Il “purgatorio”- socialismo e il costo-lavoro
feb 28th, 2014 | Di Maurizio Neri | Categoria: Teoria e criticaRiceviamo e pubblichiamo l’Ottavo capitolo del Libro in uscita
“Leggi Economiche Universali e Comunismo”
Autori Roberto Sidoli, Massimo Leoni e Daniele Burgio. Ed. Aurora
CAPITOLO OTTAVO
Il “purgatorio”- socialismo e il costo-lavoro
Non abbiamo certo dimenticato il rapporto che si crea inevitabilmente tra socialismo e LEU, ma tale nesso generale abbisogna di alcune precisazioni preventive, a partire proprio dalla definizione socioproduttiva della fase di sviluppo socialista.
Basato “sulla proprietà comune dei mezzi di produzione” (Marx) come il comunismo sviluppato, il socialismo costituisce il “purgatorio” dei produttori diretti dopo la plurimillenaria esperienza infernale delle società classiste, ivi compreso il capitalismo monopolistico di stato dell’epoca contemporanea, ma non di meno risulta una società ancora distante sotto molti aspetti nei confronti del futuro “paradiso” del comunismo sviluppato: un “paradiso” che comunque conoscerà anch’esso contraddizioni e problemi, quali la morte individuale ed i dolori/sofferenza, le tensioni tra i produttori diretti per decidere “come, cosa e quando” produrre, ecc.
In altri termini, caro Moro, il socialismo va inteso come la fase iniziale ed immatura (=un purgatorio, per l’appunto) del modo di produzione comunista moderno, industriale e post-industriale, come avevi sottolineato nella tua splendida Critica al Programma di Gotha, seppur avendo in comune con lo stadio più avanzato e maturo del comunismo degli elementi fondamentali, quali la proprietà collettiva dei mezzi di produzione e l’assenza di sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Siamo in presenza di una fase evolutiva assai inferiore per molti aspetti al comunismo sviluppato, contraddistinto dalla gratuità tipica della regola gioiosa “a ciascuno secondo i suoi bisogni” come dall’iperabbondanza di forze produttive (a partire dalle conoscenze tecnico-scientifiche umane), dall’abolizione della divisione del lavoro tra gli esseri umani e tra città/campagna, oltre che all’estinzione totale degli apparati statali; la fase socialista risulta invece contraddistinta dalla severa regola distributiva del “a ciascuno secondo il suo lavoro”, dalla derivata presenza dello stato come regolatore del processo di distribuzione di beni ai produttori diretti e dalla scarsità relativa nello sviluppo delle forze produttive.
Il socialismo deve essere inoltre inteso come una possibile tappa di avanzata verso il comunismo sviluppato, ma anche (a determinate condizioni politico-sociali) come punto di possibile ritorno al capitalismo di stato, come avvenne ad esempio all’area geopolitica del disciolto Patto di Varsavia nel 1989/91: si tratta di un “autostrada” che può marciare in due direzioni opposte, in avanti (verso il comunismo) o all’indietro verso la precedente fase del capitalismo di stato, visto che l’effetto di sdoppiamento continua da operare anche nel socialismo ed agirà fino al pieno consolidamento del comunismo sviluppato.[1]
Il socialismo risulta quindi la fase immatura del modo di produzione comunista, ma in ogni caso va inteso come una tappa assolutamente diversa per la sua natura fondamentale del modo di produzione capitalistico, segnato invece dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e del prodotto sociale, del pluslavoro/plusvalore e della condizione della produzione (terra-acqua, ecc.) da parte della borghesia: un sistema socioproduttivo in cui anche nelle zone “più ricche” e all’inizio del terzo millennio, sta dilagando miseria e fame per le masse popolari.
“Adotta un bambino spagnolo”. Proprio come accade coi bimbi dell’Africa, del Biafra, con gli algerini saharawi e persino coi piccoli rom albanesi. Ma nessuno, nemmeno nei tempi di miseria più nera del dopo guerra franchista avrebbe immaginato una campagna del genere per i figli della spagna.
«Non l’avrei mai concepito solo un anno fa, ma è così. E’ questa la nostra situazione, purtroppo», racconta Azzucena Paredes, 30 anni, madrilena, madre di Desiree, di 4 anni, e di due fratellini più piccoli. Sfrattati dopo 20 anni da un alloggio di edilizia popolare e senza lavoro, da novembre sopravvivono grazie agli aiuti da 400 euro al mese, che invia loro una famiglia di Oslo.
Il 24 giugno scorso, il titolo shock sul giornale norvegese VG: “la spagnola, Desiree, 4 anni, è adottata a distanza dal norvegese Sunniva, 10 anni”. Il primo caso, ma non l’unico. Decine di norvegesi stanno contribuendo a sostenere economicamente famiglie spagnole strangolate dalla Grande Crisi, secondo quanto riferiva ieri il quotidiano El Mundo. Nelle ricche democrazie del nord Europa, la tragedia dei nuovi poveri del sud viaggia sui canali tivù.”[2]
Il socialismo costituisce la fase iniziale e imperfetto del modo di produzione comunista moderno, ma in ogni risulta assolutamente diverso per la sua matrice socioproduttiva dal capitalismo monopolistico di stato, da quel devastante capitalismo di stato che si è progressivamente formato a partire dal 1914/18 in tutte le principali metropoli imperialistiche, Stati Uniti inclusi, sempre sotto il segno dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Un capitalismo monopolistico di stato (con l’asse finanza privata/multinazionali private) in cui la grande maggioranza dei mezzi di produzione e dell’attività produttiva, a partire dal decisivo settore finanziario, rimane in ogni caso proprietà privata della borghesia, negli Usa come nella Spagna di Azucena Paredes, nel 1914 come nel 2014. La micro-ondata di nazionalizzazioni del periodo 1944-1970 è stata infatti sommersa ed annientata da una gigantesca contro-ondata di privatizzazioni di portata enorme, da una controdinamica di svendite ai privati in tutto il mondo capitalistico (a partire dal 1973 e fino ad oggi) di larga parte del patrimonio e delle aziende/banche pubbliche: basti pensare che in Italia il governo Monti nel 2012 ha progettato la svendita persino del patrimonio immobiliare pubblico, a partire dai palazzi siti in posizioni strategiche nelle grandi città.
A livello mondiale (con l’esclusione degli Usa, dove la proprietà pubblica era già stata smantellata in gran parte nel 1951/57) si è trattato di un processo concreto e gigantesco di privatizzazioni-svendita di “mezzi e beni pubblici di produzione, che non a caso è stato ignorato da “utili idioti” della borghesia mondiale, quali il comunismo di “sinistra” (formato dai seguaci dei vari Bordiga, Korsch, Pannekoek “Socialismo o barbarie”, ecc.) e dal movimento anarchico.
