Wagner e il velo di Maya del capitalismo occidentale
nov 6th, 2014 | Di Maurizio Neri | Categoria: Dibattito Politico
Attraverso l’opera di Wagner, un’analisi sorprendente sulle origini della crisi sistemica, delle ideologie e delle teorie in gioco. Il mito come mezzo di comprensione della Civiltà e delle sue contraddizioni. Dal Valhalla di Wagner all’Overlook Hotel di Kubrik, dalla coscienza infelice borghese alla presa del Palazzo d’Inverno, dalla tragedia di Tristano e Isotta alle false soluzioni nichilistiche. Le nostre scelte.
Un saggio da leggere per capire i motivi e i meccanismi profondi di ciò che sta accadendo.
di Piero Pagliani.
And Now for something completely different1
Dalle dissonanze armoniche alle dissonanze sociali. Dalla discesa di Wotan nel Regno dei Nibelunghi, all’assalto del bolscevico bohémien Vladimir Antonov-Ovseyenko al Palazzo d’Inverno. Dal velo di Maya allo svelamento dei meccanismi dello sfruttamento. L’origine sociale e politica della coscienza infelice. La coscienza infelice positiva di Verdi e la coscienza infelice negativa di Wagner. Il mito come mezzo d’indagine del nucleo più interno del capitalismo. Dagli oscuri misteri della Civiltà all’illuminazione del Nulla. Dall’antisemitismo alla cattiva coscienza della modernità. Dal Valhalla all’Overlook Hotel: Schein e shining. Le critiche di Nietzsche e l’ammirazione di Baudelaire. L’opera d’arte totale di Wagner come autoassoluzione. L’utopia come rimedio al nichilismo. Andare oltre le apparenze o vivere dentro Matrix. Le nostre scelte.
… è stato necessario in Francia l’ordine di un despota per far eseguire l’opera di un rivoluzionario
Charles Baudelaire, “Su Wagner“2.
1. Premessa. L’accordo del Tristano
Una notte di pochi mesi fa volevo risollevarmi dalla tristezza per quel che sta avvenendo nel mondo. Per dimenticarmene un po’ e acquietare la mente, passata mezzanotte mi sono messo a ragionare sul famoso accordo del Tristano. E’ l’accordo Fa-Si-Re#-Sol# che si sente all’inizio del Preludio del “Tristano e Isotta” di Wagner e che è considerato il punto di snodo tra la musica precedente e quella seguente, ivi compreso il Jazz. Come si sa, all’epoca fu considerato un pugno nello stomaco, perché è un accordo dissonante che non risolve sulla tonica, cioè non sale (o scende) sulla nota di base della tonalità in cui si sta suonando. Il Preludio lo potete sentire come colonna sonora dell’affascinante Prologo del film “Melancholia” di Lars Von Trier e l’accordo in questione è quello dopo le prime tre note.
Per capire cosa succede con un esempio semplice, nella tonalità di Do maggiore l’accordo dissonante per eccellenza è quello di settima di dominante: Sol-Si-Re-Fa (la dominante in questa tonalità è il Sol). Prendete la vostra chitarra o andate al vostro pianoforte e provate a suonare questo accordo. Se non lo risolvete subito con un accordo di tonica, cioè in questo caso costruito sul Do, ad esempio Sol-Do-Mi, vi viene l’ansia. Perché? Perché l’accordo di settima di dominante contiene la sensibile, il Si, che preannuncia e tende inesorabilmente alla tonica, cioè il Do. Provate un po’ a solfeggiare: Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Si, Si, Si, .. eccì, eccì, Si, Si, . . E poi? Do, perbacco! Do. Do, tutta la vita. Il Si deve irresistibilmente salire al Do. Capite perciò che se l’accordo non risolve, chi lo sente annaspa, si gratta nervoso, gli viene l’allergia e se è un soggetto predisposto persino una crisi tetanica.
Bene, l’accordo del Tristano è come la nostra settima di dominante. Come tutti questi tipi di accordi crea una tensione che fa avanzare il discorso musicale. Senza tensione, calma piatta, encefalogramma piatto, niente discorso, manco una frase. Come avere tutti i bit a 0 o tutti a 1, oppure un foglio tutto nero o tutto bianco: nessun disegno, nessun linguaggio.
Ma se avete creato la tensione e poi non la risolvete è un po’ come se aveste pronunciato una frase monca, come un verbo transitivo (che quindi deve “far transitare” ad altro) senza complemento oggetto. Ad esempio “Tristano ama .” puntini di sospensione. E ovviamente anche “Isotta ama .”. Si accenna prepotentemente a qualcosa che non c’è ma che deve necessariamente esserci.
L’amore si fa in due. E’ una constatazione ovvia, ma in questo “due” ritroviamo, per l’appunto, il concetto dell’unione e della transizione. Concetto che nella pratica può diventare un problema.
Infatti nella tragedia di Tristano e Isotta i due non consumeranno mai, cioè non risolveranno mai la loro tensione erotica3. E infatti quel dannato accordo va avanti per tutta l’opera ma non risolve. Nella Liebesszene, la grande scena d’amore del secondo atto, protetti dalla notte i due amanti s’incontrano, il famoso accordo e sue varianti fanno prendere vita al loro discorso d’amore, la tensione musicale e drammatica sale in uno straordinario climax erotico, sembra che risolva finalmente sulla tonica, è lì lì per farlo, ci siamo quasi, ecco . . Ma l’alba prorompe e i due devono lasciarsi immediatamente. Già, perché Isotta è promessa a Re Marco di Cornovaglia.
Così l’accordo non risolve: coitus interruptus.
Orpo, direte voi. Ma quanto ci mette Tristano? No, il fatto è che quello è amore romantico e i due devono dirsi un sacco di cose prima di iniziare, così la tirano un po’ per le lunghe.
Fatto sta che l’accordo risolverà solo alla fine. Tristano è morto (lasciamo perdere perché) e Isotta incomincia a dare i numeri come tutte le eroine rispettabili che si immolano per amore. Inizia il suo celeberrimo Liebestod, la morte-per-amore, il flusso di coscienza terminale, «Mild und leise . Dolce e calmo …». In verità questo monologo finale è stato chiamato “Liebestod” da Liszt. Wagner dava questo nome a quello che per noi è il Preludio, mentre chiamava il monologo finale della povera Isotta “Verklärung“, cioè “trasfigurazione”.
Insomma, in realtà non sappiamo se Isotta muore veramente, finisce monaca trasfigurata o viene assunta in cielo. Wagner ci informa solo che si accascia sul corpo di Tristano. Fatto sta che dà da pensare che l’accordo risolva solo quando Tristano non c’è più, anche se risolve in modo metafisico, o meglio “trasfigurato”.
Sicuramente la risoluzione dell’accordo fa trasfigurare anche lo spettatore, o meglio l’uditore perché in effetti nel Tristano non c’è niente da vedere dato che non succede mai nulla. Ma la musica del Tristano è veramente sconvolgente e l’orgasmo finale risolutivo è insopportabilmente bello. Vorresti che non finisse più, ma come tutti gli orgasmi finisce subito. Il sipario cala e si torna a casa.
2. Un accordo androgino
L’accordo del Tristano ha fatto diventare matte generazioni di teorici dell’armonia. Che razza di accordo è. In che tonalità è? C’è chi dice che il contesto tonale sia il La minore, chi dice che è un altro. C’è chi dice che sono due e che uno tira da una parte e l’altro da un’altra. C’è chi dice che l’accordo risolve ma in modo nascosto e c’è chi dice che dato che non si sa neppure in che tonalità ci si trovi non si può dire se risolva o meno. In realtà per quasi tutto il preludio non si capisce mai con sicurezza in che tonalità ci troviamo.
Diavolo di un Wagner! Era perfettamente conscio di aver scritto una musica pazzesca. Diceva che era meglio che fosse interpretata male, perché se la si interpretava bene gli spettatori sarebbero impazziti.
Però forse è anche vero che ne era conscio solo per intuizione. Forse era andato al piano, aveva trovato l’accordo, gli era piaciuto, magari gli aveva ricordato i suoi coiti interrotti con la bella poetessa Mathilde Wesendonck, non solo promessa sposa ma proprio moglie di un suo benefattore (Wagner, con quella musica, non aveva mai un soldo). Dopo di che si era messo a pensare alle patate da cucinare a pranzo (era vegetariano).
Non sarà andata esattamente così, però non sapeva nemmeno lui in che diavolo di tonalità avesse scritto quell’accordo, tanto è vero che quando il musicologo Karl Mayrberger gli spiegherà che secondo lui il famigerato Sol# era in realtà un’appoggiatura (per cui, se ho capito bene, la nota principale sarebbe stata la successiva risolvente La – ma quanto ci mette ad arrivare!) e che l’accordo famoso stava ambiguamente tra la tonalità di La minore e quella di Mi minore, insomma un vero e proprio Zwitterakkord, cioè un accordo androgino se identifichiamo la regione tonale di Isotta col Mi minore e col La minore quella di Tristano, il nostro Wagner dirà (interpreto a senso): “Oh, finalmente ci ho capito qualcosa!”4.
Il dibattito non è certo tutto qui, ma devo confessare che ad un certo punto mi sono perso con le spiegazioni dei teorici dell’armonia (e c’è chi afferma che se non si fa intervenire l’analisi melodica è inutile pensare di venirne a capo). Purtroppo sono almeno venti anni che non apro più uno spartito. A me il neoliberismo ha fatto questo brutto effetto e la crisi non invoglia di certo a ricominciare. Insomma, oltre ad essere un musicista dilettante sono anche arrugginito5.
Però una cosa mi dà un po’ fastidio. C’è tutta una schiera di detrattori di Wagner che dice che quell’accordo non se l’è inventato lui ma era già noto da un pezzo e non aveva mai dato scandalo.
E già, certo che quell’accordo era usato anche prima. Ad esempio lo si trova nella Ballata n. 1 in Sol minore di Chopin (per capirci, quella che Władysław Szpilman suona per l’ufficiale tedesco nel film “Il pianista” di Roman Polanski). Ma proprio qui sta il punto: non aveva mai dato scandalo. Infatti è tutto il contesto musicale del Tristano che rende scandaloso quell’accordo. Lo so anch’io che un Sol# non scandalizza nessuno.
I detrattori più raffinati spiegano anche come e perché non sia affatto vero che l’accordo del Tristano abbia aperto alla musica atonale del Novecento. E già; perché, dicono, mica vero che nel Tristano non sia importante la tonalità; anzi, la si cerca per tutta l’opera.
