Problemi di critica hegeliana in Italia. Le loro origini da Stefano Cusani a Giovanni Gentile
feb 26th, 2015 | Di Maurizio Neri | Categoria: RecensioniR. Pallavidini, Problemi di critica hegeliana in Italia. Le loro origini da Stefano Cusani a Giovanni Gentile (Noctua, Bari 2012)
Oggi che il comunismo è soggetto alla stessa condanna che ha colpito il fascismo alla fine del secondo conflitto mondiale, non è, forse, difficile spiegarsi il fastidio provato nei confronti di Hegel da una parte non piccola di “addetti ai lavori”; come filosofia della prassi, infondo, interpretava il materialismo storico Lenin e come filosofia della prassi interpretò, da subito, il fascismo una cospicua parte dell’intellettualità filosofica che vi aderì. La comune radice filosofica dei due modelli politici in Italia permette di comprendere nella loro intima drammaticità (oltre che nel loro eventuale opportunismo) una serie di passaggi al comunismo al momento della caduta del fascismo, sui quali si sofferma poco benevolmente Pallavidini; passaggi che, se menzionati, fino a una trentina di anni fa, provocavano imbarazzo, oggi scatenano l’accusa nei confronti di chi li ha compiuti, di aver posseduto una mentalità comunque “totalitaria” (come dimostrerebbe il passaggio dal fascismo al comunismo). Nell’èra il cui indice filosofico è il razionalismo critico di Popper, non c’è da stupire che la filosofia della prassi sia poco popolare; anche perché essa evoca immagini di controllo pubblico delle dinamiche economiche invise all’opinione pubblica più à la page, un’opinione pubblica che, per citare il teologo torinese Umberto Casale, non crede più al dio uno e trino, ma crede incondizionatamente nel dio quattrino.
dalla Prefazione
di Francesco Ingravalle
Davide Ragnolini
Registrando un vero e proprio rinnovamento degli studi dedicati al filosofo di Stoccarda negli ultimi anni, lo scorso dicembre Luca Illetterati segnalava su “Alias”, ad un pubblico non specialistico, una serie di nuove pubblicazioni in lingua italiana di alcuni esponenti della rinascita degli studi hegeliani nella filosofia americana contemporanea. Gli ultimi lavori di Robert Pippin, Terry Pinkard, John McDowell e Robert Brandom hanno segnato tale rinascita nell’alveo però, come riconosce lo stesso Illetterati, di una tradizione notoriamente rappresentante «un’attitudine speculativa che pare, per molti aspetti, del tutto estranea alle questioni e ai problemi che innervano invece la filosofia di Hegel».[1] Tuttavia, il giudizio espresso dal recensore, seppur condivisibile da un punto di vista storico, riesce appena a mitigare la presenza di un vero e proprio orientamento filosofico manifestamente anti-continentale nella storia della filosofia anglo-americana.
Tra gli studi italiani risultano menzionati solo la meritoria ripubblicazione in una versione ampliata di Sistema ed epoca in Hegel di Remo Bodei che, apparso per la prima volta nel 1975, contribuì non poco a “svecchiare” l’approccio ermeneutico nella storia italiana degli studi su Hegel, ed il volume di Luca Corti sulla ricezione americana della filosofia hegeliana.
