Costanzo Preve, I secoli difficili.
feb 2nd, 2015 | Di Maurizio Neri | Categoria: RecensioniMaurizio Brignoli
Università degli Studi di Bari – Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze Filosofiche
I secoli difficili di Costanzo Preve è un’introduzione storica e teorica, integrata da una dimensione didattica, alla filosofia degli ultimi due secoli. L’elemento teorico che sottende il saggio è l’adesione ad una concezione veritativa della conoscenza filosofica intesa come “capacità di orientamento, individuale e collettiva, nella distinzione del Bene e del Male, che deriva da un’interpretazione della totalità espressiva del legame sociale in cui gli uomini sono inseriti” (p. 20). Capacità che non può essere data in modo definitivo, ma abbisogna di tre elementi: logos (inteso come confronto di posizioni differenti che presuppongono di poter giungere ad una verità non convenzionale) che si concretizza sul piano collettivo nell’ethos e si individualizza nel singolo come phronesis. Mentre la scienza della natura distingue i due piani del Bene/Male e del Vero/Falso in filosofia il Vero è anche Bene ed il Falso è anche Male.
La caratteristica filosofica della modernità occidentale viene individuata, sulla scorta di Gadamer, nell’assenza di un fondamento filosofico che faccia chiaro riferimento alla finitezza dell’uomo e della sua razionalità. Ci troviamo così con una razionalità illimitata senza capacità autoregolativa. All’interno di questo processo di “razionalizzazione irrazionale”, in cui il senso del mondo non più indagato in termini di verità perde ogni razionalità, la finitezza è sacrificata alle divinità della Scienza, della Storia, della Politica, dell’Economia. Il vero punto di svolta filosofico sta nella nuova concezione della storia come medium temporale omogeneo in cui si secolarizza il vecchio contenuto teologico eliminando, al contempo, il principio di autolimitazione. Superata la legittimazione religiosa è necessaria una nuova legittimazione politica (contrattualistica con Rousseau) ed economica (utilitaristica con Smith) che viene a fondare filosoficamente la modernità borghese. Per quanto apparentemente opposti Rousseau e Smith hanno un presupposto comune di tipo individualistico: la modernità nasce esorcizzando la solitudine, presupposto indispensabile per potersi pensare come luogo della sovranità illimitata della ragione attraverso la volontà politica e lo scambio di merci. Si ritorna paradossalmente ad una situazione di tipo “religioso” in cui si opera una delega ad un destino esterno e non controllabile con l’aggravante della perdita del senso del limite. Il filosofo che si è opposto a tutto ciò e che è stato il massimo interprete critico della modernità è stato Hegel. In Hegel il carattere veritativo della conoscenza filosofica è temporale, in quanto il tempo comporta finitezza e limite caratteristiche concrete dell’esistenza della verità, e circolare, in quanto la verità non necessita di un fondamento iniziale ma può essere ripercorsa iniziando da qualsiasi punto della concreta esperienza umana. L’affermazione del carattere veritativo della filosofia non ha un’origine astratta ed impositiva, ma in Hegel si sviluppa all’interno di una situazione teorica e pratica di critica a tre pretese astratte della modernità: la critica all’indebita assolutizzazione del metodo scientifico, all’assolutizzazione della finitezza storica e sociale, all’assolutizzazione del mondo economico moderno. La conquista di Hegel viene persa da tre grandi pensatori che negano il carattere veritativo della conoscenza filosofica: Comte, Marx e Nietzsche.
La filosofia hegeliana, borghese ma non ancora capitalistica, tramonta non per ragioni teoriche ma perché la nuova società industriale ha bisogno di una sua filosofia adatta alle esigenze di emancipazione degli strati popolari e piccolo-borghesi: il positivismo. Il cardine del positivismo è costituito dalla critica al valore veritativo della filosofia. Condizionato dal periodo storico (1815-30) in cui la religione e la filosofia dominanti cercavano di legittimare la società feudale Comte confuse una congiuntura storica con le caratteristiche eterne della filosofia; quando Hegel aveva già criticato la metafisica come teoria di un “Fondamento Primo” da cui partire.
