La Cina, Hong Kong e l’Umbrella-Destabilization.

ott 27th, 2014 | Di | Categoria: Politica Internazionale


“OMBRELLATE” MADE IN USA

 

Matteo Luca Andriola

 

 

 

 

 

Ed ecco che, dopo destabilizzazione in Ucraina col consueto copione delle “rivoluzioni colorate”, il film viene adesso girato in Cina! Il regista è lo stesso, e sembra non vergognarsi di presentare sempre la solita solfa allo spettatore. Il cinema contemporaneo, si sa, non è più quello di una volta! E il remake cinese viene recensito dall’élite fricchettona post-sessantottina, la stesse che un tempo si ergeva a guardiani della “purezza rivoluzionaria”, ma ora difendono il “bidone di benzina” dell’Occidente come un tempo lo faceva col libretto rosso di Mao. Insomma, dal libretto di Mao al libretto degli assegni! Un nome su tutti? Adriano Sofri che su la Repubblica, l’organo ufficioso dell’élite liberal italiana, compara gli “ombrelli” alle gloriose giornate dove, da giovane rampollo della borghesia radical, contestava il Sistema:

 

«Ora che le rivoluzioni politiche, quelle che si proponevano di conquistare il potere, non si fanno più, e così sia, le rivoluzioni si riprendono il loro diritto: che è quello di irridere la menzogna del potere, di denunciarne la violenza, e di proporre, almeno per un po’, un altro modo di vivere insieme. Sbucano all’improvviso, non più come vecchie talpe pazienti che hanno saputo scavarsi la loro occasione: e tuttavia sotterraneamente, misteriosamente si ricordano le une delle altre, senza antenati ed eredi, come nella storia politica, ma per citazioni creative, come nella storia dell’arte. In una delle innumerevoli variazioni grafiche — hanno fatto un concorso per il logo dell’ombrello, con risultati fantastici […] La serietà e il coraggio di un movimento che sfida la prepotenza di un impero colossale e lo fa danzando con gli ombrelli, abitandoci sotto e scrivendoci sopra, e drizzandoli a testuggine, ecco un capitolo che il gran libro delle rivoluzioni cucirà con orgoglio tra le proprie pagine. “Altre mani si leveranno e impugneranno le nostre armi”, scriveva il Che. “Se un ombrello si strappa — dice uno dei manifestanti di Hong Kong — un altro arriverà a rimpiazzarlo”».[1]

 

E così, tirando in ballo Che Guevara – perché dopotutto il lettore medio di Repubblica è “di sinistra”, e “il Che” tira sempre fuori il romanticismo del lettore medio, che magari, come il buon vecchio Sofri, l’uomo dei “bombardamenti etici” in Serbia e della criminalizzazione della Siria di Assad, è stato un sessantottino –, e la Rivoluzione Culturale, l’autore avvalla – sappiamo chi c’è nel Cd’A de la Repubblica! – la destabilizzazione di Hong Kong, un neocolonialismo 2.0. Ma è proprio così? Non siamo noi forse un po’ troppo cattivi, prevenuti, ecc. con questo movimento? Dopotutto le piazze piene sono sempre un buon segnale in un mondo così brutto dove nessuno fa mai nulla e tutti sono ottenebrati dall’I-Phone 6 ecc.! Affatto! Pochi hanno capito i veri meccanismi. Altri, come Repubblica, L’Espresso, Panorama, il Corriere della Sera, ecc. hanno, come al solito, mistificato tutto, come era ovvio. Niente di nuovo sotto questo sole, diceva nell’Ecclesiaste il re Salomone! L’”Umbrella-Revolution” (o “Umbrella-Destabilization”, viste le dinamiche identiche all’est europeo) non è un movimento spontaneo, ma è condizionato, come accennato all’inizio, dagli storici interessi occidentali per un territorio storicamente cinese, sottrattogli nel 1997, un mezzo utilizzato per poter riottenere il vecchio territorio di Hong Kong, un appartenente alla Corona inglese. Ecco come la cosa viene descritta la dinamica da Manlio Dinucci su il manifesto:

«Nell’Ottocento gli inglesi, per penetrare in Cina, ricorrono allo smercio di oppio che portano dall’India, provocando enormi danni economici e sociali. Quando le autorità cinesi confiscano e bruciano a Canton l’oppio immagazzinato, intervengono le truppe inglesi costringendo il governo a firmare nel 1842 il Trattato di Nanchino, che impone tra l’altro la cessione di Hong Kong alla Gran Bretagna. Da allora fino al 1997 Hong Kong è colonia britan­nica, sotto un governatore inviato da Londra. I cinesi sono sfruttati dai monopoli britannici e segregati, esclusi anche dai quartieri abitati da britannici. Scioperi e ribellioni vengono duramente repressi. Dopo la nascita della Repubblica popolare nel 1949, Pechino, pur rivendicando la sovranità su Hong Kong, la usa come porta commerciale, favorendone lo sviluppo. L’Hong Kong riannessa alla Cina quale regione amministrativa speciale, con 7,3 milioni di abitanti su quasi 1,4 miliardi della Cina, ha oggi un reddito procapite di 38420 dollari annui, più alto di quello italiano, quasi il sestuplo di quello della Cina. Ciò perché Hong Kong, quale porta commerciale cinese, è il 10° esportatore mondiale di merci e l’11° di servizi commerciali. Inoltre, essa viene visitata ogni anno da oltre 50 milioni di turisti, dei quali 35 milioni cinesi. La crescita economica, pur inegualmente distribuita (vedi il sottoproletariato locale e straniero che campa con «l’arte di arrangiarsi»), ha portato a un generale miglioramento delle condi­zioni di vita, confermato dal fatto che la durata media della vita è salita a 84 anni (rispetto a 75 nell’intera Cina)».[2]

 

La dinamica, quindi, è sempre la stessa. Altro che diritti civili, umani. Hong Kong non è affatto un “povero paese” schiavizzato da Pechino. Il movimento che porta avanti le citate proteste, per chiedere che l’elezione del capo di governo sia diretta e non condizionata da Pechino, è formato dai rampolli della borghesia bene di Hong Kong, la parte senz’altro più occidentalizzata dell’isola. L’Occidente si sta “scaldando” per le sorti degli studenti con l’ombrello – lo stesso Occidente che sta destabilizzando l’Ucraina con l’utilizzo delle squadracce nazi-fasciste di Pravy Sektor, Svoboda e che paga di tasca sua i vari wahabiti contro la Siria, ecc. – perché questo «movimento senza leader» – così viene esaltato dai media statunitensi – è legato «al Diparti­mento di stato e a sue emanazioni sotto forma di «organizzazioni non-governative», in parti­colare la «Donazione nazionale per la democrazia» (Ned) e l’«Istituto democratico nazio­nale» (Ndi) che, dotate di ingenti fondi, sostengono «gruppi democratici non-governativi» in un centinaio di paesi»,[3] senza contare che molti suoi leader,  come Benny Tai, docente di Hong Kong che ha lanciato il movimento «Occupy Central», è divenuto influente grazie a una serie di forum finanziati dalle citate Ong (cfr. Ucraina, Bielorussia, Serbia, Georgia, ecc, dove le Ong occidentali sono di casa e fanno il bello e il cattivo tempo),[4] o Martin Lee, leader del Partito democratico di Hong Kong, invitato negli States, a Washington, dalla stessa «Donazione nazionale per la democrazia». Un caso? Certo, com’era “casuale” la presenza di John McCain coi leader dell’Euromaidan! Il tutto con la stampa occidentale, il Wall Street Journal, che descrive come «spontanea» la rivolta, alla pari di quelle nell’Europa dell’Est e nel Medio Oriente dal 2011 in poi, un copione visto e rivisto, trito e ritrito che porta sempre nello stesso posto: cancellare quello che l’Occidente definisce “Stato Canaglia” e mettere su il solito Quisling liberale che interpreta la libertà per come viene intesa secondo i dettami dell’American way of life, e cioè libertà di speculare![5] Il terrore per la perdita della centralità occidentalista, convalidata con l’unipolarismo imperante dal 1989-1991 in avanti, riesce non solo ad animare la naturale conservazione dei media occidentali, ma a tirar fuori le peggiori menzogne, rispolverando il vecchio, consueto e oramai vetusto anticomunismo (neanche Berlusconi lo ritira più fuori oramai, ma l’amichetto Obama sì) e la storia di P.zza Tienanmen. E quindi, il carro armato occidentale avanza, e dopo aver destabilizzato l’Orso Russo (e questo alla fine, dopo essersi fatto scoppiare diverse “rivoluzioni colorate” in casa ha reagito, tirando fuori artigli e zanne, dato che Vladimir Putin, per interessi geopolitici ed energetici, non vuole senz’altro perdere uno sbocco nel Mar Nero, fondamentale per l’accesso nel Mediterraneo) ora tocca al Dragone Cinese, come ieri è toccato alla Siria e alla Libia cavalcando un pilotato integralismo islamico e il consueto “dirittumanismo” dei liberal/radical, fatto di femministe, contestatori colorati e marce “pacifiche”, tutte funzionali al sistema.