Proprio così. Sono d’accordissimo (senza giochi di parole). Ma il fatto che si giri intorno alla tonalità per quattro ore per trovarla solo alla fine, fa del Tristano, come è stato detto, il più grande monumento alla musica tonale, ma anche il suo canto del cigno. E’ come con Dante. Non è il primo poeta moderno, ma l’ultimo del Medioevo, il più grande. Ma proprio per questo senza di lui niente letteratura moderna.
La prima morale che si ricava da questo viaggio musicale è in realtà una meta-morale. Mentre la notte scorsa giracchiavo per Youtube alla ricerca di interpretazioni del preludio e di spiegazioni del famoso accordo, mi sono imbattuto in una serie di show britannici con grande concorso di pubblico, o addirittura di carattere popolare, riguardanti lo scorso bi-anniversario Wagner-Verdi. Sì, si parla proprio della perfida Albione e del “nostro” Giuseppe Verdi che loro scherzosamente chiamano Joe Green. Guardate qua cosa combinano davanti al Covent Garden di Londra, perché è stupefacente:
E’ successa una cosa del genere a Roma o a Milano? Ora, io mi domando: come mai l’Italia così nazional-popolare e tutta funiculì-funiculà ha una cultura che non riesce ad uscire dai salotti e dalle accademie mentre l’Inghilterra, tutta baronetti, scuole d’élite e puzza sotto il naso ha uno straordinario senso e una grande capacità di divulgazione? Boh! Io non ho una spiegazione precisa, ma di sicuro non ci si può aspettare molto dagli intellettuali di un Paese così falsamente democratico e in realtà elitario come il nostro.
Povero Gramsci e i suoi “intellettuali organici”!
4. Verdi, Wagner e la coscienza infelice borghese
La seconda morale riguarda ciò che ci possono comunicare le opere di Wagner.
Dato che si è parlato del doppio bicentenario Wagner-Verdi, possiamo partire proprio da un raffronto tra i due grandi compositori che svilupperò da un punto di vista che non mi sembra sia stato considerato: analizzerò cioè le loro coscienze infelici. Un compito un po’ ambizioso. Vi chiedo quindi pazienza e comprensione.
La “coscienza infelice” è una figura fondamentale della dialettica della Fenomenologia dello Spirito di Hegel. E’ in un certo senso il “motore” dell’autocoscienza, perché, detto in sintesi, l’infelicità, che è una condizione di tensione, spinge a transitare da uno stato meno compiuto a uno più compiuto. Ma qui ci interessa vedere la coscienza infelice nella sua genesi sociale, quando la borghesia ormai pienamente formata incomincia a sperimentarla come conseguenza di quella lunga serie di lotte contro i vecchi regimi che l’avevano vista alleata al primo proletariato a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo. Dato che quelle lotte sono state un fenomeno dell’Europa continentale, avanzo intanto l’ipotesi che la coscienza infelice sia stata, nella sua forma classica, un fenomeno continentale e non anglosassone.
Detto in soldoni, la coscienza infelice è quella che sviluppa il borghese quando si rende conto che i principi della sua classe, gli ideali della sua classe ex rivoluzionaria e ora al potere, in verità non sono per nulla universali, ma Libertà, Uguaglianza e Fratellanza sono distribuiti iniquamente lungo una gerarchia sociale (e per i più lungimiranti, anche una gerarchia internazionale).
La coscienza infelice è ciò che permette al concetto umanistico e universale di “emancipazione” (che è proprio del comunismo) di autonomizzarsi da quello tecnico e cosmopolita di “progresso” (che è proprio della sinistra), nonostante quest’ultimo cerchi in tutte le maniere di riassorbire o di nascondere il primo. Cosa che è oggi compito dei cosiddetti “intellettuali progressisti”.
Data la sua genesi, non stupisce se il primo effetto di questa presa di coscienza sia la denuncia dell’ipocrisia borghese. Il primo effetto, quindi, è innanzitutto un moto etico. Di conseguenza il primo atto sarà quello di togliere il velo di Maya di questa ipocrisia, di scavare sotto di essa, di non fermarsi all’apparenza delle cose.
Ma che altro è la scoperta del meccanismo dello sfruttamento da parte di Marx, se non lo svelare che dietro lo scambio formalmente equo tra capitale e forza-lavoro si cela l’appropriazione di plusvalore? Anzi, che il plus-valore esiste solo grazie all’equità formale dello scambio dei valori sul mercato? Non dirà Marx che senza l’analisi della sfera della produzione, la sfera della circolazione è un’illusione (der Schein der Warenzirkulation)?
Schein, illusione, velo di Maya.
Ecco perché Marx afferma che deve lasciare il chiasso e le apparenze del mercato, la «sfera rumorosa che sta alla superficie ed è accessibile a tutti gli sguardi», per scendere nel «segreto laboratorio della produzione, sulla cui soglia sta scritto: No admittance except on business»6.
Ma è così diversa, nel Ring di Wagner, la discesa di Wotan e Loge nel regno dei Nibelunghi, dove Alberich ha trasformato liberi artigiani («sorglose Schmiede … Fabbri, privi d’affanno [...] sereni sorridevamo alla fatica») in operai al suo servizio («Nun zwingt uns der Schlimme … Ora ci costringe il malvagio [...] a faticare sempre per lui solo»)?
Non è quello che Marx descrive col concetto di sussunzione, prima formale e poi reale, del lavoro al capitale?
La coscienza infelice è il motore di ciò che Luc Boltanski ed Ève Chiapello hanno definito “anticapitalismo artistico”, quello della bohème, quello che tra il XIX e il XX secolo si unirà all’anticapitalismo sociale per tentare la rivoluzione proletaria. E sarà infatti proprio il bolscevico bohémien Vladimir Antonov-Ovseyenko a condurre l’assalto al Palazzo d’Inverno.
Senza coscienza infelice niente partito rivoluzionario, niente intellettuali organici. Anzi, niente intellettuali ma solo clerici che si vendono al miglior offerente, alla moda corrente, al Potere, specialmente nelle sue forme più insidiose.
5. La coscienza infelice “positiva” di Verdi
Giuseppe Verdi ha sperimentato la fame da ragazzino, ha vissuto le più grandi tragedie degli affetti (la morte dei due figli e della prima giovane moglie nel giro di soli tre anni), conosce quindi i drammi delle relazioni umane, anche quelle intime, quando però si svolgono apertamente sulla scena sociale.
Verdi non ha nulla da nascondere. Verdi è leale, schietto, generoso, si è fatto da solo con la sua arte, non deve ringraziare nessuno. Non è mai sceso a compromessi. Disdegna il Potere. E così ha elaborato ciò che possiamo definire una coscienza infelice positiva: qui c’è il chiaro e lì lo scuro, qui ci sono i dominati e lì i dominanti, qui il popolo e lì le élite e i loro tirapiedi. Intendiamoci, chiaro e scuro sociali, non psicologici, perché i suoi personaggi non sono infantilmente monodimensionale.
E che botte che mena! Che schiaffoni molla alle ipocrite convenzioni borghesi di papà Germont nella Traviata (che nel racconto originale di Alexandre Dumas è un esattore delle imposte)! Solo Verdi poteva far diventare una cortigiana affetta dal mal sottile, cioè, diremmo oggi, una prostituta affetta da AIDS, l’eroina più pura e più dolce, quella più acclamata universalmente di tutta l’opera lirica. E che scandalo che diede!
Verdi, ben più di Wagner, è uomo di teatro. Lui lo scandalo non lo dà con la musica, ma lo sbatte in faccia al pubblico con le sue dramatis personae, col procedere esplicito del “drama“, dell’azione. La psicologia dei suoi personaggi è, per così dire, una “psicologia pubblica”, i loro drammi psicologici sono quelli con cui anche noi potremmo doverci misurare nella nostra vita sociale. In Verdi, il privato è pubblico, i drammi psicologici si svolgono sul palcoscenico sociale7.
6. La coscienza infelice “negativa” di Wagner
Wagner, invece, dei compromessi ha fatto il suo modus vivendi. Non è parte del Potere ma cerca di esserne contiguo e beneficato, ne è attratto anche se sa che è uno schifo. Lo salva solo la sua integrità artistica che però definisce anche i limiti sociali e morali della persona, perché la sua generosità, il suo ecumenismo, dipendono dal considerare qualcuno all’altezza o meno dell’Arte, cioè di ciò che egli considera arte, misurata con la sua arte. Questo anche nei suoi controversi rapporti con gli Israeliti, che al di là dei proclami noti, sono forse ancora da capire.
Sembra che il famigerato pamphlet musicale nazionalistico e antisemita sia stato scritto da Wagner perché geloso del successo di Giacomo Meyerbeer, che pure era stato così generoso con lui a Parigi. Non è improbabile dato il carattere del nostro uomo. Ma anche ammettendo che la (deprecabile) natura di quello scritto sia stata “occasionale”, esso produsse veleni che entrarono in circolo nel corpo della società tedesca e nella mente del suo stesso autore che farà della gelosia, dell’infedeltà, del tradimento e infine del nazionalismo e del razzismo usati come sciabola e corazza, suoi elementi costitutivi.
Tuttavia la vera antisemita, viscerale e incorreggibile, era quella specie di Frau Blücher di sua moglie, la colta, intelligente e brillante Cosima Liszt, mentre Richard, come vedremo, appare essere un antisemita a corrente alternata, quasi più declamatorio che convinto e quindi alla fine, ma proprio alla fine, capace, per fortuna, di resipiscenza.
Il clima comunque era quello che era, con nuovi nazionalismi in formazione che si scontravano coi vecchi già ben posizionati sulla scena mondiale. Ad esempio, il suo presunto “odio” per Jacob (Jacques) Offenbach in realtà era parte di una rissa a tre tra Wagner, Berlioz e Offenbach stesso, iniziata a causa di alcune parodie dei primi due da parte dell’ultimo. Una rissa tra un francese, un tedesco e un ebreo franco-tedesco. Tanto per capire come si svolgeva, ad un certo punto Berlioz mise insieme Offenbach e Wagner accusandoli di essere entrambi «il prodotto della folle mente tedesca». Parimenti Wagner se la prese con Berlioz e Offenbach, che a sua volta aveva offeso gli altri due dando inizio alla rissa. Insomma, più che antisemitismo, in questo caso c’era tanto starnazzare di tre galli in un pollaio che non trovavano di meglio che appellarsi ai propri “caratteri nazionali” per dare addosso a quelli degli altri, o, da parte di Offenbach, utilizzare una sorta di “ironia a-nazionale”8.
Infine, come ben si sa, nonostante i mugugni istigati dalla moglie, Wagner accettò che la prima del Parsifal, a Bayreuth nel 1882, fosse diretta da Hermann Levi, figlio del Gran Rabbino dell’Assia, un direttore che fu sempre ammirato dal compositore tedesco (ancora adesso sono ebrei alcuni tra i migliori direttori wagneriani).
