Utopia e Libertà
giu 5th, 2014 | Di Maurizio Neri | Categoria: Teoria e critica
Un percorso dal pensiero utopico europeo moderno attraverso la filosofia classica tedesca fino ad un marxismo radicalmente rinnovato.
Di Costanzo Preve
1. Il lettore ha sotto gli occhi un titolo corto ed un sottotitolo lungo. Era però a mio avviso necessario mettere subito in evidenza le tre tappe del pensiero moderno cui intendo invitarlo (pensiero utopico – filosofia classica tedesca – marxismo radicalmente rinnovato e per ora ancora inesistente). Questa impostazione si contrappone a quella che è stata abituale per più di un secolo, e che è invece a mio parere del tutto fuorviante ed illusoria, cioè il presunto passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza , secondo la classica formulazione datale da Engels negli anni Settanta dell’Ottocento, e pervicacemente giunta fino a noi. Sono consapevole di stare suggerendo un punto di vista nuovo, ed a questo invito il lettore paziente ed intelligente.
2 . Questo breve saggio è la continuazione ideale di un saggio precedente, pubblicato nel numero di ottobre 2002 della rivista Comunitarismo. Questo saggio precedente si intitolava “Comunitarismo e Comunismo. Una riflessione storica sui due termini ”. La lettura di questo precedente saggio è molto utile per comprendere l’intera logica in cui svolgo il mio discorso. Per comodità del lettore ne riassumerò nei prossimi due paragrafi l’ispirazione di fondo. Lo scopo resta quello della piena legittimazione politica e filosofica dei termini di Comunità e di Comunitarismo.
3. Nel dibattito politico italiano politically correct di sinistra i due termini di “comunità” e di “comunitarismo” sono considerati cavalli di Troia di infiltrazione della Destra Eterna ed Immutabile (DEI). Esemplari sono in proposito i ripetuti interventi di Guido Caldiron e di Francesco Germinario. Si tratta in generale di manifestazioni di quello che chiamerò il Paradigma dell’Infiltrazione. E’ questo una forma di pensiero magico, che come tutte le forme di pensiero magico ritiene che la fonte impura contamini anche il contenuto. Se ad esempio in un dibattito lo storico Franco Cardini e lo storico Marco Revelli dicessero la stessa cosa , questo non avrebbe nessuna importanza per il pensiero magico: infatti Cardini avrebbe torto e Revelli avrebbe ragione. Follia? Assolutamente no. C’è una logica in questa follia. La logica consiste nel mantenimento a tutti i costi di un pensiero identitario di appartenenza dicotomica Sinistra/Destra. La logica è quella dei tifosi dello stadio, che applaudono sempre la propria squadra e fischiano sempre la squadra avversaria, e che si scontrano con i bastoni con i tifosi avversari. In realtà nel mondo del calcio succede a volte, sia pure raramente, che anche i tifosi più scalmanati applaudano la squadra avversaria, quando questa gioca molto bene. I militanti identitari sono in questo molto più rozzi, perché non arrivano neppure a quello.
E perché questo avviene? Come ho detto, si tratta del Paradigma dell’Infiltrazione. Secondo questo modello, che qui riassumo in modo pittoresco ma sostanzialmente realistico, vi sono tre esseri diabolici, Evola, Tarchi e de Benoist, che emettono messaggi in codice destinati ad essere recepiti in superficie da Berlusconi, Fini e Bossi. Il concetto di “comunità” è uno di questi messaggi, ad esempio la comunità popolare padana del sangue e del suolo, i cui componenti sono invitati a prendere il bastone ed a colpire meridionali, arabi, neri e soprattutto musulmani.
Chi non capisce che bisogna prendere le distanze esplicitamente dal Paradigma dell’Infiltrazione, anche se questo comporta il rischio di rimproveri e di marginalizzazioni, non ha la minima concezione di etica della comunicazione filosofica. Chi scrive ritiene di averne, forse non molta, ma almeno un poco sì.
4. Sempre in riferimento al mio precedente saggio dell’ottobre 2002 ricordo le tre ragioni fondamentali che mi portano a rilegittimare integralmente il termine di “comunità” e la corrente del “comunitarismo”.
In primo luogo, questo termine rimanda all’antica sapienza filosofica greca, che non distingueva fra comunità e società (in lingua tedesca Gemeinschaft e Gesellschaft), perché per i greci antichi la comunità e la società erano la stessa cosa, e si indicavano con un’unica parola (koinonia, che indica appunto il koiné, ciò che si ha in comune). Questa concezione unitaria della comunità e della società era democratica, perché si basava sulla messa in mezzo (es meson) della ragione (logos), che era appunto messa in mezzo fra i cittadini (polites), e che essendo in mezzo fra di loro (dia) richiedeva il dialogo (dia-logos). L’ateniese Socrate è un esempio insuperabile di questa concezione, che vede nell’anima (psyche) il luogo del giudizio sul giusto e sull’ingiusto, come Platone ricorda nel dialogo Critone.
In secondo luogo, questo termine indica molto bene la concezione del comunismo presente in Marx. Per Marx, in sintesi telegrafica, il comunismo non è una società socialista ulteriormente egualizzata e livellata, ma è una comunità di libere individualità. Questa almeno è la formulazione dei Lineamenti (in tedesco i Grundrisse). Chi non sopporta la parola comunità, perché ritiene che sia un cavallo di Troia della coppia diabolica Tarchi – de Benoist, sappia che non vuole neppure Marx. Su questo io personalmente non sono disposto a fare smorfie o sconti.
In terzo luogo, il termine di Comunitarismo, dialettizzato più che contrapposto al termine Individualismo, ha assunto da almeno tre decenni un significato del tutto progressivo soprattutto nella filosofia politica anglosassone. Ricordo qui solo Christopher Lasch ed Alisdair Mac Intyre. Non si capisce perché la minaccia di scontri identitari fra bastonatori rivali dovrebbe impedirmi di usare questi termini secondo ovviamente la mia sovrana interpretazione. Ma ora basta con le chiacchiere ed entriamo finalmente in argomento.
5. Svolgerò il mio discorso in quattro punti. Primo, criticherò in modo radicale qualunque concezione basata sul passaggio del comunismo moderno dall’utopia alla scienza. Io considero il comunismo moderno un’antropologia sociale contenuta in una filosofia della libertà, che utilizza anche in seconda istanza metodi razionali in economia (principio del piano), ma che non è in alcun modo una “scienza” paragonabile alle scienze naturali moderne nate dopo il Seicento. Secondo, mostrerò come l’utopia moderna contenga in sé un elemento contraddittorio, che è quello del sogno di emancipazione purtroppo strettamente legato con la cattiva e regressiva concezione del controllo sociale totale e del conformismo introiettato. Terzo, cercherò di indicare come la filosofia classica tedesca, che a mio avviso è soprattutto una filosofia della libertà dei moderni, sia proprio una risposta determinata, anche se indiretta, alle aporie della comunicazione utopica della società. Quarto, concluderò sostenendo che il marxismo, se desidera avere un futuro da progettare e non solo un passato da rimpiangere, deve prendere atto di questo nucleo concettuale, a mio avviso di semplice comprensione. Per finire, concluderò con alcune segnalazioni bibliografiche che permetteranno al lettore una prosecuzione individuale dello studio di questi affascinanti argomenti.
