Matricola 76613. Il Mauthausen dimenticato di Aldo Valcarenghi
nov 25th, 2014 | Di Maurizio Neri | Categoria: Recensioni
Daniele Orlandi, Matricola 76613. Il Mauthausen dimenticato di Aldo Valcarenghi, Petite Plaisance, 2014
Maurizio Neri
L’ultimo libro di Orlandi, dedicato alla trascurata figura di Aldo Valcarenghi, antifascista e resistente – fondatore nel 1943 del Movimento di unità proletaria con Lelio Basso, più volte arrestato, radiato, confinato, spiato dall’onnipresente OVRA e infine deportato nel Lager di Mautuausen-Gusen – nasce col doppio intento di restituire fotogrammi biografici su un protagonista della lotta di Liberazione in Italia e riproporre nel dibattito storiografico il tema di un antifascismo «minoritario ma non minore» (p. 30) che, in dissenso con la politica del CLN, alla fine della guerra finì per sciogliersi nel più vasto mare dei partiti di massa: la storia del MUP, dei cristiano sociali, del Movimento di Bandiera Rossa e altri gruppi secondari.
Ma il cuore del libro ruota intorno alla biografia impossibile di Aldo, figlio dei Valcarenghi di Casa Ricordi e padre dei Valcarenghi contestatari della rivista «Re Nudo». Un percorso a ritroso, dal 1968 anno della grande contestazione e della morte di Aldo ai primi del Novecento, a dimostrazione di una continuità familiare, sia pure nelle sue diverse declinazioni, del sentimento antifascista. Pochissime, avverte l’autore, le fonti a cui attingere. La parabola valcarenghiana parte dal socialismo liberale di Giustizia e Libertà, passa per il marxismo classista del MUP e rientra obtorto collo nel PSIUP per approdare a una socialdemocrazia filo atlantica con la partecipazione alla fondazione del PSLI (poi Partito socialdemocratico) con Giuseppe Saragat, scelta che in sostanza coincide con l’abbandono della vita politica, nel 1948. Una storia che si può ricostruire solo in parte, mettendo insieme scarsi tasselli – diari di compagni di Lager e alcune citazioni nelle storie del socialismo italiano – uniti soltanto dal mastice del contesto storico e politico con cui Orlandi affresca le pareti di questo agile volumetto.
Su tutti, è il tema del Lager e dello scrivere dopo il Lager, ad occupare la parte più significativa del libro: quei dieci frammenti su Gusen che Aldo scrisse al suo rientro dalla prigionia e che, pubblicati nel 1946 su una rivista di Partito, fino ad oggi non videro più la luce. Un’edizione commentata e annotata che si rivolge a un pubblico colto e insieme non specialista. Gli «acquerelli sul Lager» (p. 9) rivelano anche l’ottimo narratore che era in Aldo e che egli stesso si premurerà di soffocare non lasciando altro di scritto, fatta eccezione per qualche documento di Partito. «Non intendo», scrive Valcarenghi, «qui richiamare ricordi spaventosi e descrivere ancora una volta i fatti a tutti troppo noti. Ciò che vi era di più crudele lassù, e che nessuna cronaca può rendere, era l’atmosfera di cupo e allucinato surrealismo in cui le forze dello spirito si decomponevano, lentamente» (p. 71). Sta qui, ipotizza Orlandi, la ragione della scelta del frammento: nell’impossibilità di legare gli aneddoti al connettivo quotidiano delle tenebre, del freddo e della fame, e della morte intorno. Qui si gioca la partita tra l’esperienza inenarrabile del sistema concentrazionario e la sua riscrittura. Una sfida che sembra essere perduta in partenza – ed anzi l’autore non nasconde il suo pessimismo quando parla di solitudine del reduce e solitudine dello storico – per via di un destino che consente sovrapposizioni asimmetriche ma non saldature.
Questo di Orlandi non può essere considerato un libro di storia propriamente detto né un tentativo di critica letteraria: è, verosimilmente, uno studio impregnato di postmemoria, oggi che di testimoni diretti non ce ne sono quasi più e la parola passa al mero documento e alla buona e cattiva fede di chi deve farlo parlare. Poiché a non esistere non è soltanto ciò che nacque mai ma anche, e forse soprattutto, ciò che è dimenticato.