riproposizione di un’istanza storica regressiva, si tratta al contrario di una vera e propria “deduzione” ricavata da una riflessione spregiudicata sulla società attuale. In termini filosofici, non si tratta di una deduzione trascendentale di tipo formalistico-kantiano, in cui il concetto di “comunità” è ricavato astrattamente dalle antinomie logiche del concetto di “società capitalistica” contemporanea. Si tratta invece di una deduzione sociale, per cui la comunità non è semplicemente “proposta”da un insieme di persone benintenzionate, ma è “posta” oggettivamente dallo svolgimento dialettico di realtà storiche ben precise. In estrema sintesi, si tratta di almeno tre dimensioni interconnesse, da esaminare l’una dopo l’altra:

 

  1. Il pensiero umano si è storicamente evoluto partendo dalla problematizzazione critica della vita comunitaria, e non certo sulla base di “pensate geniali” di eroi del pensiero staccati dalla comunità in cui vivevano. Per gli antichi, si trattava del ristabilimento del concetto di armonia, equilibrio, concordia e misura nella vita individuale e collettiva (isorropia, omonoia, metron), fino alla critica della crematistica da parte di Aristotele. Per i medioevali cristiani e musulmani, si trattava della corretta interpretazione da dare a scritture sacre che ponevano comunque il problema primario della giustizia. Per il mondo moderno, si trattava di studiare le forme politiche e culturali che potessero garantire la giustizia (giusnaturalismo) e la pace politico-comunitaria (contrattualismo). Per il mondo contemporaneo, si tratta di arrestare, o almeno limitare, lo scatenamento incontrollato di un sistema economico-sociale che lo stesso Heidegger, che pure non è per nulla “marxista”, definisce in termini di Imposizione-Impianto impersonale, anonimo ed incontrollabile (Gestell),all’interno del quale persino il vecchio “uomo” appare “antiquato” (Günther Anders). Ora, se questa non è una problematica “comunitaria”, vorrei che qualcuno mi spiegasse che cosa vuol dire “comunitaria”.
  2. Nei modi di produzione classisti di tipo precapitalistico (asiatico, schiavistico, feudale, feudale-signorile, eccetera) la comunità non era distrutta, ma era funzionalizzata socialmente alla strutturazione classistico-antagonistica della società. Si trattava così di una comunità di tipo gerarchico-organicistico, o per meglio dire gerarchico in alto, ed organicistico in basso. E’ bene dire apertamente che questa comunità di tipo gerarchico-organicistico deve essere accuratamente studiata sul piano filosofico. In un insieme di tipo gerarchico-organicistico, l’emersione progressiva dell’individuo moderno assume un carattere progressivo, ed è errato opporle una sorta di nostalgia di tipo tradizionale-conservatore.
  3. L’emersione dell’individualismo, all’inizio fortemente e quasi provocatoriamente anti-comunitario, deve essere pensata attraverso un concetto di tipo dialettico-contraddittorio.   Da un lato, l’individualismo appare come il necessario presupposto ideologico della formazione della società di tipo borghese-capitalistico, che ha nell’individuo-imprenditore il suo soggetto “robinsoniano”(il termine “robinsoniano” è dello stesso Marx). Dall’altro l’individualismo appare come un progresso filosofico, in quanto l’istanza di libero giudizio critico sulla natura (Galileo) e sulla società (Marx) viene strappata ad insiemi sociali autoritari e dispotici (chiese e religioni organizzate, caste feudali e signorili, assolutismi monarchici, eccetera), e viene così consegnata (o riconsegnata, dal momento che nella Grecia antica era già in parte così, e qui sta la ragione del fascino della sua esperienza storica) al libero esame ed al libero giudizio dell’individuo. Sta qui la natura dialettico-contraddittoria dell’individualismo, ideologia dell’anomia capitalistica, da un lato, e filosofia del libero giudizio critico dell’individuo, dall’altro. Se le cose vengono viste in questo modo, su che base devono essere poste oggi le rivendicazioni del nesso comunismo-comunità, contrapposto al nesso individualismo-liberalismo? Qui si gioca la nostra causa, o meglio la prospettiva storico-strategica della nostra causa, visto che sul “breve periodo” non possiamo aspettarci molto.

 

La dialettica autodistruttiva dell’individualismo moderno, il cui esito finale è la distruzione dell’individuo critico stesso.

 

Il termine “individuo” deriva dal latino in-dividuum, che significa etimologicamente “non ulteriormente divisibile”, e che corrisponde perfettamente al termine greco “atomo”(a-tomon), che significa anch’esso non ulteriormente divisibile (Democrito, Epicureo, eccetera). Se le parole hanno ancora un senso, l’individuo viene ricavato per divisione da un insieme sociale precedente, che è appunto la comunità, libera o assoggettata che sia. Da ciò si deduce che tutte le teorie di tipo dicotomico che contrappongono in modo originario l’Individuo e la società (Norberto Bobbio, eccetera)non colgono la dinamica storica del problema, ed ipostatizzano artificialmente due entità che sono in realtà dialetticamente interconnesse.