6. La teoria del passaggio della teoria del socialismo moderno dall’utopia alla scienza fu elaborata fra il 1876 ed il 1878 da Friedrich Engels nel contesto di una polemica con il positivista tedesco Duhring. Ma la polemica con Duhring fu solo l’occasione estrinseca per qualcosa di molto più rilevante, e cioè la prima formulazione sistematica di una cosa che fino ad allora non esisteva neppure ancora, e cioè il “il marxismo”. Marx era ancora vivo (mori nel 1883), non prese le distanze da Engels, e si può dunque pensare che fosse d’accordo. In realtà, noi facciamo l’esperienza tutti i giorni del fatto che anche i nostri migliori amici ci fraintendono, oppure espongono le nostre idee in modo riduttivo. In ogni caso, cerco di arrivare subito al cuore teorico del problema.
In quanto allievo, spesso inconsapevole e contraddittorio, di Hegel e della filosofia classica tedesca, Marx non poteva staccarsi dall’idea che non può esistere una scienza senza fondamenti filosofici. Fu invece il positivismo posteriore ad abbandonare l’idea che la scienza debba avere fondamenti filosofici ed a sostenere la concezione per cui una scienza “positiva” deve anzi lasciarsi alle spalle ogni fondamento filosofico, ritenuto immaturo, in una parola “metafisico”. Marx oscilla fra idealismo e positivismo, li mischia continuamente insieme, ed è allora inevitabile che lo stesso statuto teorico del marxismo ne venga fortemente danneggiato, con conseguenze storiche gravissime e tragicomiche. Da un lato, si pretende in modo positivistico di “dedurre” dalla nozione modellistica di modo di produzione capitalistico, fatto ulteriormente ruotare intorno alla sola teoria del valore-lavoro considerata il suo nucleo centrale, lo stesso passaggio inevitabile dal capitalismo al comunismo. Dall’altro, è innegabile che questo preteso (ed in realtà a mio avviso inesistente) passaggio inevitabile dal capitalismo al comunismo presuppone un fondamento filosofico inespresso, e cioè che la natura umana lo consenta e lo renda possibile, considerando che l’uomo è un animale politico razionale e sociale, e non un atomo di egoismo e di aggressività sostanzialmente ineducabile e non migliorabile.
Come si vede, la scienza marxista del modo di produzione presuppone, a mio avviso, un fondamento filosofico ed antropologico. Ecco perché su questo punto sono del tutto fuori strada coloro che cercano di eliminare dalla teoria di Marx qualunque fondamento detto “umanistico”, come Louis Althusser e la sua pur benemerita scuola francese.
7. Engels respinge di fatto l’idea che la scienza marxista debba avere un fondamento filosofico veritativo, ed oscilla fra le due concezioni, entrambe molto riduttive ed a mio avviso insufficienti, della filosofia come scienza delle leggi del pensiero e della filosofia come concezione scientifica del mondo. La scienza delle leggi del pensiero è la logica, non la filosofia, che è un concetto molto più ampio, e la concezione scientifica del mondo è una ideologia, sia pure razionalistica. La somma di logica e di ideologia, però, non fanno una filosofia.
8. In questo modo il marxismo nasce senza fondamento filosofico reale, e nasce cioè positivistico. Ma il modello positivistico di scienza era appunto quello dominante in Germania fra il 1870 ed il 1890, quando cioè nasce il marxismo come sistema coerentizzato, ed era il modello che volevano anche i nuovi dirigenti politici e sindacali del movimento operaio tedesco, ansiosi di dotarsi di una teoria “seria”, e seria perché scientifica e non utopistica. Come si vede, si trattò di un processo storicamente obbligato ed a quei tempi senza alternative. Ma in questo modo il marxismo si portò dietro per più di un secolo, ed ancora si porta dietro, un peso sempre più assurdo ed intollerabile.
E’ necessario cambiare strada. Fino al triennio 1989-1991, data in cui si consumò l’esperienza del comunismo storico novecentesco come sistema di stati e di partiti, questa riforma radicale era impossibile, perché sarebbe stata impedita con la forza dalle burocrazie politiche al potere, che da questo deforme marxismo positivistico traevano appunto la legittimazione ideologica della loro presunta direzione “scientifica” della società. Fu questa la ragione per cui la stessa moderata e minimalistica proposta di colui che fu forse il più grande filosofo marxista del Novecento, l’ungherese Lukàcs, che suggerì di sostituire all’assurdo materialismo dialettico codificato da Stalin nel 1931 una più credibile ontologia dell’essere sociale, fu ignorata e respinta dagli apparati politici al potere, gli stessi che pochi anni dopo avrebbero liquidato la baracca e si sarebbero riciclati come mediatori del consenso al servizio dell’imperialismo americano.
9. Bisogna dunque cambiare radicalmente strada. Io propongo in questa sede un primo possibile itinerario, che passa attraverso tre momenti critici successivi. Si tratta di tre bilanci teorici concatenati, un bilancio dell’utopia moderna, un bilancio della filosofia classica tedesca, ed infine un bilancio delle possibilità di riforma radicale dello stesso pensiero comunista. Iniziamo allora dall’utopia moderna.
10. Viviamo oggi in uno sciagurato momento culturale di svalutazione e di diffamazione del discorso utopico. Il discorso utopico è legato al totalitarismo, alla prefigurazione maniacale del dominio fatto passare per soddisfacimento dei bisogni naturali dell’uomo, ed è soprattutto visto come premessa e giustificazione ideologica della rivoluzione francese del 1789 e di quella russa del 1917. La svalutazione dell’utopia è ovviamente legata alla delegittimazione della rivoluzione. L’apparato mediatico si serve di intellettuali privilegiati che amplificano questo discorso anti-utopico, e questo non è un caso. L’immaginazione utopico-prefigurativa, infatti, non può essere del tutto abolita, perché è radicata nei sentimenti e nelle passioni umane. Essa può essere però trasferita, in questo caso, all’immaginazione pubblicitaria del consumo e del desiderio di consumo. Questa utopia trasformata in consumismo connota appunto la miseria del nostro tempo più che ogni altra determinazione culturale. L’altro luogo e l’altro tempo dell’utopia, un tempo politica e sociale, sono ora l’illusoria fuga nel futuro di un luogo e di un tempo del consumo. Senza una vera rottura antropologica con questo scenario è quasi impossibile ipotizzare una ripresa rivoluzionaria.
