Caccia all’ultrà! Tifo, violenza e carogne*
mag 20th, 2014 | Di Maurizio Neri | Categoria: Contributidi Fabio Milazzo
«Sono stati invece gli stessi buoni, vale a dire i nobili, i potenti, gli uomini di condizione superiore e di elevato sentire ad avere avvertito e determinato se stessi e le loro azioni come buoni, cioè di prim’ordine, e in contrasto a tutto quanto è ignobile e d’ignobile sentire, volgare e plebeo».
Friedrich Nietzsche, La Genealogia della morale.
«Se il pensiero si liberasse dal senso comune e non volesse più pensare se non alla punta estrema della propria singolarità? Se, anziché ammettere benevolmente la propria cittadinanza nella doxa, praticasse malvagiamente la scappatoia del paradosso? Se anziché ricercare il comune sotto la differenza, pensasse differenzialmente la differenza? Il pensiero allora non sarebbe più un carattere relativamente più generale che manipola la generalità del concetto, ma sarebbe – pensiero differente e pensiero della differenza – un puro avvenimento; quanto alla ripetizione, essa non sarebbe più il triste avvicendarsi dell’identico, ma differenza spostata».
Michel Foucault,Theatrum Philosophicum
Il godimento nel senso.
«Ultrà, hooligans, tifosi, fans, supporter: una selva intricata di termini, un coacervo fobico di vecchi e di nuovi significati in cui allignano sovrane le gramigne del Moral Panic e dell’approssimazione linguistica» (Marchi 2004, p. 189). Questo l’incipit di uno dei saggi che Valerio Marchi, il sociologo ultrà della Roma prematuramente scomparso nel 2006, ha dedicato all’universo del conflitto giovanile nelle sue diverse declinazioni. Questi contributi -che spaziavano dagli «skinheads» (Marchi 1997) alla galassia della destra radicale in Europa-, andrebbero riletti, nella loro inattualità, per dribblare le secche costituite dai qualunquismi dei tanti benpensanti che urlano la loro sdegnata opinione su di un mondo che non conoscono.
Un universo misterioso, quello delle controculture, come è emerso in occasione dei tragici avvenimenti che hanno preceduto e fatto da contorno alla finale di Coppa Italia del 3 Maggio 2014 tra la Fiorentina e il Napoli.
Gli scontri, la tensione in curva, la notizia della probabile morte di un supporter partenopeo, la minaccia di invasione di campo, la possibilità di non far disputare il match e il conseguente, problematico deflusso dei tifosi inferociti fuori dallo stadio. Ingredienti che richiamano alla memoria un’altra tragedia di calcio, prima mimata e poi concretizzatasi una volta aperti i cancelli dello stadio per permettere il deflusso degli spettatori: il cosiddetto «derby del bambino morto». Allora, in occasione della partita Lazio-Roma, il 21 Marzo 2004, si diffuse la notizia -rivelatasi poi falsa- della morte di un bambino per opera delle forze dell’ordine. Anche allora, come in occasione della finale di Coppa Italia, le immagini fecero il giro del mondo, scatenando le reazioni violente e indignate dei tanti benpensanti. La visione di uno stadio Olimpico in preda alla rabbia, in cui i supporters di entrambe le squadre –Lazio e Roma– ritiravano gli striscioni e alzavano cori contro le forze dell’ordine ritenute colpevoli dell’omicidio mai avvenuto, indussero i responsabili dell’ordine pubblico a sospendere la partita per evitare che la situazione degenerasse. La decisione, di segno completamente opposto a quella presa in occasione della finale di Coppa Italia, scatenò le critiche e le riprovazioni del mondo della politica e, più in generale, dell’italiano medio. Valerio Marchi, qualche tempo dopo, scrisse un saggio acuto e intelligente, «Il derby del bambino morto. Violenza e ordine pubblico nel calcio» (Marchi 2005), in cui mostrava le dinamiche attraverso le quali era stata gestita sul piano dell’ordine pubblico la vicenda, individuando una linea di continuità con gli avvenimenti del G8 di Genova del 2001. Marchi, attraverso questo particolare punto di fuga, portava alla luce due elementi impensati della vicenda: da una parte, il carattere di «bene comune» del calcio, come spazio di condivisione per pensieri, emozioni, sentimenti, affettività per migliaia di persone che abitano un tòpos paradossale, lo stadio; dall’altra,mostrava quanto l’universo Ultras fosse il ricettacolo ideale per le proiezioni immaginarie più buie e insensate, una latrina per lo sdegno collettivo.
