Di Pietro, la Bonino, la sinistra e i cespugli.
mar 4th, 2010 | Di Stefano Moracchi | Categoria: Politica internadi Stefano Moracchi
Cos’hanno in comune Di Pietro e la Bonino? L’egemonia politica sulla sinistra e i cespugli del fu movimento comunista. Vediamo, più in dettaglio, in cosa consiste questa egemonia. Il crollo del muro di Berlino aprì un vuoto politico, culturale e sociale nella nascente formazione politica di quello che era stato il P.C.I. in Italia. Questo vuoto apparentemente fu riempito da Rifondazione Comunista. Apparentemente, perché più che un riempimento di quel vuoto, avvenne un riposizionamento fisiologico-politico. Lo spostamento provocato dallo scioglimento del P.C.I. ebbe, come naturale conseguenza, un travaso di posizione e non una elaborazione politica, culturale e sociale di quello che rappresentò la fine del comunismo storico novecentesco. La stessa cosa avvenne al neonato PDS.
Per il PDS la parola d’ordine fu: “si è chiusa un’epoca”. Per Rifondazione fu “non si chiude niente”.
Entrambe le formazioni erano figlie di un fallimento.
Per comprendere appieno il comune denominatore di questo fallimento bisogna fare un’astrazione concettuale di quello che rappresentarono gli anni ottanta per l’Italia appena uscita dagli anni di piombo. Per astrazione intendo una rappresentazione dell’Italia a livello mediatico, culturale, sociale e politico.
Gli anni ottanta mediaticamente furono il saccheggio culturale di tutto ciò che passava nelle televisioni degli Stati Uniti sia attraverso la televisione pubblica (moderatamente) sia a livello di televisione privata (spregiudicatamente).
Ma furono anche rappresentati come gli anni dell’edonismo e della voglia di spensieratezza, della doppia casa e dei viaggi nel mondo.
Questa rappresentazione contrastava drasticamente con le lotte operaie che avvenivano nelle fabbriche. In quegli anni vi fu il primo decentramento del potere aziendale e la crescente internazionalizzazione del capitale. La fabbrica non era più un luogo fisico ma una entità astratta dove le decisioni avvenivano in un non-luogo. Gli stessi sindacati andavano trasformandosi e le decisioni non rappresentavano più gli iscritti. La soppressione della scala mobile, e il decreto Craxi sulle televisioni private, segnò la fine di un’epoca e l’inizio della nuova.
Per la prima volta l’Italia visse l’esperienza schizofrenica, ovvero il contrasto tra percezione e realtà. A livello filosofico e di analisi del testo ne abbiamo una prova con il decostruzionismo, mentre a livello architettonico abbiamo Le Corbusier e in quello letterario Pier Vittorio Tondelli. Tutte queste espressioni sono figlie della doppia esperienza e della doppia lettura. Ogni testo nasconde un contesto, ogni classe ne racchiude un’altra, e così via.
Stava avvenendo una drammatica transizione sociale e politica che faceva tabula rasa di tutte le costruzioni concettuale del passato. Una transizione è anche una trasposizione di una posizione in un’altra. Soltanto che l’approdo non è stato raggiunto e la meta è soltanto percepita ma non realizzata. È una tensione infinita che si maschera di individualità miste, di travestimenti culturali e di genere.
Il crollo del muro di Berlino avviene alla fine di questo movimento transitorio. È percepito come liberazione a livello mediatico-culturale e come problematizzazione a livello politico. L’incognita di cosa ci potesse essere dietro quel muro rendeva tutto più incerto.
Occhetto, a Bologna, alcuni giorni dopo il crollo del muro, in una sezione del P.C.I., detta la Bolognina, parlando con alcuni giornalisti manifestò la decisione di guardare al futuro e di costruire una cosa più bella e più grande.
La svolta della Bolognina era già segnata da quelle riflessioni. La Cosa ebbe un destino di transizione infinita che perdura ancora oggi e si dibatte tra percezione e realtà.
