CONTRA ARENDT

giu 25th, 2014 | Di | Categoria: Contributi

 

Lorenzo Centini

 Dopo la fine dei comunismi storici, molti segmenti della vita culturale Occidentale si sono impegnati per inverare le proprie ipotesi, narrando a loro modo quella che doveva essere la conferma irrevocabile della falsità di un Ideologia.

Senza stare qua a discettare sull’esatta distanza tra il fallimento contingente e la giustezza della teoria che lo ha prodotto (molta, secondo lo scrittore dell’articolo), l’accusa di ufficio al Patto di Varsavia è stata portata avanti riesumando, dal turbine filosofico novecentesco, figure che avessero l’autoritas per dogmatizzare queste posizioni. Una di queste figure è Hanna Arendt.

Sicuramente la filosofa tedesca, allieva di Heidegger e sodale di Hanse Jonas, ha il merito di aver intrapreso una critica strutturale dei fenomeni autoritari novecenteschi. Pur mischiando le carte e analizzando esperienze estremamente diverse (Stalinismo e Nazifascismo) la Arendt ritiene di intravedere un minimo comun denominatore, che si sostanzia nella riduzione dell’agire politico.

Cos’è questo agire politico? Ester Saletta, per l’Istituto di Cultura di Napoli, ne da questa definizione “Se è noto che il pensiero filosofico di Hannah Arendt affonda le sue radici in quello Aristotelico, ricusando pertanto la metafisica di Platone, è di certo noto anche come l’agire politico, teorizzato dalla Arendt, sia essenzialmente costruito sulla capacità dialogica e performativa dell’Essere di rapportarsi con il mondo esterno”.

Questa è la nozione-base del pensiero della Arendt, da cui deriva tutta la critica all’esperienza totalitaria. La definizione risulta verificata dall’approccio che all’uomo fa la pensatrice tedesca, che è visto come un essere risolto nel suo sapersi definirsi all’interno della comunità. Rifiutando Platone, la Arendt accoglie del tutto la dialogia Essere-Potenza, propria di Aristotele, arrivando quindi correttamente a negare l’abitabilità politica all’Essere (atto)  senza che si possa contemplare il suo agire politico (Potenza).

Come testimonia la stessa Arendt, questa riflessione di innesta, calata nell’agone politico, nella neutralità delle masse. Così scrive, nel suo “Le origini del totalitarismo”:

 

“Il successo dei movimenti totalitari fra le masse segnò la fine di due illusioni care ai democratici in genere, e al sistema di partiti degli Stati nazionali europei in particolare. La prima era che il popolo nella sua maggioranza prendesse parte attiva agli affari di governo e che ogni individuo simpatizzasse per l’uno o l’altro partito; i movimenti mostrarono invece che le masse politicamente neutrali e indifferenti potevano costituire la maggioranza anche in una democrazia, e che c’erano quindi degli Stati retti democraticamente in cui solo una minoranza dominava ed era rappresentata in parlamento. [...] La seconda illusione era che queste masse apatiche non contassero nulla, che fossero veramente neutrali e formassero lo sfondo inarticolato della vita politica nazionale; [...] Da un punto di vista pratico, non c’è molta differenza se i movimenti totalitari adottano l’orientamento del nazismo o quello del bolscevismo, se organizzano le masse in nome della razza o della classe, se pretendono di seguire le leggi della vita e della natura o quelle della dialettica e dell’economia”

 

Tuttavia, qui la Arendt falla già nella definizione. Per la Arendt può esistere una massa neutra, senza interessi passivi, definiti dalla sua condizione. Questo può essere vero per la sociologia, e soprattutto per la psicologia, ma non può essere preso per buono dalla Politica. Superando la nozione politica di massa, la Arendt ritiene che il vero rapporto non sia tra l’Azione Politica del Governo, bensì tra il Governo e la massa. Questo gli permette di non distinguere tra Nazismo e “Bolscevismo” (che la Arendt dimostra, almeno in questo passo, di conoscere superficialmente), in quanto per ella la differenza non sta nei proponimenti economico-sociali dei due governi (L’utilizzo della Massa) ,ma soltanto il loro rapporto con la Massa. Questo, ritengo, sia ancora una reminescenza aristotelica, che non distingue tra Idea (che in questo frangente possiamo far collimare col Programma del Partito egemone) e prasseologia (occasionale similitudine tra i metodi utilizzati da Regimi con obbiettivi storici diversi).

Messa in questo senso, non solo la Arendt può evitare di dover specificare e discettare attorno alle differenze tra Stalinismo e Hitlerismo (categoria forse più adatta per parlare del regime Nazionalsocialista), ma può anche evitare di ri-studiare la posizione politica dell’Individuo-Massa all’interno dei suddetti regimi.

Questa concezione della Massa porta inevitabilmente alla nozione di agire politico. Il quale, prospetta la Arendt, dev’essere specchio fedele di quanto accadeva nelle Polis greche. Per la Arendt l’unico modo per preservare la pluralità umana ( “Il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è possibile solo perché ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità“) è necessario anteporre l’agire all’ideologia, la quale sottopone l’agire all’ostacolo della “Doxa” ideologica, tramutando qualsiasi agire nel medesimo accodarsi alla ideologia. L’ideologia, proprio perchè antepone la categoria alla contingenza, nega l’individualità umana.

