Le disobbedienze dimenticate di Franco Fortini

nov 16th, 2014 | Di | Categoria: Recensioni

poliscritture

 

di Ennio Abate

Pubblico il testo riveduto della relazione che ho tenuto ieri sera alla Libreria di Via Tadino a Milano per il ciclo “Ragionamenti su Fortini” curato da Paolo Giovannetti. In questa rilettura a distanza di decenni degli articoli pubblicati da Fortini su «il manifesto» ho voluto soprattutto dare un’idea del loro contenuto, della sua passione politica, della ricchezza degli spunti presenti nei due volumetti e dello stile di una scrittura “di servizio” ma formalmente curatissima. Da qui l’abbondanza e la puntualità delle citazioni e la riduzione al minimo del commento. Contro le troppo facili e affettive “attualizzazioni” ho insistito a usare i verbi al passato e tentato di parlare a chi di Fortini sa poco o nulla. I numeri tra parentesi si riferiscono alle pagine dell’edizione 1997. [E.A.]

 

Parto da alcuni dati. Gli articoli apparsi su “il manifesto” e raccolti sotto il titolo di «Disobbedienze» in due volumi: 1972-1985 (Gli anni dei movimenti); 1985-1994 (Gli anni della sconfitta) sono più di 120. Molti si addensano in particolari anni (1975-‘77; 1990-‘94). E grande è la varietà dei temi. Quelli sulla funzione degli intellettuali o la critica alle cautele ipocrite della Sinistra. Delle vere schede critico-politiche su letterati e critici riesaminati a distanza di tempo e sulla base di ricordi personali. (Ne troviamo su Ariosto, Manzoni, Pavese, Noventa, Adorno,Asor Rosa, Pasolini, Contini, Landolfi, Luperini). Alcuni toccano il cinema (il documentario di Michelangelo Antonioni sulla Cina; Bergman di Sussurri e grida; Straub) de I cani del Sinai) e la poesia. Ma i principali riflettono direttamente su «questioni di frontiera»: la crisi dell’Urss letta anche attraverso la lente dei samizdat del dissenso; il movimento del ’77; il lottarmatismo (la «falsa guerra civile»); il caso Moro; il processo del 7 aprile; la guerra del Golfo.

 

Fortini e il “Manifesto”

Fortini collaborò col «il manifesto» – un giornale nato in stretto rapporto all’imprevisto e promettente emergere dei movimenti del biennio ‘68’-‘69 – in un periodo divenuto già meno favorevole al tentativo di rinnovare la tradizione della sinistra comunista italiana. I giochi però non erano ancora fatti e pareva ancora possibile guardare in modo critico, marxista e comunista gli avvenimenti e sperare di influire sulle scelte di una società in trasformazione. E quel giornale, che poggiava su una rete di militanti sia della sinistra storica che extraparlamentare organizzati in sedi e comitati territoriali, aveva un buon seguito, incomparabile con quello che oggi riesconoad avere siti e blog politico-culturali.

Quando, dunque, questo scrittore – già maturo (nel ’72 Fortini aveva 55 anni) e abbastanza noto, poeta, saggista, ex socialista, attivo negli anni precedenti nelle più importanti riviste della sinistra critica o eretica (Politecnico, Ragionamenti, Officina, Quaderni Rossi, Quaderni Piacentini) – accettò la sfida di scrivere per «il manifesto» appena nato, sapeva di operare in un giornale povero e disordinato. In un articolo accennò al «disordine profondo (e in gran parte inevitabile, a meno che non si abbiano alle spalle molti milioni di elettori o molti miliardi di industriali) della attività verbale delle sinistre» (99,I). Conosceva i limiti di quella committenza: «ti fanno quasi considerare un regalo la pubblicazione di un tuo intervento» (99,I). Sapeva che vi avrebbe lavorato gratis («tre quarti del lavoro che presto da qualche decina d’anni è lavoro gratuito», 99,I).

Di cosa pensò d’occuparsi? Lo dice lui stesso in uno dei primi pezzi (ed è un programma): invece che di un «proletariato immaginario, dotato di un robusto stomaco hegeliano che digerisce i suicidi-omicidi, il disoccupato che sgozza i figli, chi si dà fuoco per testimoniare, i condannati innocenti, i traditi, il gruppo dell’ultima barricata o del ghetto in fiamme, la classe o il popolo intero votato per secoli al silenzio e allo sterminio» voleva trattare della «disperazione che non rientra nel discorso “marxista”, dei «dannati della terra che non sono una metafora del primo verso dell’Internazionale» (28,I). E, per farlo al meglio, attingeva al serbatoio dalla sua precedente esperienza di scrittore e di studioso di letteratura e alla sua memoria storica di militante politico. Per scegliere figure esemplari del passato da confrontare con quelle che al presente scorrevano vive, inquiete, da decifrare. Voleva intendere il presente, la cronaca, ma alla luce delle speranze, degli sdegni, delle sconfitte, della miseria, delle tragedie del passato. E direi che lo volle fare proprio da poeta, da scrittore.

In un articolo si soffermò proprio sulla differenza fra scrittore e giornalista (98,I): «Il giornalista scrive in fretta e sa o dovrebbe sapere ormai quasi d’istinto, che cosa può e non può scrivere»; «lo scrittore è uno che ha bisogno di manovrare in un certo modo non questa o quella parola o frase ma una o più pagine, uno o più saggi o libri» (98,I). E lo fece per ribadire che restava scrittore, anche se faceva del giornalismo: prendeva spunti dalla cronaca o da articoli altrui, si calava dentro un evento o una disputa intellettuale, ma sempre per ricondurre la cronaca a un problema generale.