Un capitalismo di stato nel quale vige inoltre la costante regola del “socialismo dei ricchi”, e cioè il processo di privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite a favore dell’alta borghesia e delle sua proprietà/profitti a favore di azionisti e rentier, in caso di crisi generale/settoriale del processo di accumulazione capitalistico: regola ben illustrata anche dalla crisi epocale del 2007/2009, con le diverse migliaia di miliardi di dollari spesi dagli apparati pubblici al fine esclusivo di salvare dalla bancarotta le banche private e l’alta finanza privata, a partire da Wall Street e dai “liberisti” Stati Uniti di Bush jr./Obama, per difendere il processo di riproduzione socioproduttivo dell’alta borghesia privata e dei grandi azionisti nelle metropoli imperialistiche. Siamo da molti decenni in presenza di una particolare regola del capitalismo di stato, quella della socializzazione delle perdite e della privatizzazione dei profitti, che è stata non a caso ignorata dai comunisti “di sinistra” sopra elencati e dagli anarchici.
Un capitalismo di stato che vede da sempre la collusione e stretta collaborazione tra monopoli e multinazionali da un lato, nomenklature politiche al potere nelle metropoli imperialistiche dall’altro, attraverso meccanismi e dinamiche ben collaudate quali la corruzione diretta/indiretta di leader politici per ottenere appalti e politiche economiche per le grandi imprese, lo scambio personale direttivo tra settore capitalistico e sfera politica (il caso-Monti è solo una tra i tanti…), l’attività continua delle grandi lobby affaristiche verso i (bendisposti) apparati statali, ecc.
Un capitalismo di stato che vede da sempre presente al suo interno il lucroso meccanismo degli “appalti statali/profitti privati”, come si può facilmente verificare attraverso i giganteschi e costanti profitti ottenuti dalle multinazionali private del complesso militar-industriale, a partire dai “liberisti” Usa, oppure dalle aziende private che lavorano nel settore “civile” mediante appalti pubblici, o dalle grandi imprese di costruzione che ottengono profitti/rendite attraverso le lucrose lottizzazioni delle aree edificabili da parte dei poteri pubblici centrali/locali ecc.
È appena il caso di rilevare che il complesso militar-industriale a sua volta mantiene stretti rapporti con l’oligarchia finanziaria. Attorno al 1980 “Il gruppo Morgan, tramite una serie di istituti finanziari e di società (Morgan Guarantee, J. P. Morgan, Bankers Trust ed altri) partecipa al capitale delle compagnie General Dynamics, Du Pont de Nemours, Rayteon, United Technologies, Martin-Marietta, Boeing, Lockheed, Rockwell International e di molte altre. Il gruppo concentrato intorno alla Chase Manhattan Bank ha un notevole pacchetto azionario di Mc Donnell-Douglas, Boeing, United Technologies, Litton Industries, General Dynamics. Il gruppo Rockfeller, attraverso la Chemical Bank, controlla direttamente l’attività della Lockheed, della Litton Industries e di altre. Il gruppo californiano (Bank of America, Security Pacific National Bank) influisce attivamente sulla politica della Rockwell International e della Lockheed e di alcune altri grandi compagnie militar-industriali.
Il gruppo Mellon ha investito grandi capitali nella società Martin-Marietta.
Nella RFT la famiglia Flick e la Dresdner Bank controllano il consorzio militare Flick; la famiglia Merton e tre banche (Deutsche Bank, Dresdner Bank e Commerzbank) controllano la BASF, la Bayer e la Hoeckst; la famiglia Siemens e la Deutsche Bank controllano la Siemens; i Messerschmitt, i Belkow, i Siemens ed altri controllano la compagnia MBB. Di simili esempi se ne possono citare molti, essi esprimono una situazione tipica per molti paesi capitalistici sviluppati.”[3]
Una dinamica reale, quella della collusione tra sfera politica e multinazionali e della stretta alleanza tra oligopoli e stato borghese; un meccanismo reale, quello degli “appalti statali/profitti privati”, non a caso ignorati dal proteiforme comunismo “di sinistra”, deciso a dimenticare che nel reale capitalismo di stato contemporaneo, ivi compresa la formazione economica sociale statunitense, operano ed esistono proprio attraverso il sostegno pubblico le grandi imprese private, a partire dalle multinazionali del settore bellico (Lockeed, General Dynamics, ecc.).[4]
Un capitalismo di stato reale nel quale mantengono un posto di tutto rilievo gli azionisti, ivi compresi gli azionisti di riferimento con grandi pacchetti di titolo di proprietà, le “grandi famiglie” (Agnelli, Walton, ecc.), e le aziende da loro controllate; i grandi proprietari di terre, di miniere e di giacimenti petroliferi, dagli USA fino al Giappone e all’Italia contemporanea: anche questi elementi (reali) socioproduttivi caratterizzano il reale capitalismo di stato, nel 1914 come nel 2013 e lo differenziano simultaneamente dal “purgatorio” del socialismo.
Un capitalismo di stato nel quale le multinazionali private, con azionisti privati, giocano un ruolo centrale e trovano l’appoggio dei loro rispettivi poteri statali attraverso il finanziamento pubblico dei loro programmi di ricerca scientifici, gli incentivi statali alle esportazioni, le garanzie pubbliche sugli investimenti delle multinazionali all’estero ed il sostegno pubblico alla loro azione economica in suolo straniero, attuando una simbiosi (non priva di contraddizioni) tra apparati statali e corporation transnazionali.[5]
Un capitalismo di stato reale che dal 1989 si è rivelato in forma chimicamente pura proprio nei paesi che componevano il disciolto Patto di Varsavia e l’ex Unione Sovietica, apportando con particolare intensità nella Russia di Eltsin. Nazioni nelle quali si è verificato, dopo il 1989/91, un gigantesco processo di privatizzazioni/svendite ai privati dei mezzi di produzione e delle fonti di energia-materie prime, che ha trasformato rapidamente società in precedenza egemonizzate dal socialismo deformato di matrice sovietica (socialismo deformato, ma reale) in un reale e non-deformato capitalismo di stato, in un reale paradiso di ricchi-speculatori e delle multinazionali occidentali che domina da due decenni la zona ex-sovietica in modo quasi incontrastato, oltre che un reale inferno per buona parte degli operai dell’area geopolitica in esame.
Una dinamica reale, quella della svendita alle grandi imprese autoctone e alle multinazionali straniere del patrimonio pubblico dell’ara ex-sovietica (a partire dalla Germania orientale, nel 1990), che purtroppo è stata anche in questo caso ignorata dai soliti comunisti “di sinistra”, incapaci anche solo di chiedersi le ragioni del fenomeno innegabile del riapparire/trionfo della proprietà privata dei mezzi di produzione nel (reale) capitalismo di stato formatosi, dopo il crollo del muro di Berlino, da Lubiana a Vladivostock.