Il 1991 segna il primo passaggio simbolico.
Avviene la prima chiamata con cellulare GSM dalla rete finlandese. Vede la nascita del World Wide Web e la messa on line del primo sito Web. Il 1991 è anche l’anno del famoso lodo Mondadori e la guerra tra De Benedetti e Berlusconi. Sempre nel 1991 si scioglie a Riccione Democrazia Proletaria per confluire nel Movimento per la Rifondazione Comunista.
Ma vede anche lo sbarco di 12000 profughi albanesi. La guerra del Golfo. Il sequestro di Gorbaciov e l’elezione di Eltsin. L’indipendenza della Croazia e della Slovenia. In Italia abbiamo il picconatore Cossiga esaltato dal movimento sociale di Gianfranco Fini.
Il referendum sull’abolizione delle preferenze multiple che segna il passaggio alla stagione referendaria guidata da Segni con il beneplacito di Amato e dei radicali di Pannella. Le resistenze di Craxi e il famoso invito agli italiani ad andare al mare segnerà la sua fine politica e l’apertura della stagione di Mani Pulite.
Mani Pulite non si capisce se non si capiscono gli anni ottanta e in special modo il 1991.
La guerra tra De Benedetti e Berlusconi era una guerra economica per finalità politiche, o meglio, era una guerra politica giocata a livello economico.
De Benedetti e Berlusconi rappresentavano la divisione, la frattura che aveva segnato il crollo dell’Unione Sovietica.
Mani Pulite è figlio di questa guerra.
Ma non bisogna sottovalutare il ruolo di Pannella e dei radicali. I radicali hanno sempre costituito la spina nel fianco del P.C.I. e del PDS, DS e PD dopo. Li hanno incalzati sul ruolo dei sindacati (descritti come lobby affaristica), sull’articolo 18 come difesa dei soli privilegiati, sulla legalità delle droghe, sulla laicità dello Stato, sulle coppie di fatto, sulle questioni bioetiche, il problema carceri, sull’eutanasia ecc…).
A questi attacchi, quello che restava del fu P.C.I., si rispondeva con balbettii, con frasi di circostanza, con il detto e il non detto. Pannella aveva compreso che succhiare linfa da quell’organismo molto più grande di lui era gioco facile. Ma avvenne un imprevisto. La discesa in campo di Silvio Berlusconi.
Pannella comprese l’opportunità politica di questa alleanza quando Berlusconi partecipò al loro congresso dichiarando che il loro programma era il suo programma. Frasetta magica che Berlusconi ripete in ogni dove: Confindustria, Confesercenti, Confartigianato ecc.
Berlusconi, non essendo un politico, ma un uomo di affari, come tale fiuta la convenienza e poi lascia di stucco la preda. Pannella si bruciò le ali e dovette fare delle piroette e delle giravolte per ritornare a succhiare il sangue di quello che fu il P.C.I.
Berlusconi fu la naturale evoluzione dell’operazione Mani Pulite. Gli era stata concessa su un piatto d’argento l’opportunità di rappresentare l’unico argine allo strapotere dei comunisti.
La definizione di comunista per una Cosa che non sapevano neppure i loro creatori (in quanto sfuggitagli di mano per mancanza di elaborazione concettuale) cosa fosse, inchiodò la Sinistra a giocare di rimessa continua, a lasciarsi trasformare dalla forza mediatica e finanziaria di Berlusconi.
Di Pietro comprese l’opportunità di inserirsi in questo ventre molle. All’inizio lo fece maldestramente come ministro, poi con la sua formazione politica. Per alcuni anni insignificante numericamente, perché l’antiberlusconismo era in mano agli approssimatori della politica, DS e Rifondazione e prima e, dopo la scissione, pure del PdCI.