Aveva uno stile riconoscibile. Ad es. i suoi interlocutori erano sempre precisati con nome e cognome. Erano a volte gli stessi giornalisti de «il manifesto» (23,I). Fortini – sottolineava Rossanda nella prefazione del 1997 a «Disobbedienze» – voleva dialogare, convincere, si appellava a una dottrina, quella marxista. La riteneva condivisa anche dagli altri – i compagni (parola allora ancora sensata) – e voleva però criticare, arricchire, correggere quella dottrina e quella tradizione, imparando dal «guazzabuglio vitale» (ancora Rossanda) in cui si muovevano tanti giovani che abbracciavano focosamente e disordinatamente frammenti delle più varie e contraddittorie ideologie di un passato secolare: giacobinismo, estremismo cristiano-medievale, anarco-situazionismo, «marx-leni-trotzkismo» (23,I).

Cosa portò di suo lo scrittore Fortini ne «il manifesto»? Innanzitutto un’attenzione storico-politica alla lingua, nella quale sctorgeva ad occhio le gerarchie classiste o di potere. Nel secondo dei tre importanti articoli intitolati «Scrivere chiaro» del 1974 diceva: «[Chi scrive ( e chi parla)] suppone un destinatario capace di decifrare il suo messaggio. Dice «pane» e quasi tutti (sul territorio della Repubblica) lo capiscono. Dice «nella misura in cui»: lo capiscono solo quelli che hanno frequentato una sezione del Pci….»(55,I). E sull’importanza dello stile avvertiva: «Tutti dovrebbero sapere ormai che un certo stile e linguaggio […] serve a confermare l’autorità di chi lo emette più che a trasmettere una certa comunicazione. Così lo stile burocratico rafforza la burocrazia, lo stile funzionariale rafforza i funzionari, lo stile pretino i preti, ecc.» (100,I).

«Correggere il linguaggio settoriale con linguaggio colloquiale» (55,I) non era una delle capacità richieste ad un buon giornalista? Certo, ma egli notava che «è durante questa correzione che avviene l’imbroglio ideologico ai danni del lettore». E faceva una scelta. Rifiutava un certo tipo di chiarezza: «Questa chiarezza la so usare ma non voglio usarla. Non parlo a tutti. Parlo a chi ha una certa idea del mondo e della vita e un certo lavoro in esso e una certa lotta in esso e in sé». Tra altre acute considerazioni diceva che il difficile di certi articoli non sta tanto nelle parole usate, ma piuttosto «nei passaggi da una proposizione alla seguente; è nei salti della sintassi. È in quel che non è detto, che è dato per sottinteso» (56). E, pur riconoscendo una parziale verità in chi rimproverava:«Parla più semplice sono un operaio, non ho studiato, io», coglieva anche la malafede di tale richiesta. Perché «spesso, a lamentare l’incomprensibilità degli «studiati» (o degli “intellettuali”) sono proprio gli «studiati». E perché non ci si dovrebbe vantare di una situazione di svantaggio (56). Voleva una scrittura che non nascondesse, non truccasse le cose, non fosse serva delle divisioni classiste che hanno separato linguaggi speciali e linguaggi comuni, ma muovesse da una certa idea del mondo e della vita. Le idee chiare non bastavano. Un’idea chiara – obiettava – non è di per sé un’idea giusta. Per arrivare all’idea giusta bisogna usare la ragione e la scienza, cioè ritenere «ingannevole e illusoria» «qualunque affermazione, nella sua immediatezza» (59,I). E questo «esercizio di scienza e ragione» richiedeva l’abbandono almeno temporaneo del «linguaggio quotidiano comunicativo e anche dello stesso linguaggio politico»(59, I), che è ancora più ambiguo (carico di sottintesi, di passioni, desideri e volontà) di quello quotidiano.

Riflettendo poi sul dilemma posto nel movimento studentesco tedesco da Rudy Dutschke: se usare le sedi della comunicazione specialistica e in apparenza neutrale: università, giornali, ecc. oppure organizzarsi politicamente e «riportare ogni linguaggio settoriale a quello unificante della politica»? (62, I), mostrava i fallimenti di entrambe le prospettive: – nel primo caso le sinistre avevano finito per accettare l’«organizzazione capitalistica della cultura»; – nel secondo i sindacati (i gruppi, i partitini) continuavano impotenti a fare l’elenco dei«grandi temi dell’uso diverso e nuovo della vita» (62, I). Non dava ricette. Suggeriva invece di cercare quanto avrebbe potuto «supplire e servire» fuori dal recinto della «buona stampa», della «buona scienza» o del «buon cinema» di sinistra, «nel campo dei linguaggi settoriali del sapere (di ogni colore ideologico)» (62, I). Suggeriva pure di non perdersi dietro l’attualità. Non per ascetismo, ma perché ormai l’eccesso di informazioni disponibili aveva fatto diminuire drasticamente la capacità di interpretarle (75, I). Anche la cosiddetta controinformazione o la togliattiana «battaglia delle idee» gli parevano logorate. Dichiarare la propria ideologia comunista non garantiva che «si po[tesse] parlare di Bergman o della Morante in modo diverso da come ne parla[vano] altri giornali non apertamente forcaioli». Meglio allora sapere che «tutti, nessuno escluso, [siamo nutriti] anche con le pappe dell’industria culturale» (77, I). E allora: selezionare, commentare (75), «dire no al mediocre», «distinguere fra cultura e mezza cultura», «pretendere il meglio» (77, I). (Più tardi parlerà di «ecologia della lettura»). Soprattutto, oltre a preoccuparsi se «andare o non andare a quel cinema», «operare nelle strutture politico sindacali del cinema», «capire meglio e far capire come si fabbricano i libri, i giornali, le lezioni universitarie, i telefilm… »(81, I).