Siamo pertanto in presenza di un insieme combinato di processi reali e indiscutibili ma ignorati volutamente dai vari “comunisti di sinistra”, proprio perché il silenzio su ciascuno di essi serviva/serve sul piano politico agli iper-antagonisti (a parole) per legittimare la definizione di “capitalismo di stato” prima per la Russia sovietica e l’Unione Sovietica, ed in seguito per la Cina di Mao e quella contemporanea del 1977/2013 (con la sua egemonia contrastata del settore pubblico e cooperativo rispetto al reale capitalismo, autoctono o estero, operante dal 1980 nel gigantesco paese asiatico), oltre che per la Cuba socialista di Fidel e Raul Castro; soggettività iper-antagoniste tanto cieche da dimenticarsi che la controriforma liberista, che ha dato forma al reale capitalismo di stato contemporaneo, si è basato subito sul dogma del “privato è bello” e sulla privatizzazione della sfera produttiva pubblica, partendo dal sanguinario prototipo della giunta fascista-liberista di Pinochet, con la sua lotta sanguinosa contro la “via alla schiavitù” socialista.
“Dopo esser arrivato al potere alla testa di una coalizione d’unità popolare nel settembre 1970, il presidente socialista Salvador Allende procede alla nazionalizzazione delle miniere di rame e all’esproprio di una certa quantità di terre, incoraggiando forme di autogestione operaia nelle industrie nazionalizzate. Cadrà tre anni dopo, ad opera di un colpo di Sato militare appoggiato dalla CIA. La dittatura del generale Pinochet costituirà il primo esempio di applicazione nel mondo occidentale di un liberismo allo stato puro. La politica economica viene messa in mano ai “Chicago boys”; la dittatura militare assicura una totale discrezione che consente a questi ultimi di agire indisturbati utilizzando i cileni come topi di laboratorio. Privatizzazioni, restituzione delle terre agli ex proprietari, revisione del diritto del lavoro in senso sistematicamente sfavorevole ai lavoratori, sistema pensionistico consegnato ai fondi pensione privati, equiparazione tra pesos e dollaro: è la festa del mercato e della mitragliatrice. La “scienza economica” ha il suo ruolo: nel 1975, il generale Pinochet nomina ministro dell’economia un laureato dell’Università di Chicago, Sergio de Castro. L’anno dopo, questi eredita il portafoglio delle Finanze, molto più strategico, e consegna il proprio ex ministero a un altro laureato presso la medesima università, Pablo Baraona. La Banca Centrale viene affidata anch’essa ad alcuni ex allievi di Milton Friedman. È comprensibile che i liberali preferiscano attribuire a Margareth Thatcher piuttosto che a un generale golpista la palma di antesignano della loro controrivoluzione. Ma è a Santiago, non a Londra, ed è nel sangue, non nelle urne, che la “via della schiavitù” ha registrato una prima battuta d’arresto”.[6]
Soggettività tanto iperantagoniste da dimenticare che nel reale capitalismo di stato contemporaneo sono diventati oggetti di proprietà privata (privata!) e di sfruttamento capitalistico anche l’acqua ed il DNA, alias la matrice della vita.
“La frontiera che la globalizzazione neoliberista ha varcato è quella della riduzione del vivente a materia prima. Tutto è merce da utilizzare nel processo di accumulazione capitalistica, ovvero da sottoporre a sfruttamento ai fini della valorizzazione del capitale. La vita entra direttamente dentro il processo di accumulazione e di sfruttamento. Lo fa, per esempio, attraverso gli organismi geneticamente modificati e la proprietà dei brevetti da parte delle multinazionali che, grazie a questo strumento di dominio, possono determinare per l’oggi e per il domani la perpetuazione dell’asservimento di intere comunità alle colture imposte. Lo fa attraverso la penetrazione dentro al vivente della sperimentazione e della pratica dello sfruttamento. Lo fa attraverso l’appropria-zione e la mercificazione dei beni elementari e primari per la vita (gli elementi dell’antica filosofia greca: terra, acqua, aria e fuoco)”.[7]
Niente di nuovo sotto al sole, visto che già la Russia sovietica di Lenin, appena sei mesi dopo l’epocale Rivoluzione d’Ottobre era stata del resto subito definita come capitalismo da alcuni “iperantagonsiti” a parole, quali il “marxista” (e menscevico) A. Isuv.
Il “perfido” (come l’ha definito giustamente Lenin) Isuv già nell’aprile del 1918 scrisse infatti che “priva fin dall’inizio di un carattere veramente proletario, la politica del potere dei Soviet si inoltra sempre più apertamente, negli ultimi tempi, sulla via della conciliazione con la borghesia e assume un carattere antioperaio. Sotto la bandiera della nazionalizzazione dell’industria si persegue una politica di impianto di trust industriali, con il pretesto di ricostruire le forze produttive del paese si cerca di abolire la giornata di otto ore, di introdurre il lavoro a cottimo e il sistema Taylor, le liste nere e i fogli di via. Questa politica minaccia di togliere al proletariato le sue principali conquiste nel campo economico e di farne la vittima di uno sfruttamento illimitato da parte della borghesia”.
Sulla scia di Isuv, seppur in buona fede soggettiva, anche Bucharin, ed i comunisti “di sinistra” russi di quel periodo si trasformarono allora in “utili idioti” della borghesia mondiale, sostenendo (solo sei mesi dopo della Rivoluzione d’Ottobre!) che la Russia sovietica si era rivelata come una forma di capitalismo, e non invece una nazione che stava iniziando un reale e durissimo processo di transizione al socialismo (e purgatorio…) reale.
Nella rivista Kommunist, Bucharin a sua volta sottolineò nell’aprile del 1918 che “l’introduzione da parte del potere sovietico della disciplina del lavoro legata alla reintegrazione di capitalisti alla direzione della produzione, mentre non può aumentare sostanzialmente la produttività del lavoro, diminuirà l’iniziativa di classe, l’attività e la capacità organizzativa del proletariato. Essa minaccia di asservire la classe operaia, susciterà il malcontento sia degli strati arretrati che dell’avanguardia del proletariato. Per attuare questo sistema, dato l’odio che regna nei ceti proletari verso i “capitalisti sabotatori”, il partito comunista dovrebbe appoggiarsi sulla piccola borghesia contro gli operai e così suicidarsi come partito del proletariato”
Sul tema – politicamente centrale – della differenza reale tra capitalismo di stato e socialismo (purgatorio-socialismo), si può subito notare chi descrisse e definì in modo comune (come analisi finale) l’Unione Sovietica in termini di capitalismo di stato una “rete” diversificata di personaggi, spesso assai sconosciuti, quali:
- Il fascista/aristocratico Julius Evola;
- Il fascista “di sinistra” N. Bombaci, che straparlava di “capitalcomunismo”;
- Il fascista tout court B. Mussolini;[8]
- Korsch, Pannekoek e Ruhle, per cui il bolscevismo fin dai tempi di Lenin del 1917/23 non era che una variante dello sviluppo capitalistico: O. Ruhle arrivò a dire nel 1939 che il regime sovietico, quale uscito dall’opera di Lenin e Stalin era un regime borghese che era servito come modello al fascismo, per cui “la lotta contro il fascismo deve cominciare dalla lotta contro il bolscevismo”;[9]
- A. Bordiga, dopo il 1955;
- Il liberal-borghese B. Henry-Levy;[10]
- Il borghese A. Ronchey;
- Il borghese A. Voslensky, allo stesso tempo esaltatore indefesso della virtù del capitalismo ed accusatore implacabile delle malefatte del “capitalismo di stato” sovietico, a partire dai “privilegi” materiali goduti da Lenin nel 1917-24.[11]
È soprattutto su questo importante snodo teorico-pratico che anche il “post-marxismo” occidenta-le, magma proteiforme che ha iniziato a formarsi/svilupparsi dall’inizio degli anni Settanta (T. Negri, Deleuze, l’ultimo Althusser, ecc.), si è trasformato quasi sempre in un proiettile anti-marxista, usato carsicamente da molti intellettuali e propagandisti della borghesia mondiale per mandare un chiaro messaggio a tutti i lavoratori, e cioè che non sussiste un alternativa seria al capitalismo. “Guardate non solo come è finito il comunismo, ma anche che al suo interno c’erano (URSS, ecc.) e ci sono tuttora (Cina, Cuba, ecc.) i “padroni rossi”: non è cambiato niente dopo la rivoluzione, e pertanto accettate come minore dei mali il “libero mercato” di matrice occidentale, senza sognare (non parliamo poi di “fare”) rivoluzioni, che parrebbero solo alla creazione di una nuova casta di padroni, seppur verniciata di rosso”.[12]
Ma torniamo all’algida sfera economico-produttiva, per esaminare l’azione della legge del costo-lavoro all’interno del processo di produzione/riproduzione nel socialismo (il suo carattere di “purgatorio” imperfetto, specie se messo a confronto con il “paradiso” del comunismo sviluppato, costituisce ovviamente uno dei punti di forza oggettivi del comunismo “di sinistra” contro il socialismo concreto e reale, in carne e ossa.
