Pensarsi comunista ed essere comunista ovvero della esperienza percettiva. Una lettura filosofico-attuazionista.
mar 1st, 2010 | Di Stefano Moracchi | Categoria: Dibattito Politico, Idee e propostedi Stefano Moracchi
Pensarsi comunista lo si può solo affermare; essere comunista lo si deve spiegare.
In queste righe proverò a teorizzare che la problematica che sta investendo il movimento comunista è di ordine psicosomatico, nel senso che il problema che investe la pratica è un sintomo della malattia che attiene alla teoria e, viceversa, che il problema che investe la teoria è un sintomo della malattia che attiene alla pratica.
Il problema è tale solo se la teoria e la pratica le si pensano separatamente e quindi: la teoria sta alla psiche come la pratica sta al corpo (soma). Ma come una persona è l’insieme di mente e corpo allo stesso modo un movimento comunista è l’insieme di teoria e prassi.
La crisi del movimento comunista ci induce a pensare che non si è affrontato il problema dal punto di vista adatto. Se lo si affronta rettamente potrebbe avere un effetto più profondo sul destino di milioni di sfruttati che non qualunque mero accumulo di conoscenze o qualunque nuovo ritrovato scientifico.
Fino ad oggi il problema lo si è affrontato come se il malato comunista non fosse un unico soggetto ma due soggetti, gemelli nel parto, ma differenti l’uno dall’altro. Per i due malati si sono chiamati due ordini di medici: il medico della teoria e quello della pratica. Le differenti specializzazioni giustificano l’esclusività delle competenze. Nel frattempo il malato rischia di morire.
Dal punto di vista della filosofia attuazionista il comportamento dell’uomo è inteso come un processo di vita e, proprio per questo, non possiamo accontentarci di una descrizione di aspetti isolati dell’esperienza, tale da trascurare altri aspetti del processo e da limitarsi a legare estrinsecamente fra loro alcune variabili. Infatti ciascun aspetto dipende dagli altri per la sua stessa esperienza e funzione, e l’interdipendenza di tutti gli aspetti che costituiscono il comportamento e l’esperienza in ogni occasione di vita è molto complessa.
Ogni ricerca in tal senso non può essere scissa dalla vita quotidiana. Quando una teoria politica incontra una difficoltà, quando si trova in un vicolo cieco, questo significa essenzialmente che la sua comprensione è in qualche modo inadeguata. Non riesce a rappresentarsi un modo di agire della cui efficacia sia certa. Un filosofo della politica si deve sforzare di interpretare ciò che si presenta come un ostacolo alla sua comprensione al fine di rendere possibile la spiegazione della difficoltà.
Fa questo tentando di determinare le condizioni essenziali che hanno fatto nascere il problema, cioè quelle condizioni che egli deve pienamente intendere se vuole superare l’intoppo immediato che gli sta davanti. Il processo intellettuale che il filosofo della politica impiega nella sua ricerca coinvolge necessariamente astrazioni che egli stesso crea, in quanto l’uomo ha la capacità di richiamare e manipolare a volontà queste astrazioni, ed è la capacità che lo libera in larga misura degli impacci e dalle limitazioni spaziali e temporali. Kant stesso ce ne ha fornito un egregio esempio. La difficoltà maggiore si incontra proprio quando l’uomo cerca di comprendere se stesso. Perché in ogni ricerca scientifica, il punto di vista dal quale si parte, è sempre un partire da noi stessi. Oggettivarsi significa imprimere noi stessi sull’oggetto della comprensione. Il modo in cui si pone un problema determinerà il risultato. Quello che risulta oramai evidente a tutti è l’inadeguatezza dell’obiettività come la si concepisce ufficialmente. L’obiettività è indesiderabile per qualsiasi comprensione perché diventa inerte e insignificante senza giudizi di valore. Altrimenti si cade nella trappola della meccanica raccolta di fatti. Il mito dell’obiettività della scienza ha contribuito ad inficiare l’elemento sovversivo della scienza stessa. Il germe vitale di un pensiero immaginativo è gettato e rifiutato a priori. Marx stesso ci ha insegnato a filosofare con gli elementi scientifici. E non vi può essere vera filosofia se non si indagano i processi emozionali che stanno all’interno dei processi sociali derivanti dal modo di produzione sociale. Nella ricerca filosofica i giudizi di valore che si pronunciano hanno una certa responsabilità in chi li pronuncia. Infatti è nel pronunciare i suoi giudizi di valore che il filosofo ha una libertà di scelta intesa, in questo senso, come la norma più alta di azione efficiente.
