RE DELLA TERRA SELVAGGIA (Beasts of the Southern Wild, Benh Zeitlin 2012)

nov 2nd, 2014 | Di | Categoria: Recensioni
di Pino Bertelli
“So di essere un piccolo pezzo di un grande, grande universo, perfettamente incastrato nel resto…
L’intero universo è fatto di tutti piccoli pezzi incastrati insieme. Se un pezzetto si rompe, anche il più piccolo, l’intero universo cade in pezzi…
I bambini che non hanno né mamma né papà né nessuno devono vivere nel bosco e mangiare l’erba e rubare le mutande…
Spero che muori. E dopo che sei morto vengo sulla tua tomba e mangio la torta di compleanno tutta da sola”.
         Hushpuppy, dal film Re della terra selvaggia, di Benh Zeitlin
I. Le nere bandiere dell’anarchia
locandina terra selvaggiaC’era una volta e una volta non c’era un film anarchico che ha avuto innumerevoli riconoscimenti internazionali e oltre a quattro candidature al premio Oscar, Gran Premio della giuria al Sudance Film Festival, Camera d’or al Festival di Cannes… è risultato uno dei film più premiati del 2012: Re della terra selvaggia, di Benh Zeitlin. I velinari della stampa italiana hanno speso stellette e amenità di vario genere per descrivere questo film… dopo poche fugaci apparizioni nei circuiti più importanti, quest’opera indipendente viene relegata ai cinema d’essai… e dimenticata… infatti è inconcepibile che un film si chiuda con le nere bandiere dell’anarchia al vento… i mercanti del cinema (autori, critici, attori, produttori, puttanelle televisive che dissertano di cinema in televisione, senza sapere nulla della Camera magica)… sanno bene che la macchina/cinema è parte del sistema che garantisce un ordine sociale/autoritario di cui è espressione… il feticismo della merce e l’alienazione dei consumatori (di tutti i mercati) trionfano su cumuli di miserie infinite e attraverso la mediocrazia della politica asservita ai saprofiti della finanza confermano la dittatura dell’illusione che impera nella civiltà dello spettacolo.
Così Noam Chomsky: “Oggi abbiamo a disposizione le risorse tecniche e concrete per soddisfare i bisogni materiali dell’uomo. Non abbiamo ancora perfezionato quelle morali e culturali, cioè le forme democratiche dell’organizzazione sociale, che ci permetterebbero di utilizzare in modo umano e razionale la nostra ricchezza e potenza materiale. Gli ideali del liberalismo classico espressi e sviluppati nella forma di socialismo libertario sono realizzabili. Ma può farlo solo un movimento rivoluzionario radicato in ampi strati della popolazione, che miri ad eliminare le istituzioni repressive e autoritarie, private o statali”[1], e passare alla fondazione della società in anarchia.

Gli imperi internazionali degli affari sporchi di sangue innocente e le connivenze tra criminalità e politica attentano all’ecosistema del pianeta e in un’economia di guerra in permanenza gli indici della Borsa impediscono una re/distribuzione equa delle ricchezze prodotte dai popoli impoveriti… poco più di duecento grandi società (che controllano più del sessanta per cento delle attività produttive della terra) sono collegate tra loro e con altre aziende satellitari decidono del bene o del male di una nazione. I frutti o gli espropri dell’economia mondiale integrata dirigono capitali, muovono conflitti, violano i diritti dell’uomo e fanno della barbarie l’acquasantiera di ogni potere. Purtroppo — sostiene Chomsky — “le canaglie non si possono far fuori con il voto”, perché semplicemente non sono mai state elette… manager, politici, avvocati delle multinazionali, imprenditori e mafie occupano i posti di preminenza della “cosa pubblica” e restano al potere a prescindere dalle “credenze” di chi li elegge… il coinvolgimento popolare è richiesto solo il giorno delle elezioni ma sono le istituzioni autocratiche a gestire in modo rigidamente manageriale l’intera esistenza di uomini e donne proni ai processi di concentrazione della vita economica di ogni paese.

Le democrazie consumeriste e i regimi comunisti danzano sui cadaveri della libertà e il ballo in maschera del ricatto industriale produce disuguaglianze, disoccupazione, disperazione e l’innalzamento dei profitti… i processi di controllo e repressione sono affinati e le popolazioni sono soggette a decreti arbitrari imposti dall’alto… i centri di potere esercitano una forte influenza sulle genti e attraverso il supporto dei mezzi di comunicazione di massa, i partiti, i sindacati e l’adorazione di leader/marionette architettano l’intero sistema commerciale, industriale, finanziario che sovvenziona la politica parlamentare (per ciò che riguarda Russia, Cina ed affini, bastano i carri armati). Potere, crescita, profitto non riguardano i bisogni umani naturali… ovunque gli uomini nascono liberi, eppure ad ogni angolo del pianeta sono governati da piccoli tiranni che detengono il potere sulla paura… soltanto una resistenza profonda, scaturita dal basso, può tradursi in una ventata insurrezionale di larga portata e mettere fine al modello messianico/politico/finanziario dei dominatori… e raggiungere la massima felicità per il maggior numero. Passare dalle parole di La Boétie, “Siate decisi a mai più servire e sarete liberi”, alle azioni dirette dei movimenti Occupay, alle sollevazioni popolari, alla riattivazione del pensiero critico uscito dal Maggio Sessantotto e giungere alla scompaginazione dei meccanismi di riproduzione sociale e di tirannia politica della società spettacolare.

