L’estetica di Lukács fra arte e vita. Considerazioni storiche, politiche e filosofiche

apr 17th, 2014 | Di | Categoria: Teoria e critica


di Costanzo Preve

Filosofia ed estetica», XIV, nn. 1-4, Gennaio-Dicembre 2007)

Georg Lukács (o se si vuole in ungherese Lukács György, con il nome proprio che segue il cognome) non è stato soltanto un grande teorico dell’Estetica, o più esattamente della specificità del fatto estetico (Eigenart des Ästhetischen), come preferiva sobriamente esprimersi e come ha intitolato il suo capolavoro sistematico dedicato appunto all’estetica, ma è stato uno dei massimi testimoni filosofici del novecento. Per questa ragione una trattazione esclusivamente specialistica delle sue posizioni sull’arte sarebbe fuorviante, perché nella visione “classica” di Lukács (che era poi anche quella di Hegel e di Marx, i suoi maggiori maestri) l’Arte era un momento del grande processo dialettico dell’emancipazione umana. Cercherò di “arrivare” a questa conclusione interamente “estetica” con una serie di approssimazioni di tipo storico, politico e filosofico.

1. Lukács, un uomo che seppe sempre essere presente agli “appuntamenti storici” del Novecento

Nato a Budapest nel 1885, e morto a 86 anni nella stessa città nel 1971, Lukács fu un uomo che seppe sempre trovarsi pronto agli appuntamenti del novecento. Chi scrive purtroppo non ha mai avuto l’onore di conoscerlo personalmente, nonostante abbia frequentato abbastanza assiduamente per ragioni personali la Budapest degli anni sessanta, e nonostante il fatto che fargli visita fosse sempre possibile, in quanto il vecchio filosofo, fedele al costume socratico del dialogo, non si sottraeva alle visite anche di sconosciuti non “titolati”. In ogni caso pur non potendo rivendicare una conoscenza diretta, la frequentazione “indiretta” di Lukács ha contato molto nella mia vita, e per questa ragione tutto quello che posso scrivere su di lui non è “asettico”, ma è sempre il prodotto – discutibile nel merito quanto si voglia – di una profonda vicinanza spirituale. Se è anche solo in parte vero ciò che a suo tempo ha scritto Hegel, e cioè che la filosofia è il proprio tempo appreso nel pensiero, ebbene nessuno come Lukács ha testimoniato questa verità hegeliana. Lukács ha cercato realmente di “apprendere il proprio tempo” nel suo pensiero, e qualunque rilievo critico specifico sulle sue tesi teoriche passa a lato di questa sua essenziale caratteristica. Ed è un felice paradosso dell’attività filosofica il fatto che quanto più un pensatore dotato cerca di interpretare il proprio tempo storico specifico tanto più riesce ad attingere elementi di universalità e di perennità che permangono dopo la sua morte, producendo quella particolare “eccedenza” teorica che contraddistingue appunto il vero filosofo. E allora nelle pagine che seguono non cercherò di scrivere una inutile biografia telegrafica di Lukács, ma indicherò invece alcuni “passaggi temporali” in cui il nostro autore si fece sempre trovare all’appuntamento con le urgenze della storia.

1910. Il nostro autore ha venticinque anni. Così come il suo maestro Karl Marx settant’anni prima, anche Lukács ha dovuto scegliere fra le due “paradigmatiche” lauree in legge o in filosofia. Ma mentre Marx, dopo un anno di studi giuridici a Bonn, cambiò direttamente facoltà per laurearsi in filosofia nel 1841 a Jena con una tesi sul materialismo antico di Democrito e di Epicuro, Lukács prende bensì una laurea in legge a Koloszvár (l’odierna Cluj in Romania), ma poi si dedica interamente alla filosofia. Semplificando scherzosamente, diremo che una laurea in legge simboleggia un “adeguamento al mondo così com’è”, mentre una laurea in filosofia simboleggia invece una “problematizzazione del mondo così come dovrebbe essere”. La paroletta “dovrebbe essere” farebbe forse pensare a Kant, o più esattamente alla morale kantiana, incentrata appunto sul dualismo fra essere e dover essere, ma nel nostro caso questo riferimento kantiano suonerebbe improprio, perché fin da allora Lukács respinge sia il kantismo che il neokantismo dominanti nella cultura universitaria di lingua tedesca. Pur essendo bilingue sia in ungherese che in tedesco, la scelta espressiva preferenziale per la lingua tedesca di Lukács non testimonia soltanto una scelta di tipo cosmopolitico, in quanto il tedesco era una lingua internazionale di cultura ed invece l’ungherese non lo era, ma anche (esprimo qui ovviamente una mia valutazione personale) una scelta di fedeltà e di continuità con la grande tradizione della filosofia classica tedesca, di cui Lukács è probabilmente stato l’ultimo esponente novecentesco di rilevo. E tuttavia il venticinquenne Lukács, ancora del tutto estraneo agli ambienti politici marxisti “organizzati”, ma già umanamente vicino a pensatori socialisti ungheresi politicamente impegnati, sceglie istintivamente di non accodarsi all’orchestra accademica tedesca neokantiana (accodamento che gli avrebbe probabilmente assicurato una comoda cattedra universitaria, guglielmina e/o austro-ungarica poco importa), e procede verso altre scelte esistenziali e teoriche. Diventa amico di Ernst Bloch, già allora un irregolare del pensiero che rifiuta qualsiasi adattamento conformistico (Anpassung). Va a cercare i due filosofi più interessanti dell’epoca, Max Weber e Georg Simmel, e non è per nulla casuale che sia andato a cercare proprio loro fra molti altri possibili. Max Weber, il Thomas Mann della filosofia e della sociologia, rappresenta per Lukács il punto massimo ed insuperabile della problematizzazione tragica ed aporética della coscienza borghese, che pur problematizzandosi non intende comunque uscire da sé stessa e dalla sua problematizzazione, in quanto, come dirà settant’anni dopo di Adorno il suo allievo Hans Jürgen Krahl, non intende “congedarsi dal proprio congedo”. Georg Simmel, forse uno dei massimi “marxisti inconsapevoli” del primo novecento, è il grande filosofo critico che prende come oggetto diretto di analisi la vita quotidiana e le strutture sociologiche che la determinano, e questo interesse per la vita quotidiana, che Lukács assorbe certamente alla scuola di Simmel, permarrà fino alla fine della sua vita, e non è centrale solo nella sua grande Estetica (teoria del rispecchiamento quotidiano), ma sarà anche al centro del suo vero e proprio testamento politico del 1968 tradotto in italiano con il titolo L’Uomo e la Democrazia (in lingua tedesca Demokratisierung heute und morgen). Mentre il marxismo ufficiale della Seconda Internazionale è del tutto cieco e sordo al fenomeno del denaro, dell’individualizzazione nel consumo e negli stili di vita che la diffusione del denaro stesso necessariamente comporta, eccetera, Simmel se ne accorge con precoce genialità. Il venticinquenne Lukács sceglie di frequentare come amico Ernst Bloch, e come amici-maestri Max Weber e Georg Simmel. Non si tratta di casualità, e tanto meno di strategia di coltivazione di rapporti “utili” per fare una buona carriera universitaria. Uno studioso dotato come Lukács avrebbe già potuto essere in cattedra in università provinciali austro-ungariche tipo Bratislava, Zagabria, Timisoara, ed anche (perché no?) Vienna, Budapest e Praga. Ma a Lukács interessava cercare di “capire” la contraddittoria tragicità del mondo borghese in cui viveva, e non c’era modo migliore di farlo del frequentare Bloch, Weber o Simmel. Vorrei insistere su tutto questo perché in caso contrario il suo “approdo messianico” al comunismo nel 1918 diventerebbe del tutto incomprensibile. L’approdo messianico al comunismo del 1918 presuppone infatti la precedente problematizzazione critico-filosofica della vita quotidiana nel capitalismo.