7. Excursus. Wagner e il nazismo via Strauss
Ci si chiede spesso come si sarebbe comportato Wagner ai tempi del nazismo imperante. Per cercare di immaginarlo potrebbe essere utile vedere la vicenda durante il Terzo Reich di un musicista tedesco molto vicino musicalmente a Wagner, cioè Richard Strauss.
La vicinanza musicale di Strauss a Wagner è testimoniata oltre che dalla sua continuazione del cromatismo wagneriano, anche parzialmente dalla sua poetica musicale. Basti pensare che nel 1889 aveva composto un poema sinfonico che aveva intitolato Tod und Verklärung (Morte e Trasfigurazione). Ma la compilation del preludio e del finale del Tristano non si chiamava proprio Liebestod und Verklärung? E poi provate a sentire l’entrata in scena di Elettra nella magnifica opera omonima, annunciata dall’accordo Do#-Mi#-Sol#, anch’esso bitonale come quello del Tristano, anche se in questo caso è una precisa sintesi di Mi maggiore e Do# maggiore e non è, diciamo così, “tonalmente spaesato” – e spaesante – come l’accordo del Tristano.
Ma al di là della vicinanza musicale, questa vicenda è interessante perché Strauss dopo la sconfitta nazista fu proprio processato per collaborazionismo col regime, anche se ne fu prosciolto (come il grandissimo direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler).
Quanto sensata era quell’accusa?
Richard Strauss nel 1933 annotava nel suo diario: «Considero la persecuzione contro gli ebrei di Streicher e Goebbels una disgrazia per l’onore della Germania, una prova d’incompetenza, la più spregevole arma della mediocrità sciatta e priva di talento contro un’intelligenza superiore e un talento più grande». Strauss, che in privato definiva Goebbels «una nullità», a causa di queste posizioni, note alla Gestapo e a Hitler stesso, del fatto che non aveva mai voluto aderire al partito, e per il “caso Zweig” che vedremo tra poco, fu costretto a dimettersi dal posto di presidente della Reichsmusikkammer. Lo aveva accettato malvolentieri, solo due anni prima, per un motivo ben preciso. Strauss aveva la nuora ebrea, nel mirino della Gestapo assieme ai suoi figli, gli adorati nipotini del musicista. Richard Strauss sfruttando il proprio prestigio li proteggeva con tutte le sue forze, così come aveva aiutato artisti ebrei, sia contro le persecuzioni fisiche sia contro quelle intellettuali, come dimostra il suo scontro coi gerarchi quando impose che nel cartellone della sua opera La donna silenziosa figurasse come meritava il nome del librettista, lo scrittore ebreo Stefan Zweig, bella e tragica figura, suo grande amico, al quale nel 1935 scriveva: «Lei pensa che io, in una qualsiasi delle mie azioni, sia mai guidato dall’idea di essere un “Tedesco”? Lei pensa che Mozart fosse consapevole di essere “ariano” quando componeva? Io riconosco solo due tipi di persone: quelle che hanno talento e quelle che non ce l’hanno e che il pubblico sia costituito da Cinesi, Bavaresi o Neozelandesi per me è la stessa cosa». E sapeva bene che quella lettera poteva finire nelle mani della Gestapo. Finì infatti addirittura in quelle di Hitler.
Il vaso era colmo e Strauss fu costretto a dimettersi dalla presidenza9.
Per ribadire il concetto, Strauss nel 1938, proprio mentre il regime nazista stava preparando militarmente e psicologicamente la Germania alla guerra, ebbe l’ardire di creare e mettere in scena l’atto unico Friedenstag (Giorno della pace), un inno alla pace contro la guerra, alla libertà contro la schiavitù. Cose non proprio facili da fare nel centro del nazismo, nemmeno nella posizione di Strauss, che infatti era posto sotto vigilanza speciale10.
Da quanto visto appare chiaro che Richard Strauss aveva più anticorpi di Wagner per detestare il razzismo antisemita. E oltretutto anticorpi ad ampio spettro: gli affetti familiari, le amicizie e il disprezzo intellettuale. Le minacce gli avevano suggerito un boicottaggio discreto che si sposava, così sembrerebbe, alla natura intima, artistica e intellettuale della sua avversione al regime nazista11.
Fu questa natura poco pubblica che gli costò l’accusa di collaborazionismo? Qui forse troviamo un punto di contatto con l’autore del Tristano.
Per alcuni ebrei Wagner nutrì sentimenti di forte amicizia, come con Samuel Lehrs a Parigi, per altri nutriva invece un’ammirazione artistica («Guardate Offenbach. Scrive musica come il divino Mozart»). E’ in queste sfere molto mediate e parzialmente autonome dei fenomeni sociali che agivano i suoi rari anticorpi, aiutati da una visione intellettuale sufficientemente ampia e contraddittoria. Anticorpi scarsi, non pubblici, anzi nascosti, che comunque alla fine gli permisero di prendere le distanze dal funesto razzismo di Joseph Arthur de Gobineau, per troppo tempo ammirato, quando si rese conto che esso preannunciava «un ordine mondiale completamente immorale», come infatti fu.
L’ammirazione per la sua arte mi spingerebbe a vedere in questa redenzione finale la conclusione delle polemiche, ma mi rendo conto che con altrettante buone motivazioni, anche se di diversa natura, potrei giungere alla conclusione che Richard Wagner era una sorta di “rossobruno” ante litteram.
Questo dovrebbe far riflettere sul fatto che la lotta contro una condizione politico-sociale non più tollerabile apre sempre il bivio tra una strada giusta e una sbagliata e che questo bivio non si presenta una sola volta. Ma dovrebbe fare anche riflettere sulle differenti e inaspettate modalità con cui dal letame possono nascere i fiori, per dirla con Fabrizio De André.
Quanto detto è una premessa utile per capire la natura della coscienza infelice del grande compositore tedesco.
8. Wagner alla ricerca del segreto del Capitale e del Potere
Persona non gradevole, invischiato col Potere (anche se infine prese le vesti stravaganti di Ludwig II di Baviera), insoddisfatto di sé, Wagner era un peccatore che voleva scandagliare i segreti del peccato, il suo motore interno. La sua non poteva quindi essere che una coscienza infelice negativa, dove la negatività trovò il modo compiuto di esprimersi nell’adesione di Wagner alla filosofia di Schopenhauer.
Sapeva anche lui che c’era chi stava sopra e chi stava sotto (era stato amico dell’anarchico Bakunin e dopo i moti di Dresda era stato condannato a morte come rivoluzionario). Ma il fallimento delle rivoluzioni e il fallimento della sua intima coerenza rivoluzionaria (che è ben altra cosa del fallimento come rivoluzionario) gli avevano fatto perdere interesse per la denuncia di quel che appariva sulla scena sociale. Wagner, essendo il più grande opportunista e il più intelligente e colto degli opportunisti, voleva scoprire il segreto del Potere su cui egli si strusciava, le sue intime motivazioni.
E le scoprì in quel connubio tra accumulazione infinita di ricchezza e accumulazione infinita di potere di cui Hannah Arendt avrebbe poi genialmente iniziato a parlare nel suo “Le origini del totalitarismo” e che Giovanni Arrighi avrebbe in seguito magistralmente elaborato col concetto di “scambio politico tra il Potere del Denaro e il Potere del Territorio” nel suo capolavoro “Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo” utilizzando gli straordinari risultati storici di Fernand Braudel.
L’anello del Nibelungo è esattamente questa commistione mefistofelica. Un’interpretazione esagerata? Allora come mai Wagner stesso aveva paragonato l’anello a un «portafoglio di titoli borsistici»? In quell’oggetto Potere e Ricchezza si fondono dando vita a una serie di inganni, ipocrisie, meschinità, tradimenti e ferocie. E’ la famosa maledizione di Alberich (il quale, seguendo la nostra interpretazione, rappresenta uno dei due lati del potere, quello del denaro), al quale Wotan (che rappresenta l’altro lato, cioè il potere del territorio, quello politico, culturale e istituzionale) ha portato via l’oro e l’anello magico: «Wer ihn besitzt … Chi lo possiederà verrà consumato dalla preoccupazione; chi non lo possiede, si roderà nell’invidia!».
Ma se questa è la “maledizione sociale”, o meglio che riguarda la “psicologia politica” di coloro che si contenderanno l’anello e le oggettive dinamiche alle quali saranno sottoposti («des Ringes Herr als des Ringes Knecht … dell’anello signore, dell’anello schiavo!»), c’è ne è un’altra prepolitica, primordiale, direi quasi “embrionale”: chi vuole il Potere e la Ricchezza deve rinunciare all’Amore: «Nur wer der Minne … Solo chi dell’amore la potenza rinnega, solo chi dell’amore la gioia respinge, costui solo la magia conquista di costringere l’oro in anello».
In realtà questo ammonimento cantato da Woglinde, ninfa del Reno e custode con le sorelle dell’oro nel suo stato primordiale, custode cioè della condizione originaria del mondo, questo ammonimento, dicevamo, più che una profezia o una maledizione è quasi l’enunciazione di un dato di fatto: signori, le cose stanno così, questo è il prezzo della Civiltà. Perché, se ci pensiamo bene, che altro è la trasformazione dell’oro nel magico anello se non la nascita della Civiltà e dei suoi Varna, le sue caste fondamentali: i brahmani (sacerdoti), gli kshatriya (guerrieri), i vaishya (mercanti e artigiani) e i shudra (servi)?
Il prezzo della Civiltà è dunque la separazione, la suddivisione di ciò che era unito, a partire dalla separazione dell’Uomo dalla Natura e a seguire dalla suddivisione tra gli uomini. Qui si aprirebbe tutto il tema della civiltà e della cultura come organizzazioni di difesa innanzitutto dalle avversità naturali (si pensi non solo a Leopardi ma a “Cannibali e Re” di Marvin Harris) e quindi si aprirebbe il tema del dualismo Natura-Civiltà. Ma andremmo troppo oltre.
Alberich ha rinunciato all’amore, o meglio all’Amore, perché a quello carnale non ha per niente rinunciato. Lo ha fatto quando ha tolto l’oro alle figlie del Reno e forgiato l’anello che gli ha permesso di ottenere il potere di sfruttare gli uomini. Come non ricordarsi qui della «smania di potere» del capitalista denunciata da Karl Marx?
Wotan rinuncia all’Amore quando porta via ad Alberich oro e anello, che però deve dare come ricompensa ai due Giganti che hanno costruito il Valhalla, che del Potere è il Palazzo. Non si cada nell’errore di pensare che il Valhalla sia un lusso, un capriccio: il Potere ha bisogno di un luogo fisico dove svolgersi, organizzarsi e rappresentarsi.