Marx abbandona l’interpretazione veritativa della filosofia perché convinto dell’inutilità di duplicazione di una realtà già avviata a trasformazione a causa di una sua intima dinamica. La filosofia non serve più perché si trasferisce all’interno di una scienza della rivoluzione. Ripetizione inconsapevole del positivismo di Comte. In questo modo la geniale teoria dei modi di produzione, risposta alle richieste di elaborazione di una storia universale unitaria avanzata dalla modernità, si presenta con una carenza di critica filosofica, per la quale è necessario un livello di trascendenza logico ed ontologico che in Hegel vi è ed in Marx manca. Questo livello, secondo Preve, è sempre un idealismo e fra l’idealismo ed il positivismo (anche se chiamato materialismo) non vi sono vie di mezzo.
Nietzsche è inconsapevolmente uno dei pensatori più veritativi dell’occidente. La verità è che “Dio è morto” e quindi tramonta la possibilità di fondare validamente il comportamento umano. A questa situazione nichilistica non si può rispondere con un’impossibile teoria della verità, ma con una strategia antropologica. Soluzione già presentata da Hegel e da Marx come risposta alla fine di ogni fondamento metafisico. La soluzione di Nietzsche è però post-borghese: “lo Ubermensch nietzscheano è al di là della morale borghese, e dunque dello Spirito Oggettivo hegeliano” (p. 90). Nietzsche, che individua come nemici la democrazia ed il socialismo, offre in realtà alla prima l’argomento filosofico a lei più congeniale della riduzione della verità ad interpretazione e, d’altro canto, non sa che il general intellect marxiano, basata sullo sviluppo delle forze produttive e quindi su di un programma rivoluzionario non basato sull’invidia ed il risentimento sociale, costituisce il presupposto materiale dell’Ubermensch. Nietzsche e Marx pongono ad Hegel un inconsapevole tributo ponendo il principio esplicativo della propria filosofia (il Comunismo e l’Ubermensch) alla fine del processo storico e non all’inizio. Perdono però di Hegel il carattere veritativo della conoscenza filosofica.
La filosofia del Novecento, una delle meno originali, si muove all’interno delle tre utopie – scientifica (Comte), politico-sociale (Hegel e Marx), antropologica (Nietzsche) – ottocentesche. Weber porta a realizzazione il processo, opposto a quello hegeliano, di “razionalizzazione irrazionale”. Hegel ricerca l’universale tramite un’indagine veritativa logica ed ontologica, Weber fonda l’autocoscienza sul disincanto” e sull’assunzione irreversibile degli specialismi professionali come unico fondamento. È in realtà un passaggio da un’ideologia idealistica ad una nichilistica che segna la perdita di padronanza del soggetto borghese sul mondo sociale. Freud, riconoscendo il metodo scientifico quale unica forma di razionalità, critica il positivismo sulla base del positivismo stesso. Ed è proprio questo metodo scientifico che mostra il fondamento irrazionale della razionalità umana. In Freud abbiamo una concezione filosofica profondamente pessimistica derivante dal fatto che l’io non può basarsi filosoficamente su nulla se non sulla consapevolezza (di Weber e di Nietzsche) di un “disincanto totale”. Con Freud l’autocoscienza filosofica borghese giunge al capolinea.
È forse il rovesciamento dell’episteme in techne a costituire il DNA filosofico del Novecento. È merito di Husserl aver individuato la natura tecnica della scienza con la conseguente inversione di mezzi e fini e di aver tentato, come Bergson, di garantire alla filosofia uno spazio autonomo.