Nel 1918, l’anno del suo approdo al comunismo, Lukács ha trentatre anni, l’età in cui Gesù di Nazareth fu crocifisso ed anche l’età in cui morì Alessandro il Macedone. Il lettore mi perdonerà queste due curiose ed innocue analogie, che ho ricordato solo per segnalargli anche un’altra cosa, e cioè che trentatre anni sono un’età sufficiente sia per aver già conquistato un impero (Alessandro il Macedone), sia per decidere che cosa fare e soprattutto che cosa rischiare nella vita (Gesù di Nazareth). L’approdo al comunismo di Lukács rappresenta anche il rifiuto pratico di accettare quella sorta di “sindrome dell’asino di Buridano”, che consiste nel rifiuto di sciogliere il dubbio fra due antinomie possibili (l’interminabile coltivazione del dubbio borghese dell’anima bella, da un lato, ed il salto nell’impegno politico necessariamente unilaterale, dell’altro). Scegliendo nel 1918 il comunismo, Lukács ne sceglie necessariamente anche le contraddizioni, e di conseguenza gli errori e gli orrori.

Nel 1923, anno di pubblicazione del suo capolavoro Storia e Coscienza di Classe, Lukács ha già trentotto anni, un’età in cui si è raggiunta una accettabile maturità filosofica (ricordo qui incidentalmente che Hegel pubblica a trentasei anni, nel 1806, la sua immortale Fenomenologia dello Spirito). Anche in questo caso, Lukács è al posto giusto per un vero e proprio appuntamento storico, quello della necessità di fornire al giovanissimo movimento comunista un’autocoscienza filosofica in grado di lasciarsi veramente alle spalle l’economicismo deterministico, che improntava l’opera di Nicolai Bucharin del 1921 (opera che poi criticò anche Antonio Gramsci, con argomentazioni convergenti con quelle di Lukács). Storia e Coscienza di Classe rimase poi a lungo un libro eretico ed addirittura “proibito” (come ha testimoniato nelle sue memorie autobiografiche Cesare Cases, lo studioso italiano che fu germanista e amico personale di Lukács), e le ragioni per cui il movimento comunista “ufficiale” gli preferì il materialismo dialettico nella codificazione finale di Stalin sono relativamente facili da capire, alla luce di una indagine “materialistica” di storia delle ideologie. Il materialismo dialettico, con la sua mitologica unificazione delle leggi di movimento della natura e della storia, “garantiva” (illusoriamente, è chiaro!) il lieto fine comunista della storia assai più del modello teoretico dell’unità fra Soggetto ed Oggetto (e cioè fra proletariato rivoluzionario astrattamente ideal-tipicizzato – eredità questa di Max Weber – e storia universale unificata idealmente come concetto trascendentale riflessivo). E comunque lo stesso Lukács abbandonò quasi subito questo modello filosofico a partire già dal suo lavoro su Moses Hess del 1926, e questo non certo per opportunismo, ma perché nella sua mente onesta e geniale cominciò progressivamente a farsi strada la prospettiva che dopo il 1956 lo portò a sistematizzare il modello dell’ontologia dell’essere sociale, di cui a mio parere la stessa Estetica non è che un’anticipazione ed una specificazione.

Dal 1933 al 1945 Lukács vive a Mosca, e si occupa prevalentemente appunto di questioni di estetica e di teoria della letteratura. Per poter sopravvivere fa certamente delle “concessioni” al clima soffocante dello stalinismo e dei suoi processi politici, ma il cuore della sua attività resta a tutti gli effetti la difesa del grande umanesimo letterario ed artistico borghese. Certo, il sistema staliniano non era per nulla “umanistico” (a differenza di come sostenne in modo un po’ affrettato ed imprudente Althusser nella sua nota Risposta a John Lewis, poi pubblicata in lingua italiana con il titolo di Umanesimo e Stalinismo), ma Lukács non ne divenne mai in nessun modo il “teorico”, gesuitico o meno, come hanno erroneamente sostenuto molte interpretazioni successive (prima fra tutti quella di Francois Fejtö). Il periodo moscovita non è però un periodo di sospensione di ogni attività filosofica. In questo periodo, infatti, egli comincia a raccogliere i materiali per il suo grande lavoro sul giovane Hegel, che poi pubblicherà più tardi.

Nel 1945, l’anno in cui si conclude la seconda guerra mondiale, Lukács torna a Budapest, e vi rimarrà fino alla morte. Ha sessanta anni di età, età in cui “sindacalmente” si può andare in pensione, ma nei ventisei anni che gli restano fortunatamente da vivere tutto sarà, meno che un “pensionato”. Non discuterò qui la sua partecipazione “critica” agli avvenimenti ungheresi del 1956, e ricorderò soltanto due significativi avvenimenti di questa sua partecipazione. In primo luogo, accettò di far parte del governo di Imre Nagy, ma non ne condivise la scelta, improvvida ed inutilmente destabilizzante ed avventuristica, di proclamare l’uscita unilaterale dal patto di Varsavia. I sovietici sarebbero quasi sicuramente intervenuti militarmente lo stesso, perché il governo di Nagy aveva comunque perduto il controllo della situazione, ma indubbiamente questa scelta tatticamente sbagliata favorì il loro intervento. In questo caso possiamo dire che il filosofo, che non era un politico di professione, seppe mostrare una sensibilità tattica migliore di quella di molti politici. In secondo luogo, quando gli venne proposto di testimoniare nel processo a Imre Nagy (che fu poi condannato a morte e giustiziato “a freddo” due anni dopo), egli sostenne che lo avrebbe fatto soltanto nel caso che Nagy passeggiasse libero per le vie di Budapest. È noto che Lukács avrebbe voluto alla fine della sua vita scrivere un’Etica, e poi ripiegò su di una Ontologia dell’Essere Sociale. Per farla breve, io ritengo che la sua etica Lukács alla fine l’abbia scritta lo stesso, ed il cuore di essa si trovi nel rifiuto di testimoniare contro Nagy e di contribuire così alla sua condanna a morte, peraltro già ampiamente decisa. Ci sono uomini e mezzi uomini, per dirla con Sciascia, e Lukács era tutti gli effetti un uomo.