In «Disobbedienze» sono raccolti alcuni testi tra i più indigesti per la sinistra (di allora e quella residuale di oggi). Fortini – lo sappiamo – era spesso scandaloso e irritante per i suoi stessi compagni, anche i vicinissimi. E dissenziente fu nella stessa redazione de «il manifesto», con la quale interromperà temporaneamente la collaborazione, dopo le reazioni indignate che ricevette un suo articolo critico su Giaime Pintor (Vicini e distanti. A proposito del “Doppio diario” di G. Pintor, uscito poi solo su «Quaderni Piacentini», n. 70-71, 1979). Aveva insomma una mente dove custodiva gelosamente la lezione degli eretici cristiani fuori dalla Chiesa, dei comunisti senza o fuori dal Partito, dei giacobini dopo il Termidoro. E quando tirava fuori certe verità e parlava di «imperialismo americano, socialimperialismo sovietico e gruppi di capitale europeo», rinfacciando l’adeguamento della sinistra a «una società che da vent’anni squarta i vietnamiti dopo aver per secoli sfruttato e distrutto un continente dopo l’altro» (27, I) risultava sgradevole o quasi insopportabile. (Lo ha ricordato Mengaldo nel video «La luce dura…» di recente riproposto dalla Libreria Utopia di Milano).

Il comunismo “speciale” di Fortini

Fortini scrisse dunque in un giornale che si fregiava del sottotitolo di «quotidiano comunista». È però necessario soffermarsi su quale fosse il suo comunismo. Perché rispetto a quello ufficiale del PCI ma anche a quello dei suoi compagni de «il manifesto» (dal PCI radiati) e di tanti altri suoi compagni di strada, il suo era davvero un comunismo un po’ “speciale”. Come rivendicò lui stesso nella poesia intitolata appunto Il comunismo: La disciplina mia non potevano vederla./Il mio centralismo pareva anarchia./La mia autocritica negava la loro./Non si può essere comunista speciale./Pensarlo vuol dire non esserlo. (Da Versi scelti, 136, Einaudi 1990). Possiamo in breve dire che la sua idea di comunismo s’era andata definendo sulla base di una sua matrice giovanile religiosa cattolico-valdese mai ripudiata. (Si ricordi l’influenza di Noventa). In negativo: lungo il secondo dopoguerra nel contrasto (però fortemente dialettico) col PCI/Urss; e poi anche rispetto ai movimenti del ’68 (gruppi extraparlamentari) e ancor più del ’77 (Autonomia operaia e i suoi primi strascichi post-operaisti, quelli della rivista «Luogo comune»); e, infine, con il lottarmatismo delle Brigate Rosse, di Prima Linea, dei Nap, ecc. E in positivo: col suo riferirsi assiduamente al pensiero di Marx, Gramsci, Lenin, Lukács, Brecht, Adorno, Bloch, Mao.

Della “sinistra comunista” aveva imparato a conoscere i limiti. «Sinistra» per lui non equivaleva a «bene» sempre e ovunque». Volentieri notava che «la maggior parte delle premesse che si è soliti considerare «di sinistra», [erano], in Urss, una menzogna inculcata fin dai banchi della scuola, “marxismo” falsificato peggio di qualsiasi catechismo»(69, I). Non liquidava per questo la prospettiva e il nome del comunismo, ma per lui esso era questione da «ridefinire»; e negli anni di collaborazione a «il manifesto» pensava che fosse possibile rinnovare una dottrina divenuta dogma pietrificato. Da qui la sua attenzione vigile alla Cina di Mao, ai samizdat, alle dissidenze sovietiche. E, dunque, a Solgenitsin. Considerava la sua opera una «testimonianza parziale ma irrespingibile» di un passato, che però era anche presente. (Essendo per Fortini «passato e presente […] un’unica cosa», 66). Parlare dell’Urss (nel ’74) significava parlare di casa nostra, del PCI, di noi, di «che cosa siamo e che cosa possiamo» (67). Sosteneva perciò che bisognasse «giovarci di Solgenitsin, costringerlo a fare più luce sul nostro cammino, usarlo politicamente» (70, I), non disprezzarlo. Oppure, in «Ancora su Pljusc e l’Urss» (1979), ribadiva cose analoghe: il suo libro, Nel carnevale della storia, aiutava a «fissare alcuni punti della realtà sovietica che, seppure trasposti e tradotti, valgono anche per noi (206, I). Accentuava «le somiglianze, invece delle diversità fra il «là» e il «qua» (208, I). E identico, «là» come «qua», gli sembrava il «compito politico» da assolvere: «costruire forme di associazione (che non v[oleva] dire partiti) capaci di farsi luogo delle forze volte a mutare coscientemente «lo stato di cose presente» (208, I). E questo pur sapendo che certe testimonianze minoritarie avevano «in comune l’odore della galera» (159, I); o regredivano facilmente a una sorta di «socialismo morale»; o riducevano la storia a «buffonata», cioè a «non-storia e impossibilità di senso» (205), allineandosi a quanti, in Occidente o nei paesi dell’Est, spalleggiati dalla grande editoria, propagandavano «l’idea che tutto il mondo è una fogna» (205, I).