L’emersione storica dell’individuo moderno, indubbiamente correlata allo sviluppo in Europa di un’economia di tipo borghese-capitalistico, è stata inevitabilmente “raddoppiata” da una parallela emersione filosofica del concetto di Soggetto. In un primo momento il Soggetto (da Cartesio a Kant) viene pensato in modo aprioristico, formalistico ed astratto come portatore di una conoscenza razionale ed oggettiva del mondo della natura e della storia.  In un secondo momento (Hegel) si attua una critica a questa destoricizzazione aprioristica di tipo cartesiano-kantiano, e la soggettività individuale viene correttamente ricondotta alle contraddizioni della coscienza all’interno del conflitto storico. In un terzo momento (Marx ed i suoi migliori successori, Adorno, Lukàcs, eccetera) viene ripresa contro il cartesianesimo e il kantismo la corretta posizione storico-dialettica di Hegel, ma questa posizione viene inserita in una filosofia della storia che ritiene possibile il ristabilimento in forma nuova della comunità sulla base però anche del riconoscimento degli irreversibili diritti di libertà dell’individuo stesso, che riconosce però al tempo stesso la sua natura di “individuo sociale e comunitario”.

Bisogna però adesso portare l’attenzione non più sulla dialettica del concetto di individuo moderno, di cui credo di aver sia pure sinteticamente disegnato i tratti essenziali, ma sul carattere distruttivo dell’accumulazione capitalistica non tanto nei confronti della comunità umana, ma proprio nei confronti del concetto di individuo. Che il moderno capitalismo stia distruggendo ogni residuo di comunità umana, questo è abbastanza evidente. Non è invece evidente, e deve essere sottolineato, che l’individualismo sta distruggendo lo stesso individuo, esattamente come il vino, benefico per l’uomo, se bevuto in modo smodato distrugge l’uomo stesso con la cirrosi epatica. Ma vediamo meglio.

Lo ripeto. E’ ampiamente noto, ed è anche riconosciuto diffusamente nonostante l’insistente (ed ampiamente foraggiato) fuoco di sbarramento ideologico dei “minimizzatori” e dei negazionisti, che l’attuale incontrollato modello di accumulazione capitalistica sta mettendo in pericolo gli equilibri ecologici del pianeta, per cui la stessa teoria della cosiddetta “decrescita”, pur indebolita dal non poter indicare concreti soggetti sociali collettivi che se ne possano fare concretamente carico, appare razionale e non può essere semplicemente esorcizzata con i soliti insulti rivolti contro il cosiddetto “irrazionalismo” dagli apparati inseriti nella tecnoscienza. E’ altresì ampiamente noto, e riconosciuto da un’amplissima bibliografia critica, che l’impero ideocratico americano impazzito è diventato il pericolo principale per la pace mondiale con la sua pretesa messianica di incarnare un modello divino di società superiore, e non saranno gli apparati ideologico-mediatici che cercano di attirare l’attenzione del distratto spettatore televisivo sul burka, sul Myanmar e su Ahmadinejad che potranno a lungo nascondere questo pericolo supremo, al di là dello starnazzare esorcizzante contro l’anti-americanismo e (addirittura!) contro l’antisemitismo, che è diventato oggi una sorta di jolly ideologico che si può aggiungere a tutte le combinazioni assassine possibili. E’ infine noto, e testimoniato da infinite statistiche economiche sui redditi individuali e nazionali, che l’attuale modello economico ultracapitalistico approfondisce enormemente le differenze sociali, polarizza i ricchi e i poveri, precarizza il lavoro, subordina ulteriormente le classi operaie moderatamente favorite dal welfare dei “trent’anni gloriosi” 1945-1975, ed infine attacca e corrode la stessa classe media. Queste tre cose, è bene ripeterlo, sono ampiamente note, e possiamo darle per scontate risparmiando così spazio per questo breve saggio.