L’offensiva col mezzo della “rivoluzione colorata” – non è il caso di addentrarsi nella cronistoria degli eventi, lo faranno gli storici – è senz’altro l’eccellente “carota” che il Sistema usa dopo essersi reso conto che “il bastone”, le guerre, costavano miliardi di dollari, e l’opinione pubblica non sembrava apprezzarle affatto. Perché immolare i propri figli sull’altare delle Multinazionali petrolifere quando si possono usare salafiti, studentelli e laureati ad Harvard per fare il gioco sporco? Perché apparire “brutti, sporchi e cattivi” quando, dopo aver destabilizzato un’area strategicamente interessante (si veda il pezzo sopra citato da il manifesto), basta piazzarci un tizio filoccidentale formatosi nelle tue Università, le nuove madrase del liberismo, che fa tutto quello che tu, Stati Uniti, gli dici, anche a costo di introdurre le stesse identiche riforme neoliberiste che fanno acqua da tutte le parti?[6] Ma l’America non fa mistero che dietro tali “burattini”, chi tira i fili è lei: nel discorso tenuto da Obama all’accademia militare di West Point nel maggio 2013 era stato chiaro, anche se la stampa aveva preferito soffermarsi solo sulle innovazioni militari. Il presidente ha sottolineato bene che la guerra ora non si combatteva più solo con le innovative armi, ma con altri mezzi:

 

«I nostri valori ispirano i leader nei parlamenti e dei movimenti scesi nelle piazze di tutto il mondo. […] La nostra capacità di plasmare l’opinione pubblica mondiale ha contribuito a isolare la Russia. Grazie alla leadership americana il mondo ha immediatamente condannato le azioni russe, l’Europa e il G7 si sono uniti a noi nell’imporre sanzioni, la Nato ha rafforzato il nostro impegno per gli alleati dell’Europa orientale […]».[7]

 

Il servilismo dei manifestanti verso l’Occidente, è anche espresso dalle simbologie utilizzate, come l’utilizzo delle bandiere della precedente dominazione coloniale, durante la quale, paradosso dei paradossi, ad avere diritto di voto era solo e solamente la Corona britannica, e non i colonizzati!  L’autonomia diplomatica della Repubblica popolare cinese, che stringe accordi con la Russia putiniana, che propone l’allargamento della Shanghai Cooperation Organisation all’India, intrattenendo rapporti sempre più stretti con Africa e America Latina (Venezuela, Bolivia ed Equador), che manda navi in ricognizione nel Golfo Persico, che acquista energia imponendo sul mercato lo yuan, valuta alternativa al dollaro, controllando, diversamente da come avviene qui in Occidente, dove sono le banche private che battono moneta, il valore di quest’ultima, senza affidandosi invece al mercato, ma all’interesse dello Stato, non piace senz’altro agli Stati Uniti, che vedono nel Brics un letterale “bastone” fra le proprie ruote egemoniche, ruote che vengono spesso rallentate. Alt! Qui non stiamo facendo l’apologia della Cina popolare, che presenta senz’altro contraddizioni e che è un paese socialista solamente perché a gestire lo Stato è un Partito comunista. Ma quella in corso è, come è evidente, un’offensiva portata avanti da un Occidente decadente, oberato da una crisi economica strutturale, da lei creata. La lotta in corso è per espandere un modello, quello occidentale, un Sistema che abbisogna di risorse, materie prime e di mercati. Non si spiegherebbe altrimenti l’espansionismo dal 1991 in poi. Ecco la sua ricetta per uscire dalla crisi da lei creata. Nei paesi del Brics – dove la principale contraddizione, un’economia che si regge sulla speculazione ai danni dei lavoratori, persiste alla pari dei paesi filoamericani – la crisi viene contenuta per la forte presenza dello Stato come soggetto che regola l’economia, e la cosa è grave per gli Stati Uniti. “Sconfitto” l’URSS, ora, chiunque presenti modelli alternativi – gli stessi che un tempo c’erano nella vecchia Europa – è il “Male Assoluto”. Hong Kong potrebbe quindi essere l’“incubatore” – espressione utilizzata dal quotidiano The Economist – per una possibile e futura destabilizzazione della Cina popolare, che metta fine alla pericolosa anomalia di un Paese guidato da un Partito comunista – senz’altro con difetti, ma anche con molti pregi – in grado di conquistare sempre più consenso a livello internazionale. Ma la destabilizzazione è su più fronti. Così come le grandi centrali atlantiste utilizzarono l’arma dello stragismo e dell’omicidio negli anni ’70, una stagione oscura che ha visto intersecarsi tutto il laidume esistente, e che va letto nell’ottica dell’imposizione di un ordine atlantista che non permette altri interlocutori (e che, personalmente, retrodaterei all’uccisione di Mattei, includendovi anche altri attori, come il Mossad… Moro non era forse filoarabo?) se non quelli imposti da Washington, ora Obama & Co. usano altri attori, come ad esempio il terrorismo. La Cina non ne è esente. La destabilizzazione della Cina passa anche dalle bombe!