Il maggior problema filosofico del Novecento è costituito dalla legittimità o meno di una rivoluzione radicale contro il capitalismo. In Marx il comunismo si pone come una scienza complessiva dell’uomo, un’episteme. Questa nel comunismo storico novecentesco si trasforma in techne. Il fallimento del comunismo è così un caso particolare del fallimento generale del Secolo Breve nell’impostare il problema del rapporto fra economia, scienza, tecnica e vita quotidiana. Sia in Marx che in Calvino la centralità ontologica del volere umano, il libero arbitrio, viene negata al fine però di fondare la libertà al livello superiore della coscienza della necessità storica. La figura antropologica centrale del comunismo è la “libera individualità”, nozione mutuata da Hegel che, a sua volta, la deriva dal protestantesimo cinquecentesco. Ora però il marxismo ha respinto la trascendentalità idealistica della verità filosofica riducendo così la dialettica ad una narrazione manipolata dello svolgimento storico. Conseguenza inevitabile della trasformazione dello Spirito Oggettivo in Spirito Assoluto. Rinuncia che è nello storicismo positivistico dello stesso Marx.
Per quanto riguarda la riflessione antropologica, intesa come scienza filosofica globale dei comportamenti umani, il Novecento è stato testimone dell’esaurimento di progetti utopici infondati nati nel Secolo Lungo: il miraggio positivistico dell’Uomo Scientifico, il miraggio rivoluzionario dell’Uomo Nuovo ed il miraggio dell’Oltreuomo-Superuomo. Quello che Preve definisce il Massacro Amministrativo, le cui forme storiche principali sono il genocidio razziale e lo sterminio nucleare, è il segno della perdita completa di controllo dei soggetti sui prodotti della loro azione sociale. Adempimento di ordini giuridicamente legittimi e ideologicamente motivati il cui contenuto è il Male Assoluto. Il titolare del Massacro Amministrativo è l’Ultimo Uomo di Nietzsche: “prodotto terminale dell’oblio di ogni scienza filosofica dell’uomo, e dunque di ogni orizzonte veritativo della conoscenza filosofica” (p. 146).
L’economia finanziaria, religione dominante della globalizzazione, presenta la novità storica di una religione senza filosofia in quanto l’economia non è un’episteme autoriflessiva ma solamente una techne positivistica. La “società monoteistica di mercato a pensiero unico” (p.158) è il rovesciamento di Rousseau, dei marxisti e di Hegel. Questi sostenevano la sottomissione dell’economia alla politica (posizione che risale ad Aristotele) ed erano sostenitori di un’episteme come scienza complessiva dell’uomo e fieri oppositori di una trasformazione di questa in una techne non autoriflessiva. Adatta a questa situazione vi è comunque una filosofia il cui contenuto è il nichilismo e la cui forma è il metodo analitico: il primo scioglie la validità logica ed ontologica di tutto ciò che non è presenzialità del valore di scambio, il secondo distrugge ogni dimensione di coscienza storica.
Indice
Introduzione: Il carattere veritativo della conoscenza filosofica
Cap. I Le caratteristiche filosofiche della modernità occidentale
Cap. II La filosofia di Hegel come interpretazione della modernità
Cap. III Il positivismo di Comte come ritorno ad una visione non critica della modernità
Cap. IV La rivoluzione teorica di Karl Marx
Cap. V La filosofia del martello di Nietzsche
Cap. VI Dal secolo lungo (1789-1914) al secolo breve (1914-1991). Alcune chiavi teoriche per la comprensione della filosofia del Novecento
Cap. VII Il Novecento e il problema filosofico della scienza e della tecnica
Cap. VIII Il Novecento e il problema filosofico del capitalismo e della rivoluzione
Cap. IX Come evitare l’avvento dell’Ultimo Uomo. La riflessione antropologica nel Novecento
Cap. X La filosofia nell’epoca della globalizzazione economica mondiale
Conclusione Un percorso di verità e di libertà.
Nota didattica. Nota bibliografica
http://lgxserve.ciseca.uniba.it/lei/archivio/filearchiviati/recensioni/N6_AII_febbraio2001.pdf