La costruzione del mito storiografico di un Hegel metafisico, sistematico ed apologeta dell’ordinamento prussiano culminata nelle Grundlinien der Philosophie des Rechts (1821), e la complessiva ricezione in senso anti-liberale e “totalitario” del pensiero hegeliano sono stati non tanto il risultato di una volgarizzazione ad opera della “Sinistra hegeliana”, quanto piuttosto tra i più noti e longevi stereotipi della storiografia filosofica anglo-americana. Nel 1943 John Halford Mackinder, riferendosi alla conferenza tenuta in Marocco dagli alleati agli inizi dello stesso anno, immediatamente successivo alla vittoria riportata nella campagna del Nordafrica, lamentava che da Casablanca «venne tardivamente l’esigenza di distruggere il dominio della filosofia tedesca»: ciò, infatti, poteva realizzarsi solo «irrigando la mente tedesca con l’acqua pulita di una filosofia rivale».[2] Ma alla scomunica della filosofia continentale, e segnatamente di uno dei massimi rappresentanti della filosofia classica tedesca presente nel dibattito novecentesco, prima dello scienziato geopolitico aveva già provveduto un filosofo politico inglese destinato ad avere grande fortuna. Già sul finire del 1942 Karl Popper terminava in Nuova Zelanda il manoscritto di The Open Society and its Enemies, in cui faceva polemicamente assurgere Hegel a massimo rappresentate moderno dei “falsi profeti” filosofici nel quadro di una storia filosofica liberale da Platone alla filosofia marxista del XX secolo: «la farsa hegeliana è durata anche troppo. Noi dobbiamo por fine ad essa. Noi dobbiamo parlare – anche a costo di sporcarci maneggiando questa cosa scandalosa che, sfortunatamente invano, fu denunciata con tanta chiarezza un centinaio di anni fa».[3] Nonostante la cristallizzazione di una simile rappresentazione del pensiero hegeliano nella tradizione anglo-americana e non solo, la figura di Hegel ha tuttavia resistito tanto a caricaturali demonizzazioni filosofiche e politiche, quanto alle più disparate forzature ideologiche, come testimonia la sua grande Wirkungsgeschichte, così ampia e ricca da costringere i suoi lettori a periodici orientamenti nella letteratura critica. Tra i numerosi contributi pubblicati nel nostro Paese, il recente studio di Renato Pallavidini può rispondere positivamente a tale esigenza di orientamento condensando la trattazione di alcuni grandi interpreti italiani del filosofo tedesco nel suo saggio Problemi di critica hegeliana in Italia. Le loro origini da Stefano Cusani a Giovanni Gentile (Noctua, Bari 2012).
La scelta della periodizzazione esaminata dall’autore, da Cusani (1815-1846) a Gentile (1875-1944), è motivata con l’intento di ripercorrere la prima divulgazione italiana delle opere hegeliane a partire dagli anni 40’ del XIX secolo, e la successiva accumulazione di quei “anacronismi ermeneutici”[4] in seno alla storia della filosofia italiana che hanno per lungo tempo irretito l’interpretazione del filosofo tedesco. In sede di storia delle idee, la necessità di revisione critica della figura dell’Hegel “romantico e mistico” fissata nel datato saggio di Galvano Della Volpe (1929), era stata avvertita dal filosofo alessandrino anche nel suo articolo Il problema della libertà alle origini del pensiero di Hegel (“Filosofia. Rivista Quadrimestrale”, Anno LI, Fasc. III, settembre-dicembre 2000, pp. 401-426).[5] Servendosi della più recente critica di Christoph Jamme e Franco Chiereghin, Pallavidini decostruisce la vulgata italiana sul frammento hegeliano giovanile Die Liebe (1798-99), in cui si voleva vedere nella categoria di “amore” una forma mistificata del modello organicistico di Aufhebung degli opposti ed un’anticipazione di quel famigerato momento sintetico in cui doveva culminare il procedimento dialettico posteriore. Una discussione del pensiero filosofico-politico del giovane Hegel era stata offerta dall’autore nel 1991, con il saggio Hegel critico dell’autoritarismo (con prefazione di R. Bodei, Arnaud, Firenze 2012), precedente di un anno rispetto all’altro importante saggio di Domenico Losurdo su Hegel e la libertà dei moderni (Roma, Editori Riuniti, 1992), che meriterebbero di essere accostate per un confronto sulla concezione hegeliana della libertà. Nel saggio di Pallavidini il rifiuto da parte del giovane Hegel dell’opzione giacobina alla rivoluzione non è interpretato, sulla scorta della vulgata marxista, come mero riflesso di una condizione storico-sociale arretrata, bensì come espressione dell’esigenza intellettuale e pratica di rinvenire una “terza via” tra due forme di autoritarismo: quella atomistico-liberale e capitalista da un lato e quella organicistico-rousseauiana dall’altro[6] che culminerà poi nella dottrina dello stato commerciale chiuso fichtiano (1800). Tra i risultati della ricerca dell’autore si segnala la messa a fuoco dell’incidenza avuta dal secondo discorso di Rousseau nella riflessione del giovane Hegel, e della storicizzazione del modello di polis antica che prevaleva nell’ideologia rivoluzionaria giacobina, storicizzazione mediante la quale Hegel prenderà congedo dalle diverse forme di organicismo politico dedotte in modo affatto antistorico dalla “libertà degli antichi”. Nel quadro dello studio di Pallavidini, sarebbe stato interessante l’enucleazione della critica hegeliana alla teoria politica contrattualistica, quale verrà formulata in particolare nel ricco § 258 dei Grundlinien, che si pone come modello teorico comune tanto del liberalismo quanto dell’organicismo rousseauiano.