Usando la categoria (modificata) del valore, caro Moro, nella tua splendida Critica al programma di Gotha avevi notato rispetto alla “società comunista” (termine da te impiegato anche per la fase immatura di sviluppo del modo di produzione comunista, e cioè il socialismo-purgatorio) che dal suo “prodotto sociale complessivo” si dovranno effettuare alcune, “detrazioni”, prima di ottenere la quota di prodotto sociale invece a disposizione per il fondo di consumo dei suoi consociati (anche non produttori diretti: vecchi, bambini, inabili al lavoro).
Dopo aver criticato alcune (scorrette) tesi relative alla “giusta ripartizione del prodotto sociale e “frutto del lavoro”, indicasti che nel socialismo (come nel comunismo sviluppato) vi sarebbe stato un “prodotto sociale complessivo”, e che esso a sua volta sarebbe stato l’autentico “frutto del lavoro sociale” combinato con l’azione gratuita di sostegno della Natura.
Emerge pertanto una precisa relazione dialettica, e cioè che il “lavoro sociale” determina la produzione/riproduzione continua del “prodotto sociale complessivo” anche nel socialismo, come nel comunismo primitivo ed in quello sviluppato: siamo in pieno regno sia della legge universale dell’indispensabilità del lavoro umano che dia quella del costo-lavoro, visto che alla “società collettivistica” (Marx) il “prodotto sociale complessivo” comporta e costa solo erogazione di lavoro, risultando il contributo della Natura gratuito sotto tuti gli aspetti.
Ma non solo. Sempre nella Critica al programma di Gotha avevi fatto riferimento anche al costo-lavoro “indiretto”, caro Marx, e più precisamente alla vincolante necessità (pena la progressiva autodistruzione della società collettivistica, non solo sul piano produttivo) di destinare una parte del “prodotto sociale complessivo” (del costo-lavoro in esso contenuto…) per creare-riprodurre un fondo di ammortamento (“per reintegrare i mezzi di produzione consumati”) e di accumulazione: siamo sempre dentro nel regno del “costo-lavoro” e del calcolo/“contabilità” (Marx) del costo-lavoro nel processo di produzione del socialismo, all’interno del “purgatorio”-socialismo ed in una società collettivistica.
Ma leggiamo con attenzione il tuo lucido ragionamento, caro Moro.
“Che cosa è “frutto del lavoro”? Il prodotto del lavoro o il suo valore? E, nell’ultimo caso, il valore complessivo del prodotto o solo quella parte di valore, che il lavoro ha aggiunto al valore dei mezzi di produzione consumati?
“Frutto del lavoro” è una rappresentazione vaga, che Lassalle ha messo al posto di concetti economici determinati.
Che cosa è “giusta ripartizione”?
Non affermano i borghesi che l’odierna ripartizione è “giusta”? E non è essa in realtà l’unica ripartizione “giusta” sulla base dell’odierno modo di produzione? Sono i rapporti economici regolati da concetti giuridici oppure non sgorgano, al contrario, i rapporti giuridici da quelli economici? Non hanno forse i membri delle sette socialiste le più diverse concezioni della “giusta” ripartizione?
Per sapere che cosa si deve intendere in questo caso sotto la frase “giusta ripartizione”, dobbiamo confrontare il primo paragrafo con questo. Quest’ultimo paragrafo suppone una società in cui “i mezzi di lavoro sono proprietà comune e il lavoro complessivo è organizzato su una base collettiva”, mentre nel primo paragrafo vediamo che “il frutto del lavoro appartiene integralmente a ugual diritto, a tutti i membri della società”.
A tutti i membri della società? Anche quelli che non lavorano? E dove se ne va allora il “frutto integrale del lavoro”? Solo ai membri della società che lavorano? E dove se ne va allora, “l’ugual diritto” di tutti i membri della società?
Ma “tutti i membri della società” e “l’ugual diritto” sono evidentemente solo modi di dire. Il nocciolo sta in questo, che in questa società comunista ogni operaio deve ricevere un lassalliano “frutto del lavoro” “integrale”.
Se prendiamo la parola “frutto del lavoro” nel senso del prodotto del lavoro, il frutto del lavoro sociale è il prodotto sociale complessivo.
Ma da questo si deve detrarre:
Primo: quel che occorre per reintegrare i mezzi di produzione consumati.
Secondo: un parte supplementare per l’estensione della produzione.
Terzo: un fondo di riserva o di assicurazioni contro infortuni, danni causati dagli avvenimenti naturali, ecc. queste detrazioni dal “frutto integrale del lavoro” sono una necessità economica, e la loro entità deve essere determinata in parte con un calcolo di probabilità in base ai mezzi e alle forze presenti, ma non si possono in alcun modo calcolare in base alla giustizia.
Rimane l’altra parte del prodotto complessivo, destinata a servire come mezzo di consumo.
Prima di venire alla ripartizione individuale, anche qui bisogna detrarre:
Primo: le spese d’amministrazione generale che non rientrano nella produzione.
Questa parte è ridotta fin dall’inizio nel modo più notevole rispetto alla società attuale e ridurrà nella misura in cui la nuova società si verrà sviluppando (=il comunismo sviluppato, per l’appunto).
Secondo: ciò che è destinato alla soddisfazione dei bisogni sociali, come scuole, istituzioni sanitarie, ecc.