Già la confusione terminologica – Ultras o Hooligans?- è indice di una difficoltà: quella di significare il fenomeno nelle sue diverse e molteplici componenti. La difficoltà di nominare, di pensare l’avvenimento, come ci ha insegnato Lacan, interessa sempre le forme di godimento implicate nell’esperienza di senso, il «joui-sens», il godi-senso (Lacan 1982, p.74). Il logos è sempre abitato da spinte, da forze che non ri-conosce ma che ne orientano la prospettiva. Queste pulsioni fanno riferimento al godimento, alle modalità attraverso le quali il soggetto o la collettività esperisce la jouissance. Il senso è sempre, anche, un riflesso del pensiero che gode, quindi, la difficoltà di pensare qual-cosa rimanda a cortocircuiti relativi a come il singolo – o la collettività– vive la propria particolare posizione nei confronti della castrazione e, quindi, della jouissance. È evidente che le massicce dosi di indignazione ad orologeria, scatenatesi intorno al «mondo ultrà» in occasione dei tragici avvenimenti della finale di Coppa Italia, sono il riflesso osceno di un fascio di proiezioni rimosse dalla collettività perché inerenti la «sostanza godente». In questo caso il «mondo ultrà» funge da oggetto pulsionale per la comunità indignata, intercettandone le traiettorie del godimento. Incominciare a pensare questa non-cosa (achose) significa prendere le distanze dall’oggetto del mitico godimento primordiale, quell’eccedenza rimasta fuori dal processo di castrazione simbolica (Lacan parla di oggetto a) che si aggiunge sempre a ciò che è andato perduto tenendo in piedi l’Altro. Questa eccedenza che orienta il godimento viene ricercata instancabilmente nell’Altro, ed è segnalata dall’angoscia, la condizione che testimonia al soggetto la sua divisione costitutiva, il suo essere in-completo, non-tutto. L’angoscia, singolare e collettiva, rimanda alla divisione dall’Altro e, al contempo, a quel resto che rincorriamo spinti dalla ricerca impossibile del godimento. La questione diventa politica allorché si tratta di pensare questa differenza prendendo le distanze dalle angosce collettive e dalle proiezioni oscene legate al «joui-sens». Proprio quelle che hanno orientato la maggior parte dei giudizi indignati di tanti benpensanti che si sono scatenati in una feroce -quanto ipocrita- caccia all’ultras che fa leva sulla disinformazione, come dimostra il continuo e puntuale riferimento al tanto celebrato «modello inglese» di Margaret Thatcher, fatto di show business, televisioni satellitari, dispositivi biometrici per i quali vale il regime di «stato d’eccezione», politiche restrittive e una ipocrita gestione dell’ordine pubblico che si è concretizzata in scontri e incidenti tra le bande di hools nei pub o nei parcheggi distanti solo alcune miglia dagli stadi.
Provare ad esplorare i meccanismi che orientano l’immaginario collettivo significa problematizzare il fenomeno, indagando come si costituiscano una serie di narrazioni e di convinzioni condivise sollecitate, quando non indirizzate, dal soft power, ossia la modalità di governo delle odierne democrazie mediatizzate che si «insinua, suggerisce, stimola, più di quanto non vieti, ordini o costringa- un potere che orienta i comportamenti “conduce le condotte”, situandosi al livello del flusso di desideri e di convinzioni canalizzato dalla rete di comunicazione mediatica» (Citton 2013, p.18). Secondo questa prospettiva le credenze della collettività sono il riflesso di pratiche governamentali che cercano di orientare gli affetti, il desiderio, l’amore, la paura, la tristezza e, soprattutto, le angosce che, come detto, riguardano la particolare posizione sessuata dei singoli nella duplice accezione di individui e di atomi della comunità. La forma più rozza di queste pratiche di governo consiste nel divergere l’attenzione delle soggettività «dai problemi che meriterebbero di costituire l’oggetto di uno sforzo intellettuale, ma che gli interessi di un gruppo sociale dominante […] invece, inducono a eludere» (Citton 2013, p.38). In tale prospettiva gli stadi rappresentano un dispositivo di lungo periodo attraverso il quale le diverse forme di potere hanno cercato di orientare gli affetti e l’attenzione delle collettività verso ambiti pre-politici o comunque verso quelli che possiamo definire distrattori di massa. L’archetipo di questi mezzi per distogliere l’attenzione dai problemi che interessano la comunità è il «panem et circenses» dei Romani (Veyne 2013): per questi ultimi il circo, come lo stadio, sono i palcoscenici in cui si consumano fenomeni di scenarizzazione (Citton 2013, p.40) di interessi e, soprattutto, rapporti di potere che si servono dell’affettività, sollecitata ad arte, delle folle. Lo stadio, le logiche che in esso si consumano, sono funzionali a pratiche di governo che interessano quella politica che si fa carico della vita: la biopolitica. La «popolazione» non viene più governata attraverso «esercizi di potere sovrano», ma attraverso la disposizione, la regolazione e la normalizzazione delle «forme di vita» ammesse in quanto riconosciute dalla comunità come razionali, normali, regolari. La biopolitica si configura come insieme di politiche educative atte a