Il periodo 1945-1971 può essere diviso in due parti, tenendo conto della natura della produzione culturale di Lukács. Nel primo periodo (1945-1956), Lukács è il grande polemista di Marxismo ed Esistenzialismo ed il grande “riscrittore” della storia della filosofia contemporanea della Distruzione della Ragione. Entrambe queste opere non hanno un rapporto diretto con le questioni estetiche, e nello stesso tempo ne intrattengono però uno indiretto, perché la difesa in estetica del realismo (o più esattamente, del Grande Realismo Borghese) rappresenta il pendant della difesa della tradizione razionalistica nel campo della storia della filosofia. In questa sede, purtroppo, non c’è lo spazio per analizzare queste due opere, e devo allora limitarmi a dire che ogni frettolosa “stroncatura”, che sarebbe assai facile alla luce della consapevolezza del dopo 1989-91, non permette di rientrare realmente nel merito delle tesi di Lukács. Alcuni giudizi singoli sono a mio avviso inaccettabili (ad esempio, quello su Georg Sorel, di cui Lukács condivide il giudizio leniniano di “noto confusionario”), ma ritengo egualmente che queste due opere non debbano essere giudicate con il metro della “obbiettività” nella ricostruzione analitica della storia della filosofia, ma debbano essere inquadrate all’interno di una congiuntura storica, o se si vuole di una “finestra storica”, in cui esisteva realmente la sensazione di un imminente pericolo di guerra nucleare. Pensare che si possa parlare della Distruzione della Ragione come se ci si trovasse in un tranquillo seminario universitario di una storia della filosofia, segnando con le matite rosse e blu i giudizi schematici su Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger, eccetera, in termini di “lavagna dei cattivi”, è a mio avviso metodologicamente errato. Quest’opera di Lukács (ed in questo modo so bene di non fargli per nulla un complimento!) è semmai paragonabile piuttosto a opere come quella di Spengler sul Tramonto dell’Occidente, con cui ha in comune il settarismo ultimativo. Si tratta di testimonianze epocali della crisi culturale del novecento, che nel loro settarismo unilaterale, peraltro esplicito e non “filtrato” dagli stilemi del Politicamente Corretto dell’Epoca (PCE), sopravviveranno a mio avviso ad opere molto più insipide come la Teoria dell’Agire Comunicativo di Habermas. Dal momento che stiamo parlando di un ungherese, anche il gulasch più speziato è preferibile ad una minestrina riscaldata senza sale.

Dopo il 1956, isolato in patria, assolutamente non compreso dai suoi cosiddetti “allievi” tipo Agnes Heller, che in realtà “tirano” da tutt’un’altra parte, e cioè verso il liberalismo più filo-occidentale e più sfrenato (è il caso di dire – da simili “allievi” mi guardi Iddio, che dai critici mi guardo io!), Lukács vivrà ancora quindici anni. Questi quindici anni sono stati di una “produttività” addirittura stupefacente, se pensiamo che oltre a numerosissimi articoli ed interviste Lukács ha saputo scrivere, oltre alla monumentale (ed a mio avviso immortale) Estetica anche due versioni successive dell’Ontologia dell’Essere Sociale. Una simile attività stupefacente trovava la sua radice psicologica ed esistenziale in una convinzione profonda che l’ultimo Lukács coltivò fino alla morte, e cioè che l’intera impresa storica del socialismo fosse entrata in una crisi profonda di tipo “strategico”, e fosse necessario dotare questa impresa storica e politica di una nuova consapevolezza filosofica. I contemporanei di Lukács, salvo poche eccezioni, non seppero capirlo, e questa incomprensione è dovuta ad un fatto, ad un tempo tragico e tautologico, per cui nessuna innovazione teorica è ricevibile se il destinatario di questa innovazione non è trasformabile. La dissoluzione tragicomica e vergognosa del comunismo storico novecentesco a meno di vent’anni dalla morte di Lukács ha infine testimoniato che ogni innovazione teorica è irricevibile se il suo destinatario politico e sociale è intrasformabile. E questo mi porta a dire che, ove mi si chiedesse di dire brevemente chi è stato questo signor Lukács che oggi è palesemente passato di moda non risponderei che è stato uno studioso del marxismo, di estetica, di filosofia ed infine di storia della filosofia, ma che è stato un pensatore tragico. Tragico, e basta. E tuttavia non posso certamente finire qui, e per proseguire la riflessione mi chiederò se sia possibile individuare brevemente il nucleo del suo pensiero. In proposito, per quello che vale, proporrò la mia personale interpretazione “globale” di questo vero e proprio maestro del pensiero.

2. Il messaggio filosofico di Lukács: “non partecipare più alla nostra stessa estraniazione”

In una lettera a Lucien Goldmann, amico e studioso di Lukács, autore di un’interpretazione (discutibile ma stimolante) sui rapporti indiretti fra Lukács e Heidegger negli anni venti, Lukács scrive che il “pensatore sostanziale è preoccupato per tutta la vita di un unico pensiero”. Con il termine di “pensatore sostanziale” Lukács intende certamente alludere al pensatore che non si ferma alla “superficie” delle cose, e tantomeno perde il suo tempo in vani chiacchiericci polemici contingenti, ma cerca di andare alla “sostanza” delle cose, e cioè alla loro “radice”. Lukács è stato sicuramente uno dei pensatori più “sostanziali” del novecento, e certo questo gli verrà sicuramente riconosciuto fra qualche decennio, quando si chiuderà l’attuale congiuntura storica di pentimento generazionale e di rimozione del significato epocale del marxismo, ridotto ad un utopia totalitaria al servizio esclusivo di burocrazie ciniche e crudeli. E tuttavia non è per nulla facile stabilire criticamente e storiograficamente quale sia “l’unico pensiero che lo ha preoccupato nella vita”.

Vi è qui subito una questione teorica rilevante da chiarire. Il termine “preoccupazione”, o se vogliamo “rovello”, attribuito ad un filosofo, non coincide in alcun modo con la semplice registrazione dossografica delle posizioni fondamentali del filosofo stesso. La “preoccupazione” di Platone non consisteva nella separazione fra mondo delle idee e mondo sensibile, così come la “preoccupazione” di Kant non consisteva nella distinzione fra fenomeno e noumeno oppure nella chiarificazione teoretica dell’indimostrabilità scientifica delle idee della metafisica tradizionale. I sistemi filosofici sono la “ricaduta” di preoccupazioni che stanno però a monte di essi, e che occorre individuare con precisione. Ma dal momento che non è possibile farlo con sicurezza, in quanto quasi sempre queste “preoccupazioni” non lasciano tracce scritte filologicamente evidenziabili, gli storici della filosofia se ne tengono lontani, spaventati dalle possibili accuse di arbitrarietà e addirittura di falsificazione. In questo modo, però, il quieto vivere impedisce di andare a fondo delle questioni.

Nicolae Tertulian, uno dei massimi studiosi di Lukács, ha superato questa paura, ed ha opportunamente rilevato una formula usata dallo stesso Lukács, ed usata anche (e sarebbe interessante approfondire questa non casuale coincidenza) dai francofortesi. Questa formula suona così: “non partecipo più alla mia stessa estraniazione” (ich mache meine eigene Entfremdung nicht mehr mit). Avanzo allora l’ipotesi che qui stia il “segreto di Lukács”, e qui stia il pensiero che lo ha preoccupato per tutta la vita. Sarà allora necessario tentare in questo paragrafo un’analisi di questa affermazione rivelatrice.