Per farsi pagare i due Giganti tengono in ostaggio Freja, che custodisce l’immortalità degli Dei. E’ quindi a rischio la loro stessa esistenza e Wotan dovrà giocoforza cedere l’oro e l’anello ai Giganti. Ma a quel punto la maledizione scatterà e il gigante Fafner ucciderà il fratello Fasolt, che aveva dato cenni di cedimento perché si era innamorato di Freja e tutto sommato avrebbe fatto una rinuncia inversa: l’amore al posto del potere.
Quindi, Wotan, esortato dalla stolida e arrogante Fricka, guida l’ascesa degli Dei lungo l’arcobaleno che porta al Valhalla, una marcia trionfale interrotta prima dai commenti che il semidio Loge confida al pubblico, «Ihrem Ende eilen sie zu, . Vanno verso la loro fine . » e dopo dal lamento-ammonizione delle Figlie del Reno: «Traulich und treu ist’s nur in der Tiefe . . Schietto, fedele solo è nel profondo: falso e vile è quel che lassù trionfa!».
E’ quella che possiamo definire la seconda constatazione delle ninfe, dopo quella riguardante la rinuncia all’Amore. Una constatazione legata alla prima: una volta fatta emergere la Civiltà, ciò che prima era schietto e leale diventa meschino e traditore, un concetto vicinissimo a quello del “tückische Tag” del “fraudolento giorno” che affligge il Tristano.
Le due interruzioni sono anticipate da una quasi impercettibile indecisione di Wotan, per un istante assalito da un grossen Gedanken, un pensiero grave, sottolineato musicalmente dal tema della Spada che potremmo spiegare con queste parole di Eugenio Montale: “il coltello che recide, la mente che decide e si determina“. In altri termini la speranza che qualcuno spezzi la maledizione dell’anello, cioè del Potere, ovvero risolva l’accordo dissonante della Civiltà. Wotan anticipa silenziosamente la previsione che Loge mormorerà poco dopo al pubblico, ne è turbato ma è subito rasserenato dalla visione della possibile soluzione: «So grüss’ ich die Burg, . Che la rocca io saluti, scevro d’ansia e terrore!». Si capisce perché quando le Figlie del Reno gli ricorderanno pochi istanti dopo che la soluzione è intrinsecamente impossibile, Wotan scatti contro di loro con un ringhio stizzito: «Verwünschte Nicker! Maledette ninfe!»12.
Per recuperare l’anello, Wotan susciterà (in modo un po’ arzigogolo, come vedremo) Sigfrido, l’eroe puro e libero (“più libero di me”, aveva con speranza presagito Wotan nella Valchiria). Cioè il Wagner adulto e compromesso susciterà il Wagner giovane e barricadero di Dresda.
Sigfrido ucciderà Fafner, che assalito dalla “preoccupazione” per l’oro preannunciata dalla maledizione si era trasformato in drago per custodirlo. Prenderà l’anello al drago, ma tutto sommato si ha l’impressione che non saprà mai bene cosa farsene. Non per nulla è un eroe “puro”. Invece Wotan capisce che le cose stanno andando secondo i suoi piani, che tuttavia – e questo è un punto importantissimo – non sono semplicemente quelli di una mera smania di potere. Lo si è capito quando nell’addio alla figlia Brunilde confesserà a lei, e di conseguenza a noi spettatori, quanto sia arrovellato, quanto sia indeciso su come usare il potere, quanto non avesse voluto rinunciare all’Amore. E’ lo straziato «Der Traurigste bin ich von allen! Di tutti io sono il più triste» sul tema musicalmente dolente della Mancanza d’amore; ed è poi la resa alle ragioni di Brunilde e l’ammissione che lui, il dio, non è libero: «So tatest du was so gern zu turn ich begehrt . Dunque tu facesti quel che io desideravo fare, ma che un doppio fato mi costringeva a non fare .».
9. Il doppio movimento del Potere e il doppio movimento di Wotan
Karl Polanyi nella sua opera fondamentale “La Grande Trasformazione” avrebbe parlato proprio di questa ambivalenza, del doppio movimento che agita quel complesso dinamico che chiamiamo “Società” e che comprende il territorio, i suoi abitanti, le sue istituzioni e quindi il potere che li regola. Il doppio movimento che fa pendolare il Potere del Territorio tra il futuro e il passato, tra il progresso e la conservazione. Altro che accordo del Tristano! Cosa c’è di più bitonale e polimorfico del Potere del Territorio che è stretto tra il patto col Potere del Denaro, di cui non può fare a meno, e la salvaguardia della Società, da cui trae sia linfa sia legittimità, ma che è minacciata proprio da quello stesso Potere del Denaro con cui è obbligato ad allearsi?
La società capitalistica è quindi come un immenso accordo intrinsecamente dissonante e ambiguo. Curioso che gli economisti vi cerchino invece la consonanza, l’equilibrio, una tonalità ben precisa. Come pensano di riuscirci?
E’ vero che chi ha una tonalità ben precisa è il Potere del Denaro, che di fatto è l’oggetto di studio dell’Economia, anche se raramente si rende conto che il suo oggetto non è semplicemente il Denaro, ma il Potere su di esso. Ed è precisa perché ha un unico fine: il suo accrescimento infinito. Ma proprio questo è il suo paradosso: il suo fine è l’accrescimento del capitale-denaro senza (un) fine. Accumulazione autoreferenziale, che quindi mai sarà in grado di fornire la tonica risolutiva alla dissonanza sociale, l’equilibrio. E la finanziarizzazione è l’esito patologico di tutto ciò. Che senso ha possedere derivati pari al 1000% del Pil mondiale? Qualcuno vuole comprarsi dieci Terre?
E’ per questo che la Società deve essere difesa e deve difendersi da questo Potere.
I rovelli di Wotan sono i rovelli di questo doppio movimento. E Wagner sembra esserne ben consapevole quando definisce Wotan “Licht-Alberich“, l’Alberich luminoso: un potere che ha un lato oscuro, ingordo, feroce ma che al contempo può avere la forza per farne emergere uno che si contrappone all’oscurità, all’ingordigia e alla ferocia del Potere del Denaro. Licht-Alberich, dunque. Fantastica intuizione di Wagner: le pulsioni che nel Potere del Denaro sono sempre negative, nel Potere del Territorio possono assumere aspetti positivi13.
Questa è una fondamentale asimmetria tra i due Poteri.
Esiste un’asimmetria duale che possiamo chiamare del “doppio movimento capovolto”: il Potere del Denaro deve allearsi col Potere del Territorio anche se il doppio movimento di quest’ultimo e i suoi confini geografici limitano il processo di accumulazione infinita e senza un fine (fine che, qualora ci fosse, sarebbe territoriale, in senso lato).
L’incrocio tra queste due speculari asimmetrie può dar luogo a due esiti contrapposti: da un lato a imperialismi e rivoluzioni dall’alto (i fascismi ne sono stati degli esempi, ma oggi potrebbero avere altre caratteristiche politiche); dall’altro a universalismi e rivoluzioni democratiche che saranno poi formalizzate da accordi tra il Potere del Territorio e la Società (patti costituzionali)14.
Invece nel Ring il doppio movimento che sta nella zucca di Wotan non ha soluzioni.
Il Potere del Denaro, Alberich, scatenerà il figlio Hagen contro Sigfrido. Vuole che gli porti via l’anello. E Hagen con una serie di raggiri e tradimenti riuscirà ad uccidere l’Eroe. Ma l’anello sarà preso da Brunilde, perché in fondo era il loro pegno d’amore.
C’è un momento importantissimo in cui con trucchi e bugie Hagen riesce a portare dalla sua parte anche Brunilde. Sarà proprio lei a rivelare ad Hagen l’unico modo per uccidere l’Eroe. Grande Wagner! Il peccatore Wagner, il compromesso Wagner sa benissimo, perché lo ha sperimentato, che il Potere non solo corrompe direttamente, ma anche insidiosamente facendo leva su sentimenti e valori opposti ai suoi. In questo caso l’amore di Brunilde per Sigfrido viene rovesciato in desiderio di vendetta per il suo inconsapevole tradimento (di fatto era stato drogato). E’ così audace pensare qui all’impero che ci raggira fino al punto che noi appoggiamo i suoi bombardamenti e i suoi massacri di uomini, donne e bambini in nome di diritti umani universali? Pensiamoci.
Data questa situazione, senza soluzione, tutto infine imploderà. Il Valhalla sarà consumato dalle fiamme tra le maledizioni di Brunilde che ha scoperto l’inganno e quindi anche la sua propria colpa quando ha dato retta ad Hagen. Si getterà in quelle stesse fiamme col suo cavallo, in ciò che qualcuno ha paragonato ad un sati, cioè al suicidio rituale delle mogli indiane sulla pira del marito defunto (che però il più delle volte erano forzate a farlo). Hagen nell’ultimo disperato tentativo di impadronirsi dell’anello annegherà nelle acque del Reno e le Ninfe canteranno felici perché tutto è ritornato al suo posto.
Le ultime note saranno quelle sublimi del tema della Redenzione d’Amore.
10. L’imbroglio della Gesamtkunstwerk wagneriana: pretendere l’assoluzione della coscienza infelice negativa presentandola come offerta di redenzione
Ma ha proprio vinto l’Amore? Ci sarà redenzione?
In realtà sorgono dei dubbi, perché non c’è più nessuno. Non ci sono più gli uomini né le donne, non ci sono più gli Dei. Non c’è più quindi né l’Amore né i due Poteri15. E’ rimasto il Reno con le sue Ninfe, lo stato di natura prima della Civiltà, prima cioè dell’accordo dissonante che crea la Storia con la tensione che esso induce e che nasce dalla distanza che il linguaggio umano pone tra le cose e i loro concetti, distanza che apre la possibilità della Storia come prassi trasformatrice16. Dissonanze che nel Ring più che dalla musica sono infatti espresse dall’opposizione tra ciò che un personaggio dice o fa e il leitmotiv che lo accompagna, che a volte è come se ci sussurrasse: “Guardate che non è vero“, oppure, per l’appunto, “Guardate che c’è una distanza“.