11. E’ possibile ammettere tranquillamente che nelle utopie moderne (non parlo infatti del mondo antico e medievale, che pure videro opere che potremmo definire “utopiche”) ci sono anche elementi prefigurativi maniacali, ossessivi ed autoritari. Ad esempio Pierre-François Moreau, in un libro interessante, ha sostenuto che il genere utopico, spesso travestito da esposizioni dei veri bisogni naturali dell’uomo distribuiti egualitariamente, è stato in realtà il romanzo dello stato assoluto mercantilista, che doveva appunto conformare il soddisfacimento dei bisogni dei suoi sudditi alla produzione protetta dalla sua sovranità. Per fare un altro esempio Giovanna Pezzuoli, in un altro notevole libro, ha sostenuto e documentato come la maggior parte delle utopie moderne sia caratterizzata dall’immaginario maschile di dominio sulla donna e dal suo imprigionamento nelle cosiddette “funzioni naturali” che sono in realtà il frutto di un assoggettamento storico. Ora, io non voglio negare la fondatezza di quanto dicono Moreau e la Pezzuoli. E’ chiaro che una concezione “naturalistica” dei bisogni può essere l’anticamera ideologica di un progetto di regolazione forzata dei bisogni stessi. In questo senso, e lo vedremo dopo, lo stesso comunismo di Marx deve per molti versi de-utopistizzarsi, e questo non potrà avvenire senza assorbire la lezione di libertà della filosofia classica tedesca. Ma la tendenza principale del discorso utopico, a mio avviso, resta quella correttamente indicata da Ernst Bloch e da Walter Benjamin, e cioè una tendenza di trascendimento liberatore di un presente ingessato nei suoi rapporti di potere.
12. Quanto dico fu peraltro già detto molto bene da Kant alla fine del Settecento. Scrive Kant: “Nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo (come cioè egli si immagina il bene degli altri uomini), ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona, purché egli non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo”. Le utopie presentano infatti talvolta proprio i due aspetti che Kant individua: da un lato propongono al dialogo pubblico delle vie per una vita buona (uso qui il termine di Aristotele, a mio avviso tuttora insuperato), dall’altro a volte effettivamente cadono nella tentazione della costrizione ad essere felici a loro modo. Se le utopie non avessero questa contraddizione interna, sarebbero il punto più alto della filosofia politica. Ma qui appunto interviene il ruolo duplice della filosofia classica tedesca, la critica dell’intellettualismo astratto nella progettazione sociale e la proposta di una libertà individuale concreta.
13. In generale le storie dell’utopia moderna iniziano con Tommaso Moro e con Tommaso Campanella, l’Utopia e la Città del Sole. Una felice eccezione è invece presente in un notevole libro di Emilio Russo, che inizia dal De pace fidei (e cioè La pace della fede), un’opera scritta dal filosofo Nicola Cusano a metà del Quattrocento. Si tratta di una scelta intelligentissima, perché mostra bene la prima radice dell’utopia moderna, che è pacifista e cristiana. In questa stupefacente opera, al cui livello le chiese organizzate non sono ancora giunte neppure oggi, Cusano mostra con cristallina chiarezza che tutte le religioni (cristiana, ebraica, musulmana, eccetera) adorano in realtà lo stesso identico Dio, divergendo solo nei rituali esteriori e negli apparati teologici. L’utopia consiste dunque in una proposta pacificatrice, in cui Cusano formula in questo modo il programma per una “concordia ragionevole fra le religioni”: “… dopo aver esaminato un gran numero di libri, si scoprì che tutte le divergenze riguardavano i riti piuttosto che il culto dell’unico Dio e dal loro confronto risultava altresì che l’unico Dio era stato presupposto da sempre e venerato in tutte le forme religiose, benché il popolo semplice spesso non se ne accorgesse, ostacolato dall’avverso potere del principe delle tenebre”.
Un’osservazione. A metà del Quattrocento, Cusano dice chiaramente che l’intolleranza è diabolica, non l’eresia. Cade dunque l’idea del cosiddetto “pensiero debole” contemporaneo per cui chi tende alla verità è potenzialmente intollerante, e solo lo scettico liberale (Rorty) è veramente tollerante, perché non credendo in nulla tollera tutto. Non è così. Cusano crede alla verità, che egli ovviamente nel suo linguaggio chiama “unico Dio”, e proprio su questa base annuncia il diritto ad arrivarvi in vari modi (oggi diremmo in modo “pluralistico”). Diabolico è chi cerca di impedire questa varietà.
Siamo dunque arrivati a capire il primo elemento filosofico del discorso utopico moderno. Si tratta della pace religiosa, presupposto per ogni ulteriore ripresa del dialogo filosofico di tipo greco-socratico, che non potrebbe mai svolgersi se non in condizioni politiche e sociali di pace religiosa. Non è certo poco.
14. Se la pace religiosa è il primo elemento utopico strutturale, la critica alla proprietà privata ne è il secondo. Si tratta, come è noto, di una critica presente sia nell’Utopia di Tommaso Moro sia nella Città del Sole di Tommaso Campanella. Queste critiche alla proprietà privata sarebbero incomprensibili senza tenere presente la scoperta dell’America ed i nuovi viaggi dei portoghesi in Asia, che allargano in modo incredibile i precedenti orizzonti chiusi dell’Europa medioevale. U-topia significa certo etimologicamente “in nessun luogo”, ma il suo vero significato è “in un altro luogo possibile”. Sia in Moro che in Campanella sono dei marinai a raccontare le rispettive utopie. Il viaggio come fattore di scoperta è il presupposto materiale del racconto utopico.
A fianco del viaggio di scoperta primocinquecentesco c’è certamente un altro fattore decisivo, ed è lo sconvolgimento dei rapporti di proprietà che si verifica nel Cinquecento ad opera di molti fattori convergenti. Il “comunismo” degli utopisti Moro e Campanella non è un sogno autoritario di umanisti frustrati e di monaci ribelli, ma una risposta assolutamente determinata ad uno sconvolgimento storico presente. Come fece a suo tempo notare Giuliano Ghiozzi in un ottimo libro, a quel tempo non era ancora stata elaborata la teoria moderna della proprietà privata, che nasce fondamentalmente con John Locke e con la sua teoria di proprietà legittimata dal lavoro. Locke ha alle spalle la rivoluzione puritana inglese del 1640 ed i primi accenni dello sviluppo capitalistico, anche se solo commerciale e manifatturiero e non ancora industriale. Ciò permette al lavoro di diventare in un certo senso “astratto”, cioè generico, omogeneo ed intercambiabile, e questo presupposto del “lavoro astratto” è ovviamente il ponte concettuale verso la “proprietà astratta”, cioè la proprietà in generale, prima borghese e poi capitalistica.
Moro e Campanella sono uomini del Cinquecento, non del Settecento, e non si trovano davanti ancora il lavoro astratto e la proprietà privata astratta. Essi si trovano davanti i rapporti sociali di produzione di tipo signorile e tardo-feudale, ma anche le nuove “recinzioni” (enclosures) in cui, come scrive Moro, “le pecore mangiano gli uomini”, perché li cacciano dai “campi aperti” (open fields) in cui prima lavoravano.
15. L’utopia moderna nasce dunque dalle due robuste gambe della pace religiosa e della critica della proprietà privata. Pace religiosa significa universalismo, critica alla proprietà privata significa comunismo. Ma il comunismo degli utopisti è un comunismo necessariamente “comunitario”, e questo ci porta ad esaminare questa prima forma moderna di “comunità”. Ho già scritto in un paragrafo precedente che sono per la piena legittimazione di questo termine, ed aggiungo ora una quarta ragione alle tre ricordate precedentemente nel paragrafo 4. Moro e Campanella hanno ovviamente una concezione comunitaria del comunismo, che non si tratta di accettare o di respingere a scatola chiusa, ma di interrogare nella sua natura e nelle sue dinamiche, che sono ad un tempo premoderne e protomoderne. E’ questa delicata doppia natura che ci interessa.