Da decenni (il suo «Dieci inverni», riepilogo della sua militanza nel PSI al momento di uscirne, era del 1957) Fortini aveva visto la storia del comunismo pietrificarsi. Il Rapporto Kruscev (11), che aveva accolto assieme ad altri con ingenuo entusiasmo, era stato presto neutralizzato nei suoi effetti in apparenza innovativi. Lo stesso accadrà con l’evoluzione della Cina. Egli, che pur aveva criticato la nuova sinistra per la rimozione della «tematica cinese» (110, I), alla morte di Mao poté solo sottolineare di quel maestro più il «volto interrogativo» che «assertivo» (113, I), più le sue capacità per così dire antropologiche che i risultati politici. Il nucleo della sua critica al marxismo ortodosso e al socialismo “reale” perciò consistette soprattutto nella denuncia della «separazione fra l’esistenziale e il discorsivo (o razionale)» (209, I), «una separazione non-dialettica» che cancellava – ecco la sua prospettiva hegelo-marxiana – «qualunque ipotesi di integrale ricomposizione in unità della estraneazione» umana (209, I). Temeva il legame tra il marxismo e il «radicalismo borghese». Diffidava cioè, sulla scorta della Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer, dei limiti della «tradizione laica e illuministica» (117, I). E, prendendo sul serio il filosofo cattolico Del Noce (115, I), vedeva nella storia del pensiero e della politica marxista «una contraddizione profondissima e vitale». Dalla quale poteva discendere «lo schiavismo tecnologico-burocratico» o «la rivoluzione anticapitalistica su scala mondiale». (116). E perciò, amico di Panzieri, aveva giudicato l’operaismo post-Quaderni Rossi «occultamente aristocratico» e subalterno alla «cultura del capitalismo tecnocratico». Gli rimproverava di rifiutare un dato reale per lui fondamentale: che non solo il mondo industrializzato ma «tutto il mondo è nostro contemporaneo» (111, I). Ecco il lato del suo pensiero politico che a quei tempi veniva definito con sufficienza “terzomondista”. Della sinistra (anche nuova) non sopportava un’idea di civiltà intesa pragmaticamente come «progresso scientifico-tecnologico e di consumi crescenti, di amministrazione funzionale, di lavoro e di eros per tutti, di protezione sociale dalla culla alla tomba, e di partecipazione democratica di tipo, in fin dei conti, americano o sovietico». Una «democrazia repressiva» (Marcuse), insomma. Che comportava a suo avviso «il genocidio di tutta una parte dell’umanità e la mortificazione di tutta una parte capitale delle possibilità umane»(116-117, I). Questa suo tipo di polemica contro un comunismo che si rifacesse esclusivamente all’illuminismo borghese è presente in molti articoli. Ad esempio nel commento al risultato vittorioso del referendum sul divorzio (per il quale egli non si era battuto,73, I). Ai fautori di una realtà «moderna», «civile», «borghese», «illuministica, razionalistica, positivistica e insomma progressista», di cui considerava Moravia «il miglior critico e il miglior apologeta», preferiva le minoranze, che ostili alla «presunzione sociotecnologica e [al]l’ottimismo neosocialista e neoborghese», guardavano «al di là del progresso»(72, I). E in uno sforzo antielitario rifiutava quella sorta di divisione per cui si era finito per affidare a qualche chiesa la «gestione degli Assoluti» e allo Stato «l’amministrazione della Valle di Lacrime» (76, II).

Di fronte alle delusioni dei dieci e poi venti o trenta inverni, Fortini si mantenne fedele a un comunismo brechtiano, intrecciato soprattutto con le idee della Weil e di Bloch. Fu sempre convinto che capitalismo e socialismo reale fossero un’unica forma e del tutto negativa per lo sviluppo dell’umanità. E se nel 1977 scriveva:«l’ideologia sovietica e la classe dirigente dell’Unione sovietica sono i nemici di qualsiasi miglioramento del genere umano, nella medesima misura in cui lo sono l’ideologia e la classe dirigente dei paesi capitalistici» (159, I), un giudizio quasi analogo ripeteva per gli Usa nel 1990, ai tempi della Guerra del Golfo (p. 124, II) : se quello di Saddam era un regime abietto, dall’altra c’erano gli Usa che erano «da quaranta anni il nemico del genere umano».

Non sottovalutava la gravità della situazione e la permanenza di una crisi (non certo solo economica o politica). Scriveva: «per un tempo di cui ignoriamo la durata, ma che coincide con quello della nostra sconfitta o debolezza, gli strumenti propriamente politici, tanto nostri quanto dei nostri avversari, sembrano incapaci di interpretare i processi profondi della chimica sociale» (163, I). Bisognava, dunque, affrontare «la sofferenza che una analisi nuova infligge alla nostra stanchezza». E scavare nel passato: «Con tutto quel che ha avuto nome di Comunismo, anche quando ne sia diventata la caricatura sanguinaria, non possiamo fare a meno di confrontarci fino in fondo. La storia e il presente dell’Unione sovietica, dell’Est europeo, della Cina, del Sud- Est asiatico esigono un giudizio continuo, ostinato» (161, I). Ma non solo in quello prossimo ma nel passato in generale. Che conteneva per lui qualcosa di ineliminabile da chi vuole costruire un vero futuro. Perciò richiamava l’idea di Osip Mandel’štam: «La poesia classica è poesia della rivoluzione» (Questioni di frontiera, 149). E precisava: «Proprio perché rifiutiamo di dimenticare la storia, rifiutiamo anche di consolarcene con mezze misure» (160, I). Una mezza misura poteva/può essere ritenere che il passato sia semplicemente passato, che gli orrori nazisti o comunisti non torneranno, mentre si chiudono gli occhi sugli orrori quotidiani (e democratici) che continuano.

Riassumendo, è proprio il caso di ribadire che il comunismo di Fortini fu “speciale” e che la sua “specialità” vada cercata in quel suo tentativo di non tagliare «il nesso tra scelte politiche ed esistenza quotidiana». Questo per non ridurre – come disse Edoarda Masi nella Conversazione all’uscita di «Disobbedienze» (p. 168 Ospite Ingrato 1998) – «la politica a sopraffazione». Anche se – bisogna dirlo – Fortini, come fece notare Rossanda, sempre nella medesima Conversazione, non trovò mai la «soluzione alla separatezza dell’esperienza.

Anni ’70: comunismo e autonomia (neoanarchismo)

Negli anni ’70 Fortini non si contrappose solo al comunismo borghese illuminista del PCI ma anche a quello di derivazione anarchica dell’«area dell’autonomia» (151, I) e, dunque, al movimento del ’77. Ben più distante da esso che dal ’68, salutò sarcasticamente le occupazione del ’77 con un: O voi quasi gli stessi!/ O sempre troppo figli!// Passate oltre voi stessi – o finirà/ la tragedia in sbadigli (144, I). Purtroppo di sbadigli in quegli anni ce ne furono pochi. Ci si avviava al funerale di quella che fu la nuova sinistra e poi al rapimento e uccisione di Moro.