In primo luogo, il fatto di assumere la problematizzazione di un proprio stato di coscienza come oggetto privilegiato della riflessione filosofica rimanda con tutta evidenza al concetto hegeliano di “autocoscienza” (Selbstbewusstein), concetto che segna storicamente il passaggio dalla prospettiva del criticismo di Kant alla prospettiva idealistica propriamente detta. La genesi psicologico-sociale dell’idealismo classico tedesco non deve infatti a mio avviso essere semplicemente individuata nelle negazione della cosiddetta Cosa in Sé (Ding an Sich), sebbene naturalmente da un punto di vista formale-gnoseologico le cose stiano proprio così. La sua vera genesi sta invece nell’accettazione, prima metodologica e poi interamente storica, dello sdoppiamento dialettico della coscienza che prima si oggettiva all’esterno di essa e poi persegue la propria riappropriazione arricchita dalla consapevolezza conseguita proprio nell’esperienza esterna (Erfahrung). Il neokantismo dominante nelle università tedesche dopo il 1880 (e il cui ultimo provvisorio esponente è a mio avviso Jürgen Habermas) rifiuta radicalmente questa problematizzazione, e la rifiuta perché rifiuta l’esito inevitabile di questa problematizzazione stessa, e cioè il concetto ontologico di “alienazione” (Entfremdung). In questa prospettiva la gnoseologia funziona da fattore di rimozione dell’ontologia, ed in particolare del fatto che il capitalismo in quanto tale (e non solo nei suoi “eccessi” o nei suoi “difetti”) produce ontologicamente alienazione sociale. Il rifiuto di Kant e l’accettazione critica di Hegel stanno quindi alla base di questa problematizzazione lucacciana.

In secondo luogo, la “partecipazione” (Mitmachung), o più esattamente il rifiuto soggettivo della partecipazione alla propria (eigene) alienazione rappresenta appunto il passaggio dalla sfera dei fatti (l’esistenza ontologica dell’alienazione) alla sfera dei valori (il rifiuto soggettivo di partecipare ad essa), che l’attuale moda della filosofia analitica, ispirata alla cosiddetta (ed a mio avviso inesistente) “legge di Hume” intende rendere illegittima in via di principio. Il soggetto si trova non solo immerso storicamente in un “esserci specifico” (il Dasein heideggeriano), ma questo esserci storico specifico che il soggetto non ha scelto, ma in cui è stato “gettato” (ausgeworfen), lo “provoca” ad una scelta esistenziale radicale, quella di decidere di partecipare, oppure invece di non partecipare, alla propria estraniazione. Non ritengo opportuno in questa sede aprire dotte parentesi sulla corretta traduzione italiana della parola tedesca Entfremdung (personalmente preferirei il consolidato termine di “alienazione”, riservando il termine di “estraniazione” alla Entäusserung, ma so bene che qui si aprirebbero problemi non solo linguistici ma teorici), e neppure soffermarmi sui punti di contatto, o viceversa di divergenza, fra Lukács e Heidegger. E’ invece necessario sottolineare ancora una volta che l’unico pensiero sostanziale che è possibile attribuire ragionevolmente a Lukács sia proprio quello della preoccupazione di non partecipare, e quindi prima di tutto di non dare un assenso soggettivo consapevole, alla propria stessa alienazione.

In terzo luogo, e qui ci avviciniamo finalmente al centro del problema che ci interessa, nella sua vita Lukács ha sperimentato fino in fondo due distinte tipologie storico-ontologiche di alienazione, e cioè prima l’alienazione borghese (o più esattamente, dell’individuo borghese) e poi l’alienazione comunista (o più esattamente, del “compagno” comunista). E se a suo tempo nella nota Questione Ebraica Karl Marx tematizzò la scissione dialettica (con la “falsa coscienza” che questa scissione necessariamente comporta) fra Bourgeois e Citoyen, in modo molto simile Lukács dovette tematizzare le avventure della dialettica del rovesciamento del Bourgeois in Genosse (e cioè in “compagno”). Lukács fu infatti prima un Bourgeois e poi un Genosse, e dal momento che le due identità non sono separate da una invisibile muraglia cinese ma si compenetrano dialetticamente, egli dovette sempre decidere di rifiutare di partecipare alle proprie specifiche estraneazioni.

Le estraneazioni specifiche della coscienza borghese e della coscienza comunista sono diverse, anche se hanno entrambe in comune un’unica e fondamentale alienazione (Entfremdung), l’alienazione dei fini nei mezzi che vengono pretestuosamente impiegati per realizzarli, e che invece lo storicista giustificazionista non problematizza per principio mai, assumendoli in modo aprioristico (e positivistico) come fatalmente necessari. Dal momento che Lukács è stato uno dei pochissimi pensatori novecenteschi a problematizzarle entrambe, perché le ha vissute entrambe biograficamente dall’interno, nel suo pensiero troviamo dimensioni che non possiamo ad esempio trovare né in Adorno né in Heidegger, poiché nessuno di questi ultimi fu mai in nessun momento della sua vita un “compagno” (Genosse), anche se entrambi problematizzarono radicalmente la vita borghese fino al punto da respingerla entrambi come “inautentica”, sia pure con motivazioni diverse e per molti versi opposte (anche se a mio avviso largamente complementari, compatibili e molto più affini di quanto ci abbia tramandato la vulgata storiografica dei rispettivi tifosi).

L’alienazione specificatamente borghese è individuata da Lukács nel fenomeno della “falsa coscienza” (falsches Bewusstsein). Si tratta di una categoria già presente (e non solo presente, ma anche centrale) in Marx, ma che era stata praticamente “silenziata”, e quindi annullata, nel marxismo economicistico della Seconda Internazionale (1889-1914). Trascurando qui il fatto che questa categoria gioca un ruolo essenziale nella sua opera del 1923 Storia e Coscienza di Classe, posso qui ricordare solo l’essenziale della questione della falsa coscienza. E l’essenziale sta in ciò, che il “borghese”, che pure cerca di autorappresentarsi in modo razionalistico ed addirittura “universalistico” la propria collocazione storica e morale nel mondo, deve necessariamente “rimuovere” l’imbarazzante esistenza dello sfruttamento capitalistico e delle sue conseguenze. Questa imbarazzante rimozione segnala l’esistenza di una specifica inquietudine, che a suo tempo Hegel connotò come “coscienza infelice”, anche se non la tematizzò a proposito della coscienza borghese ma soltanto a proposito della coscienza religiosa. In proposito, tuttavia, il fatto che l’ultimo Lukács abbia usato molto spesso la categoria di “ateismo religioso”, per indicare la compresenza di una formale negazione dell’esistenza della divinità unita alla permanenza di problematiche etiche di evidente derivazione religiosa, ci permette di capire che non c’è mai in lui la stucchevole separazione di principio fra “laici” e “religiosi”, ma c’è sempre la consapevolezza del fatto (noto anche a pensatori come Cari Schmitt, che non potrebbero per altri versi essere politicamente più distanti da Lukács) che la dialettica della secolarizzazione inconsapevole “mischia” continuamente le carte. In ogni caso, il punto essenziale della questione sta in ciò, che all’interno della pura problematizzazione immanente della coscienza borghese, sia pure ai massimi livelli di sofisticazione filosofica (Max Weber, Georg Simmel, eccetera), è impossibile uscire dalla strutturale condizione di falsa coscienza, e di conseguenza è impossibile evitare di continuare a partecipare alla propria stessa estraniazione. Se Lukács nel 1918 diventa comunista, e lo rimane fino al 1971, l’anno della sua morte, ciò avviene proprio in base a questa robustissima convinzione, che fa appunto di lui non certo un “gesuita della rivoluzione”, ma un vero e proprio “pensatore sostanziale”.