E’ invece meno noto, infatti, che lo stesso individualismo anti-comunitario corrode e distrugge le stesse basi antropologiche che avevano costituito storicamente il buon vecchio “individuo”, portatore della buona vecchia cultura “borghese” di tipo musicale (Beethoven), filosofica (Hegel, Marx), letteraria (Stendhal, Tolstoj, Dickens), eccetera. I sociologi più intelligenti ne hanno peraltro preso atto da tempo (Zygmund Bauman, Christopher Lasch, eccetera). La stessa filosofia di Heidegger ne prende atto a suo modo, configurando una specie di modello capitalistico assoluto privato della contraddizione, e trova facilmente sostenitori sia nel circo mediatico(Umberto Galimberti, Emanuele Severino), sia nella marxologia accademica (Roberto Finelli). Eliminando la contraddizione, infatti, il mondo sociale che ci circonda diventa effettivamente intrascendibile, e la sola cosa che ci resta è o un esodo individuale in piccole comunità protette (Marino Badiale, Massimo Bontempelli), o strategie neo-epicuree di resistenza “spiritualmente comunista” all’interno di un mondo con cui pure si è deciso soggettivamente di non riconciliarsi (Gianni Vattimo). E’ permesso anche, ed ampiamente pubblicizzato, un atteggiamento onirico-fantasmagorico, in cui si afferma che già qui ed ora, anche se sembra che nessuno se ne sia ancora accorto e quindi il capitalismo sopravviva unicamente per autosuggestione, vi sono già incredibili moltitudini eversive pronte ad instaurare un comunismo del desiderio del consumo illimitato (Toni Negri). L’individualismo corrode il buon vecchio individuo critico autonomo (i cui ultimi –benemeriti sostenitori furono i filosofi della vecchia scuola di Francoforte, Horkheimer, Adorno e Marcuse in particolare), in quanto progressivamente viene “incorporato” in apparati di comando oligarchico la cui riproduzione sistemica sempre più sfugge alla direzione ed al controllo degli individui stessi. La dinamica dialettica di questo fenomeno, del tutto incomprensibile per tutti coloro che si orientano in base al formalismo kantiano, al neocontrattualismo alla Rawls ed alle varie concettualizzazioni dicotomiche alla Bobbio, è invece in via di principio comprensibile a coloro che, rifiutando sia il formalismo kantiano neoliberale alla Habermas sia il ricorso alla vecchia metafisica divina salvatrice alla Ratzinger (che resta comunque – sia ben chiaro – migliore della precedente, fra Padre Pio e Pannella il primo è sempre migliore del secondo!), si orientano in base a Heidegger (la metafisica realizzata in tecnica planetaria comporta lo sradicamento dell’uomo e la sua “mancanza di casa”), in base a Günter Anders (l’uomo diventa antropologicamente antiquato di fronte ad un apparato tecnico autoriproduttivo soverchiante),in base ad Adorno (lo stesso vecchio individuo borghese è messo in pericolo dalla manipolazione capitalistica), in base a Marx (siamo di fronte al passaggio dalla sottomissione formale alla sottomissione reale del lavoratore al capitale) ed infine in base a Hegel (in una figura dialettica del processo fenomenologico di autocoscienza umana è normale – e per nulla strano ed assurdo – che qualcosa si rovesci dialetticamente nel suo contrario,ad esempio la sovranità dell’individuo autonomizzato dalla precedente comunità gerarchica ed organicistica che si rovescia in nuova subordinazione alla comunità astratta e disumana del capitale).

Ma per capire meglio questo fenomeno è bene passare al terzo ed ultimo punto di questo breve saggio, e cioè ad una riflessione spregiudicata e soprattutto innovativa sulla natura del nuovo capitalismo.

C. Il concetto marxiano di Capitale, applicazione sociale e storica del concetto di Assoluto di Hegel.

 

Che ci sia il capitalismo nessuno lo mette in discussione, e allora diventa del tutto legittimo proporre una ricostruzione storica. Ma la storia è appunto il luogo teorico in cui si indaga la nascita, l’evoluzione e la fine delle società, e allora se il capitalismo ha una storia diventa poco serio impedire che ci si ponga il problema del suo eventuale superamento, a meno che appunto si intenda compiere un’operazione eminentemente antistorica, e cioè dichiararne l’eternità in base ad una teoria della natura umana (David Hume), o ad una teoria delle armonie economiche del mercato (Adam Smith). Questa è oggi la teoria prevalente negli apparati accademico-mediatici, insaporita da una retorica spumeggiante della cosiddetta “complessità” dei sistemi sociali nelle cosiddette “società industriali avanzate”. Ma se è del tutto normale che gli apparati ideologici di legittimazione e di manipolazione sociale facciano il loro mestiere, è meno normale che ciò venga fatto passare senza resistenza. Bisogna allora ristabilire i diritti della storia, senza peraltro trasformarla in una sorta di feticcio teologico chiamato a sostituire Dio (lo dico subito: io sono un grande amico della storia, ma se mi si chiede di sostituirla a Dio, ebbene no, mi tengo il buon vecchio Dio, che almeno è meno pericoloso ed idolatrico!). E’ interessante che coloro che hanno accusato il vecchio marxismo di essere una teoria della fine della storia, e lo hanno fatto con qualche ragione (Croce, Popper, eccetera), siano poi caduti nello stesso errore che condannavano altrove, facendo diventare lo stesso capitalismo borghese la fine della storia. Mai fidarsi senza controllo dei critici dell’ideologia, in quanto, come ha scritto argutamente Terry Eagleton, “l’ideologia, come l’alitosi, è sempre degli altri, e non è mai nostra!”.