disciplinare, attraverso gli «effetti di verità» (véridiction) prodotti dalla diade normale/anormale, i modi di vita leciti. Lungi dall’essere un dato neutro, l’insieme di caratteri distintivi che individuano il soggetto politico – e quindi il modo di governarlo – è il risultato di politiche di verità artificiali che rappresentano la vera posta in gioco dell’arte di governo: controllare il sapere è la condizione necessaria per esercitare il «governo degli uomini» (Foucault 1997). Lo stadio è un dispositivo d’elezione per perimetrare, identificare e produrre una soggettività artificiale effetto delle narrazioni affettivo-discorsive, quelle che si producono attraverso la messa in opera delle reazioni emotive, di pancia. Proprio la mobilitazione dell’affetto, istanza pre-discorsiva che sostiene e anticipa il logos, è da Deleuze identificata come chiave di volta del concetto di «senso» che «è un effetto, un effetto prodotto , le cui leggi di produzione devono essere scoperte» (Deleuze 2002, p.300).
Il paradigma «Genny A’ Carogna».
Il «senso», in quanto effetto da indagare, è quello emerso per significare gli avvenimenti della finale di Coppa Italia. Le reazioni sdegnate, i giudizi e la comprensione dei fatti fanno riferimento a quello che possiamo definire il paradigma «Genny A’ Carogna». Con questo sintagma, utilizzando le riflessioni di Giorgio Agamben, vogliamo affermare che di «Genny A’ Carogna» si è fatto «un paradigma in senso proprio: un oggetto singolare che, valendo per tutti gli altri della stessa classe, definisce l’intelligibilità dell’insieme di cui fa parte e che, nello stesso tempo costituisce» (Agamben 2008, p.19). In altre parole l’ultras partenopeo, nelle reazioni sdegnate, nei commenti e nelle storie che sono state prodotte per significare i fatti dell’Olimpico, è diventato qualcosa di più e qualcosa di diverso rispetto all’uomo in carne e ossa “Gennaro De Tommaso”. «A’ Carogna» è una molteplicità attraversata da flussi di desiderio, proiezioni emotive, credenze irriflesse, sollecitazioni affettive, frammenti pre-concettuali e soglie discorsive, attraverso la quale si denota (Bedeutung) il Mondo Ultras nella sua interezza. Genny la Carogna è l’ultrà in quanto tale, il paradigma in grado di identificare la «classe di cui fa parte». E’ un attore impolitico -anche se si professasse di destra o di sinistra, le sue credenze politiche non intaccherebbero la connotazione pre-simbolica-; ha la fisionomia di una bestia, e le foto in cui emerge l’espressione truce, «feroce e minacciosa, ma insieme torva e sinistra» (Treccani 2014), riprodotta ossessivamente sul web, magazine, blog e forum, hanno lo scopo di avvalorare l’irriflessa impressione estetica da parte della comunità. È truce e nei comportamenti mostra una fierezza da capo-popolo che, più o meno immediatamente, rimanda a figure archetipe -di cui il più celebre è Masaniello- tese tra il riconoscimento messianico e l’investitura popolare; nel vestiario si dimostra un contestatore dell’ordine costituito: la ormai celebre t-shirt di protesta con su scritto che deve stare fuori dalle carceri un presunto innocente, in un paese in cui la Costituzione in base all’articolo 21 garantirebbe la libertà di manifestazione del pensiero, quando non diventa apologia di reato, svolge una funzione centrale nel processo di eccitazione affettiva della collettività; il suo corpo è sovversivamente tappezzato di tatuaggi che, non possono non rimandare ad un’epoca in cui il tatuaggio era un marchio per forzati, prostitute e diseredati; è ignorante, «aggressivo, maschilista, sciovinista, sfaticato, ubriacone, qualunquista, tendenzialmente xenofobo, cosmicamente alieno da ogni forma di acculturazione» (Marchi 2004, p.16); è lo stereotipo di quello «Stile Maschio Violento», elaborato dal sociologo Eric Dunning, che identifica quei subumani che si riconoscono in «forme di comportamento che includono l’intimidazione fisica, la lotta, il bere, e rapporti sessuali di sfruttamento» (Marchi 2004, p.16). Come tutti gli ultras è ignorante per definizione -anche se, come nel caso di Marchi, ci sono ultras che ricoprono incarichi intellettuali come quello di consulente per l’Eurispes- ; è cattivo – anche quando raccoglie fondi per il Gaslini, l’ospedale pediatrico di Genova o lavora a favore dei terremotati in Umbria-; è rozzo e violento in quanto trascorre le domeniche e i giorni in cui si svolgono gli incontri della sua squadra, a dare randellate ai componenti della tribù avversaria per una causa impolitica e priva di valore come il calcio. E’ una figura a tutto tondo che sintetizza i mali della società e tutti quegli elementi sanzionati come moralmente inaccettabili: «deve sommare in sé tutte le brutture del mondo: deve essere violento, rozzo, amorale, subdolo. Deve essere un delinquente, un drogato, un razzista. Deve essere un traviatore di giovani, un tessitore di trame e complotti» (Marchi 2005, p.61).Questo ritratto è il candidato ideale per essere il catalizzatore delle angosce collettive, un «parafulmine per una società segnata da forti contraddizioni e distorsioni sociali, preda di sensi di colpa da tacitare con offerte sacrificali, […] con capri espiatori » (Marchi 1998, p.9).