16. Gli autopiani di Tommaso Moro e i solari di Tommaso Campanella lavoravano rispettivamente sei ore e quattro ore al giorno. Essi praticavano dunque il principio che la sinistra politica contemporanea ha definito “lavorare meno, lavorare tutti” e che ha ispirato la richiesta delle 35 ore settimanali, oggi disprezzata e diffamata come se si fosse trattato di una follia, e non di una richiesta umanistica e razionale.
Che fare nel tempo rimasto libero dal lavoro? Sostanzialmente, studiare. E così giungiamo al terzo e forse più rilevante elemento dell’utopia moderna, dopo i due precedenti della pace religiosa e della critica alla proprietà privata. Si tratta del principio dell’educazione universale, oggi sostituito dalla manipolazione mediatica universale, che è esattamente il contrario della educazione. In un suo ottimo libro, Ornella Pompei Faracovi documenta la fortissima spinta educativa e pedagogica del discorso utopico moderno, in particolare di quello seicentesco. Certo, si tratta di una pedagogia di tipo “organicistico”, che tende soprattutto all’inserimento armonico nella comunità. Ma si tratta pur sempre dell’insistenza al diritto universale alla conoscenza, al rinnovamento del sapere su nuove basi. Oggi stiamo perdendo questa pulsione utopica, e tutti sanno che le ipotesi di riforma dell’educazione e del sistema scolastico sono tutte ispirate dal principio aziendalistico della scuola come impresa economica. In Italia sappiamo che non ci sono state e non ci sono in proposito differenze qualitative fra Giovanni Berlinguer dell’Ulivo e Letizia Moratti del Polo, e questo non è un caso, perché le polarità parlamentari Sinistra/Destra sono semplici varianti secondarie di una cultura egemonica.
Chi è oggi il portatore di questa cultura egemonica? In proposito, io condivido nell’essenziale la nuova teoria delle classi sociali proposta da Riccardo Petrella, che sostiene che oggi nel mondo vi sono fondamentalmente tre classi: la classe dominante, formata da una aristocrazia finanziaria mondiale, che ha unificato la propria cultura di riferimento (lingua anglo-americana, stesse carte di credito, stessi alberghi e residences che contano, stessi quotidiani, stessa TV, stessi modelli di consumo); la classe delle risorse umane nel mondo, cioè tutti gli occupabili flessibili; infine, gli esclusi del mondo, perché in vario modo sovrabbondanti. Questa è la nuova struttura di classe della nuova società globalizzata che si vanta di non essere più “utopica” e di essersi lasciata alle spalle ogni ipotesi di progettazione sociale alternativa. Una simile società non ha, e non potrebbe comunque avere, un modello educativo, formativo e pedagogico, perché non ha una concezione umanistica, ma puramente aziendalistica. La società non deve più essere pensata nella forma dell’Utopia, ma nella forma dell’Impresa.
17. Il Settecento rappresenta il momento di massima maturità del discorso utopico. Qui i tre momenti prima indicati (la pace religiosa, la critica alla proprietà privata e l’educazione universale fondata sul tempo libero dal lavoro riproduttivo) si fondono in un vero e proprio progetto politico complessivo. Tuttavia, credo che il modo tradizionale con cui le storie della filosofia occidentale presentano l’utopia settecentesca sia fuorviante e riduttivo. Il discorso utopico diventa in queste ricostruzioni una sorta di “estrema sinistra” dell’Illuminismo. C’è così una destra aristocratica (Montesquieu), un centro borghese filo-inglese (Voltaire), una sinistra democratica (Rousseau), ed infine appunto una estrema sinistra utopica. In questo modo, però, l’autonomia progettuale del discorso utopico viene perduta. E’ allora necessario cambiare radicalmente l’ottica di approccio.
18. E’ questo il caso del notevole lavoro di Aldo Maffey. Maffey connota con grande finezza l’utopista come “un grande specialista di una materia forse inesistente”, la felicità immutabile ed eguale per tutti, ed individua il nucleo dell’utopia proprio nell’esorcizzazione della temporalità dissolvitrice, il cui nucleo è sempre alla fine la nostra morte personale. In questo modo l’uotpia non viene collegata all’ideologia, secondo la proposta di Mannheim, per cui in definitiva l’ideologia era conservatrice e l’utopia era rivoluzionaria. L’utopia non viene collegata alla religione, che è anch’essa basata su di una esorcizzazione del carattere nichilistico e dissolutivo della temporalità. In ogni caso, la filosofia classica tedesca, che si baserà sulla dialettica, a sua volta grande dissolvitrice di ogni mito naturalistico della permanenza dei bisogni naturali e della trasparenza dei costumi sociali, sarà in grado di interpellare l’utopia proprio nella forma hegeliana della Auf-hebung, e cioè del Superamento-Conservazione. E questo è appunto il solo vero oggetto di questo mio breve saggio. Ma ora torniamo alla proposta interpretativa di Maffey, che mi servirà proprio da ponte per collegare il discorso utopico con il discorso della filosofia classica tedesca.
19. Aldo Maffey individua tre modelli utopici settecenteschi, un’utopia borghese, un’utopia comunista ed un’utopia anarchica. L’utopia borghese è quella dei fisiocratici francesi, che volevano fondare un’ordinata riproduzione economica sulla base dell’ordine naturale finalmente scoperto e ristabilito. L’utopia comunista è quella di Morelly, che peraltro lega il suo comunismo non certo ad ancora inesistenti proletariati e partiti proletari, ma ad un potere monarchico e dispotico che abbia la forza di liquidare tutti i corpi intermedi dello stato. L’utopia anarchica è quella di Dom Deschamps, che intende sostituire allo stato delle leggi (ètat des lois) il nuovo stato dei costumi (ètat des moeurs).
La tripartizione proposta da Maffey è a mio avviso il migliore punto di vista possibile per affrontare un discorso teorico e filosofico sull’utopia. Le aporie dei tre modelli, borghese, comunista e anarchico restano infatti più o meno le stesse anche nell’Ottocento e nel Novecento. In questa forma pura, originaria, settecentesca, esse possono però essere studiate meglio ed in modo più stimolante.
20. In primo luogo, può sembrare curioso che fra le utopie sia anche inserita l’utopia borghese dei fisiocratici. Siamo infatti abituati a considerare il capitalismo come qualcosa di realistico e di fattuale, non di utopico, e cioè come qualcosa che funziona per conto suo come un meccanismo riproduttivo anonimo ed automatico, e non come l’oggetto di un progetto voluto e programmato. Ma questa meraviglia deriva dalla confusione fra due concetti ben diversi, quello di borghesia, che è un soggetto sociale, e quello di capitalismo, che in termini marxiani è un modo di produzione. Il capitalismo infatti non è un’utopia, ma un modo di produzione, ed utopici sono solo i progetti di superarlo che non ne intendono prima la vera dinamica e la vera natura sociale (ad esempio gli inadeguati progetti del comunismo storico novecentesco, che se ne era erroneamente fatto un’immagine storicistica ed economicistica). Ma vi sono però utopie borghesi, ad esempio quella fisiocratica della (inesistente) naturalità dell’economia.