Il marxismo si è costruito inserendo la critica dell’economia politica di Marx in una teoria generale della storia. Limitandoci qui all’essenziale, possiamo dire che sono state elaborate due teorie della storia del capitalismo, la prima di tipo lineare (Karl Kautsky), e la seconda di tipo ciclico (Gianfranco La Grassa). Il gigantesco successo della prima nei confronti della seconda non è certo stato dovuto a ragioni epistemologiche , ma del tutto ideologiche, in quanto solo la prima concezione si prestava a diventare una “religione per militanti”, adempiendo alla funzione di grande-narrazione di salvezza per rassicurare i veri credenti (Jean-Francois Lyotard) e soprattutto di secolarizzazione della vecchia e consolatoria escatologia di origine ebraico-cristiana nel linguaggio dell’economia politica e del progressismo illuministico (Karl Lowith). E’ tuttavia la concezione di La Grassa è migliore di quella di Kautsky e di tutte le concezioni storicistiche di tipo deterministico-lineare-teleologico.

La storia del capitalismo può essere inoltre ricostruita in due modi, il primo di tipo storico, il secondo di tipo logico, considerando il Capitale come concetto (Begriff). E che Marx considerasse il Capitale come un concetto, è stato ampiamente dimostrato in dettaglio da un’eccellente scuola marxologica(Reichelt, Rosdolsky, Fineschi, eccetera), e lo possiamo dare qui per scontato, salvo a ritornarci sopra in altra sede.

In una ricostruzione storica del capitalismo, si possono evidentemente avanzare molte diverse ipotesi. Si può affermare che il capitalismo è soprattutto economia-mondo, e che questa economia-mondo ha cominciato a costituirsi molto presto, già nel xv secolo (Wallerstein). Si può ricostruire la storia attraverso la successione di passaggi di centralità geografica, da Genova all’Olanda all’Inghilterra (Carchedi). Si può enfatizzare l’importanza della religione, e del calvinismo in particolare come autoassicurazione di tipo psicologico-sociale del successo degli eletti (Max Weber). Si può dare importanza decisiva al commercio triangolare come fattore di accumulazione originaria dei capitali necessari al decollo industriale (Paul Sweezy). Si può infine individuare il fattore decisivo del decollo nella trasformazione capitalistica dei rapporti sociali nell’agricoltura inglese (Maurice Dobb). Eccetera, eccetera.

Tutto questo, però, fa ancora parte per così dire di una ricostruzione interamente storica del concetto di modo di produzione capitalistico. A fianco di questa, e soprattutto non coincidente con questa, ci deve essere anche una concettualizzazione logica, nel senso ovviamente della Scienza della Logica di Hegel. Se ci si accinge a questa ricostruzione logica il nesso fra comunismo e comunità viene rimesso sui suoi piedi, laddove in una ricostruzione puramente storica (e storicistica) questo nesso diventa invisibile, perché visibile appare soltanto il passaggio progressivo dalle comunità precapitalistiche alla cosiddetta “società” capitalistica di tipo individualistico. A questo riorientamento gestaltico bisogna accompagnare una sua legittimazione teorica, e questo comporta un delicato passaggio dal concetto di Assoluto in Hegel al concetto di Capitale in Marx. Per operare questo delicato passaggio non c’è neppure bisogno di scatenare una sanguinosa battaglia fra le due tribù bellicose dei marxisti filo-hegeliani e dei marxisti anti-hegeliani. Ad esempio Lenin, fautore di una teoria simil-kantiana del rispecchiamento del tutto incompatibile con i presupposti gnoseologici della dialettica hegeliana (che sarà compatibile con tutto, ma certamente non con una gnoseologia realistica del rispecchiamento), ha scritto nero su bianco che chi non aveva compreso la dialettica di Hegel non avrebbe mai potuto comprendere il pensiero di Marx.

Ma cerchiamo di esporre sia pur sinteticamente quello che intendiamo sostenere.

 

L’odierno capitalismo assoluto, concettualizzabile attraverso il nesso fra Assoluto (Hegel) e Capitale (Marx)

 

Gran parte degli apparati ideologici del sistema filosofico universitario mondiale, con qualche benemerita eccezione minoritaria, ha aperto da tempo un preventivo fuoco di sbarramento contro il concetto di Assoluto, definito intollerabilmente “metafisico”, premoderno, antiscientifico, potenzialmente totalitario, pericolosamente “normativo”, e in definitiva incompatibile con il modo attuale e “moderno” di fare filosofia. Chi ha una sia pur minima sensibilità per la diagnosi della manipolazione ideologica (l’ideologia è infatti il terzo concetto basilare del materialismo storico, a fianco delle forze produttive e dei rapporti di produzione) capisce al primo colpo che gli “interdetti” non sono mai casuali, ma nascondono sempre qualcosa, e la nascondono sempre più quanto più sono emessi in forma apodittica ed unilaterale. In questo caso, l’Assoluto concettuale e filosofico deve essere esorcizzato e se ne deve dichiarare l’infondatezza per poter lasciar spazio ad un altro “assoluto implicito”, l’assolutezza del dominio della merce e del denaro nella vita sociale dell’uomo.