Re della terra selvaggia è un film anomalo… che si chiama fuori dal linguaggio dell’adulazione e dall’elogio del potere… alla maniera di Lautréamont, dice che non c’è superamento dell’arte senza realizzazione, e non si può superare l’arte senza realizzarla. Il film l’ha diretto Benh Zeitlin, un giovane regista del Queens (New York), di origini ebraiche (da parte del padre). Autore di pregevoli cortometraggi come Egg (2005), The Orygins of Electricity (2006), Glory at Sea (2008). Fondatore del collettivo di cineasti indipendenti Court 13. Re della terra selvaggia lo fa conoscere nel mondo e come sempre succede quando un film (o un’opera d’arte) lacera il linguaggio convenzionale, anche la cretinizzazione del pubblico ha fine. Mostra, senza mezzi termini, che l’estetica della Coca-Cola è la medesima dei campi di sterminio nazisti/comunisti e il delirio di onnipotenza delle multinazionali si dispiega su una società fondata sulla miseria e (come sostenevano Marx, Proudhon o Debord) i prodotti più miserabili hanno la fatale prerogativa di assoggettare la grande maggioranza alla domesticazione collettiva. L’avvenire, si potrebbe dire, appartiene a coloro che — alla pari di una carica sintetica di cavalleria senza bandiere — faranno dell’immaginario ciò che tende a divenire reale. “Non passa anno che persone da noi amate non cedano, per non aver chiaramente compreso le possibilità presenti, a qualche vistosa capitolazione. Ma essi non rafforzano il campo nemico, che annoverava già imbecilli a milioni, e nel quale si è obiettivamente condannati ad essere imbecilli” (Guy-Ernest Debord)[2]. I figli di schiavi, di plebei, di servi, di lavoratori… delle quali origini facciamo parte e ne siamo fieri… non vogliono essere né carnefici né vittime, ma interpreti di una rivoluzione dell’intelligenza che vuole la fine dello sfruttamento capitalista e il conseguimento di una società più giusta.