Questa parte aumenta sin dall’inizio notevolmente rispetto alla società attuale e aumenterà nella misura in cui la nuova società si verrà sviluppando.
Terzo: un fondo per gli inabili al lavoro, ecc., in breve, ciò che oggi appartiene alla cosiddetta assistenza ufficiale dei poveri”.[13]
Partendo dai solidi presupposti per cui il socialismo-comunismo si basa sulla “proprietà comune” dei mezzi di produzione, e che i produttori diretti risultano sicuramente “gli uomini il cui faticoso lavoro crea ogni cosa, dalle gigantesche macchine ai giocattoli per i bambini”, (M. Gorkij), Marx indicò la “stella polare” da cui partire per l’analisi del socialismo: “il prodotto sociale complessivo” disponibile.[14]
Dal passo sopracitato del “Moro” oltre che dalla concreta pratica storica, dopo il 1917 e l’Ottobre Rosso sovietica, non si può non dedurre innanzitutto come non solo nel comunismo primitivo e in quello sviluppato, ma anche nel socialismo l’unico elemento che costano alla società i diversi oggetti d’uso è il lavoro: una banale/sicura verità in parte compresa da Stalin in un suo scritto del 1952, quando notò l’importanza e la positività all’interno del socialismo di fattori quali “la gestione redditizia, il costo sociale di produzione, i prezzi”.[15]
Anche Che Guevara, nel giugno del 1963, sottolineò l’importanza dei “costi di produzione” all’interno dell’economia socialista cubana, rilevando che “è necessario elaborare un sistema di analisi dei costi che premi sistematicamente e punisca con uguale sistematicità i successi e gli insuccessi nella lotta per ridurli.
È anche necessario elaborare norme sul consumo delle materie prime, sulle spese indirette, sui prodotti in lavorazione, sugli inventari delle materie prime e dei prodotti finiti. Bisogna rendere sistematico il controllo degli inventari e fare un lavoro economico preciso su tutti questi indici, in un costante processo di rinnovamento.
Nel nostro sistema di contabilità, abbiamo diviso i costi in: costi delle materie prime e dei materiali diretti, costi dei materiali indiretti, costo della forza lavoro, costo del deprezzamento” (ammortamento) “e della previdenza sociale, che è il contributo delle imprese statali misurato in funzione del fondo salari.
Bisogna agire su tutti e su ciascuno degli elementi indicati, tranne sull’imposta di previdenza sociale […].
Nell’ambito delle materie prime e dei materiali di diretto consumo si può agire facendo dei risparmi diretti, introducendo dei cambiamenti tecnologici ed evitando gli sprechi. Nei materiali indiretti si può risparmiare diminuendo il consumo di elettricità, di combustibile, ecc.[16]
Sempre partendo dalla “stella polare” del prodotto sociale complessivo, caro Moro, avevi ben delineato tutta una serie di “detrazioni”, che si basano giustamente sul calcolo/contabilità relativa al costo-lavoro (o valore se si preferisce) dei vari “fondi” da detrarre al prodotto sociale complessivo: a partire ovviamente dal fondo per il logorìo-usura dei mezzi di produzione via via consumati nel processo produttivo (“quel che occorre per reintegrare i mezzi di produzione consumati” in termini di costo-lavoro, secondo le regole e proporzioni delineate in precedenza) e del fondo di accumulazione socialista (la “parte supplementare per l’estensione della produzione”), sempre collegato al costo-lavoro socialmente necessario per effettuare i nuovi investimenti produttivi, e per creare i nuovi mezzi di produzione, materie prime e fondi di consumo destinati alla forza-lavoro. Pertanto il processo di calcolo del costo-lavoro delle “detrazioni” in oggetto ed il processo di riproduzione delle forze produttive, anche durante la prima ed immatura fase di sviluppo della “società comunista” (Marx), marciano di pari passo costituendo una coppia dialettica indissolubile.
Ma non solo. Almeno fin dal 1943 in Unione Sovietica era stato riconosciuto il fatto evidente (e quasi banale) che collegava i costi dei diversi oggetti d’uso nella società socialista (ed i loro prezzi) “ai costi socialmente necessari della loro produzione” (=costo-lavoro) anche se definendo in modo erroneo come “merci” tali oggetti e rilevando (invece in modo corretto) che la società socialista poteva stabilire per via politica (=i “prezzi politici”) certe “deviazioni” dal costo-lavoro per alcuni beni di cui si appropriavano i produttori diretti, in base alla quantità/qualità del lavoro da essi erogato.[17]
Risulta dunque inevitabile che il costo-lavoro dei diversi oggetti, ivi compresi i mezzi di produzione, e la loro contabilità giochino un ruolo assai importante rispetto a tale “segmento di pratica produttiva della società socialista, nella quale serve/servirà conoscere con esattezza sia il tempo di lavoro disponibile per l’attività produttiva che per le proporzioni in cui essa si distribuisce all’interno del processo di riproduzione dei diversi valori d’uso, creati via via nella “società collettivistica” (Marx, Critica al Programma di Gotha); in cui serve/servirà conoscere in modo preventivo i “mezzi e le forze presunte” (Marx) in campo produttivo a disposizione della “nuova società” per riprodurre sia i mezzi di consumo che i mezzi di produzione.
Nulla vieta alla società socialista di applicare “prezzi politici” su alcuni beni, ma non certo su tutti o su una loro parte maggioritaria, se non pagando la “penitenza” di prosciugare simultaneamente il fondo destinato all’accumulazione-ammortamento, oppure di aumentare il costo di altri beni per compensare i prezzi politici.
Teoria del costo-lavoro che, seppur in forma implicita, sta alla base anche di importanti conquiste teoriche degli economisti sovietici sulla pianificazione/calcolo del processo produttivo, quali ad esempio:
- Il bilancio materiale, da intendersi come un insieme dialettico di input produttivi;
- Il metodo delle interdipendenze settoriali (metodo input-output) elaborato dagli economisti sovietici P. I. Popov e M. Barengolts, in cui si raggiunge un equilibrio tra i vari settori con proporzioni ricavabili empiricamente da una matrice di coefficienti produttivi intersettoriali, presupposto un fattore primario (=il lavoro) che non è a sua volta prodotto;
- La programmazione lineare statica di L. Kantorovich (1939), e cioè la costruzione di matrici di equazioni lineari da cui si estraevano le soluzioni ottimali in termini di distribuzione delle risorse;
- Il modello dinamico di programmazione lineare, sempre di L. Kantorovich (1959);
- La teoria del controllo ottimale elaborata dal matematico sovietico Pontryagin;
- Il modello di sviluppo di Feld’man nel (1928), che partendo da alcune rigide premesse produttive definiva il tasso di investimento determinato dalla dimensione/sviluppo del settore A, destinato alla produzione di mezzi di produzione.[18]
Si tratta di un insieme di gioielli teorici e pratici che partono proprio anche dalla teoria del costo-lavoro come loro base, assieme alla co-presenza dialettica del meccanismo di pianificazione sovietica.