L’antiberlusconismo andava bene a più della metà del paese ma non era sufficiente quando si era al governo. Di fatti al governo gli antiberlusconiani si inventarono la Bicamerale (famose le vignette che ritraevano Berlusconi e D’Alema dentro il letto matrimoniale), la tregua armata (il ricatto di fare delle leggi punitive in cambio di lasciarli governare in pace). Berlusconi subì la sua sconfitta, con l’uscita della Lega, come la più grossa opportunità politica che gli fosse mai capitata.
I DS ebbero la bella pensata, attraverso Scalfaro, di passare sulla testa degli elettori con i soliti ritrovati dei governi tecnici. E il governo Amato (quello dell’accordo per la fine di Craxi attraverso i referendum Segni e l’inizio della stagione Mani Pulite) fu la fine anche della tenuta dell’elettorato di sinistra. A livello sociale fu una mattanza. Per la prima volta il ceto medio sentiva il fiato sul collo. Berlusconi venne percepito come vittima e non come carnefice.
L’abbraccio dei DS con la Lega fu un’altra bella pensata di chi non sa pensare (la famosa costola della sinistra).
In quegli anni Pannella elaborava la famosa distinzione tra Corleonesi e Palermitani per indicare la sua distanza dagli uni e dagli altri. Intanto però l’abbraccio con i DS era sempre più stringente. Questo abbraccio metteva in difficoltà la Margherita capeggiata da Rutelli che pure dei Radicali era stato segretario. Ma siamo in piena epoca di transizione e le distinzioni sono per lo più di genere.
La argherita cresceva elettoralmente, ma il fatto significativo era che non si comprendeva più la differenza tra le due formazioni.
Di Pietro intanto incalzava marginalmente i DS, che nel frattempo lasciavano sempre più correre l’antiberlusconismo (pensando che non pagasse più a livello elettorale, mentre non pagava più perché non avevano una politica che li identificasse).
Veltroni, come Rutelli prima di lui, costruiva il suo modello romano affinché potesse essere esportato a livello nazionale. La pacificazione sociale, l’assenza di distinzioni in politica, i viaggi in Africa come pulizia a buon mercato della coscienza, del sì ma anche, sembrarono l’occasione ghiotta per l’unificazione di Margherita e DS.
Siamo in piena approssimazione della politica.
Si parla di sufficienza politica, di smarcamento dagli estremismi e di aspirazione maggioritaria.
Non si capisce nulla, ma il nulla viene condito con telecamere piazzate sullo sfondo di borghi suggestivi e di primi piani di un Veltroni che parla in nome di una nazione riconciliata finalmente.
Imbarca i Radicali Italiani come parlamentari eletti nella lista del Pd e stringe alleanza con Di Pietro con la promessa di un suo scioglimento nel PD.
Rifondazione non avendo trovato cosa migliore che mandare Bertinotti alla presidenza della Camera e votare tutto quello che passava il convento di Padre Prodi si ritrova alle prese con la conquista della segreteria (urgenza delle urgenze!). Stessa cosa per quelli del PDCI (che non hanno il problema della segreteria perché trovano naturale che sia colui che porta la responsabilità della sconfitta a predicare su quello che non va e a dire quello che deve essere fatto) con l’aggravante che nel loro DNA vi è la scissione da Rifondazione, colpevole di aver fatto cadere il governo Prodi. Quindi per loro votare l’indigesto deve essere normale. Dopo questa prova del cuoco che non aveva mai cucinato, si ritrovarono ad affrontare prove elettorali aggravate dallo sbarramento e dalla definitiva perdita di voti elettorali. L’accozzaglia dell’Arcobaleno sembrava essere l’ultima prova della propria inconsistenza. Invece arrivò la Federazione della Sinistra a complicare la situazione.
Quando la politica fa fatica a trovare i suoi riferimenti culturali succede che quegli stessi riferimenti diventano “artifici”, cioè rappresentazioni di qualcosa che è stato e che non può più essere, e pur tuttavia non è ancora possibile sostituire.
Eppure, questo mondo politico, mondo fittizio e pur vivo, sicuramente convenzionale ma non meno concreto e ricco di conseguenze del cosiddetto mondo reale, è sempre una costruzione umana anche se necessitata più che necessaria o, se si vuole, necessaria perché necessitata.
