COMPLICANZE «SPETTACOLARI»

mag 17th, 2015 | Di | Categoria: Recensioni

 

 Roberto Massari

Produrre ancor oggi qualcosa di originale su ciò che Debord ha scritto o fatto, è un’impresa molto ardua. Apparentemente tutto su di lui è stato detto, tutto di lui è stato letto e visto, mentre il suo nome si conferma sempre più come un contrassegno simbolico di un’epoca: gli anni delle avanguardie e del ribellismo presessantottesco.
Il nome di Debord è oggi più noto di quanto non lo fosse vent’anni fa e spesso, nella cronaca giornalistica, rimpiazza ingiustamente il nome del movimento di cui egli fu controverso alfiere: il Situazionismo. Resta il fatto, però, che il ritmo storicamente sempre più vorace con cui si consumano mode e riti letterari, ha reso impossibile un’assimilazione reale dei contenuti della sua battaglia. Quasi nulla del suo messaggio affiora nel mondo della politica istituzionale (anche della più radicale, contestatrice o alternativista), ma nulla o quasi anche nel mondo che viene ipocritamente definito «dell’antipolitica», benché sarebbe più corretto parlare di mondo dell’antiparlamentarismo e dell’antipartitocrazia.
La verità è che ben poco è stato assimilato persino negli ambienti che operano con buone intenzioni anticapitalistiche o antisistemiche, travolti ingenuamente dal crollo delle ideologie tradizionali e ancora incapaci di elaborare il lutto.
Attende Debord un destino simile a quello di altre icone eversive novecentesche: la società dello spettacolo (quella reale e non quella letteraria) si sta impadronendo della sua opera, della sua vita e del suo messaggio – peraltro così «spettacolarmente» conclusi col suicidio del 1994. In lingue e traduzioni varie fioriscono libri su libri, articoli su articoli, via via ingarbugliando intuizioni che sarebbero invece fondamentali per una comprensione critica della nostra epoca.
A leggere o rileggere il suo capolavoro del 1967 (la SdS)1, si può verificare agevolmente che quelle intuizioni erano relativamente semplici nella loro essenzialità e nella loro formulazione apodittica (cioè autoevidente, ma per questo anche indiscutibile); mentre complicata era e tale rimane la cornice complessiva all’interno della quale erano inserite. Non c’è dubbio che si fatica a seguire il filo del discorso, come ho potuto verificare di nuovo e concretamente alcuni anni fa quando, con scarso successo, feci dei corsi sulla SdS e i Commentari per dei giovani. Forse un po’ meglio è andato il mio tentativo di rendere comprensibili (quindi sintetizzabili, trasmissibili e linguisticamente semplificabili) le idee portanti della critica debordiana alla società spettacolare, come ho fatto nel breve saggio/compendio che redassi per un convegno su Debord (L’Aquila, 2008 – qui in appendice). Confesso che, accingendomi a quel lavoro, mi chiedevo se la sintesi mi sarebbe riuscita, ammesso che fosse possibile.
La complicanza principale è rappresentata dal fatto che la costruzione concettuale della SdS è fortemente asistematica. I temi si accavallano; abbondano i salti logici; il gusto dell’aforisma sostituisce il dovere della dimostrazione e la formulazione assiomatica l’indagine deduttiva; continuo è il ricorso a calembour, assonanze linguistiche e in genere a giochi di parole che lasciano interdetto il lettore, oscurando il processo formativo di concetti peraltro veri, affascinanti, futuribili.
Non ci si lasci ingannare dalla struttura per Tesi: espediente procedurale tradizionale in campo filosofico, che qui denota una parentela diretta con lo stile di Ludwig Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus del 1918-22. Nonostante il titolo, anche questo rappresenta una sfida letteraria alla coerenza logica, tanto da prestarsi a seconda degli autori a letture epistemologiche, gnoseologiche, estetiche, etiche, di filosofia del linguaggio e perfino mistiche. In alcune parti non matematiche (per es. 1.1-2.023, 2.04-2.14) o quando affronta il rapporto tra linguaggio e realtà, ci si ritrova davanti alla procedura per aforismi e assiomi tipica della SdS, a parte i diversi termini di riferimento: uguale è l’intenzione apodittica, comune il tono «oscuro» delle connessioni (il disordinato intreccio di tematiche), esplicita l’ambizione (presunzione?) di creare un sistema «superiore» di analisi del rapporto linguaggi/pensiero. È stata colta anche una possibile affinità tra i due:

«La ricognizione wittgensteiniana dello spazio linguistico basata sulla pratica esplorativa dei giochi di linguaggio non sembra lontana nella sostanza dal tentativo debordiano di ripensare lo spazio urbano attraverso modalità inconsuete di esperirlo. In questo senso, la sperimentazione di Wittgenstein sul linguaggio si configura come una sorta di deriva…»2.

Senza voler sminuirne il ruolo, va detto che se la SdS ha fornito un contributo imperituro alla storia del pensiero, lo ha fatto soprattutto con le sue grandi e lungimiranti intuizioni, in assenza pressoché totale di dimostrazioni – concettuali, logiche o storiche – e senza una «bibliografia» ragionata di corredo. Si capisce che il campo di letture propedeutiche debordiane è immenso, con predilezione per autori marxisti, anarchici o comunque del movimento operaio. A parte la mole di riferimenti a Marx, seguìto da Bakunin e Hegel, compaiono più o meno fugaci accenni al pensiero di Erodoto, Machiavelli, Novalis, Bossuet, Feuerbach, Stirner, Engels, Hilferding, Ebert, Bernstein, Luxemburg, Lenin, Parvus, Trotsky, Eastman, Lukács, Korsch, Rizzi, Ciliga, Lyssenko, Freud, Kierkegaard, Burckhart, Cohn, Mumford, Gabel, Boorstin.
Con l’eccezione di Joseph Gabel (1912-2004) – autore de La fausse conscience: essai sur la réification, del 1962, e di altri scritti sull’alienazione, da Marx alle moderne concezioni della schizofrenia – l’unico di questi autori che abbia attinenza diretta con la materia trattata da Debord è il Daniel Joseph Boorstin (1914-2004) di The Image: A Guide to Pseudo-events in America, del 1962. Per il resto, silenzio assordante su tutti coloro che hanno affrontato in epoca moderna (novecentesca) le tematiche della spettacolarizzazione sociale, dell’invasione consumistica, della massificazione nella comunicazione con la nascita dei suoi nuovi media, della rappresentazione immaginifica eteroindotta e sostitutiva della realtà, dell’inflazione pubblicitaria, della falsa rappresentazione (tele)visiva ecc.
Tralasciando il contributo di studiosi ipernoti e funzionali per l’apologia del sistema (valga per tutti Marshall McLuhan), resta il fatto che Debord tace su almeno due studiosi radicali francesi che furoreggiavano in campo filosofico e sociologico negli anni della sua maturazione teorica: autori che conosceva bene e che avevano già elaborato importanti contributi proprio sui temi essenziali della futura SdS. Si tratta ovviamente di Henri Lefebvre (1901-1991) e di Edgar Morin (n. 1921).
Al momento della stesura della SdS, del primo erano usciti due volumi della trilogia Critique de la vie quotidienne (1947, 1961, 1981). E qui importa rilevare l’ampiezza di tematiche del secondo volume pertinenti per il discorso debordiano, come la distinzione tra bisogno e desiderio, la nuova configurazione del consumatore di massa, la «colonizzazione della vita quotidiana» (espressione che Lefebvre riprende dall’Internationale Situationiste n. 6/1961, citando esplicitamente Debord) e molto altro. Lefebvre era stato membro dell’IS e vi aveva esercitato una notevole influenza. Poi il litigio e la separazione: ragion per cui Debord non volle riconoscere il debito teorico gigantesco che aveva contratto con lui.
Non accennare a Morin in un libro sulla spettacolarizzazione sociale è come non citare Umberto Eco in un libro di antisemiotica. Anche in questo caso, all’origine vi erano stati dissapori per le critiche che Morin, come direttore della rivista Arguments (1957-1962), aveva rivolto dapprima al gruppo di Socialisme ou Barbarie e poi agli eredi raccolti nell’IS.
Da notare che l’autore de L’esprit du temps (Grasset, 1962) all’epoca era già considerato il padre nobile della sociologia delle comunicazioni di massa, e comunque il principale studioso delle culture di massa: un terreno – come oggetto di studio dell’antropologia della società industriale – nel quale Debord affonda le mani, estraendone quei frutti eversivi e antisistemici che erano invece mancati nell’elaborazione moriniana. Il debito, comunque, restava e le affinità tra i due sono state messe in rilievo più volte. Per es. da studiosi come Christopher Lasch (1935-1994)3 o Anselm Jappe (n. 1962)4.
Del resto è lo stesso Debord che nel suo film Sur le passage de quelques personnes à travers une assez courte unité de temps, del 1959, aveva preso a prestito da Morin5 linguaggio e concetti nella pubblicità detournée di un sapone in cui era fatta apparire Anna Karina (futura celebre attrice e poi moglie di Jean-Luc Godard) per esemplificare il discorso situazionista sul fenomeno delle star (lo star system)6.
Altra complicanza è data dall’assenza nella SdS di una polemica frontale (esplicita) con la forma-partito. Non si parla del suo ruolo essenziale nella formazione delle caste statali o variamente istituzionali, distinte dalle caste burocratico-manageriali che produce lo sviluppo economico del capitalismo. Eppure sono le caste partitiche che incarnano più di chiunque altro la spettacolarità sociale, traendone il massimo vantaggio.
Ciò non è più vero unicamente per i regimi totalitari (lo stalinismo è ricordato da Debord), ma investe globalmente i paesi industrialmente avanzati (Italia in primis). Tra le feconde intuizioni debordiane è assente il rapporto che lega la spettacolarizzazione della vita sociale alla statalizzazione degli apparati (burocratici, sindacali, partitici, culturali ecc.).
Più promettente a tale riguardo è il discorso di Vaneigem quando definisce il processo di specializzazione politica come «forma» d’integrazione nella logica del sistema:

«Quando un politicante si esprime in modo tonto, meschino o ingannevole in un discorso pubblico… questa Forma, questa maniera d’essere e di reagire non provengono unicamente da lui stesso, ma gli sono imposte dall’esterno»7.

[TORNEREMO SUL TEMA NEL PUNTO DELLA SITUAZIONE N. 2 (r.m.)]


Testo scritto per il non-convegno situazionista di Sesta Godano (19 settembre 2014) e inserito nel volume in corso di stampa: Debord e il Situazionismo revisited. Punto della Situazione n. 1, a cura di Antonio Saccoccio, con testi di Scuro, Saccoccio, Ricaldone, Peccolo, Nobile, Massari, Marchi, Bertelli, Bandini, Balice, Amico (Bolsena 2015, 224 pp.).
1 Così citerò d’ora in avanti l’edizione de La società dello spettacolo che pubblicai come Massari editore nel 2002 (a cura di Pasquale Stanziale) e della quale è in circolazione la terza ristampa (del 2008).
2 Luca Lupo, Filosofia della Serendipity, Guida, Napoli 2012, p. 30.
3 The Minimal Self: Psychic Survival in Troubled Times, del 1984 [L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti, Feltrinelli, 2004, p. 185].
4 Guy Debord. Essai (édition revue et corrigée par l’auteur), Éditions Denoël, Paris 2001, pp. 93-7 [Manifestolibri, 2013].
5 Edgar Morin, Les stars, Seuil, 1957, p. 111.
6 Guy Debord, Œuvres, Gallimard, Paris 2006, p. 482-3. Cit. da Gabriel Ferreira Zacarias, «La vedette, “représentation spectaculaire de l’homme vivant”», Revue Ad Hoc, n. 1, luglio 2012.
7 Raoul Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni, a cura di P. Stanziale, Massari editore, Bolsena 2004, p. 113.
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