Il Proletariato, secondo il giovane Lukács, è invece il solo soggetto storico che per sua propria natura sociale può sottrarsi alla falsa coscienza. Si tratta – con tutta evidenza – non dell’insieme empirico ed anagrafico di tutti i proletari nominativamente enumerati, ma di un Proletariato Idealtipico, pensato in forma idealmente unificata e puramente astrattiva. Qui l’influenza di Max Weber mi sembra evidente, in quanto fu proprio Max Weber a introdurre, e poi a tematizzare, il concetto di Ideal-Tipo. Ma qui non ci interessano tanto gli elementi genetici del pensiero di Lukács, e cioè l’attenzione alla vita quotidiana (Georg Simmel) e la nozione di idealtipo (Max Weber), quanto la pertinenza della sua tesi, per cui il proletariato si sottrarrebbe per sua propria natura (analitica – direbbe Kant – perché per definizione il concetto di proletariato coincide con quello di assenza di sfruttamento imposto ad altri) alla falsa coscienza borghese.

È plausibile (questo almeno è il mio convincimento critico soggettivo) che Lukács abbia abbandonato a poco a poco questa convinzione ad un tempo idealtipica e messianica proprio con l’esperienza storica (Erfahrung) dello stalinismo. Lukács “sopportò” lo stalinismo, senza aderirci mai, mosso dalla convinzione (rivelatasi errata) che lo stalinismo sarebbe stato storicamente soltanto un “episodio” spiacevole di un processo storico-dialettico fondamentalmente positivo. Il fatto che Lukács abbia ritenuto che sul piano tattico-politico la linea di Stalin fosse più realistica di quella di Trotzky non fa certamente di lui uno “stalinista”, come erroneamente opina spesso la storiografia di indirizzo trotzkista. In ogni caso, già negli anni trenta è palese che Lukács non solo ha abbandonato le speranze rivoluzionarie messianiche “a breve termine” del suo primo periodo marxista, ma ha anche di fatto smesso di pensare in modo idealtipico le identità rispettive di Borghesia e di Proletariato. E smettere di pensare in modo idealtipico – aggiungo io – è la premessa per cominciare a pensare in termini di ontologia dell’essere sociale.

Ho forti dubbi sul fatto che Lukács sia giunto a disporre di una vera e propria teoria “strutturale” (e quindi marxista) della natura storica e sociale del potere di Stalin. Certo, a partire dal 1956 egli rifiutò con disprezzo la connotazione superficiale e tautologica dello stalinismo in termini di “culto della personalità” data dal dilettante distruttore Nikita Krusciov, comprendendo immediatamente che dietro questo gioco di parolette ci stava il rifiuto di investire le ragioni di fondo dell’impasse del sistema socialista. A proposito dello stalinismo egli preferì parlare di “prevalenza della tattica sulla strategia”, con le conseguenze antropologiche della produzione e della promozione di massa di un tipo umano (il tipo del “comunista”, appunto), che a furia di far precedere la tattica alla strategia alla fine di tattica sarebbe morto, e nella sua morte avrebbe trascinato anche le classi ed i popoli che aveva preso in ostaggio. La sostanziale mancanza di una specifica teoria dell’alienazione nel comunismo, distinta dalla falsa coscienza borghese, lo portò a parlare di “manipolazione” (Manipulierung), come caratteristica comune al capitalismo dei consumi in Occidente ed al dominio burocratico ad Oriente. Non c’è qui purtroppo lo spazio per soffermarsi su questa problematica, ma mi sembra evidente che il concetto di manipolazione, che pure unifica Lukács, Kosìk, Adorno e lo stesso Heidegger (e questo vorrà pur dire qualcosa!), non è in grado di descrivere adeguatamente l’alienazione comunista novecentesca. Alienazione, peraltro, che non può neppure essere seriamente descritta dal concetto di “totalitarismo” (Hannah Arendt, Karl Popper, Francois Furet, eccetera), concetto che è ancora più tautologico del precedente. E’ infatti chiaro che il manipolatore manipola e che il totalitario governa in modo totalitario. Il problema sta nell’uscire da questa pomposa tautologia per entrare nelle strutture sociali che permettono il totalitarismo politico e la manipolazione sociale. Ma questo enigma non era probabilmente alla portata della generazione di Lukács, troppo “interna” al fenomeno globale del comunismo storico novecentesco preso nel suo insieme (1917-1991). Solo ora, in cui la nottola di Minerva hegeliana si è alzata nell’attuale crepuscolo, è possibile forse andare “oltre Lukács”. Ma deve essere chiaro però che se possiamo andarci, lo possiamo fare soltanto perché siamo nani che si arrampicano sulle spalle dei giganti. E perché Lukács è stato un “gigante” credo di essere in qualche modo riuscito se non proprio a “dimostrarlo”, almeno a mostrarlo.

3. La funzione emancipatrice dell’Arte e la specificità dell’Estetico

I due paragrafi precedenti erano a mio avviso necessari per dimostrare come Lukács non è stato in alcun modo uno “specialista” del campo estetico, e neppure uno specialista del grande romanzo borghese classico (da Balzac a Thomas Mann), ma è stato invece non solo un “filosofo globale”, ma un pensatore “sostanziale”, uno dei pochi pensatori sostanziali del novecento (a mio avviso meno di dieci, ma non voglio qui elencarli, perché questa non è una hit parade). Possiamo allora finalmente passare a parlare in modo più specifico del significato dell’Estetica di Lukács.

L’Estetica di Lukács tratta della specificità del rispecchiamento estetico, in ciò che lo differenzia dagli altri due unici rispecchiamenti possibili, quello quotidiano e quello scientìfico. Questa vera e propria triade ricorda a prima vista la triade dello Spirito Assoluto di Hegel (arte, religione e filosofia), ma si differenzia da essa non solo e non tanto per l’adozione della teoria gnoseologica del rispecchiamento (Widerspiegelungstheorie), letteralmente impensabile nell’impostazione concettuale di Hegel, ma ancor più per la negazione alla religione ed alla filosofia di uno specifico ed autonomo valore veritativo. Ma di questo discuterò nel prossimo paragrafo.