In ogni epoca storica quando si crea un vuoto in politica, proprio perché è impossibile un’assenza politica, è lo stesso vuoto a colmare l’assenza.
Il vuoto diventa il buco nero che assorbe lo spazio politico per tutto il tempo necessario a ricreare quello spazio concreto perduto.
È in questa assenza-presenza che le forze in campo cercano di ricreare il senso politico perduto.
La creazione di senso non può essere autoreferenziale ma deve, in qualche modo, essere assorbita tramite il senso comune.
Ora, siccome il senso comune è una costruzione nel tempo e negli spazi politici periferici rispetto alle istituzioni, si crea una frattura “temporale” tra il vertice politico istituzionale e le istituzioni periferiche del senso comune.
I tempi e gli spazi del vertice politico non possono “aspettare” che il senso comune costruisca la sua rappresentazione politica e, tuttavia, non possono ignorarlo completamente.
L’unica alternativa possibile è quella di “riformare” completamente le regole del gioco “democratico” oppure creare un “artificiale” senso comune e farlo passare come espressione della volontà generale manifestatasi nel “voto democratico delle libere elezioni”.
Al momento si è scelta la seconda strada, anche perché non c’era scelta. Per intraprendere la prima bisogna avere un’idea della politica che possa fare a meno della mera gestione della cosa pubblica (con tutto quello che significa e che verrà contemplato in un altro momento).
E qui veniamo al rapporto tra politica e democrazia ( e cosa significa oggi) e, propriamente, al rapporto tra democrazia e partiti, ovvero la questione democratica all’interno dei partiti.
La questione democratica all’interno dei partiti è una falsa questione e lo è per via del significato che “comunemente” ha finito per significare “democrazia”. Se per democrazia intendiamo la possibilità per ciascuno di potersi occupare della direzione politica di un partito questa è pura demagogia democratica che viene sollevata sofisticamente quando la vita di un partito non produce più politica ma solo gestione del partito. E vediamo perché.
La forma democratica di partito è un falso problema proprio perché un partito non si fa carico delle forme della politica ma della sostanza politica. La sostanza politica è quella che poi dà corpo al partito e in seguito da quel corpo prende le forme.
Oggi, proprio in virtù dell’assenza culturale dei riferimenti politici, si passa prima per le forme, illudendosi poi di sostanziarle o peggio di credere che proprio attraverso quella forma che si trovi la sostanza politica.
In assenza quindi di “cultura politica” e d’obbligo il passaggio alla forma.
Questa “forma” prende sempre “corpo”.
Il corpo si forma attraverso una serie di candidati che si sottopongono al voto di un’assemblea ristretta oppure ad un appello “generale” al popolo (ultimamente abbiamo assistito ad un partito che ha percorso entrambe le strade!), come pure il corpo prende forma attraverso il carisma del leader “riconosciuto” come tale e quindi sia l’assemblea che il voto del popolo trovano riscontro in lui.
Queste considerazioni sintetiche riguardano la politica che occupa la maggioranza della popolazione.
Poi vi è la politica che preoccupa la minoranza della popolazione. I due piani chiaramente non viaggiano su binari paralleli ma su due sponde opposte di uno stesso fiume. La minoranza della popolazione, cioè quella che non ha più i propri riferimenti politici nelle forme partito, è quella che si interroga sulla politica in generale e sulle sue possibilità di evoluzione o involuzione, che cerca di trovare un senso politico, ovvero coloro che sono fuori dal modo di produzione.
Ci sono ottimi spunti.
Mi piacerebbe sapere meglio però secondo te quale piano antropologico sono riusciti ad occupare magistralmente la Bonino e Di Pietro all’interno dell’immaginario del popolo di sinistra.