Maffey considera utopica la fisiocrazia francese. Pierre Rosanvallon ha a suo tempo scritto un libro notevole per mostrare come anche il modello economico di Adam Smith sia pienamente utopico, e sia cioè un capitalismo utopico. La natura dei fisiocratici e la mano invisibile del mercato di Adam Smith sono due principi utopici esattamente come lo sono i modelli di stato egualitario di Moro, Campanella e Morelly. Il fatto che questo non venga oggi percepito, e si consideri Smith non un pensatore utopico, ma ilo fondatore della grande economia politica inglese moderna, regina di tutte le scienze sociali e religione di tutti gli economisti branditori di pipe e salmodianti nella loro lingua sacra (l’inglese anziché il latino), è dovuto semplicemente ad un’illusione ottica e ad un inganno prospettico. L’utopia degli economisti non si è fatta e non poteva farsi realtà, ed infatti la mano invisibile funziona ancora meno dello spirito santo, ma si è fatta ideologia di legittimazione e discorso magico-animistico di copertura del dominio.
21. In secondo luogo, è invece considerato normale considerare il comunismo come un’utopia. Certo, il comunismo di Morelly non è quello di Marx. Risparmio al lettore una noiosa messa a punto sulla differenza fra una monarchia comunista dispensatrice dei bisogni naturali dell’uomo ed una teoria del comunismo come portato finale di uno sviluppo onnilaterale e ricchissimo delle forze produttive e del cosiddetto general intellect. Il lettore darà questo per scontato, noto e conosciuto. Ma in realtà, come scrisse Hegel, il noto non per questo è ancora conosciuto, ed allora una riflessione sull’utopia di Morelly può essere ancora di grande utilità. Morelly, si dirà, fonda il comunismo sul “codice della natura”, mentre Marx lo fonda sul “codice della storia”. Negli stessi anni in cui Morelly scriveva la sua utopia comunista sorgeva quella che Koselleck ha definito la concezione della storia non solo come enumerazione di avvenimenti ma come “concetto trascendentale riflessivo”, e cioè come terreno omogeneo spazio-temporale in cui realizzare l’idea di progresso dell’umanità. Quando diciamo che il comunismo di Marx si fonda su di un codice storico e non su di un codice naturale intendiamo esattamente questo. Ma la nozione di comunismo in Marx continua a fondarsi sulla nozione di bisogno (a ciascuno secondo i suoi bisogni), ed anche se si tratta di “bisogni ricchi”, che vanno cioè oltre la frugalità consigliata dai pensatori settecenteschi (da Morelly allo stesso Rousseau), resta il fatto che anche questi bisogni artificiali devono pur avere una base naturale, se vogliamo continuare a seguire la corretta impostazione di Herbert Marcuse, che nel capitalismo moderno distingue pur sempre fra bisogni autentici e bisogni artificialmente manipolati dal sistema pubblicitario del consumo delle merci inutili.
22. In terzo luogo, l’utopia anarchica di Deschamps si basa appunto sul principio filosofico fondamentale di ogni anarchismo possibile, cioè la sostituzione del regno delle leggi con il regno dei costumi. Le leggi vogliono dire stato, apparati repressivi, disuguaglianze garantite con la violenza, eccetera. I costumi, liberamente accettati e garantiti da una autogestione economica e da un autogoverno politico capillare di piccole comunità, vogliono invece richiamarsi alla spontaneità ed alla volontarietà. Se leggiamo un teorico dell’anarchismo come Murray Bookchin, vediamo che dai tempi di Dom Deschamps non è cambiato il discorso filosofico di riferimento fondamentale. In breve, la natura umana, se opportunamente educata e condizionata, è in grado di autogovernarsi in base ai costumi liberamente accettati, e non c’è alcun bisogno di fare un discorso alla Hobbes su di una presunta, ed in realtà inesistente, natura umana malvagia che solo la paura può tenere a freno.
23. Facciamo ora una sintesi provvisoria, che ci aiuterà ad affrontare meglio i prossimi paragrafi. Nel Cinquecento e nel Seicento il discorso utopico mette soprattutto a fuoco tre questioni pregiudiziali (la pace religiosa come premessa al libero dialogo filosofico, la critica alla proprietà privata ed alle disuguaglianze, ed infine l’educazione universale basata sul tempo libero conseguito con la divisione dei compiti necessari fra tutti). Nel Settecento il discorso utopico raggiunge la sua piena maturità, attraverso l’elaborazione di tre distinti modelli (l’utopia borghese della fisiocrazia francese, l’utopia comunista di Morelly basata su di un codice della natura, ed infine l’utopia anarchica di Deschamps basata sulla sostituzione delle leggi coattive con i costumi volontari liberamente accettati).
In tutte queste varianti, si ha a che fare con un paradigma comunitario. Per poter criticare correttamente un paradigma comunitario, non ha senso abolire la stessa nozione di comunità, insieme a quella connessa di comunitarismo, perché così facendo ci ritroviamo fra le mani un pugno di mosche, più esattamente un aggregato di atomi sociali fluttuanti nel vuoto. Qualcosa, diciamocelo francamente, che non sta né in cielo né in terra. La sola critica sensata dei limiti del paradigma comunitario del discorso utopico può essere fatta da chi non butta via il bambino con l’acqua sporca, e cioè il bambino della comunità con l’acqua sporca dell’astrattezza prefigurativa tendenzialmente atemporale. E’ questo il caso della filosofia classica tedesca.
24. Nei manuali di storia della filosofia occidentale la genesi della grande filosofia classica tedesca è generalmente collegata al precedente pensiero di Kant, di cui è ad un tempo una radicalizzazione ed una critica. E’ una radicalizzazione, perché si radicalizza la centralità kantiana del soggetto, il cui carattere trascendentale non si limita più ad organizzare in forma spazio-temporale un mondo preesistente, ma ne crea le modalità stesse di conoscenza. E’ una critica, perché del kantismo si criticano radicalmente due elementi centrali, la separazione fra mondo fenomenico degli oggetti conoscibili e mondo noumenico degli oggetti solo pensabili, ed infine la presunta astrattezza formalistica dell’imperativo categorico del mondo morale.
Questo è ovviamente corretto, e non intendo certo negarlo. In realtà, questa riforma del pensiero kantiano, che porta dal criticismo all’idealismo, è solo una grande metafora di un fatto storico, e cioè quello che a suo tempo Foucault definì “l’entusiasmo” sorto dall’evento solenne della rivoluzione francese del 1789. L’umanità sembrò prendere il destino nelle sue mani, e tutto questo può essere trasfigurato nel rarefatto linguaggio tecnico della filosofia come passaggio dall’io minuscolo all’Io maiuscolo, e come passaggio dall’oggetto materiale esterno al cosiddetto Non-Io che diventa obbiettivo di una filosofia della prassi modificatrice. Chi pensa che i fondatori teorici della filosofia della prassi siano Karl Marx e Antonio Gramsci è male informato. Il fondatore della filosofia della prassi, per cui è l’azione umana che deve modificare la realtà, è il tedesco Fiche, e questa fondazione risale addirittura al 1794, lo stesso anno in cui la testa del “virtuoso” Robespierre veniva recisa dai termidoriani, i veri padri fondatori della borghesia francese moderna.