Per Lukács l’opera d’arte è una forma di oggettivazione, ed è quella specifica forma di oggettivazione che ricerca la particolarità piuttosto che le leggi costitutive generali della nostra vita naturale e sociale. Come si vede, si tratta di un’impostazione non poi troppo distante da quella di Benedetto Croce. Questa impostazione si distingue però da quella di Croce per il fatto di partire, non solo metodologicamente ma anche e soprattutto ontologicamente, dal comportamento dell’uomo nella vita quotidiana. Nella Estetica questo comportamento è definito letteralmente come “al tempo stesso l’inizio ed il punto d’arrivo di ogni attività umana”. Lukács paragona l’attività umana ad una “grande corrente”, da cui “la scienza e l’arte si dipartono, si differenziano e si sviluppano secondo le rispettive finalità specifiche, raggiungono la loro forma pura, e sfociano poi nuovamente, attraverso i loro effetti e l’influenza che esercitano nella vita degli uomini, nella corrente della vita quotidiana”.

L’arte e la scienza hanno quindi la loro radice ontologica nei “bisogni” che sorgono dalla quotidianità. Si ha così fin dal principio un rifiuto esplicito sia di ogni atteggiamento feticistico verso la scienza e la conoscenza scientifica (ma già per Marx – che su questo punto seguiva Epicuro – la scienza doveva servire i bisogni umani, e non essere feticizzata ed idolatrata in sé), sia di ogni atteggiamento elitario, superuomistico ed aristocratico dell’arte. E’ evidente che la funzione della teoria del rispecchiamento quotidiano è proprio questa: evitare ogni feticismo della scienza ed ogni aristocraticismo dell’arte.

Secondo Lukács, “Kant poté ancora accontentarsi di rispondere alla questione metodologica generale della pretesa di validità dei giudizi estetici”. Si tratta di un’impostazione che il nostro autore considera “restrittiva ed unilateralmente gnoseologica” (sic!). Al contrario di Kant, Hegel ha saputo raggiungere sia “una concezione filosoficamente universalistica” sia una “sintesi storico-sistematica” cui Lukács ritiene di poter soltanto realizzare “un’approssimazione solo parziale” al modello della sua Estetica. Si tratta di un’ammissione estremamente rivelatrice, dal momento che ci permette di capire il modo in cui Lukács autopercepiva il significato della sua stessa opera. Dal momento che questo breve saggio non è dedicato esplicitamente ad una riflessione sulla teoria del realismo e sulla condanna dell’avanguardia in Lukács, i temi generalmente più superficialmente conosciuti e commentati ma anche in fondo i temi più “esterni” alla riflessione teorica vera e propria sulla specificità (Eigenart) del rispecchiamento estetico, è bene invece insistere ancora sul fatto che in Lukács il “particolare” deve essere distinto accuratamente sia dall’“individuale” che dall’“universale”, e questo almeno in due modi. Da un lato, ontologicamente parlando, l’individuale riesce ad attingere l’universale soltanto se la propria particolarità decide appunto di non accettare la propria estraniazione. Dall’altro – e questo è appunto ciò che caratterizza il rispecchiamento estetico – ogni opera d’arte, figurativa, poetica, eccetera, coglie l’universalità del Bello esclusivamente passando attraverso la particolarità del singolo artista.

Lukács accetta l’ipotesi della genesi della produzione artistica nei riti della mimesi magica dei primitivi, e questa ipotesi mi sembra effettivamente “materialistica” (oltre che interamente plausibile), in quanto è speculare e complementare all’ipotesi della deduzione storica e sociale delle categorie del pensiero. Se il termine di “materialismo” ha un significato, mi sembra che il suo significato non possa che essere quello di pensiero genetico, il che fa di Vico il primo vero e proprio “materialista” della storia della filosofia moderna, enigma del tutto indecifrabile per tutti coloro che attribuiscono l’etichetta di “materialista” esclusivamente a chi professa esplicitamente la sua mancanza di “fede” nell’esistenza di Dio. E del resto, che il fatto artistico non possa nascere dalla testa di Giove come Minerva, ma derivi da un insieme di bisogni sorti sul terreno della vita quotidiana (mimesi magica, eccetera), ne caratterizza non solo l’origine, ma la sua intera esistenza storica. Dai graffiti primitivi delle grotte di Altamura fino alle mostre di pittura post-moderna o astratta, si è sempre in presenza di una attività permanente dell’uomo, che esclude ogni teoria della “morte dell’arte”, comunque concepita e declinata.

Siamo generalmente abituati a considerare la cosiddetta “purificazione” (catarsi, katharsis) come qualcosa di tipico della tragedia antica, almeno secondo la valutazione di Aristotele. E’ interessante invece il fatto che Lukács consideri la catarsi come una categoria generale del rispecchiamento estetico, e non solo come un dato della percezione sociale della tragedia classica. E questo non deve stupirci, perché proprio il fatto che Lukács assume ed accetta la teoria marxiana del feticismo della merce gli permette di conseguenza di parlare di “missione defeticizzante dell’arte”. Non solo la tragedia greca, ma ogni vera arte è catartica, e nel contesto storico e spirituale della quotidianità capitalistica il suo ruolo catartico si specifica proprio nella sua “missione defeticizzante”. Al di là del linguaggio tecnico di evidente matrice marxiana, la conclusione è assolutamente simile a quella delle teorie estetiche di Adorno e dello stesso Heidegger.

So bene che ogni tentativo seriamente condotto di “confrontare” filologicamente le teorie estetiche di Lukács, Heidegger e Adorno porterebbe ad evidenziare importanti differenze, e non intendo affatto negarlo. Ma qui mi interessa piuttosto sottolineare il fatto che Lukács, Heidegger e Adorno hanno pur sempre in comune il fatto (e non è poco!) di venire prima del grande riorientamento gestaltico post-moderno, che è (seguo qui nell’essenziale l’ipotesi di Jameson) ad un tempo il prodotto ed il produttore della produzione flessibile, del lavoro precario, dello scioglimento culturale delle precedenti identità relativamente stabili di tipo “borghese” e “proletario”, eccetera.

Questo non significa certamente che le grandi estetiche di cui stiamo parlando, e cioè quelle di Lukács, Adorno e Heidegger, “non valgono più”, non parlano più del mondo che stiamo vivendo oggi, e si riferiscono ad un contesto di catarsi e di defeticizzazione del mondo che la presente (ed a mio avviso temporanea, nonostante le sue arroganti pretese di eternità) affermazione del turbocapitalismo globalizzato ha definitivamente consegnato agli archivi. È vero però che il ciclo storico che stiamo vivendo, e che nessuno di noi può sapere quanto durerà, ha comportato e comporta una specifica “eclissi” di questo modo di vedere il rapporto fra arte e vita. Ma il termine astronomico di “eclissi” significa non abbandono permanente, ma semplicemente abbandono provvisorio. Per questa ragione possiamo razionalmente scommettere che il punto di vista estetico di Lukács (che ho inteso volutamente legare a quelli di Adorno e di Heidegger) probabilmente ritornerà, anche e soprattutto perché corrisponde ad una permanente esigenza di significati radicati nella nostra natura umana.