C’è stata una soluzione? Ci sarà realmente una ri-soluzione? In verità non c’è modo per saperlo. Si può solo sperarlo, ma per ora è una disperazione. “Soluzione” e “redenzione” sono concetti che hanno senso solo se c’è l’Umanità, che prima ancora di essere un concetto è una costruzione culturale. Se non c’è, puf, non ci sono più problemi né soluzioni e nessuno sarà redento. A chi interesserà se l’Universo si espande o si contrae? A chi interesserà se il Sole continuerà a splendere o si spegnerà? A chi importerà se la Terra verrà distrutta da Melancholia o no? Sì, certo, la Natura e la Civiltà vengono finalmente riunificate, ma chi se ne accorgerà se non c’è più Umanità? Alberich, l’unico personaggio che sopravvive al crepuscolo? L’iniziatore della scissione? La Storia riprenderà con lui, con un nuovo accordo dissonante? Si ripeterà quindi il disastro dopo la redenzione? Mah!
Chiediamoci da dove scaturisce questa non-soluzione.
Wagner capisce dove si è incagliato, ne capisce le meschinità, le ipocrisie e la ferocia però, per parafrasare Nietzsche, fa del punto in cui si è incagliato la sua meta. Ma quello «scoglio su cui era naufragato» e che interpretava «come meta, come recondita intenzione» non era la filosofia di Schopenhauer, come pensava Nietzsche17.
Quella serviva a Wagner per esprimere la coscienza del proprio naufragio, non era il naufragio stesso, che era già avvenuto e non nel mare della filosofia, bensì in quello sociale ed etico.
Quella di Wagner è quindi pienamente una coscienza infelice da cattiva coscienza. Con le sue “scoperte” nel Ring, Wagner trasforma la propria coscienza infelice nella «cattiva coscienza del suo tempo … Attraverso Wagner la modernità parla il suo linguaggio più intimo: non nasconde né il suo bene né il suo male, ha disimparato ogni pudore di sé», come scrisse con grandissimo acume Nietzsche, che però non si rendeva conto che quella cattiva coscienza derivava dalla particolare elaborazione che Wagner aveva fatto della propria coscienza infelice e delle sue motivazioni storiche e sociali. E non lo aveva capito non perché fosse stupido, ché anzi era un genio ineguagliabile, ma perché era un filosofo che ragionava da filosofo. Così Nietzsche aveva un bel rimproverare a Wagner di non aver chiuso il Ring secondo le primitive intenzioni, cioè «con un canto di gioia al libero amore, consolando il mondo con la speranza di un’utopia socialista con la quale “tutto diventava buono” [...]». Un rimprovero inutile, perché i motivi per cui Wagner era riuscito a scoprire con notevole lucidità le ragioni profonde del male sociale, erano gli stessi per cui non era in grado di combatterlo. Wagner non avrebbe mai potuto non tradire le primitive intenzioni, perché aveva capito il nocciolo duro del problema proprio perché lui stesso ne era parte18.
Così in Wagner il male sociale alla fine rimaneva imprigionato nella forma di un male esistenziale; paradigmatico e mitologico quanto si vuole, ma esistenziale, che non poteva rovesciarsi in una “utopia socialista”. In Wagner il privato non riesce a diventare pubblico. E la soluzione al male esistenziale poteva solo essere la non-esistenza popolata dagli Un-wesen, dagli spettri, dello stato originale del mondo.
Wagner per capire l’essenza del Potere era sceso nel regno dei Nibelunghi e poi era risalito fino alle altezze del Valhalla.
Marx aveva compiuto il primo dei due percorsi, scendendo nel «segreto laboratorio della produzione». Giovanni Arrighi compirà il secondo, abbandonando il chiasso del mercato capitalistico, cioè del mondo come appare a prima vista, per salire al piano superiore «dove il possessore di denaro incontra non il possessore della forza-lavoro, ma quello del potere politico»19.
Ma mentre Arrighi, che conosceva perfettamente Marx, ha riconosciuto ed enunciato la necessità di sintetizzare i risultati dei due percorsi, pur lasciando aperto il problema di come fare, Wagner nonostante la stupenda intuizione di scrutinare sia gli abissi sia le altezze, è rimasto al piano superiore, dove risiedeva anche nella vita reale, a rimirarsi disgustato l’ombelico finché lo ha tratto d’impaccio la distruzione del Valhalla, dopo la quale, infatti, non è che non ci fosse più nulla che valesse la pena di osservare, ma non c’era proprio più niente di osservabile.
Marx, col suo viaggio agli inferi (all’«inferno della produzione») era riuscito a trasformare la Schein, (l’apparenza fantasmagorica) della sfera della circolazione, nell’Erscheinung (la forma fenomenica) della sfera della produzione. Il mercato era dunque il modo in cui la produzione risaliva alla luce con le sue contraddizioni dall’oscuro dei suoi laboratori segreti. Arrighi ha dimostrato come la geometrica pulizia delle contraddizioni di questa dialettica fenomeno-essenza si sfaldi nelle dinamiche più complesse e accidentate del piano superiore del comando capitalistico, perché il Potere del Denaro e il Potere del Territorio non sono simmetrici e solitamente non suonano all’unisono. Lì le intenzioni hanno un ruolo preminente. Ma dato che sono tante e differenti (è l’etrogenesi dei fini di Gianbattista Vico) e poiché devono agire in condizioni date e infine sono limitate da meccanismi che si ergono come autonomi davanti agli attori, sono rilevanti anche i risultati inintenzionali.
E tuttavia una logica è riconoscibile, anche nel caos, e quindi, in potenza, è anche concepibile un progetto alternativo che sfrutti quell’asimmetria. Wagner, invece, non aveva gli strumenti per evitare di essere sopraffatto dal caos indotto dall’alleanza-scontro tra i due Poteri e quindi ha trovato la soluzione nel passaggio da un mito negativo popolato dagli uomini (e dai loro “ideal-tipi”, cioè gli Dei), a un mito positivo popolato dal nulla.
Che sia qui il segreto della poetica wagneriana del mito? Il mito non è l’origine dove il mistero della Civiltà dovrebbe essere rivelato? La leggenda non è ciò che è in grado «di far sprofondare l’animo in uno stato di sogno e condurlo di colpo fin sulla soglia della piena chiaroveggenza, e l’animo scopre allora un nuovo concatenarsi degli eventi del mondo, visione che i suoi occhi non potevano scorgere nello stato ordinario di veglia»?20
C’è il trucco qui? Sì e no.
No, in quanto nemmeno nella Matematica i risultati più profondi si ottengono “nello stato ordinario di veglia” (quello serve per rivederli, per esporli o per impararli). No, perché il mito è una sorta di “anti-modello”, permette cioè di segnalare che i modelli concettuali che ci facciamo della realtà, possono espungere, e lo fanno quasi sempre, la piena ricchezza della realtà stessa. Il modello razionale non toglie il velo di Maya, lo squarcia soltanto in alcuni punti. Un risultato comunque importante, basta che non si sostenga che quello che non si riesce a vedere non ha comunque importanza. Ma dato che questo è ciò che si fa praticamente sempre, per motivi di prestigio e d’interesse, il modello razionale stesso, nel suo uso sociale, diviene un altro velo di Maya.
La lettura razionale del ruolo del mito, o meglio la sua meta-lettura razionale, è allora abbastanza immediata: occorre tenere conto di tutte le dimensioni che fanno della realtà la realtà. E soprattutto del procedere di queste dimensioni. Esattamente come bisogna fare con l’accordo del Tristano. I marxisti purtroppo questo lo hanno fatto raramente (e parlo di loro perché il marxismo è la mia matrice filosofica). Marx era partito dalla cellula “merce” perché voleva «risalire dall’astratto al concreto»21.
Ma al concreto come «una totalità ricca di molte determinazioni e rapporti», per Giove! Invece troppo spesso i marxisti sono partiti dalla merce e lì si sono concettualmente e politicamente arenati, riducendo così il mondo all’incrocio tra l’asse capitale-lavoro e quello struttura-sovrastruttura, le stesse scheletriche dimensioni che delimitano la teoria e la prassi del marxista-Sigfrido, il paladino puro e quindi destinato ad essere drogato dal würzigen Tranks, il filtro speziato che i due Poteri estraggono dal loro scrigno per arrivare là dove da soli non arriverebbero mai.
Detto ciò, per capire perché nell’uso del mito c’è anche il trucco, occorre un supplemento d’indagine. In Wagner il mito è ovunque. Nel Lohengrin Elsa di Brabante è Eva, che troppo vuole conoscere, tentata dal “serpente” Ortrud. Nel Parsifal l’oggetto mitico è il Santo Graal. Nel Ring è l’anello. E si potrebbe continuare. In Wagner la scoperta delle origini dà accesso alla redenzione. Nel Tannhäuser la casta Elisabeth è, per l’appunto, immacolata, ergo allo “stato originale”. Redimerà, ma da morta, il libertino Tannhäuser, emblema della personalità doppia di Wagner, della sua coscienza infelice negativa, anche se qui le parti sono significativamente invertite perché a doversi redimere, avendo interiorizzato le accuse a lui mosse dai custodi delle convenzioni etiche e sociali del Potere, è proprio il dissacrante e antiborghese menestrello, una sorta di Sigfrido sfiorito e appannato in cui l’eroismo e la purezza sono scomparsi lasciando solo, come traccia del loro passaggio, la ribellione agli schemi. In altri termini è una sorta di bohémien senza più classe di riferimento, senza più un anticapitalismo sociale con cui allearsi, che quindi si riduce a praticare una “anti-morale” speculare alla “morale” borghese. A Tannhäuser si potrebbero applicare una per una tutte le critiche che Pasolini fece agli studenti del Sessantotto. Solo che, una volta capita l’inconsistenza della “ribellione” di Tannhäuser, Wagner non trova altra soluzione che fargli fare un pellegrinaggio purificatore a Roma22.
Non aveva tutti i torti Nietzsche a storcere il naso. Da quel pellegrinaggio il menestrello tornerà quando anche borghesi e Potere sono andati a farsi benedire (in senso metaforico). Ecco allora che sembra nuovamente cedere alla tentazione (cioè a Venere) ma viene definitivamente redento dalla visione del corpo di Elisabeth, sul quale morirà anche lui. Sembra un film di Hollywood, dove i cattivi muoiono anche quando si redimono. Anzi, muoiono proprio perché si redimono.
Ancora una volta tutto converge al Nulla. Ma non è proprio la Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte totale teorizzata dal musicista tedesco, il veicolo più adatto per giungere al Nulla? L’arte totale è il convogliarsi di tutte le arti in un punto di convergenza che poi si rivela essere il punto di origine, il Big Bang della Civiltà. Un concetto che riecheggia tante cose, ad esempio la sintesi dei sensi descritta da Leopardi nello “Zibaldone” o la “pianta originaria”, l’Urplanz, che Goethe pensava di aver trovato a Palermo e nella quale si dovrebbe poter leggere la geheimes Gesetz, la “legge segreta”, l’heiliges Rätsel, il “sacro mistero”, che tutto tiene unito.