La mia idea è che oramai il cosiddetto popolo di sinistra si divida in quattro specie del tutto integrate nella forma sociale capitalistica:
1- sinistra del tutto normalizzata, autopercepentesi come moderata e “riformista liberale”, moderatamente laica ma non troppo, bipolarista, occidentalista etc etc, un po’ sociale, un po’ per il libero mercato, un po’ moralista ma senza eccessi ..votanti del pd
2- sinistra legalista, moralista, fanaticamente antiberlusconiana, che vorrebbe risanare ogni corruzione del paese, un po’ sociale ma non troppo, laica votanti dell’Idv
3- sinistra liberal-liberista-laica, radicale, occidentalista, individualista, libertaria, trasgressiva-intelluttuale votanti radicali
4- sinsitra pseudo-anti-sistemica libertaria, laica, sociale in forma equivocata, movimentista, antiautoritaria, occidental-femminista votanti di Sinsitra e libertàe-o di rif.com.
5- barlumi di resistenze anticapitalistiche, anche se ricche di equivoci…o non votanti o votanti imeperterriti di rif.com pdci o partitelli minori
La sinistra ha introiettato il concetto di politico come semplice criterio moralista degli eccessi liberistici e disegualitari del capitalismo togliendo, in tal modo, ogni contenuto di conflitto strategico alla politica stessa.
Per quanto riguarda il PD, l’IDV, i Radicali, Sinistra e Libertà, Federazione della Sinistra e Verdi, il problema che si pongono è la critica all’economia di mercato. Lo fanno con diverse accezioni ma sempre con la stessa visione: ignorare la critica alla società di mercato.
Perché il problema è che il capitalismo non è solo economia di mercato ma riproduzione sociale dell’economia di mercato.
Una volta che si è accettato che la società di mercato non va criticata, ma assunta come condizione ineluttabile, ogni critica all’economia di mercato è solo e sempre in funzione del sistema di produzione e riproduzione capitalistico.
Per fare un esempio pratico: non si tratta di sapere come deve essere trattato uno schiavo, ma piuttosto di eliminare la condizione di schiavitù ad un essere umano.
Ma una volta che si è espunta la critica alla società di mercato si finisce inevitabilmente nella critica liberale, e siccome in questo campo i Radicali giocano in casa, è inevitabile che hanno la meglio sui dilettanti. Allo stesso modo l’arma giustizialista di Di Pietro non è altro che una visione dello stesso pensiero liberale.
Il pensiero liberale si è sempre posto in maniera critica verso l’economia di mercato ma ha sempre accettato la società di mercato come valore inviolabile.
Ti ringrazio per il commento.
Considerazioni interessanti ma, a mio parere, troppo giocate sul politico e poco sul sociale. In altri termini, viene sottaciuto il fatto che l’apocalissi della sinistra è strettamente connessa al crollo, percepito come improvviso anche se non lo fu, delle premesse strutturali (termine marxianamente inteso) del proprio insediamento.
Si deve ricordare che, nel nostro paese, il periodo di sviluppo e di egemonia del lavoro industriale fu particolarmente breve. L’industrializzazione del “miracolo” (1956-64) fu immediatamente tallonata dalla terziarizzazione e dall’affermarsi della società dei consumi, per cui l’egemonia del PCI sulla classe operaia (in buona parte di recente formazione) non ebbe neppure il tempo di consolidarsi. Se già nel 1959 Amendola dichiarava: “non ci faremo sedurre dalla civiltà del frigorifero e della televisione”, significa che appunto questo temeva (non era stupido l’amico!) e non a caso, qualche anno dopo, lui stesso proponeva la fine del PCI e la formazione, insieme al PSI, di un grande partito apertamente sociasldemocratico.
In ogni caso, i primi anno Ottanta, dalla “marcia dei 40000″ al referendum (perduto) sulla scala mobile, si consuma – stante anche il crollo del mito sovietico dopo Praga (1968) e la frantumazione del “campo socialista” – la breve esperienza del togliattiano “partito nuovo”.