Il Folks Devil è la figura indispensabile per catalizzare le nevrosi e le insoddisfazioni collettive di una società che ha bisogno di elevare muri divisori, cortine e spazi d’esclusione entro i quali rinchiudere gli «indesiderabili, i deprecabili, i sanzionabili» (Marchi 1998, p.10). Non dimentichiamo che «la biopolitica si configura come insieme di politiche educative atte a disciplinare, attraverso gli «effetti di verità» (véridiction) prodotti dalla diade normale/anormale, i modi di vita leciti» (Milazzo 2014)e «la società dei consumi vuol essere come una Gerusalemme accerchiata, ricca e minacciata» (Baudrillard 1976, p.32).
Indubbiamente il carattere più evidente del paradigma «Genny A’ Carogna» è la violenza: vera, presunta o soltanto mimata, è la condizione scatenante del Moral Panic e la causa principale dello sdegno collettivo nei confronti degli atteggiamenti e dei comportamenti rivendicati con fierezza ed esuberanza fisica dagli ultras. La «violenza calcistica» è un dato acquisito e, quindi irriflesso, di ogni giudizio sul Mondo Ultras; eppure il sintagma è molto meno scontato ed evidente di quanto la retorica nazional-popolare ci abbia abituato a credere. In essa sono presenti comportamenti e azioni molto diverse che vanno dall’aggressione alla terna arbitrale – come accadeva sovente tra gli anni cinquanta e gli anni settanta del secolo scorso- (Roversi 1990, p.90), alle proteste fuori dagli spogliatoi nei confronti della squadra – propria o avversaria-, alle invasioni di campo solitarie, a quelle di gruppo per festeggiare una vittoria o per sfogare una delusione. Ci sono poi le scazzottate sulle tribune che, oggi come ieri, hanno coinvolto persone di diversa età e condizione sociale, il lancio d’oggetti, l’accensione di artifici pirotecnici, il tentativo di occupazione del settore dello stadio in cui è dislocata la tifoseria avversaria e, avvenimento più eclatante, lo scontro tra gruppi ultras rivali, più o meno programmato per tempo, all’interno dello stadio o nei suoi immediati dintorni. Le tipologie di fatti elencati non esauriscono la casistica possibile ma dovrebbero rendere l’idea della molteplicità di situazioni sussunte nel sintagma «violenza calcistica». La violenza ultrà, in questa panoramica, ha un posto tutto particolare perché sollecita, per il suo carattere rituale, organizzato, simbolico, un « perpetuo senso di allarme, una carica fobica che sembra manifestarsi in una vera e propria epidemia paranoide» (Marchi 2004, p.193). Apparsa come segno distintivo di un movimento che fa della turbolenza e del confronto fisico un segno distintivo, è inseparabile dal clima culturale e dai rivolgimenti sociali e culturali che contraddistinsero gli anni sessanta del secolo scorso. A differenza della violenza politica di quegli anni, la «violenza ultras» si caratterizza per essere il frutto di una «comunità che si ritrova intorno a un ideale-totem (la squadra) e a un territorio liberato (la curva)» (Marchi 2004, p.196).