 La destabilizzazione dello Xinjiang: storie di ordinario fondamentalismo jihadista

Il Xinjiang, detta anche Regione autonoma uigura dello Xinjiang, è una regione autonoma della Repubblica Popolare Cinese dal 1955, la cui maggioranza della popolazione, il 45%, è di etnia figura, un popolo di lingua turcofona e di fede islamica che vive nel nord-ovest della Cina. La regione, vista le sue caratteristiche, è da sempre attraversata da forti sentimenti autonomistici, cosa che ha imposto al governo di Pechino una politica capace di accondiscendere a certe aspirazioni, concedendo una regione autonoma. La regione, un tempo nella “Via della seta”, è teatro di un’operazione di destabilizzazione simile a quello contro il governo di Assad: sono in azione anche gruppi dell’estremismo islamico che si sono formati in un laboratorio della sovversione come quello della Siria, dove l’integralismo jihadista viene utilizzato dagli States e spacciato come novello “movimento partigiano” – col plauso di certi settori politically correct e radical della sinistra radicale imbelle, incapaci di andare al di là del proprio naso e capaci di usare gli stessi slogan usati per la Serbia di Milosevic, cioè il neutralismo del «né con l’atlantismo né coi “dittatori brutti e cattivi”».

La questione è cavalcata dall’Occidente per destabilizzare la Cina, usando – vedi la Croazia e la Slovenia negli anni ’90 – interessi “sovrastrutturali” quali le velleità secessioniste. L’obiettivo è staccarsi dalla Repubblica popolare e affratellarsi coi turcofoni-musulmani centro asiatici. Come scrive Pierluigi Fagan, la questione non è assolutamente comparabile a quella del Tibet, nostalgico della teocrazia dei Lama:

 

«Il Xinjiang è una questione molto più seria di quella tibetana poiché la regione è altrettanto strategica (l’acqua per il Tibet, la cosiddetta nuova via della seta, lo sviluppo dei gasdotti, fracking e possibili giacimenti indigeni nonché ovvie ragioni confinarie e geo-strategiche del versante occidentale per lo Xinjiang), ma la popolazione locale è molto più ribelle di quella tibetana che si appoggia sulle élite emigrate negli USA e su Richard Gere. In particolare si segnalano molti arruolati uiguri nelle falangi dell’ISIS, jihadisti  in corso di formazione che prima o poi faranno ritorno in patria. Lo scarno comunicato del governo cinese parla di cinquanta morti negli attentati, di cui 40 terroristi. A meno di non pensare a quattro attentatori suicidi per ogni non terrorista morto, si deve arguire che forse c’è stato un piccolo attentato e che successivamente, le forze dell’ordine cinesi hanno operato una bonifica saltando la fase arresti-processi-condanne. La situazione è da monitorare perché la storia non inizia ieri e non finisce certo qui. Destabilizzare o stabilizzare lo Xinjiang è strategico sotto molti punti di vista e dove ci sono possibilità e moventi, possiamo esser certi ci saranno fatti». [8]

 