Allo scadere degli anni Ottanta, crollano, insieme, il suddetto “campo”, la classe operaia e la sua cultura, le linee strategiche della giraffa togliattiana che certo esistette, ma era un animale troppo strano – mezzo socialdemocratico e mezzo stalinista – per sopravvivere al vento dell’Ovest.. Non rimanevano che macerie.
Non voglio difendere o giustificare Occhetto & Co. – del resto, se non sono tuttora capaci di farlo loro… – ma posso capire come, di fronte ad una simile catastrofe un gruppo dirigente si ritrovi come un pesce fuor d’acqua, venga preso dal panico più cieco e dal disperato desiderio di un ancoraggio qualsiasi (Pannella, Di Pietro, il diavolo…).
Quanto ad un bilancio del passato, troppo difficile. Ci vuole una levatura che i nostri non avevano e non hanno, ci vuole coraggio, e il coraggio, come osserva Don Abbondio, è una cosa che se uno non ce l’ha non se la può dare.
Naturalmente non è tutto qui, ma quello che Morlacchi ci racconta è connesso ad una storia che, alla luce della considerazioni appena svolta, dovrebbe essere più chiara.
Nino Salamone
Grazie Nino del commento.
Mi piace sottolineare il rischio massimo che il pensiero presenta all’essere che ne è depositario: quello di diventargli carcere, di non dargli possibilità di movimento.
Nasciamo sempre in un contesto storico, in un’atmosfera satura di idee completamente estranee a noi, ma che assorbiamo, che lasciamo annidare nel nostro io, prima inavvertitamente, poi fatalmente.
Io credo che bisogna almeno provare a rompere quella maglia e a modificare la situazione.
Il merito di lasciare un segno su una pagina vuota è quello di invogliare qualcuno a completarla, modificarla, fino a renderla altra cosa da chi l’ha concepita.
Per questo ti sono grato di ciò che hai scritto.
Un saluto,
Stefano Moracchi
Ringrazio te, e ti invito ad andare avanti perché senza un’analisi del passato nessun presente è di fronte a noi, se non quello deciso, e offerto al nostro sgruardo, da altri più potenti (in senso weberiano) di noi stessi. Un passato fatto di teorie e di pratiche sociali, variamente intrecciate, un passato la cui illuminazione è certo estremamente difficile ma altrettanto estremamente necessaria.
Dobbiamo osservarlo da qui, da una società, lo constato in particolare fra i miei studenti, serenamente ignara di quanto è accaduto nel ’900 e anche prima. Per un ventenne di oggi Giulio cesare, Bonaparte o Stalin, appartengono tutti ad un indefinito e oscuro “tempo che fu” dove tutto si confonde e comunque non interessa. Noi, invece, abbiamo il dovere d’interessarcene, giunti, come siamo o almeno come ritengo, al crepuscolo della societò borghese e all’alba della società individualistica di massa i cui critici devono ancora costruire le categorie sulla cui base tracciarne le coordinate.
Marx? E’ importante, indubbiamente (in fondo la illuminato la logica profonda del capitalismo) ma ci sono elementi portanti del suo discorso che credo vadano abbandonati. Prima, fra tutti, l’idea di un nesso strutturale fra il capitalismo e le classi – la borghesia in particolare – che vegliarono sulla sua culla. E se si trattasse di un nesso soltanto storico? Se potessimo immaginare un modello di capitalismo che non ha più bisogno di un’etica dell’accumulazione ma di un’tetica del consumo? Che poggia su di un’etica della convinzione e non su di un’etica della responsabilità? Che si fonda sul circuito desiderio-soddisfazione-nuovo desiderio e assai meno sul circuito “risparmio”-capitalizzazione-investimento (industriale)? Hai presente Boltanski (ma in fondo ci stava arrivando già Rosa Luxemburg…)?
In altri termini, dobbiamo confrontarci, oggi, con un capitalismo “liquido” (rubo il termine a Bauman) che non sa che farsene della borghesia (quella di Marx, Weber e Thomas Mann) e della sua cultura, e neppure sa che farsene del proletariato, ormai affogato in una indistinta marmellata sociale simile a quella costituita dal pubblico di un qualsiasi concerto rock dove il figlio di un grande manager e l’ultimo precario indossano la stessa divisa (i jeans) e partecipano dello stesso rituale.