Gli studi sulla «violenza ultras» in Italia sono pochi, diversa la situazione per l’Inghilterra attenzionata in particolare dalle scuole di sociologia. Il fenomeno «hooligans» non è completamente sovrapponibile a quello «ultras» anche se nell’immaginario comune entrambi fanno riferimento alla «Terrace Culture, ovvero un gioco collettivo violento che non prevede la rissa estemporanea e individuale, bensì la volontaria [corsivo nostro] contrapposizione di due gruppi che mantengono lo scontro al proprio interno e lo interpretano secondo regole proprie» (Marchi 2005, p.14). La violenza interna al fenomeno hooligans è l’espressione di una controcultura specifica, la «working class», che identifica una categoria subalterna «underclass, delimitata e ristretta a […] fasce di sottoproletariato giovanile» (Marchi 2004, p.16), costituita da «bande di adolescenti e di ragazzi provenienti dalle periferie operaie [che] cominciano a rivendicare le curve degli stadi inglesi come loro territorio e ad escludere da queste zone sia gli spettatori più anziani che i giovani sostenitori delle squadre rivali» (Roversi 1990, p.8). Il fenomeno Ultras, diversamente, non è espressione di una classe sociale particolare, coerentemente con le origini del calcio in Italia che sono inizialmente intrecciate con la gestione del tempo libero, criterio questo di distinzione tra il proletariato e le classi socialmente più avvantaggiate (Papa-Panico 1993, p.20). La costellazione Ultras riguarda la classe media, l’alta borghesia, tanto quanto il proletariato: è un fenomeno interclassista riconducibile, piuttosto, alla particolare congiuntura che interessò l’Italia durante gli anni sessanta, quelli che videro nascere i primi gruppi Ultrà. La violenza è un elemento caratterizzante di questa che, a tutti gli effetti, è una controcultura che si riconosce nella partecipazione ad una sorta di «campionato parallelo a quello delle squadre che mira a un primato da raggiungere attraverso uno scontro codificato e limitato a quanti intendono partecipare al “gioco”» (Marchi 2005, pp.51-52). Per valutare questa violenza la società italiana, nella quasi totalità, ha utilizzato la categoria del giudizio morale, quella che,anche dopo la demistificazione della morale ad opera di Nietzsche, continua ad essere la griglia ermeneutica preferita per analizzare situazioni che scatenano l’ansia sociale e le paure collettive. Quest’ultrà resta un escluso, una macchietta, una caricatura funzionale a certe pratiche di governo che richiederebbero maggiore attenzione analitica rispetto a quella concessa dalla semplice indignazione. Alcuni di questi interrogativi che oscenamente abitano la questione sono: qual è la funzione storica svolta dagli stadi nelle pratiche di governo? che costellazione di senso in essi emerge? quali dinamiche socio-affettive in essi vengono perimetrate? quali sollecitazioni pre-politiche prendono parola attraverso gli ordini discorsivi che ne denotano il senso? quali forme di esclusioni hanno delimitato l’ente “ultrà” in una certa congiuntura storica?
Ognuna di queste domande rimanda ad una questione centrale per la comprensione delle logiche di governo nell’epoca del soft power; per affrontarle è necessario mettere da parte lo sdegno e la paura a favore del coraggio della verità, quella «parresìa» che, in quanto parlar franco, Foucault identificò come l’ethos in grado di mettere in scacco ogni potere e ogni esercizio di osceno governo. Chi esercita la «parresìa», attraverso la franchezza e il coraggio del parlare autentico, mostra una possibile alternativa al rapporto con la verità, quello di critica delle sue condizioni d’emergenza, delle sue «leggi di produzione». Questo esercizio critico si configura come una clinica delle pato-logie della realtà, quell’insieme di discorsi che si reggono sulla circolazione, la mobilitazione e la sollecitazione della dimensione affettiva della collettività. Il principale avversario di questa etica diagnostica è la paura e il qualunquismo delle analisi di pancia, quelle effettuate sulla base del risentimento e delle valutazioni morali:
«La paura, per non parlare del panico, impedisce di pensare. E noi vogliamo pensare; la paura la lasciamo a chi si rinchiude nella propria casa, nel proprio lavoro, nelle proprie regole, ritenendo il mondo obbligato a pensarla in un unico modo. Per fortuna non è così. Sono secoli che Lor Signori ci provano, ma per fortuna ancora non ci sono riusciti. Nonostante tutto, ancora non è così» (Marchi 2004, p.13).
*[Relazione scritta per il 4° ciclo di incontri “La psicoanalisi senza lettino“, sul tema “Il tempo del conflitto.Quando la parola viene meno” organizzato da LiberaParola, Centro multidisciplinare di psicoanalisi applicata, Modena 13 maggio 2014].
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Bibliografia