Insomma, l’opera d’arte totale come lösende Wort, come parola, cioè, che scioglie, che risolve l’enigma dell’unità dell’esistente.
Perché il peccato sta nella scissione. Il “wagneriano” Charles Baudelaire scriveva ne “Il mio cuore messo a nudo“: «Che cos’è la caduta? Se è l’unità divenuta dualità, è Dio che è caduto. In altri termini, la creazione non sarebbe la caduta di Dio?». Chi più dello scisso Wagner, portatore della coscienza infelice negativa, poteva saperlo? La creazione (della Civiltà) non è un atto di scissione, di separazione dall’Amore? Chi meglio di Wagner poteva sapere che la caduta non è dall’alto verso il basso ma dal basso verso l’alto? Non è questa la parabola del Ring?
Quanto sopra esposto fornisce, almeno in parte, la risposta a una domanda di Baudelaire, che può sembrare un po’ retorica ma è invece centrale: «Da quali profondità il maestro ha attinto … questa perfetta conoscenza della parte satanica dell’uomo?».
Se è vera la nostra risposta, possiamo a questo punto capire perché nella poetica del mito c’è il trucco: con la sua Gesamtkunstwerk centrata sulla leggenda, Wagner in realtà non spiega, ma abbaglia; e infine si compiace di aver metaforizzato tutto e non aver dovuto prendere posizione su niente. La sua redenzione in realtà assomiglia tanto a un’autoassoluzione. Qui sta l’inganno del, giustamente, celebrato senso di «solitudine assoluta … che ha un orizzonte immenso e una vasta luce diffusa: l’immensità senz’altro scenario che se stessa» (ancora Baudelaire).
Se l’Arte si deve affermare «contro la grigia quotidianità», con la sua arte Wagner voleva mostrare al mondo che era egli stesso che si elevava contro e sopra le insoddisfazioni e gli squallori etico-sociali della propria quotidiana compromissione col Potere. L’arte era il modo con cui il musicista tedesco risolveva la propria coscienza infelice negativa.
“Io ero l’eroe puro Sigfrido,” pare che dica. “Sono stato sconfitto perché il Potere è corrotto e corruttore, ma l’Arte mi ha riscattato”. Bel ragionamento, e con un effetto boomerang notevole. Perché se Sigfrido è, come direbbe Freud, affetto dall’onnipotenza del fanciullo, spiegata così bene musicalmente da Wagner nel “Viaggio di Sigfrido sul Reno” all’inizio del Crepuscolo, il compositore invece può anche tentare di mimetizzarsi dietro Wotan, ma essendo per l’appunto l’autore, è smascherato dallo stesso Freud come bambino non cresciuto in cui l’originaria sensazione di onnipotenza è ormai diventata una patologia. Possiamo allora vedere Wagner come Jack Torrance all’Overlook Hotel (immensa custodia dei gelidi ordini simmetrici della civiltà), che riempie decine e decine di fogli con un’unica frase: “Il mattino ha l’oro in bocca”, ovvero l’inizio che rimane sempre inizio e non arriva mai a uno spiegamento, per non dire a una fine. Jack Torrance è rimasto alla fase orale, ha infatti il mattino in bocca e ha perso lo “shining” che invece possiede il vero bambino, suo figlio Danny. Quello shining, quella “luccicanza” che permette di andare oltre il visibile, oltre l’apparenza delle cose oltre, appunto, lo Schein. Nel maturo Jack lo shining è diventato allucinazione quasi religiosa (gli “ordini superiori” di cui gli parla il barman Lloyd) e il mattino è solo l’impietosa rivelazione che la creatività è finita, l’inizio è ormai la fine23.
Per questo, come si è detto, Wagner ci propone una redenzione ma in realtà pretende un’assoluzione. E lo fa in modo magistrale, perché imbroglia sia nel merito sia nel metodo.
11. Coscienza infelice, cattiva coscienza, e falsa coscienza
Come spesso accade, anche in Wagner la coscienza infelice si sdoppia in cattiva coscienza e falsa coscienza. E la cattiva coscienza e la falsa coscienza alla fine si confondono. Qui noi “giudici” di Wagner non possiamo più assumere un atteggiamento di superiorità. Sarebbe inopportuno perché non siamo innocentemente estranei a quello sdoppiamento. Qui, lo si ammetta o meno, ognuno di noi è un hypocrite lecteur, semblable e frère del compositore maledetto. E quindi è un atto d’indulgente onestà credere alle note finali del Ring, all’inno della redenzione tramite l’Amore, perché sarebbe sleale negare che nella sua confusione tra cattiva coscienza e falsa coscienza Wagner non creda veramente che l’unica salvezza, l’unica possibilità di redenzione, seppur momentanea, che non sia il Nulla, è fornita dall’amore (siamo passati alla “a” minuscola), che ha come diretto antagonista il potere.
I giochi di potere impediscono l’amore tra Tristano e Isotta. Nella Tetralogia, i rappresentanti del potere, cioè gli Dei del Valhalla, sono tratteggiati come meschini, ingordi e ipocriti. Sono così squalliducci che il semidio Loge (Wagner stesso verosimilmente), alla fine dell’Oro del Reno dice agli spettatori che ogni tanto si vergogna di stare con gente del genere. Si salva temporaneamente solo l’arrovellato Wotan quando deve dare lo straziante addio all’amatissima figlia Brunilde, che come Antigone (il paragone è del compianto maestro Sinopoli) ha seguito la legge del cuore scontrandosi con l’ipocrisia della legge formale di cui è custode Fricka, la moglie di Wotan, una mediocre arrogante che non sfigurerebbe nei nostri governi.
Cosa era successo? Wotan voleva che Brunilde salvasse Siegmund che aveva appena messo incinta Sieglinde, moglie di Hunding e da questi era stato sfidato a duello. Il desiderio di Wotan era dettato dalla legge del cuore, perché Siegmund e Sieglinde si amano, benché fratelli (e non c’è da stupirsi, perché la coscienza infelice per prima cosa deve schiaffeggiare l’ipocrisia delle tradizioni e delle convenzioni sociali). Ma ovviamente l’algida Fricka, Dea della legge (e delle convenzioni sociali), sostiene che è il legittimo marito che deve uccidere l’amante traditore.
In realtà Wotan ha anche un altro motivo per preferire Siegmund. A parte il fatto che i due fratelli incestuosi sono suoi figli, il pargolo concepito nel ventre di Sieglinde è proprio l’Eroe puro e libero (tanto libero da nascere da uno schiaffo alle convenzioni e alle leggi), l’alter ego rovesciato di Wotan. Insomma: è Sigfrido. Inutilmente Wotan rimprovera alla moglie di non vedere al di là del suo naso: «Stets Gewohntes … Solo la tradizione riesci a comprendere, ma il mio pensiero mira a tutto ciò che ancora non è avvenuto». Ma non c’è niente da fare: deve ubbidire alla legge formale (e alla moglie). Quindi, malvolentieri, ordina alla valchiria Brunilde di aiutare Hunding ad uccidere Siegmund.
Brunilde però non ubbidisce. Siegmund viene allora ucciso per intervento di Wotan stesso e Brunilde che ha disubbidito deve essere punita. E’ per questo che la troviamo sulla rupe ad affrontare il padre. Però un padre straziato per quel che è costretto a fare: punire ingiustamente la figlia adorata e abbandonarla per sempre.
Chi ha vissuto grandi ideali ed è poi sceso a compromessi, o è irrimediabilmente fetente, oppure qualche dubbio, qualche rimpianto, persino qualche nostalgia gli passerà pure per la mente. Wagner ha nostalgia di Richard-Sigfrido a Dresda e deve dire in qualche modo che il Ring sta parlando dei suoi dilemmi, dei suoi rimpianti e delle sue nostalgie. Che romantico sarebbe, se no? E poi l’opera la sta scrivendo lui, Madame Bovary c’est lui.
Wagner-Wotan sceglie una donna per mettere a nudo i suoi dubbi. Infatti la pura Brunilde non demorde, si difende rigirando il dito nella piaga del padre, dicendogli “tu mi punisci, ma sai che ho fatto quello che intimamente tu volevi che io facessi”: «Als Fricka den eignen Sinn … Quando Fricka il tuo proprio senso ti straniò; quando al senso di lei ti piegasti, fosti nemico a te stesso».
Chissà, forse è in quel momento che Wotan concepisce il piano di far circondare la rupe da un fuoco protettore inestinguibile che potrà essere superato solo da un puro eroe. Perché sa benissimo che l’unico è Sigfrido, l’eroe libero che deve liberare l’Umanità. Un compito da niente con tra i piedi le Sacre Rune, le leggi fondamentali del mondo, e una Fricka che rema contro con le sue leggi formali e le sue convenzioni sociali. E sapete perché lo fa, questa inflessibile ma propensa all’autoassoluzione Fricka? Perché è una conservatrice che teme che se dovesse cedere su Legge e Ordine, lei e la sua combriccola perderebbero consensi. Proprio così: «Von Menschen verlacht … Derisi dagli uomini, privati della potenza, noi Dei saremmo perduti». Sembra di sentire un politico.
12. Attenzione agli eroi senza macchia e senza paura: combinano disastri
Ma chi è Sigfrido (oltre ad essere, come sappiamo, il nipote di Wotan)?
Sigfrido è un eroe esuberante e ingenuo che non capisce niente della struttura del potere e dei suoi giochi e ne viene triturato. Non ci capisce nulla proprio perché è puro. Quindi crede a quel che gli appare davanti, in superficie. Non capisce che i buoni possono diventare cattivi e che i cattivi possono prendere le sembianze dei buoni. Non capisce che il Potere usa pozioni magiche che confondono, che fanno scambiare i ruoli.
Lui è schietto e pensa che i suoi nemici siano altrettanto schietti, che le loro malefatte siano schiette, evidenti. Insomma crede che ci siano i Buoni e i Cattivi, e soprattutto che siano nettamente distinguibili. Ma dato che le cose non vanno in questo modo, non ce la potrà mai fare. Paradossalmente il puro, libero e immediato Sigfrido avrebbe bisogno del marcio, vincolato e arrovellato Wotan, che conosce, per esserci sguazzato dentro, le schifezze del potere, anzi dei due Poteri: quello del Denaro e quello del Territorio. L’autore Wagner esprime un bisogno preciso e in definitiva non raro: una volta nella piene maturità biografica, biologica e compromissoria, una volta che abbiamo visto e saputo il brutto e il bello, non sentiamo forse la necessità di comunicarlo, noi corrotti, alla gioventù ancora incorrotta? Non sentiamo la necessità di avvertirla, di farle capire che il puro e lineare eroe ha bisogno del corrotto e arrovellato Wotan perché la realtà è nascosta dal velo di Maya? Il bisogno c’è, non si può negare. Il problema, che è poi quello dell’educatore, è come far capire ai giovani cosa abbiamo noi appreso della struttura e degli strumenti del male e del potere senza che questi giovani vengano corrotti da noi stessi. E non è un problema banale.