4. Libere riflessioni sulla teoria lucacciana del rispecchiamento estetico

Come ho avuto modo di notare nelle pagine precedenti, l’adesione dell’ultimo Lukács alla teoria del rispecchiamento è esplicita e quasi ostentata. Il rispecchiamento fondamentale, unico ed originario, è quello che sorge sul terreno della vita quotidiana, e da esso sorgono, e poi si biforcano in complementare armonia, il rispecchiamento estetico della particolarità ed il rispecchiamento scientifico dell’universalità. È un modello filosofico concettualmente molto semplice, e nello stesso tempo carico di implicazioni ricchissime. Si tratta certamente di una sorta di “gnoseologia democratica”, nonostante il termine possa sembrare improprio e paradossale, perché la vita quotidiana è qualcosa di cui sono titolari indistintamente tutti i membri della specie umana, che diventano in questo modo tutti indistintamente titolari della conoscenza possibile della globalità articolata del mondo naturale e sociale. Nei termini del dialogo platonico Protagora, potremmo dire che duemila anni dopo Lukács assume la posizione teorico-politica di Protagora e non quella di Socrate.

E nello stesso tempo la teoria del rispecchiamento, che non merita comunque né di essere accettata né di essere rifiutata senza prima essere presa seriamente in considerazione, continua a “fare problema”. Non tutti i marxisti l’hanno accettata. Per fare un solo esempio, Antonio Gramsci non l’ha accettata, almeno a mia conoscenza. E tuttavia non avrebbe senso qui stilare un inutile elenco di fautori e/o di critici della teoria del rispecchiamento, mentre è molto più utile e sensato sottoporre al lettore alcuni stimoli critici e problematici.

In primo luogo, la teoria del rispecchiamento è una teoria al 100 per cento di tipo gnoseologico, ed in quanto tale non coincide direttamente né con il materialismo, che a mio avviso è una sorta di “metafisica generale”, né con l’ontologia dell’essere sociale, che è una posizione ontologica specifica che si oppone (con buoni argomenti) all’unificazione categoriale delle cosiddette “leggi dialettiche” comuni alla natura ed alla storia (vedi Materialismo Dialettico, eccetera). Essa non coincide neppure con il cosiddetto “realismo gnoseologico”, ed infatti vi sono fautori del realismo gnoseologico (da Tommaso d’Aquino a Nicolai Hartmann) che non sono a mio avviso sostenitori della teoria del rispecchiamento propriamente detta (Widerspiegelungstheorie). Nicolae Tertulian, a mio avviso il maggiore esperto del pensiero dell’ultimo Lukács, insiste sempre nei suoi interventi critici nel ricondurre la gnoseologia realistica di Lukács ad Hartmann, ed ha anzi scritto letteralmente che “gli scritti ontologici di Nicolai Hartmann hanno fatto da catalizzatore alle riflessioni ontologiche di Lukács”. E dal momento che il termine “catalizzatore” non è qualcosa di aggiunto, marginale o periferico, ma è qualcosa di essenziale, se ne può ricavare fondatamente che, almeno per quanto riguarda la teoria della conoscenza, Lukács non è un “allievo” di Engels o di Lenin, ma di Hartmann. Hartmann distingue sempre accuratamente nelle sue opere le categorie intese come “principi dell’essere” (Seinsprinzipien), e le categorie intese come “essenze logiche” (logische Wesenheiten). Il suo “realismo” – condiviso integralmente da Lukács – consiste nel scegliere le prime e nel rifiutare le seconde, attribuite evidentemente all’idealismo, ed all’idealismo hegeliano in particolare (che poi Lukács nella sua Ontologia dell’Essere Sociale accusa di “logicismo”). Anche se non posso certo soffermarmi su questo punto, sarei felice che qualcuno mi spiegasse la differenza fra le due, in quanto la logica di Hegel – a differenza della logica di Kant – è una logica ontologica, e quindi – se non capisco male – essenze logiche e principi dell’essere coincidono. La questione non è infatti solo terminologica, e non è neppure di lana caprina, perché qui siamo al centro del problema della continua oscillazione (che per me è un merito e non un demerito – come lo è per la stragrande maggioranza dei commentatori di Lukács) fra i due poli dell’Idealismo e del Materialismo.

In secondo luogo, è assolutamente sicuro che Engels e Lenin (e poi Stalin, Trotzky, Mao, eccetera) sono stati fautori della teoria del rispecchiamento, ma non è affatto altrettanto sicuro che anche Karl Marx lo sia stato. Dal momento che Marx non se ne è mai occupato, e che non basta ripetere il mantra per cui “avrebbe rimesso sui piedi la dialettica di Hegel che poggiava invece sulla testa”, non è neppure sufficiente dire che l’ha implicitamente avvallata perché non ha mai preso le distanze dall’amico Engels, anche perché le tesi filosofiche di Engels sono state elaborate quasi tutte dopo la morte di Marx, avvenuta nel 1883, a meno che l’avallo gnoseologico alla teoria del rispecchiamento avesse potuto avvenire nella forma dell’evocazione delle anime dei defunti con i tavolini che ballano (cfr. F. Dimitri, Comunismo Magico, Castelvecchi, Roma 2004). Se infine ci occupiamo direttamente del tipo di logica dialettica effettivamente impiegata da Marx nelle sue opere (mi riferisco qui agli studi di Rosdolsky, Reichelt, fino a quelli recentissimi di Roberto Fineschi), ci accorgiamo che la vera e propria teoria del rispecchiamento brilla per la sua totale e pittoresca assenza, laddove è invece ben presente un metodo dialettico esemplificato direttamente sul modello della logica ontologica di Hegel. Ma di questo nodo di problemi è chiaramente impossibile parlare qui.

In terzo luogo, se si sceglie di aderire alla teoria del rispecchiamento, è del tutto evidente che non ci può essere un rispecchiamento propriamente filosofico, dal momento che la filosofia non è un’attività “rispecchiante”, ma è nel suo più intimo ed originario principio un’attività ermeneutica, e cioè un’attività non rispecchiante ma “interpretante”. In modo molto corretto e coerente Lukács limita i rispecchiamenti possibili a tre, e soltanto tre (il rispecchiamento quotidiano e le sue due posteriori biforcazioni convergenti, il rispecchiamento estetico del particolare ed il rispecchiamento scientifico dell’universale). Ed infatti di “rispecchiamenti” non ce ne possono proprio essere altri. Ma allora, dal momento che il rispecchiamento è la sola forma di conoscenza, ne consegue necessariamente che l’attività filosofica in quanto tale non è un’attività conoscitiva, e quindi non può ambire ad uno statuto veritativo di alcun tipo. Ma un’attività teorica che per sua natura (assenza di una modalità rispecchiante della realtà) non può ambire ad uno statuto di conoscenza veritativa non può che identificarsi con l’ideologia tout court. Un’attività non veritativa, e quindi non conoscitiva, è un’attività ideologica, ed allora di fatto paradossalmente è stato più onesto ed esplicito Althusser, quando ha sostenuto la tesi (per me sciagurata) che la filosofia non è altro che “lotta di classe nella teoria”. So bene che Lukács non si è mai lasciato andare a queste posizioni riduzionistiche ed anti-filosofiche, e che anzi è stato a tutti gli effetti uno dei più grandi filosofi del novecento, ed a mio avviso addirittura il più grande filosofo marxista in senso assoluto (ho sostenuto questa tesi nel mio lavoro La Filosofia Imperfetta, Franco Angeli, Milano 1984). Lo è stato però in un certo senso “suo malgrado”, perche la negazione alla pratica filosofica di un suo specifico (eigentlich) valore non solo conoscitivo ma addirittura veritativo porta necessariamente alla riduzione, e cioè all’identificazione, di filosofia e di ideologia. Basti per questo considerare la titolazione dei capitoli della seconda parte dell’Ontologia dell’Essere Sociale, in cui il termine “filosofia” è assente, ed invece il termine “ideologia” è addirittura dominante. Ma qui è evidente che Lukács si è imprigionato da solo all’interno degli invisibili confini di tutta la tradizione teorica marxista da Engels a oggi, unanime (o meglio, tragicamente unanime) nel negare allo spazio filosofico propriamente detto un autonomo valore veritativo.