Per Fortini l’”Autonomia”, vedendo l’organizzazione come «una trappola», rifiutando «un programma, un comitato, una sede», volendo «coincidere col «movimento», pronunciava ancora una volta la verità, ma «con le parole dell’errore» (171, I); e finiva per tributare un ulteriore omaggio alle «tragiche coglionerie delle avanguardie» (168, I). In assenza di «un pensiero più organico e..[di] una prospettiva più esatta di quella dei nemici», i tre termini che il marxismo aveva cercato di unire:«libertà, produzione, politica» (171, I) si separavano. Con grande soddisfazione del PCI, che raccoglieva così il consenso «di una massa imponente di operatori intellettuali» (172, I). Ma era per Fortini un «consenso di milioni e milioni di filistei, fra i quali i milioni di lavoratori che [una] politica trentennale, al governo o all’opposizione, [aveva] trasformato in piccoli borghesi assetati di ordine e desiderosi di farla finita con quei lazzaroni dei giovani che non rispetta[va]no il lavoro»(170, I). E la separazione veniva accettata e perfino teorizzata, con la formula delle «due società» lanciata da Asor Rosa, mentre procedeva l’incubazione di un “nuovo ceto medio” che, dopo la sconfitta definitiva degli operai Fiat nel 1980, occuperà la ribalta dei mass media.

Fortini guardò con preoccupazione il fenomeno. Quella massa intellettuale lasciava cadere un altro tipo di funzione intellettuale per lui «insopprimibile» (174, I): quella della «critica nei confronti dei valori e delle mete sociali» in nome di «valori diversi». Funzione non svolta di certo o automaticamente dall’esperto, dallo specialista, dallo studioso, dall’artista «in quanto tali» (174, I). Si poteva essere stati letterati ieri o si può essere informatici oggi, ma pienamente allineati ai voleri del capitale e niente affatto “rivoluzionari”.

Agli inizi degli anni Novanta il suo dissenso con le posizioni neoanarchiche (prima c’era stato quello con Lotta Continua…) si concentrò sulla rivista «Luogo Comune» (1990-1993). I suoi redattori avevano anche presentato una loro «piattaforma» culturale e politica nel libro «Sentimenti dell’aldiqua» (p. 82, II). E uno di questi, Paolo Virno, aveva tra l’altro preparato una «Talpa del manifesto» (un inserto) sui sentimenti prevalenti degli anni Ottanta: opportunismo, cinismo, paura. Era un tentativo di riflettere sui nuovi fenomeni indotti dalle trasformazioni informatiche del lavoro: lo sradicamento, la mobilità, gli shok prodotti dalle continue innovazioni. Fortini stava per partecipare al secondo numero della rivista, ma poi si sottrasse. E finì per accusare quei redattori di accettare la «riduzione al minimo di ogni coscienza storica» (83, II),trovando nelle loro tesi una sorta di sottile apologia del disincanto, una cancellazione di ogni «impulso al trascendimento». E a quel numero della «Talpa», che secondo Virno voleva semplicemente criticare «la miseria di certo antiamericanismo di sinistra» (Conversazione in «L’ospite ingrato», 1998, p. 170), rispose con un suo articolo, «Filoamericani di sinistra, colonizzati e contenti» (177, II), un durissimo attacco (per Virno «un asprissimo ‘giudizio universale»). Fortini in quell’inserto del «manifesto» scorse «uno degli episodi sintomatici della recente adesione di tutta una larga parte di coloro che furono comunisti italiani alla concezione progressista borghese (neanche capitalistica!) incantata di fronte alle prestazioni militar-capitalistiche Usa» (183, II). E il fatto che l’«unico giornale di opposizione», accogliesse quella tesi («antiamericanismo come arretratezza») proprio nel momento in cui gli Usa mettevano in atto l’alleanza anti-Saddam fu per lui ancora più grave, «un segno politico» di resa (178,II). I redattori di «Luogo Comune», pur vantandosi di respingere ogni filosofia della storia (182, II), finivano per accettare l’idea di progresso come crescita (del PNL o di certi consumi). E ridicolizzando come piccolo-borghese arretrato e provinciale chi era contrario alla politica mondiale e militare degli Usa, cedevano a pregiudizi ben più gravi: – che il dominio capitalistico contenesse “progresso”; – che il “progresso consistesse nella “modernità” e nell’avanzamento della coscienza dei dominati verso la cultura dei dominanti; – che le nazioni fossero realtà trascurabili a vantaggio di istituti internazionali («di accorpamento internazionale. E a quella loro analisi contrappose una sua ipotesi: che il crollo del sistema bipolare con la scomparsa dell’Urss comportasse «il declino economico degli Usa», per cui la strage irakena più che una prova di potenza, poteva essere segno di debolezza proprio perché costretta a usare superbombe e spie (183, II).