Ad esempio gli economisti sovietici utilizzarono con successo la categoria di produttività netta al fine di determinare la redditività degli impianti produttivi, indicando con tale termine la produttività di un impianto importante e di un determinato periodo di tempo, meno il costo iniziale necessario per ottenerla espresso in rapporto al costo di costruzione dell’impianto, anch’esso calcolato in termini di costi correnti dei salari e dei materiali impiegati nella costruzione.
Come ha notato M. Dobb, gli economisti marginalisti “in passato hanno generalmente sostenuto che la distribuzione del capitale tra le industrie, la quale comporta le decisioni attorno al numero, al tipo e alle dimensioni di ogni singolo impianto, potrebbe essere organizzata “razionalmente” (in modo, cioè, da tradurre in termini di produzione totale il massimo possibile delle riserve investite) solo nel caso in cui esista un meccanismo del quale la produttività anticipata in ogni impiego possa essere paragonata con il costo delle riserve, quando il “costo” sia calcolato in modo da riflettere la massima produttività potenziale di quelle riserve secondo le diverse possibilità d’investimento. È stato sostenuto che, perché ciò sia possibile, queste riserve di capitale (per es., macchinario o materiale da costruzione) debbono essere valutate non solo in base al complesso della forza-lavoro (valutata al prezzo dei salari correnti), direttamente o indirettamente impiegata nella loro produzione, ma in base ad una speciale “costo del capitale” calcolo come una specie di saggio d’interesse esprimente il rapporto tra la “scarsità” del complesso delle riserve di capitale disponibili per l’investimento e la somma dei loro usi potenziali (valutati secondo la loro produttività potenziale in questi usi).
Questa tuttavia non sembra essere una conseguenza inevitabile, anche se la situazione economica e i problemi che essa coinvolge hanno il carattere che gli economisti di solito hanno ad essi attribuito. Ove siano disponibili i dati concernenti la produttività dei diversi investimenti progettati e i relativi costi di impianto (espressi in base ai costi primari delle costruzioni, dei materiali e delle attrezzature occorrenti), esisterà una base per calcolare la produttività netta di ciascun progetto e per stabilire una successione di priorità nei progetti, in ragione del loro relativo rendimento. Una volta precisate tali priorità (che, naturalmente, non possono essere decise solamente in base alle considerazioni concernenti la produttività calcolate, il problema della distribuzione può essere risolto seguendo la successione delle priorità fino ad esaurimento delle risorse previste per gli investimenti in quel periodo. Procedendo con tale metodo, nessun progetto con prospettive di rendimento minori sarà preferito ad uno con prospettive di rendimento maggiori: al tempo stesso saranno state rispettate le condizioni per la sua più efficace utilizzazione delle risorse disponibili.[19]
Passiamo a questo punto al processo di distribuzione/consumo all’interno della società collettivistica, notando subito che siamo in presenza di una società al cui interno lo sviluppo delle forze produttive risulta ancora limitato (relativamente) e tale da non poter garantire il soddisfacimento dei bisogni umani secondo la regola della gratuità del consumo, in base alla regola comunista/sviluppata del “a ciascuno secondo i suoi bisogni”.
Pertanto nel socialismo-purgatorio si assiste al processo di riproduzione continua di una contraddizione fondamentale, tra l’alto (positivamente alto) livello di sviluppo già raggiunto dai bisogni sociali (materiali e culturali, bisogni soddisfatti in modo individuale e collettivo) e il basso (purtroppo ancora limitato, scarso ed insufficiente) grado di sviluppo delle forze produttive sociali destinate a soddisfarlo: una tensione e scarto di valore generale che può anche assumere un carattere antagonista, sia a livello teorico che pratico (Kronstadt 1921, ecc.).
Ma non solo: un’ulteriore contraddizione (secondaria ma di un certo peso) all’interno della dinamica del purgatorio-socialismo consiste nella parziale tensione tra l’aumento del soddisfaci-mento dei bisogni materiali-culturali dei prodotti diretti da un lato, e l’incremento del loro tempo libero con la riduzione progressiva dell’orario di lavoro: a parità di condizioni quest’ultimo elemento risulta in contraddizione con il primo, visto che se si lavora di meno diminuisce simultaneamente la qualità dei mezzi di consumo a disposizione della società collettivistica e dei suoi produttori.
Dati questi presupposti e condizioni materiali, la migliore forma di distribuzione del prodotto sociale all’interno di una società socialista diventa quella effettuata attraverso il tempo di lavoro erogato in base alla sua durata, intensità (e qualifica), dai diversi produttori diretti, una volta effettuate le “detrazioni” sopra esaminate: “a ciascuno secondo il suo lavoro”, in estrema sintesi.
Tot erogazione di tempo di lavoro, tot. quantità di mezzo di consumo acquisiti/consumabili dai singoli produttori diretti all’interno del socialismo-purgatorio, sempre dopo avere effettuato le detrazioni sopra indicate dal “prodotto sociale complessivo”: questo è il criterio ottimale per il processo di distribuzione nel socialismo-purgatorio dei mezzi di consumo individuali, a giudizio di Marx.
Si tratta di una regola generale basata su uno scambio (tra produttori diretti e società collettivisti-ca) di lavori uguali e costi-lavoro eguali, sull’uguaglianza tra il lavoro in entrata (=l’erogazione di una determinata quantità di tempo-lavoro da parte dei produttori diretti) da una parte, ed il lavoro in uscita e l’output dall’altra (=il tempo di lavoro necessario per produrre i mezzi di consumo attribuiti ed acquisiti da parte dei produttori diretti), sempre dopo avere effettuato le “detrazioni” di cui sopra.
Lavoro e costo-lavoro, in entrata e uscita.
Si tratta in ogni caso di un processo continuo di scambio tra equivalenti, ma non di un processo scambio di merci: e del resto proprio il tuo amico Engels aveva rilevato giustamente che “la produzione di merci non è affatto la forma esclusiva di produzione sociale”.[20]
Sotto questo profilo, caro Marx, avevi sottolineato giustamente nella “Critica al Programma di Gotha” che se nel socialismo-purgatorio ed “all’interno della società collettivistica vige la regola della distribuzione secondo il lavoro erogato, dall’altra parte niente può diventare proprietà dell’individuo all’infuori dei mezzi di consumo individuali”.
A questo punto esaminiamo il lungo passo della “Critica al Programma di Gotha”, in cui si descrive una particolare manifestazione della legge universale del costo-lavoro (“la stessa quantità di lavoro che egli ha dato alla società in una forma, la riceve in un’altra”) che domina la distribuzione dei mezzi di consumo nel socialismo.
“All’interno della società collettivista, basata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, i produttori non scambiano i loro prodotti; tanto meno il lavoro trasformato in prodotti appare qui come valore di questi prodotti, come una proprietà reale da essi posseduta, poiché ora, in contrapposte alla società capitalistica, i lavori individuali non diventano più parti costitutive del lavoro complessivo attraverso un processo indiretto, ma in modo diretto. L’espressione “frutto del lavoro”, che anche oggi è da respingere a causa della sua ambiguità, perde così ogni senso.