Mi pare questa, almeno in superficie (ma le superfici contano) la realtà con la quale dobbiamo fare i conti, e con la quale i conti non fece (probabilmente non ne era in grado, date le sue categorie di pensiero) la “giraffa” togliattiana. A mio avviso, la storia del declino del PCI, e anche della DC se vuoi, è la storia del parallelo declino della borghesia e del proletariato industriali, costituenti di una crisalide che ha, alla fine, liberato la farfalla del capitalismo “liquido” , con al verttice una “superclass” figlia del capitale finanziario e alla base una gigantesca accozzaglia di “gente” in cerca di una identità che, almeno per ora, sembra ritrovare solo nei negozi di Zara e nei rituali solipsistico/collettivi del “grande fratello” e delle partite di pallone.
Credo, e chiudo perché sono stato troppo lungo anche se ho detto troppo poco, che abbiamo bisogno di economia, sociologia, antropologia, psicologia delle folle… di Marx come di Adorno, di Freud come di Bauman. Usati, però, liberamente e creativamente, e senza trimore di calpestare, avvertitamente, qualche alluce.
Ottima analisi quella di Moracchi che rende giustizia alla oramai dilagante assuefazione di regime.
Ho avuto il piacere di ascoltare ieri la sua lezione sull’attuazionismo.
Mario
Effettivamente non è possibile concepire qualcosa di diverso (ma anche leggere il nuovo che avanza) se si continua ad usare strumenti concettuali che appartengono a un mondo scomparso, un continente interpretativo cancellato dalla storia, una specie di Atlantide inghiottita dall’oceano della amnesia.
Bisogna necessariamente cercare, tentare e trovare un concetto chiave che faccia avanzare l’analisi, che potrebbe aprire nuove possibilità, come quello di “affinità elettive”, nel campo della sociologia. Termine che compare già in Goethe e Max Weber e, per chi scrive in “Comunismo e Comunità”, cerca nel concetto di comunità questo sottile filo.
E’ indubbio che si deve provare a ricostruire, nella sua unità niente affatto omogenea del passato, tutto un universo culturale socialmente condizionato.
Grazie Nino per la tua riflessione.
Ci piacerebbe poter ospitare in questo sito, qualora lo volessi, un tuo scritto.
La mia mail è stefanomoracchi@alice.it
Stefano
Ciao Stefano questo articolo mi è piaciuto molto. Concordo con le tue osservazioni su forma e sostanza e sul prevalere della prima in mancanza della seconda. Come accennavo a Lorenzo qualche giorno fa uno delle problematiche filosofiche principali oggi giorno è tentare di riuscire a costruire delle coppie di concetti che abbiano dei riferimenti il più concreti possibili. Essi vanno sostituiti alle obsolete coppie concettuali novecentesche. Per fare ciò dobbiamo lavorare, come sostiene Nino, utilizzando tutti gli strumenti possibili senza farci troppe preoccupazioni dei fastidi altrui. Le vecchie parrocchie sono crollate e ora di costruire una nuova cattedrale.
Grazie Federico.
In effetti, come dice Nino, se vogliamo andare avanti, inevitabilmente qualche alluce dobbiamo pestarlo.
Purtroppo c’è sempre chi vorrebbe camminare in avanti con lo sguardo rivolto all’indietro.
Dici bene, le vecchie parrocchie sono crollate, ma c’è sempre qualche gruppo che s’attarda nei muretti dirimpetto a quello che fu una volta l’oratorio. Ha timore di disturbarli. Li critica ma sta attento a farlo. Si cerca ancora di essere “accreditati”, gli si riconosce, in fondo, ancora una certa aureola. Si cercano “garanzie”, “patenti”.
Credo che il coraggio non sia altro che la voglia di affermare ciò in cui si crede.
Ciao Federico.