In questo breve saggio propongo al lettore un punto di vista diverso ed inconsueto. Gli propongo di mettere fra parentesi il grande Kant (non dimenticarlo, solo metterlo fra parentesi), e di considerare la corrente principale dominante della filosofia classica tedesca (e cioè soprattutto Hegel) come una risposta critica e costruttiva ai problemi posti dal precedente discorso utopico, nei suoi tre aspetti dell’utopia borghese, dell’utopia comunista e dell’utopia anarchica. Credo che la “fecondità” di questa prospettiva risulterà evidente dalle argomentazioni che seguiranno nei prossimi paragrafi.
25. Lo strumento concettuale che Hegel, l’incarnazione del momento maturo della filosofia classica tedesca, utilizza per criticare costruttivamente il discorso utopico è appunto l’analisi dialettica dell’intelletto astratto, sulla base della preventiva distinzione fra intelletto e ragione, oggi sciaguratamente in via di smarrimento. Il discorso utopico viene visto come la manifestazione più completa dell’intelletto astratto stesso. Ora, per Hegel l’intelletto astratto non puo e non deve essere eliminato. Deve essere “superato”mantenendone ed incorporandone gli aspetti positivi.
Il filosofo contemporaneo che forse ha capito meglio le conseguenze sciagurate di una perdita della distinzione fra intelletto e ragione é stato forse Herbert Marcuse. Il discorso tecnocratico di oggi è puro intelletto al 100%, in cui la ragione dialettica tende allo %zero. La ragione è appunto la sola istanza di controllo di una totalità altrimenti sferica ed autoreferenziale, come è il modo di produzione capitalistico. L’intelletto non è in grado di scorgere dentro sé stesso lo sdoppiamento dialettico che porta allo stravolgimento dei suoi stessi progetti. Oggi la catastrofe ecologica e l’impoverimento economico sono appunto, visti filosoficamente, l’effetto di un totale dominio dell’intelletto tecnico.-produttivo sulla ragione filosofica. La ragione filosofica sa che il vero esiste, ed il vero è l’intero. L’intelletto non pensa che il vero esista, o al massimo lo confonde con il certo (è certo che l’acqua bolle a 100 gradi) e con l’esatto (è esatto che 5+5=10). Ricordo ancora al lettore il punto essenziale del mio discorso e cioè che la critica della filosofia classica tedesca non intende eliminare, distruggere e stroncare la comunità utopica progettuale, ma solo renderla libera. Su questo punto sono stanzialmente d’accordo con Benedetto Croce. La filosofia classica tedesca è soprattutto una filosofia della libertà, e non solo della limitata e ristretta libertà borghese, come troppo spesso hanno detto e dicono i critici marxisti di Hegel. La genesi della filosofia classica tedesca può anche essere particolaristica, e ridursi cioè ad una crisi di identità culturale della borghesia tedesca (come frettolosamente ha scritto Fulvio Papi), ma la sua validità è universalistica. Essa ci riguarda qui ed ora, oggi e domani. Qui sta il cuore del problema del rapporto fra utopia e filosofia, comunità e libertà. Cercherò di mostrarlo nei prossimi tre paragrafi, a proposito rispettivamente dell’utopia borghese, dell’utopia comunista e dell’utopia anarchica.
26. L’utopia borghese per eccellenza, quella massima ed esemplare, consiste proprio nel credere che l’economia politica (borghese) sia una scienza, e sia addirittura la regina delle scienze sociali. Lo stesso positivista Auguste Comte, che pure è generalmente corrivo a tutte le sciocchezze ottocentesche sulla fine della religione e della filosofia e sulla integrale scientificizzazione positiva del sapere possibile, almeno su questo punto si dimostra più razionale, ed afferma apertamente che solo una nuova “sociologia” complessiva può semmai essere “scientifica”, mentre di per sé l’economia politica è una forma di sapere “metafisico” che si basa sul falso postulato dell’indipendenza originaria atomistica del singolo venditore-consumatore. Non si poteva dire meglio, ed inquadrare meglio la questione.
Anche la filosofia classica tedesca ha su questo punto le idee chiare. Il suo iniziatore Fiche scrive un’intelligente libro di economia sul cosiddetto “stato commerciale chiuso”, che già allora prefigurava le tesi dei più intelligenti degli attuali No Global (i più stupidi sono invece coloro che accettano che il sistema di manipolazione mediatica li battezzi New Global invece di No Global, senza capire che in questo modo perdono ogni antagonismo e vengono incorporati nel discorso dominante). Hegel ha idee chiaramente sulla cosiddetta “economia politica”. Ha parole di stima per Smith e Ricardo, ma rifiuta nel modo più assoluto di considerarla una scienza, ritenendola una forma di sapere dell’intelletto e non della ragione, che nel suo linguaggio significa astratta ed utopica. Lo spazio teorica dell’economia politica viene chiamato da Hegel “sistema dei bisogni”, e gli si toglie qualunque autonomia dal sistema etico e politico. Insieme con la famiglia e le corporazioni professionali e produttive Hegel colloca il “sistema dei bisogni” nella cosiddetta Società Civile, senza dimenticare mai di chiarire che essa non è la civil society inglese del liberalismo politico e del liberismo economico, e che il government inglese non ha nulla a che fare con la sua concezione di Stato.
Paradossalmente, ma non a caso, è proprio il movimento operaio, nella sua miopia economicistica, che legittima l’utopia borghese dell’economia politica come massima scienza sociale borghese. Tuttavia, io non dò assolutamente la colpa di questo a Marx, che ne ha altre, ma non questa. Marx non ha mai voluto scrivere una variante di “sinistra” dell’economia politica, ma una critica complessiva dell’economia politica. L’ottica teorica di Marx è esattamente la stessa di quelle di Hegel e di Comte, e cioè il rifiuto radicale di accettare il terreno “scientifico” della cosiddetta economia politica. Il modello puro ed inarrivabile di economia politica di “sinistra” non è quello di Marx, ma quello dei socialisti ricardiani inglesi. Questi seguaci di “sinistra” di Ricardo mettono al centro la distribuzione dei redditi derivanti dai tra cosiddetti Fattori Produttivi (Terra, Capitale, Lavoro), che danno luogo rispettivamente alla rendita, al profitto ed al salario. In questo modo si possono avere tre possibili configurazioni: il salario contro gli altri due redditi, il salario ed il profitto alleati contro la rendita, il salario e la rendita alleati contro il profitto. Trascurando la terza variante poco praticata, le prime due varianti (estremista la prima, moderata la seconda) sono sempre state confuse da legioni di confusionari per l’economia politica di Marx.