Insomma, la questione è molto più complessa di quello che sembra, e questo perché mentre in Tibet abbiamo il Dalai Lama che è una figura “presentabile” – Fagan evidenzia che uno dei paladini della causa tibetani è l’attore buddista Richard Gere, che gli fa da sponsor – e “politically correct” (insomma, vi è sempre quel filo di esotismo “di sinistra” che serpeggia nell’Asia che non può che affascinare una certa borghesia bene che cerca, come facevano gli hippie negli anni ’60, la generazione “flower power”, di spalancare le percezioni della propria mente alla pari del loro conto in banca) – così non è col caso Xinjiang, dove lì l’opinione pubblica internazionale – ad eccezione di quelli specializzati in politica estera – tace sulla diretta filiazione fra tale fenomeno e l’Isis, con la differenza che lo Stato islamico viene sbandierato per aggregar le masse – cosa già vista – contro il nuovo mostro musulmano (tacendo sulla vera natura del fenomeno e sul fatto che l’Isis sta all’islam come Tomas de Torquemada sta a Gesù Cristo), mentre il caso Xinjiang viene taciuto – o sottovalutato – perché chi sta per essere destabilizzato è un paese del Brics, e la zona è di interesse geostrategico! Ma l’obiettivo, però, è sempre lo stesso: l’implosione della Cina – che sarebbe una catastrofe geopolitica non inferiore a quella sovietica – e l’accantonamento di Pechino dallo scacchiere geopolitico. Il tutto, però, passando dagli ombrelli degli studenti di Hong Kong. Insomma, proprio come l’Euromaidan: destabilizzazione atlantista in salsa radical chic!

 

 


[1] A. Sofri, Dai ragazzi di Hong Kong che sfidano il potere filo-cinese ai manifestanti in Italia e a Berlino fino ai messicani. Così l’ombrello è diventato simbolo della rivoluzione, in la Repubblica, 20 ottobre 2014.

[2] M. Dinucci, Hong Kong sotto l’ombrello, in il manifesto, 7 ottobre 2014.

[3] Ibidem.

[4] http://www.linterferenza.info/esteri/ucraina-lombra-di-otpor-e-delle-ong-sulle-rivoluzioni-colorate-filoamericane-parte-i/. G. Sussman e S. Krader della Portland State University spiegano che «Tra il 2000 e il 2005, i governi alleati della Russia, in Serbia, in Georgia, in Ucraina e in Kirghizistan, sono stati rovesciati da rivolte senza spargimenti di sangue. Nonostante i media occidentali sostengano generalmente che queste sollevazioni siano spontanee, indigene e popolari (potere del popolo), le “rivoluzioni colorate” sono in realtà l’esito di una ampia pianificazione. Gli Stati uniti, in particolare, e i loro alleati hanno esercitato sugli Stati post-comunisti un impressionante assortimento di pressioni e hanno utilizzato finanziamenti e tecnologie al servizio dell’aiuto alla democrazia». G. Sussman – S. Krader, Template Revolutions: Marketing U.S. Regime Change in Eastern Europe, in Westminster Papers in Communication and Culture, University of Westminster, London, vol. 5, n. 3, 2008, p. 91-112.

[5] Cfr. Pro-Beijing Media Accuses Hong Kong Student Leader of U.S. Government Ties, in Wall Street Journal, 25 settembre 2014.

[6] Il dott. David Teurtrie, ricercatore presso l’Istituto nazionale delle lingue e civiltà orientali (Inalco, Parigi), spiega: «La proposta fatta (dalla Ue) all’Ucraina è qualcosa che io definirei una strategia perdente-perdente. Perché? L’accordo prevedeva l’istituzione di una zona di libero scambio tra Ue e Ucraina. Ma essa era molto sfavorevole all’Ucraina perché avrebbe aperto il mercato ucraino ai prodotti europei e solo socchiuso quello europeo ai prodotti ucraini, che per lo più non sono concorrenziali sul mercato occidentale. Vediamo quindi che vi sono assai pochi vantaggi per l’Ucraina. Per semplificare, l’Ucraina avrebbe subito tutti gli svantaggi di questa liberalizzazione del commercio con l’Ue, senza riceverne alcun vantaggio». D. Teutrie, L’accord d’association de l’UE avec l’Ukraine est une stratégie perdant-perdant, in “Institut de la Démocratie et de la Coopération”, 4 febbraio 2014, http://www.idc-europe.org/fr/-Accord-d-Association-avec-l-Ukraine-est-une-strategie-perdant-perdant-

[7] B. Obama, in Washington Post, edizione online del 28 maggio 2014.

[8] http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=110050&typeb=0&Il-ciclo-delle-destabilizzazioni-entra-in-Cina

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