II. Re della terra selvaggia
In ogni linguaggio dimora il potere ed è anche il rifugio della sua violenza poliziesca. Ogni dialogo con il potere è violenza, subita o provocata. Quando il potere risparmia l’uso delle armi, è al linguaggio che affida la cura di conservare l’ordine oppressivo (Mustapha Khayati, diceva)[3]. La coniugazione dei due è l’espressione più naturale di ogni potere. Le parole, i suoni, le immagini, le merci non smetteranno di lavorare contro l’identità libertaria degli individui finché loro stessi non avranno smesso di dirottare la loro inclinazione a servire… le future rivoluzioni dovranno inventare nuovi linguaggi e passare a un dizionario qualitativo dell’esistenza che rifiuta ogni forma comunicazionale codificata. Fuori dal linguaggio dell’adulazione e della repressione c’è la fine all’elogio del potere e della reificazione e banalizzazione che contiene… non c’è superamento della vita quotidiana senza dissidio e non si può superare la vita quotidiana senza realizzare il dissidio.
Il film di Zeitlin, Re della terra selvaggia, racconta la storia di una bambina di sei anni alla ricerca della mamma ed altro ancora… si chiama Hushpuppy e vive con il padre, Wink, in una sorta di comunità bayou (vuol dire “tortuosità” e si riferisce all’ecosistema del delta del Mississippi, Louisiana), un intrico di paludi che vengono chiamate la “grande vasca”… per le continue alluvioni provocate dai cicloni in quella zona… l’inserimento di fabbriche e dighe completa il disastro ambientale. Il film mostra che il reale non può mai reggere il confronto con il giusto, il bello, il buono e fa emergere (con risoluta leggerezza) il destino fatale a cui va incontro ogni forma vivente sul pianeta.
Re della terra selvaggia è affabulato in forma di favola (estraniante), anche… Wink è un padre severo, nel contempo affettuoso con Hushpuppy… cerca di insegnarle come sopravvivere a un mondo feroce… le temperature della terra sono in aumento e i ghiacci cominciano a sciogliersi… tutto questo scatena nuove tempeste e alza il livello delle acque… le antiche leggende bayou dicono che la catastrofe immanente libererà creature preistoriche chiamate Aurochs (una sorta di bovino estinto già nel 1627). Il padre scopre di avere un grave malattia e cerca di aiutare Hushpuppy a difendersi dall’avanzare di una falsa modernità… il suo sogno è che la bambina non abbandoni questa terra selvaggia e ne diventi re/regina. Quando il padre è morente, Hushpuppy parte alla ricerca della madre e vede che il mondo incantato del benessere non è proprio il migliore possibile.
Il film è narrato tra il documentario e la favola… Zeitlin è sorprendente… girato con un piccolo budget, in 16mm, e si avvale di interpreti straordinari (non solo Quvenzhane Wallis che figura magistralmente Hushpuppy e Dwight Henry, in una monumentale interpretazione del padre, Wink… anche le “maschere”, volti, corpi di altri protagonisti del film, esprimono una cartografia attoriale di straordinaria forza espressiva). Zeitlin mescola l’epica all’antropologia e assetta un colpo magistrale al mercimonio dei buoni sentimenti sul quale la “fabbrica delle illusioni” hollywoodiana che creato il proprio impero. La bellezza senza coscienza, si può dire di questo film, non è che la rovina dell’anima.
Il soggetto di Re della terra selvaggia è tratto dall’opera teatrale di Lucy Alibar (Juicy and Delicious) e sceneggiato da Zeitlin e Alibar. Dialogi metaforici, brevi, disseminati in ogni sequenza, fanno riflettere sulla precarietà/ingiustizia del mondo. La fotografia di Ben Richardson è austera, di derivazione documentaria, avvolge l’intero film tra il mistero e la favola amara, mai si fa intrappolare nell’estetica del naturalismo o del pittorialismo nei quali si annacquano molti film d’avventura. Il montaggio di Crocket Doob e Alfonso Gonçalves accorda con sapienza le sequenze attoriali con gli effetti visivi (teneramente rudimentali) curati da Space Division, e l’entrata in scena degli Aurochs coniuga magia e realtà ai minimi termini, una sorta di sogno ad occhi aperti già conosciuto in opere di Pasolini, Buñuel o Vigo. Le musiche di Dar Romer e Zeitlin si addossano al regno del quasi nulla e del non-so-che in una forza vitalista di notevole compiutezza… poche volte il cinema è riuscito ad esprimere una miscela di amore è fiele così efficace, quasi mai lo schermo è stato inondato di tanta tenerezza amorosa e dato al cinismo dei ricchi, dei potenti, dei saprofiti la sorte di autodistruzione che incarna.
La favola di Re della terra selvaggia esprime la resistenza di una comunità che non vuole abbandonare la terra dei padri… l’industria inquina tutto… uccide i pesci del fiume, manipola i cibi, spinge le bambine/ragazzine alla prostituzione, si occupa del malessere che provoca con palliativi assistenziali… le persone della comunità Bathtub/bayou respingono promesse di felicità del lavoro coatto… i bambini studiano in una scuola-barca e tutti vivono di ciò che la loro terra produce… Wink e i compagni Bathtub fanno saltare in aria la strada/diga che impedisce lo sviluppo naturale della “grande vasca”, e in chiusa si vede l’intera comunità con le bandiere nere dell’anarchia che marcia contro le cattedrali d’acciaio e di fame dell’industria. La collera però è distesa con grazia lungo tutto il film, mostra la potenza di esistere alla storiografia dominante che vuole i poveri sempre più poveri e i ricchi ancora più ricchi… la bella gente Bathtub non vuole padroni… vuole vivere senza una costellazione di profittatori… insieme… spartire amori e pene, gioie e sogni… realtà e fantasia… Hushpuppy non resterà sola nella “grande vasca” e anche gli Aurochs (scatenati dall’immaginazione della bambina dopo l’ultima catastrofe ambientale) si inginocchieranno davanti alla bellezza aurorale della piccola regina della terra selvaggia.
Va detto. Il film di Zeitlin è un’opera libertaria di rara compiutezza estetica/etica… implica la filosofia libertaria che la precede… riporta all’autobiografia del corpo, dell’azione di una comunità che soffre l’avanzare dello sfruttamento e della coercizione… è una visione soggettiva che dice NOI e il mondo che la contiene… vivere la propria esistenza nell’autenticità significa rendere vitale e visibile la propria storia, quando invece nulla è dato e tutto resta da costruire. La biografia di un popolo non si riassume nel commentario delle sue inerzie, ma nel legame tra i suoi comportamenti e delle sue rivolte. Il teatro aperto del mondo e vita quotidiana non sono nulla se tutto è parte dell’utilitarismo che impedisce la realizzazione del bene comune… amare e godere della felicità possibile, senza far male né a te né a nessuno, questa è tutta la morale che sta al fondo della società in anarchia.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 16 volte giugno 2014.

[1] Noam Chomsky, Il governo del futuro, Tropea, 2009
[2] Guy-Ernest Debord, Introduzione a una critica della geografia urbana, Nautilus, 2013
[3] Internationale situationniste, La critica del linguaggio come linguaggio della critica, Nautilus,1992

 

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