Quella con cui abbiamo da far qui, è una società comunista, non come si è sviluppata sulla sua prima base, ma viceversa, come sorge dalla società capitalistica; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le impronte materne della vecchia società dal cui seno essa è uscita. Perciò il prodotto singolo riceve – dopo le detrazioni – esattamente ciò che dà. Ciò che egli ha dato alla società è la sua quantità individuale di lavoro. Per esempio: la giornata di lavoro sociale consta della somma delle ore di lavoro individuale; il tempo di lavoro individuale del singolo produttore è la parte della giornata di lavoro sociale conferita da lui, la sua partecipazione alla giornata di lavoro sociale. Egli riceve dalla società uno scontrino di cui risulta che egli ha prestato lavoro (dopo la detrazione del suo lavoro per i fondi comuni), e con questo scontrino egli ritira dal fondo sociale tanti mezzi di consumo quanto equivale a un lavoro corrispondente. La stessa quantità di lavoro che egli ha dato alla società in una forma, la riceve in un’altra.
Domina qui evidentemente lo stesso principio che regola lo scambio delle merci, in quanto è scambio di valori uguali. Contenuto e forma sono mutati, perché nella nuova situazione nessuno può dare niente all’infuori del suo lavoro, e perché dall’altra parte niente può diventare proprietà dell’individuo all’infuori dei mezzi di consumo individuali. Ma per ciò che riguarda la ripartizione di questi ultimi tra i singoli produttori, domina lo stesso principio che nello scambio di merci equivalenti: si scambia una quantità di lavoro in una forma, contro un’eguale quantità in un’altra.
L’uguale diritto è qui perciò sempre, secondo il principio, diritto borghese, benché principio e pratica non si accapiglino più, mentre l’equivalenza delle cose scambiate nello scambio di merci esiste solo nella media, non per il caso singolo.
Nonostante questo processo, questo ugual diritto è ancor sempre contenuto entro un limite borghese. Il diritto dei produttori è proporzionale alle loro prestazioni di lavoro, l’uguaglianza consiste nel fatto che esso viene misurato con una misura uguale, il lavoro.
Ma l’uno è fisicamente o moralmente superiore all’altro, e fornisce quindi nello stesso tempo più lavoro, oppure può lavorare durante un tempo più lungo; e il lavoro, per servire come misura, dev’essere determinato secondo la durata o l’intensità, altrimenti cessa di essere misura. Questo diritto uguale è un diritto disuguale, per lavoro disuguale. Esso non riconosce nessuna distinzione di classe, perché ognuno è soltanto operaio come tutti gli altri, ma riconosce tacitamente l’ineguale attitudine individuale e quindi la capacità di rendimento come privilegi naturali. Esso è perciò, per suo contenuto, un diritto della disuguaglianza, come ogni diritto. Il diritto può consistere soltanto, per sua natura, nell’applicazione di un eguale misura; ma gli individui disuguali (e non sarebbero individui diversi se non fossero disuguali) sono misurabili con uguale misura solo in quanto vengono sottomessi a un uguale punto di vista, in quanto vengono considerati soltanto secondo un lato determinato: per esempio in questo caso, soltanto come operai, e si vede in loro soltanto questo, prescindendo da ogni altra cosa. Inoltre: un operaio è ammogliato, l’altro no; uno ha più figli dell’altro, ecc. ecc. Supposti uguali il rendimento e quindi la partecipazione al fondo di consumo sociale, l’uno riceve dunque più dell’altro, l’uno è più ricco dell’altro e così via. Per evitare tutti questi inconvenienti, il diritto, invece di essere uguale, dovrebbe essere diseguale.
Ma questi inconvenienti sono inevitabili nella prima fase della società comunista quale è uscita dopo i lunghi travagli del parto della società capitalistica. Il diritto non può essere mai più elevato della configurazione economica e dello sviluppo culturale da essa condizionato, della società”.[21]
Lavoro e costo-lavoro pertanto contraddistinguono il “particolare ed egualitario” “scambio di equivalenti” dentro “la società collettivistica” (Marx).
La regola generale dello “scambio di equivalenti” (sempre presupponendo ed effettuando prima le “detrazioni”) sussistente tra produttori diretti e società socialista (“scambia una quantità di lavoro in una forma, contro un’uguale quantità in un’altra”) solleva subito alcune questioni importanti, da risolvere in modo preventivo anche per evitare inutili equivoci.
Innanzitutto la teoria del costo-lavoro si dimostra uno schema esplicativo che permette di comprendere tale “scambio” particolare, diverso da quello che avviene nelle società classiste: uno scambio in cui la forza-lavoro non diventa merce ed al cui interno “si scambia una quantità di lavoro in una forma contro un uguale quantità in un’altra” (Marx), uno scambio particolare che assomiglia allo scambio di merci ma è quantitativamente diverso da esso elemento non compreso da Stalin nel 1952.[22]
Il criterio generale (“la misura uguale, il lavoro”) in via d’esposizione non costituisce inoltre l’unica regola applicabile ad una società socialista, venendo infatti affiancato da quello alternativo dell’egualitarismo materiale, ben diverso dall’“uguale diritto” alla stessa quantità di mezzi di consumo se si è in presenza di un uguale contributo materiale: in altri termini, la regola “a tutti la stessa quantità di mezzi di consumo”, rappresenta un’opzione diversa da quella proposta invece da Marx per il processo di distribuzione/consumo all’interno del socialismo-purgatorio.
A nostro avviso il criterio dell’egualitarismo materiale non va solo contro al pensiero marxiano, per il quale cui se un produttore diretto “fornisce quindi nello stesso tempo più lavoro, oppure può lavorare durante un tempo più lungo” ha diritto sicuramente, ad ottenere una quantità maggiore di mezzi di consumo del lavoratore invece meno abile o resistente, ma soprattutto presenta due gravi inconvenienti.
In primo luogo tale regola di ridistribuzione del prodotto sociale risulta sicuramente ugualitaria, ma certo non basata su una reale “giustizia”: se ad esempio un produttore diretto, lavorando otto ore a parità di qualifica, ottiene la stessa quantità di mezzi di consumo e la stessa “retribuzione” di un suo collega, che lavora invece con un’intensità doppia del primo, il “senso comune” di gran parte della forza-lavoro del passato/presente/futuro riterrà non conforme a giustizia tale distribuzione, l’egualitarismo materiale, inoltre favorirebbe direttamente il disinteresse per la produzione sociale nel socialismo, scoraggiando come minimo buona parte della spinta collettiva a lavorare meglio e più intensamente, a raggiungere una qualifica superiore autocreandosi una forza-lavoro “complessa” in senso marxiano.