In quarto luogo, infine, se non esiste un autonomo rispecchiamento filosofico, tantomeno ovviamente può esistere un autonomo rispecchiamento religioso. E sarebbe paradossale che potesse esistere, dal momento che per l’ateo illuminista e materialista Lukács Dio non esiste, e non esistendo non potrebbe neppure ovviamente essere “rispecchiato”. La religione per Lukács trova la sua matrice nel mantenimento ontologico (o più esattamente, ontologicamente falso) della spontanea antropomorfizzazione del mondo tipica del rispecchiamento quotidiano. Non è questa la sede per discutere della filosofia della religione di Lukács, ma osservo egualmente che essa mi sembra molto più simile all’impostazione di un d’Holbach o di un Feuerbach che di quella implicitamente presente in Marx, che non partiva da una modalità conoscitiva astrattizzata e dichiarata falsa, ma partiva invece esclusivamente dal “fenomenizzarsi della filosofia” (Weltlich-Werden der Philosophie), e cioè dall’inserimento della specifica coscienza religiosa in determinati (e obbligatori) rapporti sociali di produzione. In ogni caso, ciò che ci interessa in questa sede è sottolineare il fatto che per Lukács non solo la Scienza, ma anche e soprattutto l’Arte viene vista come il fattore decisivo per distogliere gli uomini dall’illusione religiosa, dall’illusione cioè che la spontanea e naturale tendenza antropomorfizzante sorta sul terreno del rispecchiamento quotidiano della vita possa ambire ad uno statuto ontologico privilegiato, o se si vuole in linguaggio ordinario “realmente esistente”. La polemica contro l’illusione religiosa è al centro della stessa Estetica, non solo nella forma tradizionale della negazione della trascendenza, ma anche e soprattutto nella forma della rivendicazione insistente del riconoscimento dell’autosufficienza integrale della mondanità. Questa decisa alternatività radicale fra Arte e Religione, che percorre praticamente tutte le pagine dell’Estetica di Lukács, è forse l’elemento che più la distingue, ed anzi la contrappone, all’Estetica di Hegel, che non si sarebbe invece mai sognato di mettersi su questa strada. Per Lukács l’Arte ha prima di tutto una funzione storica e sociale immanentistica radicale, che contribuisce a liberare l’uomo dall’illusione religiosa, mostrando che invece quella possibilità di vita piena che la religione colloca unicamente nell’aldilà può esistere anche e soprattutto già qui sulla terra.

Come si vede, la monumentale Estetica dell’ultimo Lukács non è solo una teoria estetica, ma è una vera e propria filosofia generale, del tipo della Critica della Ragion Pura di Kant, della Fenomenologia dello Spirito di Hegel, e infine di Essere e Tempo di Heidegger. Personalmente, non sono in alcun modo un “credente” (anche se nell’ottica di Lukács potrei essere accusato di “ateismo religioso”), ma non riesco a riconoscermi nella posizione per cui l’Arte, cui riconosco invece integralmente il carattere emancipativo e – come dice Lukács – “defeticizzante”, possa e debba anche avere la funzione di liberazione dall’illusione religiosa. Esprimendomi volutamente in modo popolare e non filosoficamente sorvegliato, a mio avviso l’illusione religiosa non fa male a nessuno, e sono piuttosto incline a riconoscerne sulla scorta di Ernst Bloch un carattere indirettamente emancipativo. Ma qui abbiamo ancora una volta di fronte la presenza dell’elemento esplicitamente illuministico-settecentesco di Lukács, la cui rivendicazione lo differenzia – come è del resto evidente – dai suoi “colleghi” contemporanei che in vario modo invece o polemizzavano direttamente con l’illuminismo (Adorno, Heidegger) o lo limitavano alla sola componente giusnaturalistico-rivoluzionaria (Bloch).

E con questo posso chiudere queste brevi note, rivolte prima di tutto a ricordare un Grande del pensiero del novecento, oggi indubbiamente “inattuale”, e proprio per questo destinato a “ritornare” in tempi meno caratterizzati dall’attuale congiunturale chiacchiericcio della cosiddetta “industria culturale”.

Nota bibliografica generale

Composta a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, la grande Estetica di Lukács è stata pubblicata in due tomi dall’editore Einaudi, Torino 1970. Un’edizione ridotta, curata da Ferenc Féher, ridotta ma non sfigurata e quindi ampiamente utilizzabile per studi critici, è stata pubblicata sempre da Einaudi nella PBE, 1973.

Chi si occupa di Lukács, e vuole occuparsi criticamente dell’Estetica, deve a mio avviso fare almeno due cose “obbligatorie”. In primo luogo, deve “collocare” storicamente il suo pensiero non tanto all’interno dei dibattiti ideologici sul cosiddetto “realismo socialista”, oppure dei dibattiti sulla valutazione critica delle cosiddette “avanguardie”, quanto piuttosto in un contesto comparativo con le coeve riflessioni estetiche di Adorno e di Heidegger. Lukács deve essere confrontato con i suoi “pari”, e non con scagnozzi burocratici degli apparati di partito. In secondo luogo, deve studiare contestualmente anche la sua ontologia (cfr. Ontologia dell’Essere Sociale, Editori Riuniti, Roma 1976 e 1981, ed anche Prolegomeni all’Ontologia dell’Essere Sociale, Guerini e Associati, Milano 1990).

Si veda anche AAVV, Lukács e il suo tempo, Pironti, Napoli 1984. Da questo lavoro ho tratto la citazione della lettera a Goldmann (p. 213), e la citazione illuminante sulla decisione di non partecipare alla propria stessa alienazione (p. 270).

Su Lukács critico dello stalinismo si veda soprattutto G. Lukács-W. Hofmann, Lettere sullo Stalinismo, Bibliotheca, Gaeta 1993, con una illuminante introduzione di Nicolae Tertulian. Per quello che valgono queste mie modeste note, le dedico a questo grande studioso lucacciano di origine romena, che resta a mio avviso tuttora la migliore bussola critica per accostarsi alla gigantesca (e per nulla “esaurita”) figura di Lukács.

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