Nella lunga storia della filosofia mondiale, l’Assoluto è stato proposto e declinato in molti modi, che qui possiamo brevemente compendiare in tre principali. In primo luogo, come assoluto di tipo teistico-religioso, che si dà all’origine di tutte le cose e che viene poi “rivelato” attraverso scritture sacre di tipo profetico, che richiedono certamente ermeneutiche interpretative differenziate, ma che rimandano comunque in ultima istanza ad una verità divina sottratta all’arbitrio umano (religioni rivelate, ebraismo, cristianesimo nelle sue varie confessioni storiche, islam, eccetera). In secondo luogo, come Assoluto di tipo panteistico-cosmologico, che per essere compreso non ha bisogno di un’instaurazione teistica rivelata ma che anzi l’esclude deliberatamente, proponendosi come accessibile alla ragione umana convenientemente educata (il tao del pensiero cinese, il logos del pensiero greco originario, l’identità di Dio e Natura nella filosofia di Spinosa, eccetera). In terzo luogo, infine, come Assoluto di tipo storico-dialettico basato sul processo razionalmente ricostruibile della coscienza umana, considerata in termini di “lato logico” della storia universale cosmopolitica dell’intera umanità pensata attraverso un unico concetto trascendentale riflessivo (illuminismo europeo, Hegel, ed infine Marx inteso come “Hegel comunista”). Come si vede, i liquidatori del concetto di Assoluto (filosofia analitica anglosassone, relativismo di tipo “laico”, eccetera) finiscono con il liquidare gran parte dell’eredità filosofica mondiale, ed il fatto che se ne rendano o meno conto non è poi così importante se non in una storia comparata delle ideologie di legittimazione e di manipolazione.

Non vi è qui lo spazio per discutere le prime due forme storiche di Assoluto, e di proporne una connessione dialettica con il tempo storico in cui sono state elaborate attraverso una deduzione sociale delle categorie del pensiero (Sohn Rethel, eccetera). Limitandoci a discuterne solo la terza, che è quella che qui ci interessa, vediamo che essa nasce in polemica soprattutto con la prima, quella teologico-religiosa. In una impostazione teologico-religiosa, infatti, l’Assoluto è dato all’inizio del processo storico e non alla fine, non è prodotto di una autocoscienza progressiva ma di una rivelazione iniziale, ed è allora un dato e non un risultato. La dialettica di Hegel è prima di ogni altra cosa uno smascheramento razionalmente condotto di questo approccio, in quanto il suo compito è quello di mostrare che solo concependo l’Assoluto come un risultato e non come un dato è possibile attuarne una determinazione (Bestimmung) di tipo storico.

L’Assoluto è quindi una totalità in cui la verità è correlata alla sua logica complessiva di sviluppo. Il vero, quindi è l’Intero. Al di fuori di questa impostazione, il vero può soltanto darsi come certo (i miei occhi vedono questa pietra davanti a me), come noto (si sa che Parigi è la capitale della Francia), come esatto (2 +2 = 4), ed infine come veridico (ti assicuro che ti amo!). Ma il vero non può ridursi alla somma di certo, noto, esatto e veridico, o meglio può ridursi a tale soltanto in un’ottica antifilosofica, l’ottica oggi sostenuta a grandissima maggioranza da tutte le correnti scientistiche e relativistiche. Chi ci vuole aderire lo faccia pure, ma queste note allora non sono per lui e ci ha purtroppo soltanto perduto fin qui il suo tempo.

Il concetto di Assoluto in Hegel è quindi quello di una Totalità che non si dà in forma compiuta al suo inizio, come il Dio cristiano o il Tao cinese, ma si dà soltanto alla fine dopo un processo di superamento interno delle sue proprie limitazioni. Nel linguaggio di Hegel, che utilizza una logica di tipo triadico, l’Assoluto si manifesta prima in forma astratta, passa poi ad una forma dialettica, e si conclude poi in una forma speculativa, in cui può finalmente specchiarsi integralmente in se stesso come in uno specchio (latino speculum). Ripetiamo che la logica di sviluppo del concetto hegeliano di Assoluto sta nel suo superare progressivamente le sue limitazioni, prima esterne e poi interne.