Sempre all’interno di questa polemica antianarchica s’inseriscono alcune sue interessanti riflessioni sui dialetti (p.142, II). Pur riconoscendo i risultati poeticamente alti dei nuovi dialetti, Fortini vide nel ricorso a una   «lingua morta, patria del “materno” e del “basso” quotidiano» un lato negativo o, se si vuole, apolitico/impolitico: un certo «pathos della decadenza» (142, II); e – più grave dalla sua ottica – una volontà di «esclusione» e «orgoglio della sconfitta» (143, II). Quelle ricerche rientravano per lui in filone neo-ermetico. E comunque, pur «rivendicando magari modelli di vita preindustriali» (145, II), lungi dall’essere fuori dal sistema culturale, come pretendevano, non si allontanavano «dal girone della poesia di oggi, dalle sue contraddizioni e tic dominanti» (144, II). E vi venivano riassorbite nel ruolo dell’«eroe bastonato» (144, II). La loro «letterarietà» restava l’elemento centrale. Non poteva essere abolita né nella poesia in lingua «alta» né in quella in lingua «bassa» o dialettale (145): il dialetto milanese di Porta lo era quanto il «pulito toscano parlato dal purista [Gorelli, senese] deriso» (145, II). E non solo: un neodialettale «non è mai ai nostri giorni utente del suo solo dialetto» (146, II), ma a volte «il suo grado di intenzionalità letteraria, di operazione formale e, vorrei dire, manieristica può essere maggiore di quello di chi è attraversato, o attraverso, una lingua nazionale dominante». Conclusione: «Il possesso e l’uso del dialetto non ci fa né migliori né peggiori di quello della lingua o di qualunque altra lingua delle tremila e passa che sul pianeta si parlano» (146, II). Sempre da questa sua ottica criticò anche la rivista «Baldus» (Cepollaro, Voce, Baino, 155, II) che allora attribuiva ai dialetti una potenziale «energia dirompente». E quasi con i medesimi argomenti Agamben che, in «Luogo comune», aveva proposto proprio di contrapporre «la verità dei gerghi e delle comunità al nesso linguaggio e popolo. Per Fortini «non esist[evano] gerghi né lingue segrete fuori della presenza di una lingua-cultura, dominante e pubblica» (158, II).

Anni ’70 e lottarmatismo

Gli anni ’70 sono passati però nell’opinione pubblica come gli «anni di piombo». Sulla crucialità politica di quanto allora accadde, tema affrontato da Fortini pure in «Insistenze», egli fu uno dei pochi intellettuali a parlare chiaro e a denunciare il disastro politico della Sinistra. Non posso trattare i nodi irrisolti della storia di quegli anni, che sono tutti da ripensare sia alla luce dei decenni “resistenziali” precedenti che di quelli poi seguiti (craxismo, “Mani pulite”, ecc.). Mi limito a riferirvi alcune affermazioni di Fortini che chiariscono la sua limpida posizione: – «sono stato, da ragazzo, nel fascismo autoritario e, da vecchio, in quello democratico» (95, II) ; – «gli anni Settanta hanno spezzato la schiena al nostro paese» (97, II); – i giornali, che avevano dato una «interpretazione terroristica del terrorismo» sono come quelli di mezzo secolo fa e nessuno caccerà via i giornalisti per quest’opera di avvelenamento delle coscienze (97, II); – «il terrorismo ha svolto pienamente la sua opera criminale cretina» (97, II);

Per Fortini «qualcosa [era] crollato, non solo laggiù [in Urss], ma qui» e il PCI «incapace di interpretare la storia altrui e la propria e quindi di immaginarsi un futuro» si sta[va] trasformando, si sta[va] truccando, si sta[va] suicidando (60, II). Tra PCI e P38 [durante le manifestazioni dell’Autonomia si era imposto l’uso simbolico dell’alzare la mano col pollice dritto verso il cielo e l’indice e il medio unito a mimare la forma della pistola, Walther P38, che fu effettivamente usata in alcuni scontri con la polizia] Fortini vide ancora la possibilità (con Pintor e Rossanda) di non ridursi né all’alternativa (avventurista per lui) di Autonomia né al fiancheggiamento (subordinato) del PCI. Volle credere ancora che il comunismo potesse avanzare, se si fosse stati in grado di far «deperire» tutta l’organizzazione che la classe si era data lungo mezzo secolo per far nascere al suo posto qualcosa d’altro, un «altro» che in qualche modo per lui già c’era (186, I). Poi vennero il rapimento e l’uccisione di Moro e quest’ipotesi fu del tutto oscurata.

In quell’occasione Fortini poté solo difendere l’evidenza: l’autenticità delle lettere di Moro dalla prigione delle Brigate Rosse, rifacendosi coerentemente a Marx («l’’individuo, il non-divisibile, è un fantasma storico, luogo biologico attraversato e fondato in una sua labile durata, dalle forze storiche»), al cristianesimo («l’anima non è né la proprietà, né la proprietaria di ogni singola voce di anagrafe »), a Freud («Quel vecchio uomo [Moro] che annoda e snoda nelle sue meningi le memorie volontarie e involontarie, i fili contraddittori del dovere e del piacere, ha il diritto a essere considerato uno di noi anche se, anche perché, contraddittorio» (189, I), a Manzoni («un sequestrato, tolto dall’apparato di falsità, di potere, di servilismo circostante, di alienazione in una parola […]se collocato dalla «provvida sventura» tra gli oppressi, [può] riconoscere o riscoprire un diverso modo di interpretare l’esistenza» (190). Riaffermò in fondo il principio (cristiano) che «non si debbono distruggere né le persone né soprattutto le memorie»(190, I).