 

Ma questa riflessione è viziata da una intepretazione sentimentalistica della ideologia. La quale, come sappiamo, è un Ideenkleid, (“vestito d’idee”), che non presuppone un annullamento della individualità nello studio del rapporto prassi-ideologia. Questo preteso annullamento che vive l’homo faber nel regime autoritario sarebbe imposto mediante una polizia politica che opera una cernita ideologica su cosa può e cosa NON può essere “attività politica”. Ma se questo può essere vero nel dogmatismo di cui, delle volte, si è macchiato Stalin, e nell’esperienza Hitleriana (che non ebbe mai un Ideologia ufficiale e filosofica attorno alla quale confrontarsi) non può essere vero ad esempio nel Fascismo Storico (dove i lavori di De Felice e Parlato hanno dimostrato la pluralità di identità politiche all’interno del PNF). Per la Arendt il Totalitarismo nega il confronto tra individui, relegandone l’agire ad attività che (correttamente) per la Arendt non costituiscono opportunità politiche: il Lavoro e la Produzione. Purtuttavia, questo non è vero, come abbiamo dimostrato, e può essere preso per dogma solo se si fa della Prassi momentanea una verità continua.

Parimenti, è indubbio che la Arendt non sopporti la subordinazione dell’Agire alla riflessione filosofica. (“La nostra è la prima generazione divenuta pienamente consapevole delle conseguenze atroci che discendono da una linea di pensiero che costringe ad ammettere che tutti i mezzi, purché siano efficaci, sono leciti e giustificati per conseguire qualcosa di definitivo come fine”). Questo atteggiamento, riflesso fedele della caustica opinione che ebbe a suo tempo Heidegger della Metafisica cominciata con Platone, è certamente vero nelle società ideologizzate (in questo caso unendo correttamente Fascismo e Stalinismo, ma non Nazionalsocialismo) ma anche nelle società liberali e democratiche. Questo infatti non è una caratteristica del Totalitarismo, bensì della Società Umana Politica, cioè della società umana stanziale (giacchè non può esistere convivenza comune senza convenienza comune). Ogni comunità individua un sistema ideologico comune, attorno al quale plasma le regole comunitarie e dirime la corretta permanenza all’interno della comunità. La differenza che c’è tra una società liberale, una tradizionale, e una totalitaria, è il nucleo riflessivo attorno quale questa ideologia viene strutturata. Una società Liberale strutturerà questa ideologia in base alla convenienza economica contingente, negando parimenti alle ideologie avversarie un abitabilità anche parziale. Inoltre, il recente neoliberismo ha dimostrato come il millenarismo “Tatcheriano” non sia dissimile da quello del “Grande Balzo in Avanti” di Mao.

La Arendt quindi scambia l’esistenza di un correttivo politico continuo, normale e auspicabile in una società, con l’assenza di Politica, intesa come piena esplicabilità dell’Agire Politico.

 

Un altro punto su cui, ritengo, la Arendt sbagli sia la differenza imposta a divinis alla sfera pubblica e privata. Per compendiare la posizione della filosofa tedesca mi appoggio al rimando fatto da Simone Germini in un articolo per Freeman in realworld:

 

“Secondo Hannah Arendt fu determinante, nel successo della politica nell’antica Grecia, la distinzione tra la sfera pubblica e la sfera privata. Eccone le caratteristiche: il pubblico è contraddistinto dalla libertà e dal nuovo. Nuovo che nasce dall’agire, e che viene conservato e preparato per i futuri cittadini. Nel privato dominano invece la necessità, le attività economiche del lavoro e la produzione necessaria per la sopravvivenza”

 

Questa differenza presuppone una struttura adiabatica della società, nella quale la sfera privata non intacca l’agire politico di ognuno. Questa concezione dell’individuo, fortemente liberale, è inesatta. L’uomo infatti è definito in prima istanza non da quel che pensa, ma da quel che è, economicamente e socialmente parlando.

 

Questa netta separazione era forse possibile nella Polis greca, dove a organizzare la vita politica erano ricchi borghesi, i quali, anzi, gestivano la vita pubblica proprio in virtù della propria vita privata. Questa condizione, del tutto timocratica, è possibile solo se il potere è detenuto non da Uomini Storico-politici, bensì da individui del tutto sovrapposti alla propria funzione economica. Tuttavia questa forma di governo è un oligarchia, e non una democrazia liberale, come previsto dalla Arendt.

La democrazia liberale, infatti, fintamente, reimposta questa differenza tra la funzione economica e quella politica (che poi è la distanza tra sfera pubblica e privata) grazie ad alcuni correttivi redistributivi. Tuttavia, queste sono costrizioni, che, se non inserite in un organismo biopolitico sano finiscono per creare solo storture e non veri spazi di democrazia diretta.

 

La Arendt quindi, criticando l’ingerenza del Totalitarismo nella sfera privata, difende una discontinuità tra le due sfere che non c’è, avallando, in definitiva, la superiorità del privato sul pubblico. Certamente non volontariamente (dubito che la Arendt avrebbe avallato i moderni sistemi di democrazia cripto-plutocratica) ma filosoficamente si.

Questa rapida confutazione delle posizioni politico-filosofiche non esaurisce ne’ la critica alla politologia liberale, ne’ tantomeno costituisce una difesa totale delle storture di cui comunque si sono resi protagonisti i regimi socialisti novecenteschi. Ripartendo dalla citazione di Mao a proposito delle Cento Scuole, i nuovi marxisti dovranno, a mio avviso, implementare meglio un discorso di democrazia ideologica nelle future società socialiste.

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