Si tratta del riflesso teorico subalterno di quella che Barman ha correttamente definito l’“economicizzazione del conflitto”. La classe operaia e proletaria cessa di avere (ma a mio avviso non l’ha mai avuto, se non nei tempi precoci del luddismo e del cooperativismo di Owuen e Fourier) una visione alternativa dell’intero complesso dei rapporti sociali di produzione, ed accetta il terreno storicamente subalterno dell’economicizzazione del conflitto, e cioè del conflitto distributivo e redistributivo.
Le porte dell’utopia borghese sono così grottescamente spalancate. Meditate, gente, meditate.
27. Quando Hegel muore (1831) Marx è un ragazzino di tredici anni. Non ha dunque assolutamente senso, ed è un puro gioco di società, chiedersi che cosa avrebbe pensato Hegel se avesse conosciuto il comunismo di Marx. Hegel era informato sulle utopie comuniste, anche se esse non erano assolutamente al centro della sua attenzione, e le riteneva l’altra faccia dell’intellettualistica (e cioè astratta) dell’economia politica, e cioè l’impossibile fondazione diretta dei rapporti sociali sulla natura. In Hegel è centrale l’acquisizione dell’autocoscienza storica, non la deduzione astratta da un presunto codice naturale dei veri rapporti sociali.
Hegel non ha mai criticato direttamente Morelly (salvo errore), ma la sua critica a Rousseau, al suo contratto sociale ed al suo stato di natura presupposto concerne esattamente le stesse premesse naturalistiche, che tutta la filosofia classica tedesca rifiuta. Hegel connota con la curiosa espressione di “furia del dileguare”, cioè di fretta nel portarsi avanti, la tendenza sia russoviana che a maggior ragione utopico-comunista di “saltare” le articolazioni della società civile (famiglia, corporazioni produttive e professionali, sistema dei bisogni) per correre verso un astratto stato ideale garantito da un nuovo contratto sociale e basato sui “veri” diritti naturali dell’uomo. In un importante passaggio dialettico egli chiarisce come questo atteggiamento astratto porta ad una sorta di “ascetismo della morale”, ma questo ascetismo della morale non può durare a lungo, e si rovescia necessariamente nel suo contrario, cioè in quello che Hegel chiama “regno animale dello spirito”, e cioè lo scatenamento nichilistico di passioni e di desideri non mediati dalla ragione.
Hegel descrive qui a mio avviso con esemplare preveggenza la dinamica del comunismo storica novecentesco (1917-1991), nato con Lenin e con Gramsci come “ascetismo della morale” e conclusosi con Gorbaciov e con D’Alema come regno animale dello spirito. Il fatto che riesca a descrivere in modo sostanzialmente corretto un fenomeno storico non ancora avvenuto non deve essere spiegato con la sua immaginazione utopica. Egli non era un Padre Pio ed un San Gennaro della filosofia. Non faceva miracoli. Questo deve essere spiegato con la conoscenza della dialettica, che è effettivamente uno strumento di previsione assolutamente prezioso.
28.Hegel non si occupa dell’utopia anarchica di Deschamps, perché nell’ottica teorica della filosofia classica tedesca l’anarchismo appare con il massimo dell’astrattezza intellettualistica totalmente utopica. Per Hegel i costumi ci sono, ma appunto essi devono diventare leggi perché si possa avere una vera morale sociale stabile, da Hegel connotata con il termine di “eticità” (Sittlichkeit). La traduzione letterale di eticità è addirittura “costumicità”, e cioè la pina incorporazione dei costumi nell’ordinamento giuridico.
Questa visione è stata generalmente accusata di “statalismo”. Si tratta di una vera e propria illusione terminologica errata. Come ha a suo tempo chiarito lo studioso tedesco Koselleck, il valore semantico di “stato” (Staat) ai tempi di Hegel non indicava ancora il baraccone burocratico e repressivo temuto dal pensiero libertario, ma una sorta di struttura politica in grado di effettuare le riforme anti-feudali ed anti-signorili difese da quelli che Hegel denominava i “vecchi ceti” di Metternich e della Santa Alleanza. Koselleck dice apertamente che lo Staat della filosofia classica tedesca aveva lo stesso valore semantico del Commonwealth di Cromwell del 1640 e della Republique della rivoluzione francese del 1798.
29. Tiriamo adesso ancora una volta le somme del discorso. La filosofia classica tedesca, ed Hegel in particolare, criticano tutte e tre le forme di utopismo settecentesco, l’utopia borghese dell’economia politica come sapere sociale perfetto, l’utopia comunista basata sui veri bisogni naturali incorrotti ed infine l’utopia comunista basata sui veri bisogni naturali incorrotti ed infine l’utopia anarchica della sostituzione integrale dei costumi alle leggi. Il minimo comun denominatore di questa triplice critica convergente è la critica all’idea di natura come fondamento della teoria sociale e politica. Non si tratta, come si potrebbe superficialmente pensare, di una critica all’utopismo in nome del cosiddetto “realismo politico””(Realpolitik). Si tratta di una critica al naturalismo in nome di una concezione dialettica della storia, che in quanto tale non ha nulla a che vedere con il cosiddetto “storicismo” criticato da Karl Popper, che è al contrario fondato sull’infondata pretesa di tipo positivistico della cosiddetta “previsione scientifica” del futuro. Popper spara su Hegel e su Marx sbagliando completamente bersaglio, perché ha in testa la caricatura positivistica del marxismo diffusa a Vienna ai primi del Novecento, che identificava il marxismo con una scienza predittiva di tipo fisico-chimico.
30. Ma la concezione dialettica della storia si identifica appunto con una filosofia della libertà. Il pensiero utopico aveva dunque correttamente posto il problema della comunità, ma il suo naturalismo intellettualistico ed astratto non poteva fondarla adeguatamente come comunità libera. Ed è questo un compito ancora attuale per noi.
Il lettore potrà capire ora meglio la mia strategia filosofica di legittimazione del concetto di comunità, ma il suo naturalismo intellettualistico ed astratto non poteva fondarla adeguatamente come comunita’ libera. Ed è questo un compito ancora attuale per noi.
Il lettore potrà capire ora meglio la mia strategia filosofica di legittimazione del concetto di comunità, ed il mio rifiuto di farmi invischiare nei fantasmi identitari e nei paradigmi paranoici dell’infiltrazione basati sulla rigida dicotomia Sinistra/Destra. Questo stile di pensiero è già stato anticipato nel mio primo contributo pubblicato nel mese di ottobre 2002 della rivista Comunitarismo . Ritengo che questo secondo contributo faccia fare un salto in avanti all’intera discussione. Ci vorrà assolutamente una terza parte. Per ora, mi limiterò ad alcune considerazioni conclusive.
31. Il nesso fra utopia e libertà, che da un punto di vista filosofico è pienamente contenuto nel rapporto fra discorso utopico moderno e filosofia classica tedesca, rappresenta il cuore del concetto di comunità e di comunitarismo. Se infatti il comunitarismo, magari spinto dalle migliori intenzioni soggettive, fa concessioni alla tentazione che Kant chiamò la “costrizione ad essere felici” allora effettivamente esso non ha prospettiva, ed è destinato alla emarginazione in un ghetto ideologico estremamente ristretto. La comunità deve essere composta da individui liberi, Individui sociali e solidali, ovviamente, ma individui liberi. Bisogna dunque desolidarizzarsi da ogni concezione utopica del comunismo che in qualche modo lo riproponga come società “organica”. Ma questo non è facile come sembra.