Più tardi (35, II), quando incontrò a San Vittore vari detenuti per terrorismo o partecipazione a banda armata, fu forse uno dei pochi ad avere il coraggio di criticare da un punto di vista coerentemente marxista l’“illusione” di molti di loro – pentiti o dissociati – che ormai si appellavano soltanto alla “coscienza umana” o all’«essere umano che dovrebbe abitare in ciascuno» (38, II). Era un’affermazione per lui inaccettabile: «Che cosa sia poi quell’uomo, quell’essere umano di cui parlate, quando a quello sia tolta la dimensione dell’azione comune per la solidarietà, la giustizia, la libertà e l’eguaglianza, io non riesco davvero a immaginarmelo. Che cosa è un uomo ridotto alla mera dimensione della interiorità morale?». E aggiungeva : «deve trattarsi di una canaglia. O di una vittima. E che cosa vogliono infatti da noi i custodi della eticità di stato, se non fare di noi delle canaglie o delle vittime?» . O politica o morale allora? No: «tra il momento politico e quello morale c’è una incessante tensione e implicazione reciproca» (38, II). Gli incarcerati per terrorismo e banda armata sostenevano che la sconfitta della lotta armata fosse venuta da un errore: aver fatto «uso della violenza» (36, II), che essi ora sentivano come colpa morale. E toccava proprio a Fortini fargli notare che così abbassavano la loro rivolta al livello dell’azione di «una banda di assassini o [di] un’associazione di indemoniati», perché essi stessi cancellavano la dimensione politica della loro azione (37, II). No, gli replicava, l’errore non è stato questo, non è stato morale, ma è venuto da una vostra cattiva «lettura e valutazione dei fattori politici che ha contribuito potentemente alla sconfitta della opposizione di cui [il Partito Armato] era una parte» (37, II) E aggiungeva: «e non una conseguenza» [della violenza](37,II). E per Fortini questo «errore politico [era] più grave di quello morale: quest’ultimo riguarda l’individuo, mentre quello politico «si trasforma in sofferenze e rovina per gli altri» (37, II). E infatti è la storia di tutti che è stata ridotta a «una questione di coscienza invece che in una questione di conoscenza e di azione» (37, II).

 

Guerra del Golfo

Anche gli articoli riguardanti la prima Guerra del Golfo contro Saddam (124, II), riletti oggi, permettono di capire per contrasto quanto si fosse degradato a sinistra il dibattito sul tema (oggi addirittura assente). In «Guerra del Golfo. Otto motivi contro la guerra» (126, II) Fortini denunciava l’ipocrita moralismo con cui la si leggeva (Impero del Male, Saddam= Hitler. ecc.) e ad esso contrapponeva «l’eticità del realismo politico» (131, II). Erano le finalità che contavano. E spiegava: «Il nazismo ha avuto torto non perché fosse sanguinario, inumano e razzista (argomento moralistico); né perché è stato vinto (argomento del “realismo” politico); ma perché contraddiceva una immagine o figura di futuro che consideriamo positiva per noi e per gli altri» (130-31, II). Inoltre ribadiva la giustezza dell’analisi (non solo) marxista della violenza nella storia. La violenza non è sempre il male: Il bene non coincide con la non-violenza. Bisogna precisare cosa s’intende con questa parola, specificarne la funzione, il grado di necessità nei rapporti umani (126, II). E più avanti:«Oggi sappiamo che non ci sono giuste guerre; ma non ci sono giuste guerre oggi, perché le finalità che le guerre di classe si sono proposte possono-debbono oggi essere combattute e raggiunte altrimenti che con le armi. E non perché la violenza sia, in astratto e sempre , il «male» (131-132, II). E sempre lucidamente in «Sul conflitto come parola chiave» (166) chiariva concetti che oggi, appena la cronaca ci ripropone eventi drammatici, neppure riescono più ad affiorare nel dibattito. Ad esempio che «la pace contiene in sé la tentazione della morte mentre il conflitto implica eros, brama e desiderio» (166, II). Che «senza conflitto non si dà riposo o “pace” (166, II) e «il conflitto è un male per raggiungere un bene che non è garantito!» (169, II). Teneva conto del ripresentarsi dei tentativi di individui e gruppi di «uscire fuori dalla conflittualità verso la “pace” del nulla, della non-azione, dell’annullamento del desiderio e del confronto» (167, II). (Si riferiva al buddismo e alla tradizione mistica occidentale), ma ricordava che i conflitti si ripresentano e si ripresenteranno. E non sono tutti uguali (come non tutte le “paci” sono uguali). Per Fortini era un volgare imbroglio interpretare «i moderni conflitti tra nazioni e potenze come proiezioni di “conflitti tra “mentalità” o “culture” o religioni o civiltà o , ancora più rozza, come lotta tra bene e male (167, II). Ci sono, sì, i conflitti inconsci negli individui, ma quelli che contano sono i conflitti d’interesse «formulabili in forma razionale» (168, II). E faceva l’esempio del generale Schwarkopf, comandante delle armate statunitensi in Irak. Fa ammazzare – diceva Fortini – non perché da piccolo ha avuto conflitti con il padre o la madre, ma perché è stato selezionato per quel compito da un complesso sistema sociale e politico (168, II). Sistema in grado anche di truccare le vere motivazioni evocando paure e rassicurazioni infantili (il terrorista, ecc.). Per volere allora la pace, bisognava dire a chi ci si opponeva. Meglio: «a quale conflitto, a quale lotta o guerra [ci] si opponga». Bisognava nominare il nemico. E per Fortini non c’erano troppi dubbi: nemico era quello «che propone false mete, false coscienze, false solidarietà, false paci», quello che «nega di fatto, a colpi di parole o di leggi o di capitali o di missili, l’eguaglianza dei diritti – e la finale identità umana – fra i privilegiati e i “dannati della terra» (169, II)

A cosa disobbediva Fortini

Non so chi abbia dato il titolo di «Disobbedienze» a questa raccolta di articoli. Ma prendendolo per buono, dopo averli riletti a distanza di tanti anni, vorrei fare alcune considerazioni finali. Prima però una sua poesia che mi pare renda bene la dialettica del rapporto tra disobbedienza e obbedienza:

Stammheim

Essi hanno fatto quello che dovevano
secondo gli ordini della città non visibile.
Hanno studiato i libri antichi e i moderni.
L’acciaio dei padri recide i piú piccoli nervi.
Sono stati uccisi.
Nessuno fu piú obbediente di loro.
Essi hanno fatto quello che dovevano
secondo gli ordini della città visibile.
Hanno studiato i libri antichi e i moderni.
La chimica dei padri bagnava le chiome dei nervi.
Si sono uccisi.
Nessuno fu piú obbediente di loro.
Noi abbiamo fatto quello che abbiamo dovuto
wo eine fremde Sprache herrscht *
secondo gli ordini di due ordini secondo due leggi.