Il velo di Maya, come insegna Schopenhauer, o Matrix, come insegnano Lana e Andy Wachowski (questa analogia me l’ha suggerita mio figlio), costringe a non accontentarsi di quel che appare, ma a investigare, ad andare a fondo, perché i veleni penetrano dappertutto, li metabolizziamo e se non ci disintossichiamo è impossibile lottare, è impossibile cambiare.
Ma la collaborazione tra Wotan e Sigfrido è praticamente impossibile. Sigfrido verrà ucciso dopo essere stato ingannato e Wotan non ce la farà a cambiar rotta, anche se presagisce che porta alla rovina. E rovina sarà, grazie al sacrificio, non eroico ma d’amore, di Brunilde, l’unico vero personaggio positivo in quindici ore di opera. Il Valhalla crolla avvolto dalle fiamme, con tutto il suo contenuto d’ipocrisia, ingordigia e meschinità. E’ il Crepuscolo degli Dei.
Nell’ultima opera sarà ancora una donna, l’ambigua Kundry, una specie di Licht-Alberich femminile in piccolo, a redimere inintenzionalmente il tardo nel capire Parsifal, a fargli assumere le sue responsabilità. La natura scissa di Kundry si riversa nella dualità dell’effetto del suo desiderio erotico: Parsifal prende coscienza rifiutando l’amore carnale di Kundry e Kundry espelle il proprio lato cattivo grazie alla presa di coscienza di Parsifal. Certo, il risultato è quella castità così tanto detestata da Nietzsche in Wagner (assieme all’antisemitismo), ma il compito viene eseguito. E in cosa consiste? Non nella conquista del mondo, ma nel preservare la pace e l’amore universali. Che altro rappresenta il Santo Graal? Per chi lo vuole capire, ovviamente, e non farsi venire l’orticaria appena sente la parola “santo”. Lo avevano capito benissimo i nazisti che infatti ne vietarono la rappresentazione.
A questo punto è necessario aprire un inciso che condensa alcuni temi precedenti in suggerimenti che meritano a mio avviso di essere prima o poi sviluppati.
Hunding in onore al costume ospita Siegmund durante la notte ma già preannunciandogli che all’alba lo dovrà sfidare a duello, ovvero cercherà di ucciderlo. Abbiamo, cioè, di nuovo, come nel Tristano, il tema che possiamo definire dell’alba ingrata. La notte è il riparo dei sogni, cioè del disfacimento della realtà, governata dal Potere, regolata dalla Civiltà e spesso non tollerabile. L’alba dissolve i sogni e immette drammaticamente nella realtà tutta quella schiera di amanti, ladri, banditi, cospiratori ed emarginati che nella notte avevano trovato rifugio. La notte quindi è una protezione temporanea dove le “scorie” della Civiltà possono sopravvivere coi loro desideri24. L’alba riporta alle regole “civili”. L’alba che aspetta Siegmund, che in essa troverà la morte, è il lato eroico della stessa alba che chiude la parentesi fisica della passione tra Tristano e Isotta e apre la strada alla loro tragedia. Un’alba diretta discendente di quella dei trovatori provenzali: “Mas paor \ Nos fai l’alba, \ L’alba, oi l’alba» (Ma abbiamo timore noi dell’alba. L’alba, ahimè, l’alba – Raimbaut de Vaqueiras). E’ la stessa alba di Romeo e Giulietta: «Look, love, what envious streaks \ Do lace the severing clouds in yonder east. \ Night’s candles are burnt out, and jocund day \ Stands tiptoe on the misty mountain tops. \ I must be gone and live, or stay and die.» (Guarda, amore, che raggi invidiosi annodano le nubi che si separano laggiù a oriente. Le candele notturne si sono consumate e il lieto giorno sta in punta di piedi sulle cime delle montagne nebbiose. Devo partire e vivere, o restare e morire)25.
L’alba è il dominio di Fricka, delle regole. Questa dicotomia notte-giorno ci obbliga a pensare che se l’emancipazione non può procedere che dalla modernità, che della Storia è una nuova alba (che pure è necessaria perché anche la notte può avere la sua ingannevole Regina, come ci avverte Mozart), tuttavia non può avere nei confronti del premoderno lo stesso atteggiamento di semplice e netto disprezzo della modernità stessa. E’ un tema complesso, ma dobbiamo per lo meno ricordare che se Marx nella Critica al programma di Gotha per illustrare una società in cui non ha senso parlare di socializzazione tramite il valore prende a esempio la post-capitalistica società collettivistica, in Per la critica dell’economia politica del 1859 egli basa l’esempio su comunità pre-capitalistiche (l’industria rurale-patriarcale e i servizi e le prestazioni in natura del Medioevo). Con ciò si possono spiegare le ambiguità del termine “anticapitalismo” e si può anche spiegare perché in una minuta della risposta alla narodniki Vera Zasulič, Marx sostenesse che il «nuovo sistema» a cui la società moderna tenderebbe «sarà la rinascita in una forma superiore di un tipo sociale arcaico». In quel caso l’affermazione faceva riferimento alla vecchia (“arcaica”) comune contadina russa, qualcosa di esistente. Oggi il problema dell’emancipazione è che il passato è stato spazzato completamente via e nondimeno bisogna immaginare e fare immaginare un futuro “arcaico” in forma superiore diverso dal “progresso infinito” capitalistico. Dopo tutto, l’emancipazione è necessaria anche perché il progresso produce la sofferenza delle sue scorie.
Non possiamo adagiarci quindi su nessuna forma di linearità. Alla lotta per l’emancipazione non è fatto nessuno sconto, perché è imbevuta di contraddizioni. Contraddizioni che portano al fenomeno dell’antistoria che interloquisce coi protagonisti della storia. Ad esempio è qui, come suggerisce Giancarlo Quaranta, che vive la verità, in senso letterale, del Cristianesimo. Una verità la cui sapienza «non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo, che vengono ridotti al nulla» (Paolo, Prima Lettera ai Corinzi).
Ed è qui che si capisce la genialità della definizione di Costanzo Preve del pensiero di Marx come “utopia scientifica“. L’emancipazione ha bisogno di ragione e profezia. Nessuno dei due ingredienti da solo è sufficiente.
Questi temi, che varrebbe la pena di sviluppare, ci fanno capire quanto la concezione del mito di Wagner sia distante dall’utopia socialista in generale e in particolare da quella scientifica di Marx.
13. Wagner vs Verdi, oggi
Per fortuna nella sua arte Wagner ha espresso il lato irrequieto della sua idea nazionale, il lato ambiguo dei suoi agenti, il rovello psicologico dei decisori, e non il suo lato trionfale. Ragion per cui per trovare antisemitismo o spirito di conquista nelle sue opere occorre un’analisi al microscopio francamente opinabile26. Certo, è spiritosa la battuta di Woody Allen: «Quando sento il preludio del “Tannhäuser” mi viene voglia d’invadere la Polonia». E’ molto divertente. Però, santiddio, signor Allen: il preludio del Tannhäuser non è un inno di armate lanciate alla conquista, ma un coro di pellegrini penitenti che vanno stracciati a Roma per redimersi. Una svista, come quella di chi vuole mettere il Coro del Nabucco al posto di Fratelli d’Italia.
Però, a pensarci bene, oggi come oggi «un suono di crudo lamento» ben si adatterebbe come inno nazionale. E’ ormai, come si suole dire, la “cifra” del nostro Paese.
Per concludere, oggi serve di più un Verdi o un Wagner?
Oggi che le masse vengono finanziarizzate, cioè prese in ostaggio dalla finanza, con mutui usurai, coi servizi pubblici che tra poco saranno messi sul mercato costringendo a fare assicurazioni per la sanità e per la pensione, a chiedere prestiti per l’istruzione dei figli, oggi, cioè, che i diritti costituzionali stanno per essere finanziarizzati e saremo surrettiziamente ma definitivamente costretti a far nostre le logiche della finanza e del mercato, cioè del cuore pulsante del capitalismo, perché in questo sistema tutto nasce dal Denaro e tutto rifluisce nel Denaro, beh, altro che velo di Maya c’è da squarciare, altro che Matrix.
Matrix al cubo, un velo di Maya che ne nasconde un altro che ne nasconde un altro, inganni nascosti da misteri avvolti in bugie. Meccanismi opachi nascosti da vetri smerigliati protetti da porte blindate. Ecco perché hanno presa le varie teorie del complotto.
Ma non c’entra nessun complotto, sono i meccanismi dell’anello del Nibelungo, sono cioè quei meccanismi che, diceva Marx, si contrappongono come oggettivi a tutti gli attori sociali, anche ai capitalisti stessi, anche ai potenti. Che altro è infatti la maledizione di Alberich se non questa oggettività, la maledizione a cui si deve piegare anche il potentissimo Wotan fino a rimanerne vittima, fino ad essere causa del proprio crepuscolo?
Ma questa non è proprio la previsione di Marx sulle sorti del capitalismo?
E’ quindi meglio Wagner o Verdi? Beh, provate a guardare un’enrosadira sulle Dolomiti e un tramonto dalla Costiera Amalfitana e poi ditemi se è più bello il mare o la montagna. E’ una questione di cosa uno cerca. Banalmente, la profondità o l’altezza, quel che sta sopra o quel che sta sotto. Io dico che nella congiuntura storica in cui ci troviamo bisogna guardare ciò che sta sotto, togliere i veli di Maya, liberarci da Matrix, denunciare il patto tra Potere e Denaro, un patto, ripeto, che è un movimento instabile, non un complotto; capire quindi perché capitalismo e imperialismo sono determinazioni riflessive, perché cioè sfruttamento e guerre imperiali si determinano a vicenda. Quindi abbiamo bisogno di Wagner.
Abbiamo però parallelamente bisogno di Verdi, della scena sociale, delle lotte che in essa si svolgono. Se democrazia ci può essere solo da lì può nascere. Ma a patto che queste lotte abbiano la visione libera e non vadano a cercare di incornare il mantello rosso (di Maya) che il toreador gli sventola davanti per infilzarle meglio.
Ma qui sono anch’io giunto, come Nietzsche, alla Carmen, e quindi mi fermo.
Il terzo insegnamento è che l’analisi tecnica specialistica serve, ma solo se si riconosce che non sta parlando dell’oggetto reale con tutte le sue determinazioni, ma di un’altra cosa, di un piccolo e parziale “di cui”.