Si tratta ora di verificare se e fino a che punto il concetto di Capitale in Marx ricalca o meno il concetto di Assoluto in Hegel. Io penso decisamente di si, e per questo propongo sommariamente qui una successione dialettica di tipo triadico del concetto di Capitale:

1.  Momento astratto del concetto di Capitale

 

In questa prima fase del suo sviluppo, che è la fase della sua Grande Instaurazione storico-mondiale, il modo di produzione capitalistico europeo deve fare i conti con le formazioni sociali precapitalistiche che si oppongono al suo sviluppo, e che sono sostanzialmente tre, oggetto di strategie differenziate e “mirate” (formazioni economico-sociali di tipo signorile-feudale, oggetto di rivoluzioni politiche ed ideologiche di tipo “liberale”; formazioni sociali caratterizzate da forme di proprietà collettiva di tipo comunistico-tribale, oggetto di sterminio genocida o di semplice schiavizzazione; formazioni economico-sociali di tipo asiatico, cui imporsi in via coloniale e militare diretta, tipo India, Cina, paesi musulmani, eccetera). Ma a questi concreti e differenziati processi di assoggettamento si unisce un parallelo processo filosofico-ideologico di tipo astratto, caratterizzato cioè da una unificazione astratta del mondo “ideale”. Il mondo materiale viene così sottomesso, mentre il mondo ideale viene astrattamente unificato. La natura umana viene idealmente unificata nella forma della naturalità (presunta) della proprietà privata fondata sul lavoro e sul sistema di aspettative provocato dal mercato (la triade inglese empiristico-scettico-utilitaristica Locke, Hume e Smith). La morale umana è idealmente unificata nella forma di una morale incondizionata, autonoma, formale e non più ricavata da prescrizioni divine (Kant ed il posteriore neokantismo). Lo spazio viene unificato sotto la categoria di materia (non importa se agente per contatto o in modo gravitazionale – ma meglio gravitazionale), abolendo così il dualismo spaziale fra l’alto divino ed il basso umano, in modo che ormai la merce possa scorrere liberamente senza impedimenti metafisici. Il tempo viene unificato sotto la categoria del progresso, e indipendentemente dal fatto se questa categoria sia o meno una secolarizzazione del precedente messianesimo teleologico cristiano (Löwith, Schmitt, eccetera), resta il fatto che le categorie che caratterizzano la riproduzione capitalistica possono essere “interpolate” ed “ipostatizzate” con categorie filosofiche progressiste generali. Il lavoro viene unificato sotto l’aspetto quantitativo del lavoro astratto calcolabile (teoria del valore-lavoro, eccetera, su cui poi Marx innestò la teoria dell’alienazione creando in questo modo un terreno ideale completamente nuovo, quello della critica dell’economia politica), diventando così un fattore della produzione “naturale” a fianco della terra e del capitale.

Questa quintuplice unificazione categoriale astratta (natura umana, morale, spazio, tempo e lavoro) è infatti la duplicazione rovesciata (necessariamente rovesciata) del processo concreto di assoggettamento delle tre forme di società precapitalistiche prima ricordate. Il concreto “materiale” si accompagna infatti sempre ad un astratto unificato ideale.

 

2. Momento dialettico del concetto di Capitale

 

Questa unificazione astratta in cui viene per la prima volta sistematizzato il sistema categoriale del pensiero detto “moderno”, e che si articola armonicamente nei cinque momenti prima ricordati (natura umana, morale umana, spazio-materia, tempo-progresso, lavoro calcolabile), non può resistere a lungo allo sviluppo storico, che mette progressivamente a nudo l’emersione dell’opposizione reale fra Borghesia e Proletariato.

Si tratta di un’opposizione reale o di una vera e propria contraddizione dialettica? Trascurando qui la discussione nei dettagli che avvenne a suo tempo per iniziativa di Lucio Colletti, che partendo da problematiche apparentemente solo metodologiche mirava in realtà a distruggere l’intero pensiero marxiano comunista definito come ripresa del vecchio neoplatonismo, diciamo che i concetti di Borghesia e Proletariato, non potendo essere pensati l’uno indipendentemente dall’altro, e formando invece un’unica totalità espressiva scissa in forma dicotomico-complementare, danno luogo ad una vera e propria contraddizione dialettica.

Ma proprio di ogni contraddizione dialettica è lo svolgersi temporalmente, e cioè in una dimensione storica. La dicotomia opposizionale fra borghesi e proletari, infatti, non caratterizza essenzialmente il concetto di Capitale, a meno che in modo riduzionistico ed economicistico si intenda per “borghesia” l’insieme numerico dei proprietari privati (giuridicamente intesi) dei mezzi di produzione e per “proletariato” l’insieme numerico dei venditori della propria forza-lavoro nel mercato capitalistico. Ma questa definizione è riduzionistico-economicistica, perché una classe sociale per sua natura comprende nel suo concetto sia il suo elemento materiale che il suo elemento ideale, e cioè congiuntamente l’essere e la coscienza. Se infatti il proletariato viene “integrato” nella riproduzione capitalistica attraverso varie forme storiche (economicizzazione sindacalistica del conflitto, nazionalizzazione imperialistica delle masse, individualizzazione consumistica, eccetera), la sua mera esistenza statistica nella forma della forza-lavoro non può essere sufficiente per poterne determinare il concetto.