Uscendo fuori dal campo valoriale applicato alla scienza ci si è consegnati inesorabilmente nel campo delle opinioni. Mi spiego meglio. Si dà ricerca scientifica quando un’idea delinea in modo efficiente ed inesorabile un campo d’indagine. Il campo d’indagine delimitato apre degli sbocchi che riprodurranno praticamente la stessa divisione operata teoricamente. Questo significa che la teoria agisce nel campo pratico in modo coerente perché racchiude in sé l’idea specifica dell’uomo che opera all’interno della società, con tutto il suo essersi costruito storicamente. E in questa costruzione i giudizi di valore sono elementi indispensabili alla comprensione dei rapporti. Rapporti che devono essere funzionali socialmente e non idealmente. Dal momento che i giudizi di valore hanno una parte così importante nel pensiero scientifico, si deve fare ogni sforzo per scoprire i modi e i mezzi di fare dei giudizi di valore stessi la materia precipua della ricerca scientifica.
Nel momento in cui, al contrario, la scienza assume il carattere a-valoriale, significa che la scienza si rivolge a tutti indistintamente. Non vi sono differenze tra sfruttati e sfruttatori, tra chi detiene il potere per esercitare subordinazione e chi è costretto a piegarsi al potere altrui. La scienza in questo caso produce opinione. L’opinione si distingue dall’idea in quanto si propaga senza interferenze, media tra gli individui senza creare attrito. È moneta di scambio a-valoriale. Si diffonde senza difficoltà.
La filosofia attuazionista cerca d’indagare proprio il modo in cui il giudizio di valore è stato espunto dalla ricerca scientifica favorendo, in tal modo, la scienza dell’opinione. Ciò che è avvenuto, e sta avvenendo con Marx, riflette bene quanto finora detto: Marx giovane, Marx maturo, Marx umanista e Marx scienziato: quello che viene sollevato e messo in risalto risulta essere un profondo scetticismo e una condanna senza appello al giudizio di valore al quale, Marx, non si è mai sottratto.
Kant, nella Critica della ragione pura, fa notare che qualora la molteplicità delle rappresentazioni non fosse data nell’unità presupposta di una coscienza, l’io stesso si dissolverebbe in questa molteplicità, diventerebbe un io variopinto (oggi si parla di liquido, Bauman oppure di coriandoli, De Rita), come sono variopinte le rappresentazioni.
Ma alla base di tutto vi sono le motivazioni dell’esperienza. Presupporre la totale assenza di queste motivazioni significa abbattere sia la divaricazione tra il piano dell’esperienza e il piano della conoscenza, come pure quello tra percezione e constatazione; ma la cosa più grave è non vedere che la costituzione dell’oggettività date nell’esperienza sono di tutt’altro genere alle funzioni propriamente conoscitive. È il modo in cui una persona pone i suoi problemi a determinare il risultato a cui sboccherà.
Secondo Foucault ( Nascita della clinica, 1963, pp.13 sg), il mutamento più significativo del discorso medico avviene quando si passa dalla domanda che cos’ha?, con cui iniziava fino al diciottesimo secolo il dialogo del medico con il paziente, alla domanda dove ha male?, con cui iniziava lo stesso dialogo dal Settecento in poi. Si tratta di un cambiamento che non è semplice passaggio da una forma di sapere clinico a un’altra, ma completa ristrutturazione del discorso medico e del suo oggetto: cambiano radicalmente gli elementi costitutivi del corpo, vengono messi in luce tessuti e cellule, si riorganizzano le localizzazioni dei fenomeni patologici, gli eventi morbosi vengono ridistribuiti secondo precise linearità etiologiche.
Non si tratta soltanto di un nuovo legame fra segni significanti e significati morbosi, fra sintomi e malattie, sotto lo sguardo ateoretico dell’empirismo clinico, ma di una diversa organizzazione del campo di percezione da parte di un occhio condizionato storicamente: < La clinica (…) deve la sua reale importanza al fatto di essere una riorganizzazione in profondità non solo del discorso medico, ma della possibilità stessa del discorso medico. Il ritegno del discorso clinico (proclamato dai medici: rifiuto della teoria, abbandono dei sistemi, non-filosofia) mostra, in segreto, l’inesauribile riserva a partire dalla quale può parlare: la struttura comune che ritaglia e articola ciò che essa vede e dice> (Foucault, Nascita della clinica).
Se ci poniamo dal punto di vista marxiano non possiamo non parlare di produzione dell’oggetto della conoscenza, ovvero della sua specificità d’indagine unica tra teoria e prassi. Come dobbiamo parlare di produzione del metodo di indagine, ovvero della differenza valoriale come presupposto essenziale alla presa di posizione e rifiuto totale dell’indifferenza scientifica. Parlando di produzione intendo specificare che una teoria non è un fenomeno naturale ma è un prodotto storico e come tale vive e cresce nella lotta quotidiana.