Se non si guarda l’intero contesto, le sue molteplici dimensioni e i loro molteplici movimenti, si cadrà in un relativismo dove ognuno può portare acqua al proprio mulino, focalizzandosi su una cosa o su un’altra e l’unica difesa da questa manipolazione, involontaria o meno, non potrà essere altro che la negazione della realtà stessa, oppure l’accettazione di una qualche sua versione più seducente. In altre parole, o il cupio dissolvi nichilista di Wagner o le note di un pifferaio magico.
Nel primo caso abbiamo visto come andrebbe a finire. Se invece ci faremo incantare dai pifferai magici, altro che Liebestod, altro che Verklärung. L’accordo dissonante risolverà se non in uno schianto, di sicuro in un pianto generale.
Oggi siamo ancora al piagnisteo, alla catastrofe a zone. Alla guerra mondiale a pezzetti, come ha capito anche papa Francesco I.
Ringrazio Renzo Bragantini, già presidente del corso di laurea “Letteratura, Musica e Spettacolo” dell’Università La Sapienza di Roma per le nostre lunghe discussioni che mi hanno indotto a scrivere questo testo. Sua la segnalazione della Ballata N. 1 di Chopin. Ringrazio Antonio Rostagno, docente di “Musicologia e Storia della Musica” alla stessa Università, per aver pazientemente letto la prima stesura del saggio, avermi precisato le relazioni tra l’accordo del Tristano e quello dell’Elettra e infine avermi ricordato il concetto di “androginia” usato da Nattiez.
Il contenuto di questo breve saggio è comunque di mia esclusiva responsabilità.
NOTE:
1 Il presente scritto è il testo ampliato di una conferenza-lezione tenuta presso l’Istituto di Storia della Musica della Sapienza di Roma, il 28 ottobre 2014. Nota: nel corso del testo userò gli adattamenti italiani dei nomi tedeschi usati da Wagner, qualora tali adattamenti siano consuetudine (quindi “Isotta” al posto di “Isolde”, “Brunilde” invece di “Brünnhilde”, “Sigfrido” per “Siegfried”, ma “Elisabeth”, “Ortrud”, e così via).
2 Se non altrimenti specificato, le citazioni da Baudelaire sono tratte dal suo “Su Wagner“, Feltrinelli, 1983.
3 C’è chi sostiene che invece consumino nella famosa notte d’amore, la Liebesnacht (o Liebesszene) di cui parleremo tra poco. Ma è un’ipotesi che a mio avviso non è sostenuta dalla musica.
4 “Zwitter” sarebbe “ermafrodita”, ma come mi ha ricordato Antonio Rostagno, il brillante semiologo della musica Jean-Jacques Nattiez utilizza invece il termine “androgino” (si veda J-J. Nattiez, “Wagner androgino. Saggio sull’interpretazione“, Einaudi, 1997). Ad ogni modo, nel grande duetto del secondo atto, Tristano dirà “Io sono Isotta” e Isotta “Io sono Tristano”, il lato sessuale dell’ewig ein.
5 Anticipo subito quel che ognuno capirà: non sono un musicologo. Ho studiato diversi anni chitarra classica con un maestro d’eccezione, Ernesto Minella, ma con suo grande dispiacere e disappunto non sostenni mai nessun esame al Conservatorio, come invece desiderava che io facessi. Mi diceva con amarezza: “Sei molto abile con la chitarra. Peccato che tu non sia un chitarrista”. E aveva ragione, non lo ero perché mi impuntavo a essere un dilettante. La dannata politica anche allora mi assorbiva tutto il tempo che non dedicavo allo studio dello strumento (molto) e a quello degli studi classici (poco). Per questo motivo non citerò direttamente nulla della critica wagneriana, spesso straordinaria, perché non ne sono degno: dovrei far finta di capire di musicologia mentre non ne so quasi nulla. In secondo luogo non lo farò perché o metto in campo la farina del mio sacco, per buona o cattiva che possa essere, oppure è del tutto inutile che scriva. Ad ogni buon conto chiedo ai musicologi una discreta dose d’indulgenza.
6 Karl Marx, “Il Capitale“, Libro I.
7 Giustamente Antonio Rostagno durante la lezione-conferenza ha fatto notare con un brillante ragionamento musicale che papà Germont non è, diciamo così, un funzionario dell’ipocrisia borghese ma in qualche misura ne è invece una vittima, quasi quanto Violetta. Faccio mio questo appunto che mi ha indotto a riflettere sul fatto che in realtà questo personaggio nel suo incontro-scontro con Violetta mette in campo non un unico registro ma molti registri differenti, da quello più esecrabile (“Un dì quando le veneri“), alla vergogna di dover chiedere a Violetta il sacrificio di abbandonare Alfredo (“Pura siccome un angelo“), alla quasi identificazione di Violetta con la propria figlia (“Piangi, piangi o misera“), identificazione intesa e accettata da Violetta stessa (“Qual figlia m’abbracciate“).
8 Così si sentiva in dovere di scrivere Charles Baudelaire nella sua celebre lettera a Wagner del 1860: «[...] un grido di riconoscenza … da parte di un Francese, cioè di un uomo … nato in un paese dove non si sa di poesia e di pittura più di quanto non si sappia di musica. [...] Mi son detto: non voglio essere confuso con questa pletora di imbecilli».
9 «Checché [i gerarchi nazisti] facessero e tentassero, la decisione ricadeva su di loro: se impedire cioè davanti al mondo intero al loro decano, al quale avevano affidato lo stendardo della musica nazista, l’esecuzione della sua opera o se invece permettere – giorno della vergogna nazionale! – che il nome di Stefan Zweig, la cui omissione quale librettista non era tollerata da Richard Strauss, dovesse contaminare ancora una volta, come tanto sovente in passato, i manifesti teatrali germanici. Fra me e me godevo delle loro preoccupazioni e del loro rompicapo [...]». (Stefan Zweig, “R. Strauss e il Terzo Reich“).
10 E’ chiaro che tutto si svolgeva in un gioco ambiguo da entrambe le parti. Infatti Hitler presenziò alla prima dell’opera determinandone un successo-omicida: dopo pochissimi giorni l’opera fu tolta dal cartellone.
11 «Quando venne il momento di pronunziarsi tacque e velò la sua posizione assolutamente antinazista, che pur continuava inalterata ed era documentata». (Otto Erhardt, “Richard Strauss. L’uomo e la personalità“).
12 Il corteo trionfale interrotto da ostacoli che si riveleranno infine insuperabili è un vero topos della poetica di Wagner. Si pensi alla clamorosa interruzione del corteo nuziale di Lohengrin ed Elsa di Brabante da parte dell’insidiosa Ortrud, ma anche alla già citata Liebesnacht dove il crescente trionfo dell’amore tra Tristano e Isotta è interrotto dal riapparire, con la luce dell’alba, di un’insostenibile realtà.
13 Non sta forse qui il senso della parola d’ordine “Riportare l’economia sotto il governo della politica?”.
14 Baudelaire, ragionando sul “caso Wagner”, coglie con precisione il rischio di un sorpasso delle istanze reazionarie su quelle progressiste dovuto all’incapacità delle seconde di andare oltre l’apparato concettuale che le avevano fatte inizialmente prevalere: «Così abbiamo potuto vedere a Parigi il movimento romantico appoggiato dalla monarchia, mentre i liberali e i repubblicani restavano legati ostinatamente all’estenuante ripetizione della letteratura cosiddetta classica».
15 La descrizione di Wagner della scena finale in realtà è ambigua: «Dalle macerie della reggia crollata, uomini e donne, al colmo dell’angoscia, guardano il bagliore del fuoco che va crescendo sul cielo». Perché quell’enorme angoscia? Non è chiaro se degli uomini e delle donne sopravvivranno alla distruzione dell’ordine rappresentato dagli Dei. Senza di esso resisterà la loro configurazione in comunità umana, come Gemeinswesen?
16 Sul rapporto tra linguaggio e Storia si veda Giorgio Agamben, “Infanzia e Storia“. Einaudi, 1981.
17 Tutte le citazioni da Friedrich Nietzsche sono dal suo “Il caso Wagner“.
18 Il testo del Ring fu composto tra il 1848 e il 1853, quindi era fortemente influenzato dai moti europei e di Dresda. L’origine delle “primitive intenzioni” non sono dunque un mistero. Ma il finale della Tetralogia non poteva non subire revisioni man mano che Wagner revisionava il suo essere sociale. Il Wagner del 1872, anno dell’ultima revisione, protetto da Ludwig II di Baviera, non poteva rimanere fedele alle “primitive intenzioni”.
19 Giovanni Arrighi, opera citata.
20 Wagner, “Lettera sulla musica“.
21 Karl Marx, “Introduzione a Per la Critica dell’Economia Politica“.
22 E chissà che cosa vuol dire quel viaggio dal castello di Wartburg, dove trovò rifugio Lutero, alla Roma dei papi.
23 Come è noto, fu Stanley Kubrick, a scegliere per la versione italiana di “Shining” il proverbio in questione (su suggerimento di Riccardo Aragno). Nella versione originale il riferimento alla fase fanciullesca era: “All work and no play makes jack a dull boy“.
24 Sul concetto di “scoria della Civiltà” si veda Giancarlo Quaranta, “L’era dello sviluppo“. Franco Angeli, 1985.
25 Le traduzioni sono mie.
26 Sarò ingenuo, ma non ho mai associato Alberich e suo fratello Mime a figure di ebrei. Se quella era l’intenzione di Wagner, con me e con moltissima altra gente quell’intenzione è miseramente fallita. Avendo visto allignare e prosperare meschinità, ingordigia e cinismo dappertutto, non capisco perché dovrei proprio pensare a degli ebrei. Non credo inoltre a un collegamento tra l’ideologia di Wagner e lo pseudo-concetto nazista di “complotto demo-pluto-giudaico”, che ha un (malsano) senso solo nel contesto di dominio della finanza anglosassone esistente ai tempi di Weimar, ma non a quelli di Wagner. Infatti nell’attuale periodo di finanziarizzazione è rispuntato sotto le spoglie di “complotto massonico” o ancora peggio “giudaico-massonico” (idiozia che purtroppo non ha risparmiato alcune frange di sinistra alle quali il concetto di “contraddizioni capitalistiche” è evidentemente del tutto ignoto). Certo, ci sono apparati simbolici che si tramandano da un contesto ad un altro, ma bisogna andarci cauti altrimenti si fonde tutto in un grumo di confusione. Infine che Kundry rappresenti qualcosa di ebraico me lo devono proprio spiegare.
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