32. In una importante opera teorica mai tradotta in italiano lo studioso francese Bernard Chavance pone un problema cruciale, e cioè il fatto che in Marx esiste un nesso strettissimo fra la sua concezione del capitalismo ed il suo rovesciamento utopico in comunismo. In estremissima sintesi (ma bisognerà tornare in dettaglio su questo argomento cruciale) Marx avrebbe usato secondo Chavance lo schema dialettico della “negazione” della produzione mercantile semplice, ed il comunismo sarebbe stato pensato come la “negazione della negazione” della produzione capitalistica, Si tratta secondo Chavance di un modello utopistico, o meglio di un modello in cui “Marx avrebbe raggiunto la grande famiglia degli utopisti”.
Non sono d’accordo in tutti i dettagli con Chavance, ma sono d’accordo con lui nella tesi teorica essenziale. La teoria del modo di produzione capitalistico dà effettivamente luogo epistemologicamente ad una nuova scienza della storia, non teleologicamente e non deterministica (anche se ideologicamente deformata dai marxismi successivi secondo queste due penose modalità), ma la teoria del rovesciamento dialettico del capitalismo in comunismo in Marx è pienamente utopistica, Il ritardo a prendere atto di questa realtà a mio avviso innegabile è stata tragica per il marxismo, perché lo ha invischiato in confusioni assolutamente insuperabili. Il fatto che le stesse tesi di Chavance non abbiano prodotto nessuna eco (nessun dibattito, nessuna recensione, nessuta traduzione) mostra fino a che punto il dibattito marxista italiano sia morto e sia stato totalmente incorporato nella chiacchiera politica e giornalistica del ceto politicamente corretto di sinistra.
33. Vi sono ovviamente pensatori marxisti intelligenti, come l’italiano Domenico Losurdo, che comprendono questo punto, e lo comprendono proprio perché conoscono Hegel e la filosofia classica tedesca, e quindi hanno assimilato teoricamente la critica dialettica ad ogni forma di naturalismo e di intellettualismo astratto. Losurdo parla anche in modo metodologicamente molto opportuno di “decanonizzazione di Marx”, cioè di superamento della mentalità religiosa per cui tutto ciò che Marx ha scritto sarebbe al 100% perfetto ed immutabile. Sono completamente d’accordo con Losurdo, e ritengo che stiamo combattendo la stessa battaglia. Ma, appunto, qui nascono le vere difficoltà.
E’ necessario porsi sul terreno della critica dialettica del discorso utopico. Ma, appunto, non bisogna farsi prendere la mano da questa impostazione, e giungere fino alla delegittimazione integrale dell’utopia. Personalmente, io non ci starei mai. L’orizzonte utopico, persino nei suoi aspetti maniacalmente descrittivi e prescrittivi (in proposito Fourier giunge anche a scrivere i menus per i ristoranti dell’avvenire, fondamentalmente a base di insalata), resta un orizzonte di trascendimento e di liberazione. In questo continuo a seguire Bloch e Benjamin. In un recente importante saggio Losurdo invece sembra auspicare (e qui non lo seguirei più) un totale congedo del comunismo dall’orizzonte utopico. Si tratta della via già tradizionalmente seguita da tutti coloro che a suo tempo si congedarono non solo dal marxismo dogmatico ed asfissiante delle burocrazie comuniste, ma anche semplicemente da ogni prospettiva anticapitalista. Il modello di questi congedi, a mio avviso, è stato il polacco Kolakowski, che ha ridotto di fatto il marxismo ad una utopia messianica di tipo totalitario. Qui il medico, che vorrebbe curare la malattia, finisce con l’ammazzare il malato.
34. Possiamo così concludere questo secondo contributo. Lo ripeto ancora una volta: esso deve essere letto insieme con il primo, cui è in ogni modo complementare. La rilegittimazione della nozione di comunità sarà ancora una cosa lunga, non certo per l’irrilevante rumore di ofndo dei gruppetti identitari filosoficamente analfabeti, ma per una ragione molto più seria, e cioè che questo concetto si porta dietro alcune aporie, che trovano nel rapporto fra discorso utopico e filosofia classica tedesca della libertà la loro vera radice profonda.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Il tema di cui mi sono occupato in questo breve saggio ha una bibliografia sterminata. Il lettore deve accontentarsi dei testi che ho segnalato nel mio saggio in forma diretta o indiretta. Il riferimento alla teoria delle tre classi mondiali di Riccardo Putrella, che considero certamente iniziale ed imperfetta, ma comunque migliore della solita riproposizione dicotomica del vecchio marxismo economicistico, è ricavata da “Solidarietà Internazionale”, n. 5 settembre-ottobre 2002.
La centralità del tema della pace religiosa come premessa storica di ogni utopia moderna è tratta da E. Russo, Le utopie moderne fra fantasia e ragione, Edi Ermes, Milano 1996. Sul tema dell’organizzazione utopica della società vedi M. de Paoli, La città del Sole, Noctua, Roma 2002. Sul tema della educazione universale vedi O.P. Faracovi, Utopia e civiltà, Loescher, Torino 1981. Per l’interpretazione dell’utopia come discorso dell’assolutismo politico e del mercantilismo economico vedi P.F. Moreau, Le récit utopique, PUF, Paris 1982, Per una lettura “femminista” del discorso utopico, che ne evidenzia polemicamente la tendenza al sconfinamento della donna nei ruoli tradizionali vedi G. Pezzuoli, Prigioniera in utopia, Il Formichiere, Milano 1978. Per la proposta di tripartizione dell’utopia settecentesca (utopia borghese, utopia comunista ed utopia anarchica) vedi A. Maffey, L’utopia della ragione, Bibliopolis, Napoli 1987.
La tendenza anti-utopica negli ex-marxisti passati al liberalismo è espressa con grande onest’ e chiarezza da L. Kolakowski, Marxismo Utopia Antiutopia, Feltrinelli, Milano 1981. Una proposta di decanonizzazione del marxismo, di forte ed a mio avviso eccessiva tendenza anti-utopica è in un recente notevole saggio di D. Losurdo pubblicato in “Rosso XXI Secolo”, n. 13. Una buona critica del rovesciamento utopico del capitalismo in comunismo in Marx è contenuta in B. Chavance, Marx et le capitalisme, Nathan, Paris 1996.
Sulla filosofia classica tedesca è consigliabile la sintesi di R. Pallavidini, Introduzione alla filosofia classica tedesca, Noctua, Roma 2002. In modo ordinato vengono esposti separamene gli autori, riportati i testi, segnalata e discussa la critica. A proposito dei Lineamenti della filosofia del diritto di Hegel nel par. 189 note c’è la critica all’economia politica inglese, e nel par. 258 note c’è la critica al russovianesimo rivoluzionario.
Rivista Comunitarismo Gennaio 2003