 

3. Momento speculativo del concetto di Capitale

 

Nella sua fase speculativa, il Capitale può finalmente guardarsi allo specchio senza che il vetro di questo specchio sia oscurato o sporcato da macchie come le comunità precapitalistiche, la coscienza infelice borghese, la rivendicazione tradizionale religiosa, il conflitto di classe proletario, eccetera. Questo tipo di “disturbi” certamente rimane, ma rimane come insieme fastidioso di “disturbi di fondo”, ponendo così un problema puramente tecnico di “riduzione del rumore sociale”.

Marx aveva già parlato del capitalismo come di un grande ammasso di merci, ma ai suoi tempi così non era ancora, in quanto permanevano residui giganteschi sia precapitalistici, sia borghesi tradizionali, sia soprattutto proletari. Oggi invece, in particolare dopo il 1989, il sistema mondiale capitalistico sembra per ora essere riuscito a metabolizzare gli anticorpi del benemerito e mai abbastanza rimpianto (almeno per la sua funzione geopolitica di katechon, cioè di ritardatore di un solo mostruoso impero mondiale unificato) comunismo storico novecentesco. Questo ha indubbiamente avuto effetto sulle tre dimensioni ontologiche del pensiero di Marx, l’astrazione, l’alienazione e la contraddizione. Vediamole separatamente:

 

a. L’astrazione. Il capitalismo ha sempre avuto la tendenza a cancellare tutte le differenze sociali e culturali uniformandole al solo profilo astratto della forma di merce. Oggi però sembra essere riuscito a portare molto avanti questo processo, ed a trasformare l’uomo concreto in una sorta di “involucro” da riempire volta a volta a seconda del suo sempre più differenziato potere d’acquisto con i beni ed i servizi promossi dall’apparato pubblicitario, la cui integrale colonizzazione della vita quotidiana sta modificando antropologicamente la stessa tradizionale distinzione fra bisogni e desideri (o più esattamente, fra bisogni limitati e desideri illimitati).

b. L’alienazione. Si tratta di un concetto più che mai valido, nonostante il fuoco di sbarramento proveniente sia da un fronte post-marxista ed anti-marxista (Habermas e habermasiani), sia da un fronte iper-marxista (Althusser ed althusseriani). Esso ha acquistato forme diverse da quelle a suo tempo discusse dal ventiseienne Marx (Manoscritti economico-filosofici del 1844), in quanto anziché diminuire è ulteriormente aumentato. Come ha correttamente sostenuto il filosofo-economista italiano Claudio Napoleoni, nel capitalismo solo alcuni sono sfruttati, mentre tutti sono in varia misura alienati.

c. La contraddizione. Con l’avvento di un capitalismo assoluto di tipo speculativo, post-borghese e post-proletario, la contraddizione non sparisce certamente, ma acquista forme nuove e largamente inedite. Vi è certamente una contraddizione fra l’ambiente naturale e la logica illimitata dell’accumulazione capitalistica. Vi è una contraddizione fra la forma del lavoro flessibile e precario e la stessa riproduzione familiare umana, che ha bisogno della stabilità del lavoro (e lo stesso papa-filosofo Ratzinger sembra essersene accorto, e lo ha ufficialmente dichiarato nell’ottobre 2007). Vi è una contraddizione potenziale crescente fra un numero ristretto di ricchi ed un numero enorme di poveri. Vi è una contraddizione fra l’impero messianico USA e tutti coloro che in varie forme (varie, e tutte legittime) si oppongono. Eccetera, eccetera.

 

Conclusioni. La morale da tirare da tutta questa storia

 

Il discorso sarebbe lungo, e qui è soltanto abbozzato in forma riassuntiva e sintetica. Ma anche questo sommario riassunto ha bisogno di esplicitare una “morale”, come avviene nelle favole di Fedro e di Esopo. E allora proponiamo alcune considerazioni morali di fondo:

  1. Comunismo e Comunità. Il comunismo ideale eterno, da tenere ben distinto dal comunismo scientifico-utopico di Marx e dal comunismo storico novecentesco recentemente defunto, non potrà che riproporsi in qualche modo (ancora largamente imprevedibile – ed è bene che sia imprevedibile) all’interno delle nuove contraddizioni e delle nuove alienazioni della attuale fase speculativa del capitalismo. Questo comunitarismo comunista dovrà lottare su due fronti, per così dire. Da un lato, contro l’individualismo anomico che fa da base antropologica del moderno capitalismo assoluto. Dall’altro, contro le riproposizioni di modelli di comunità di tipo organicistico, gerarchico, localistico, razzistico, eccetera. Minimo comune denominatore di questa lotta su due fronti non può che essere una forma di universalismo razionalistico, che sappia accettare il suo carattere sempre provvisorio e mai definitivo, congedandosi così da ogni variante palese o implicita di fine normativa della storia.
  2. Fase metapolitica e rifiuto di ogni frettolosa fuga in avanti di tipo gruppettaro e micropolitico settario. Il modo migliore di “bruciare” una buona idea sta nel pensare che su di una base teorica coerente e credibile si possa facilmente creare un gruppetto politico-elettorale che la propugni. Non è così. I tempi storici della diffusione di un profilo metapolitico e di una strutturazione organizzativa sono diversi e non omogenei. Presentazioni elettorali a prefisso telefonico possono danneggiare per decenni una buona idea. La diffusione dello stesso pensiero di Marx fu dovuta solo in minima parte ai suoi meriti scientifico-filosofici, in quanto fu resa possibile(e fu resa possibile in forma necessariamente sfigurata e falsificata, sia pure “in buona fede”) soltanto dal fatto che essa “incontrò” (sta qui l’elemento razionale del cosiddetto materialismo aleatorio dell’incontro dell’ultimo Louis Althusser) l’autonoma costituzione sociale della classe operaia della seconda rivoluzione industriale e l’autonoma costituzione politica della socialdemocrazia tedesca in cerca di una legittimazione ideologica di organizzazione. Senza tutto questo, Marx sarebbe rimasto un curioso ed originale pensatore minore ottocentesco. Il gruppettarismo – occorre saperlo e non farsi illusioni di sorta – è un mondo psicologico-sociale ultraminoritario, e sostanzialmente malato. Malato di protagonismo, di settarismo, di vocazione alla rissa ed alla diffamazione incrociata, eccetera. Relazionarsi con questo mondo, pensando di “influenzarlo”, o di “convincerlo”, è un errore generoso, ma spesso mortale. Voler diffondere le proprie opinioni partendo dal manicomio provinciale resta un errore. Il manicomio provinciale del gruppettarismo e l’accademia universitaria restano i due luoghi sociali in cui è meno probabile che si riesca a introdurre dialogicamente e razionalmente idee nuove e “scandalose”.

3.  Teoria e pratica dei partiti neocomunisti istituzionali. A proposito dei partiti neocomunisti istituzionali italiani (PDCI di Rizzo e Diliberto, PRC di Giordano e Bertinotti) è possibile dire brevemente questo:

  1. Essi non sono in alcun modo interlocutori intellettuali, in quanto in essi prevale la funzione politologica di “nicchie elettorali”, i cui apparati istituzionali (da studiare con il metodo proposto un secolo fa da Roberto Michels), sono pienamente integrati nel sistema di potere capitalistico, anche se devono di tanto in tanto organizzare irrilevanti cortei di ostensione pecoresca di militanti che sfilano dietro linee sottili di dirigenti che salutano benevolmente la plebe osannante. Essi non sono però neppure ostacoli o nemici da “smascherare”, e per questo è da sconsigliare qualunque tattica fondata sull’estremismo denunciatorio urlante. Semplicemente, essi non sono né fattori storici né fattori politici o culturali, ma semplicemente dati irrilevanti del folklore mediatico-istituzionale. Essi meritano che vi si applichi lo slogan immortale: né aderire né sabotare.
  2. Essendo del tutto privi sia di un profilo teorico-filosofico sia ancor più della volontà di cercarlo, essi non possono che oscillare fra i due profili complementari ed antitetico-polari del vetero-comunismo e del post-comunismo. Per il vetero-comunismo propende il PDCI di Rizzo e Diliberto, e per il post-comunismo propende il PRC di Ferrero e Giordano, ma queste due propensioni derivano da un marketing politico da nicchia elettorale. L’oscillazione fra vetero-comunismo nostalgico, resistenziale e memorialistico e post-comunismo nuovista, eclettico, dilettantistico e fru-fru mediatico non deve essere vista come una opposizione, ma come il presentarsi vorticoso della stessa giostra mediatico-elettorale, comune sintomo di una comune mancanza di profilo e di serietà.

 

  1. Una prospettiva di lunga durata. Dal momento che la storia non è caratterizzata dalla prevedibilità, ma dall’aleatorietà, non possiamo sapere se il profilo culturale che proponiamo avrà successo o meno, resterà a lungo minoritario e marginale oppure si diffonderà in tempi non biblici. Non lo sappiamo. Teniamo però la barra del timone diritta, se siamo convinti di quello che pensiamo, e soprattutto non giudichiamo i successi e/o i fallimenti con il parametro errato ed illusorio del cosiddetto “breve periodo”. La commedia del ciclo di illusioni e di successivi pentimenti ha già caratterizzato la generazione del sessantotto. Direi che ne basta ed avanza una.          Torino, ottobre 2007
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