*[da Brecht: dove una lingua straniera domina, in Versi scelti, p. 248, Einaudi 1990]

E ora – semplicemente, didatticamente, con uno schematico elenco e usando ancora sue parole – direi che per me Fortini disobbediva: – al gergo, al cosiddetto “politichese” o “sinistrese”; – alle burocrazie di partito con la loro «boria degli «eredi» e dei «saputi»»(24, I);- al marxismo «di uso corrente», che, almeno da dopo Lenin, non ha saputo parlare più «del valore che si sposa alla disperazione (la solidarietà, il coraggio, la lealtà, l’amicizia, l’amore» (28, I);- alla cancellazione della memoria e al sogno/utopia di abolirla (37, I); – allo stacco fra parole e azioni; e quindi alla «riduzione a «cultura» delle opere [cioè a erudizione, a pura nozione, a sapere slegato dai bisogni sentiti e inespressi o mal espressi]: «Da noi… puoi dire quasi tutto ma non puoi fare nulla senza l’immediato intervento del nemico»(39, I); – a un «modo astratto e dottrinario» o, per contrasto, leggero e disincantato di guardare il mondo e gli orrori della storia; – all’estetismo, che giudica bello anche «il falso», mentre per Fortini «non è possibile un «bellissimo» che sia falso» (49, I). La bellezza essendo per lui un valore, «non […] una decorazione, una gala, un vestito della festa, una consolazione». E perciò non slegata dal fare, dalla politica:«ogni opera di poesia è una proposta politica perché ogni poesia è una notizia sui modi di essere degli uomini» (50, I). Essendo per lui arte e poesia soltanto casi particolari della «più generale capacità formativa e formale» degli uomini; – alla visione illuministica dell’uomo tutto Ragione; e, quindi, alla riduzione della religione a «misticismo e irrazionalità» (48, I), del marxismo a giacobinismo, del comunismo ad antifascismo (49, I). (E su questo era in polemica con la stessa Rossanda, che da illuminista voleva tener distinta la politica dalla religione o dalla filosofia della vita. Per lui invece «il pensiero rivoluzionario» [aveva] voluto essere» filosofia della vita in azione»(50, I). [Nota mia: è la divaricazione che di recente si è riproposta tra Costanzo Preve e Gianfranco La Grassa, sulla quale non è il caso qui di aprir bocca]. Potrei riassumersi così la sua posizione: Dire tutto il dicibile e tentare, il più possibile, di scavare nell’indicibile!»; – a chi vuole «vivere di analisi già fatte, di sintesi che invecchiano»; – alla faciloneria con cui si affronta di solito il rapporto vecchio/nuovo («Vittorini.. ebbe rovinati alcuni dei suoi ultimi anni dalla illusione ottica emessa dal rapporto, mai veramente criticato, fra «vecchio» e «nuovo»,90, I) o «il mai concludibile discorso sul rapporto fra azione politica e azione intellettuale e morale» (90, I); – alla tradizione ebraica paterna, che gli fece assumere posizioni sempre nettamente critiche nei confronti della politica di Israele verso palestinesi e arabi [Vedi I Cani del Sinai, ma anche Un luogo sacro in Extrema ratio, Garzanti 1990].

A cosa o a chi ha obbedito per disobbedire così decisamente? Direi: al «bisogno di comunismo»(52, I). E qui possiamo chiederci: che solo lui sentiva? Che ancora parecchi sentivano in quei suoi anni? Che oggi non si sente più, perché vinta la classe operaia o vinto il proletariato – i potenziali portatori concreti che avrebbero dovuto realizzarlo, questa ipotesi storica è svanita? Può darsi. Ma, contro tutte le revisioni o le cancellazioni del passato in corso, deve essere chiaro che Fortini ha parlato, scritto e agito come se quel portatore ci fosse. E ne ha difeso – come ho detto – le ragioni contro gli anticomunisti del suo tempo ma anche contro le burocrazie del comunismo e gli stessi movimenti (del ’68, del ’77). E le ha fatte entrare – uno dei pochi – anche nella sua poesia.

Noi che rileggiamo ancora queste sue disobbedienze, possiamo anche convincerci che non potranno mai più essere nostre. O che noi abbiamo altro a cui pensare che disobbedire. Possiamo dire che la valanga restauratrice, che Fortini ed altri pensarono ancora potesse essere fermata, ha abbattuto tutte le pensabili e praticabili resistenze (movimenti, minoranze). E che oggi non si sa neppure più quali siano le «nostre verità» ancora da proteggere. Semplicemente perché non c’è più un noi che possa farne un elementare elenco e responsabilmente discuterne. Quel bisogno di comunismo (o di qualcosa che ad esso potrebbe assomigliare) è tornato ad essere saziato (e travisato) dalle religioni. I richiami stringenti di queste pagine alla politica affinché s’impegnasse a «formulare.. un discorso coerente sui «limiti oscuri»»(52, I) non hanno ottenuto risposta. Le lezioni, che Fortini traeva dalla Bibbia, dal Vangelo, da Marx e che tentava di controllare con tenacia sull’andamento del movimento storico reale o, come in questi articoli, persino sulla cronaca di quei decenni non hanno più uditori o quasi. Sì, ci siamo allontanati e di parecchio da Fortini e dal suo mondo fatto di storia e passioni militanti e partigiane. Ma anche se queste disobbedienze, che, quando furono scritte, volevano incidere nella realtà politica, dovessero oggi essere considerate soltanto “disobbedienze di un poeta”, di un isolato, il loro valore resta grande per chi dell’isolamento non fa una prigione ma un laboratorio.

http://www.poliscritture.it/2014/11/07/le-disobbedienze-dimenticate-di-franco-fortini/
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