Al di là dell’“anacronismo ermeneutico” relativo alla fase francofortese del pensiero giovanile hegeliano (1797-1800), nel suo saggio del 2012 Pallavidini imposta l’esigenza più generale di una revisione dell’interpretazione hegeliana e del ricco periodo in cui si colloca la sua opera, per la quale ha dedicato una Introduzione alla filosofia classica tedesca (Noctua, Bari 2004) che si fregia di una prefazione di Costanzo Preve. Ma la storia della confusa lettura italiana del filosofo di Stoccarda, a detta di Pallavidini, si può rinvenire proprio nella ricezione di Cusani, «un sincretismo fra Schlegel, lo Schelling del primo periodo e Hegel, fra Romanticismo ed Idealismo hegeliano».[7] Fondamentale per i lettori italiani è la proposta di leggere la storia dell’hegelismo nel nostro Paese secondo due linee di sviluppo: da un lato una linea di tipo logico-formale sulla quale sono collocati Augusto Vera, Bertrando Spaventa e, si potrebbe aggiungere, Arturo Moni; dall’altra la linea di sviluppo contenutistica, cioè incentrata sui temi estetici e storici «ai margini del sistema»,[8] che interesserà, sebbene con molte riserve, Francesco De Sanctis e successivamente Benedetto Croce. La terza ed ultima parte del saggio è dedicata alla lettura gentiliana della filosofia di Hegel, alla sua declinazione fichtiana, ed all’ideale completamento filosofico dell’hegelismo nell’idealismo attuale o attualismo. Del pensiero di Gentile ne è brevemente ricostruito lo sviluppo: dalla ricezione dell’hegelismo, più basato sulla mediazione del suo maestro Donato Jaja, che su di un’attenta interpretazione storico-genetica del pensiero hegeliano,[9] all’interpretazione della filosofia della prassi marxiana e al suo recupero in chiave idealistica,[10] fino al più tardo sviluppo della dottrina dello stato etico e del corporativismo fascista.
Il saggio di Pallavidini segnala in una prospettiva di storia delle idee, a tratti molto severamente, “ciò che è morto in Hegel”, o meglio in parte dell’hegelismo italiano, quello deformato da prismi “esistenzialistici”, liberali e da pregiudiziali letture “romantiche” del filosofo di Stoccarda che ha finito col sedimentarsi nei testi di divulgazione liceale. Con tale segnalazione, l’autore suggerisce al contempo una nuova rilettura di percorsi teoretici che hanno preso le mosse dal periodo aureo della filosofia continentale in senso lato: quello della filosofia classica tedesca.
[1] L. ILLETTERATI, Back to Hegel, 7 dicembre 2014, articolo reperibile per intero al sito: http://www.hegelpd.it/hegel/back-to-hegel-un-articolo-di-luca-illetterati/.
[2] H.J. MACKINDER, The round world and the winning of the peace, in ID., Democratic ideals and reality: a study in the politics of reconstruction, National Defense University Press, Washington, 1996, p. 201.
[3] K. POPPER, La società aperta e i suoi nemici, vol II., Armando, Roma 2003, p. 93.
[4] R. PALLAVIDINI, Problemi di critica hegeliana in Italia. Le loro origini da Stefano Cusani a Giovanni Gentile, Noctua, Bari 2012, p. 60.
[5] R. PALLAVIDINI, ivi, p. 402.
[6] R. PALLAVIDINI, Hegel critico dell’autoritarismo. Il confronto critico con la Rivoluzione francese alle origini dei modelli teorici del giovane Hegel, cit., p. 44.
[7] R. PALLAVIDINI, Problemi di critica hegeliana in Italia. Le loro origini da Stefano Cusani a Giovanni Gentile, cit., p. 60.
[8] Ivi, p. 59.
[9] Ivi, p. 107.
[10] Ivi, p. 98.