L’esperienza concreta ed ormai secolare dei paesi egemonizzati dal socialismo deformato non lascia spazio ad alcun dubbio in proposito, tanto che Raul Castro – divenuto dal luglio 2006 il leader di una delle nazioni socialiste che per più tempo ha tollerato l’ugualitarismo de facto nelle retribuzioni – ha sottolineato nel corso di un suo discorso dell’11 luglio 2008 che “socialismo significa giustizia sociale ed eguaglianza, ma eguaglianza dei diritti e delle opportunità e non dei salari”, rilevando con realismo che a Cuba “si lavora poco, si lavora sempre di meno: scusate la crudezza delle mie parole.”[23]
Si tratta di un problema annoso e che risale già agli anni Sessanta, come venne testimoniato anche da economisti simpatizzanti per la Rivoluzione quali gli statunitensi L. Huberman e P. M. Sweerzy, che già allora notarono che l’assenteismo sul lavoro costituiva un fenomeno diffuso sull’isola.[24]
Purtroppo l’esperienza storica pluridecennale delle società collettivistiche ha mostrato come il parassitismo (effettuato da pseudo-lavoratori ai danni dei veri lavoratori) non costituisca solo un fenomeno assai diffuso in Natura e vantaggioso per la riproduzione degli organismi parassitari, ma diffuso anche nel socialismo-purgatorio, se lasciato libero di diffondersi senza forti e costanti controtendenze: le secche parole di Raul Castro pertanto erano basate su un processo concreto di distribuzione del prodotto sociale a Cuba chiaramente viziato da errori, a partire dall’incompren-sione del messaggio marxiano “anti-egualitario” del 1875.
“Perché lavorare più intensamente, perché ottenere una migliore qualifica professionale”, chiederebbe subito gran parte dei produttori diretti del socialismo, “se tanto otteniamo proprio in termini di mezzi consumo proprio come i nostri colleghi pigri e/o non qualificati? Proprio per senso di giustizia, d’ora in poi anche noi ci adegueremo al loro stesso livello, lavorando anche noi il meno possibile: tutti uguali non solo nei consumi, ma anche nell’intensità/qualificazione reale del lavoro.”
Terza precisazione: la distribuzione di matrice socialista secondo il lavoro erogato non va confusa con la legge del costo-lavoro, che attribuisce invece ai produttori diretti delle società classiste solo la quantità di mezzi di consumo socialmente necessari per la riproduzione (dignitosa, nei casi migliori, stentata e precaria, di regola) della loro forza-lavoro e delle loro famiglie.
In uno scenario relativamente favorevole, la regola del “a ciascuno secondo il suo lavoro” produce effetti assai positivi per i lavoratori del purgatorio-socialismo.
Se ad esempio i produttori diretti erogassero alla società collettivistica una quantità di lavoro (collegato ad un determinato grado medio di produttività del lavoro sociale) in grado di produrre una quantità globale di mezzi di consumo doppia rispetto a quella invece necessaria per una riproduzione dignitosa ed umana della loro forza-lavoro, essi otterrebbero una quantità di mezzi di consumo doppia, rispetto a quella necessaria per il soddisfacimento umano e di “buona qualità” (Marx) dei loro bisogni materiali-culturali.
Se erogassero invece il triplo del costo (dignitoso, umano e di “buona qualità”) della riproduzione della forza-lavoro, otterranno a loro volta invece una quantità tripla di quella necessaria, e così via senza limiti e “tetti” invalicabili (consideriamo come già effettuate le “detrazioni” marxiane del 1875, astraendoci pertanto dal calcolo del costo-lavoro necessario al fine di riprodurre i fondi di ammortamento, di accumulazione e di riserva).
Ma purtroppo esiste anche la “variante negativa”, nello schema proposto.
Un grave problema si può infatti porre nel caso di una società collettivistica uscita rovinata dalla guerra civile, con un basso livello di sviluppo delle forze produttive sociali già nel periodo pre-rivoluzionario, ed in sovrappiù gravata dalla pesante “detrazione” creata dalla necessità di mantenere un numeroso e costoso esercito per difendersi dalla minaccia di aggressione dal campo capitalistico, in assenza di una rivoluzione socialista mondiale.
Chiamiamo tale società collettivistica con un nome di fantasia, diciamo… Russia sovietica/Unione Sovietica, diretta da un leader (ipotetico) di nome Lenin.
Chiamiamo la società classista pre-rivoluzionaria Russia zarista.
Denominiamo il protagonista della costosa “detrazione” di matrice militare con il titolo (glorioso) di Armata Rossa.
Ipotizziamo che il quadro temporale per questa simulazione sia stato il 1921.
Cosa sarebbe potuto succedere in tale scenario ipotetico e fantasioso, rispetto al processo di distribuzione del prodotto sociale nel “purgatorio” del socialismo?
Immaginiamo che i produttori diretti della società collettivistica avessero erogato globalmente un prodotto sociale complessivo pari a 100, diciamo otto volte meno della più avanzata potenza capitalistica a cui diamo il nome USA; e che, effettuate le “detrazioni” di marxiana memoria con l’aggiunta di quella di matrice militare, avessero raggiunto solo una quota ipotetica di 40 come quantità globale di mezzi di consumo disponibili, assai sotto alla quota di cento invece necessaria per una remunerazione dignitosa, umana e di “buona qualità” (Marx) della loro forza-lavoro. Risulta subito chiaro che avremmo un problema gigantesco, anche se “ipotetico”, quando il produttore diretto nel socialismo ottiene solo il 40% dei mezzi di consumo invece necessari per un esistenza e un limite di consumi dignitosi.
Ma immaginiamoci anche, rispetto alla forza-lavoro operante negli (ipotetici) USA, che essa avesse invece ottenuto una quota pari a 160 come quantità globale di mezzi di consumo disponibili, supponendo come pari numero alla Russia sovietica per produttori diretti e “detratto” lo sfruttamento capitalistico.
Logica conseguenza della nostra “simulazione”, nel 1921 la forza-lavoro degli USA avrebbe ottenuto una retribuzione reale superiore di ben quattro volte rispetto ai “colleghi” sovietici, nonostante che questi ultimi lavorassero e vivessero in ambito collettivistico. E subito chiaro che avremmo un secondo e gigantesco problema, anche se solo “ipotetico”.
Anche in base ad una delle LEU analizzate nel primo capitolo, non si può infatti consumare quello che non si è prodotto (o non hanno prodotto altri) in precedenza: i produttori diretti dell’ipotetica Russia sovietica del 1921 non solo non avrebbero ottenuto la quantità di mezzi di consumo necessari per una vita dignitosa, umana e di “buona qualità”, ma anche vedrebbero gli operai degli ipotetici USA vantare un tenore di vita materiale superiore al loro di ben quattro volte. In altri termini, anche se non sfruttati i produttori diretti dell’ipotetica Russia sovietica starebbero assai peggio dei “colleghi” statunitensi del 1921, a dispetto della regola socialista di distribuzione fondata sul “a ciascuno secondo il suo lavoro”.
Le conseguenze politico-sociali di questo ipotetico scenario?
I lavoratori-sfruttati degli ipotetici USA del 1921 aderirebbero e sceglierebbero il capitalismo nella loro grande maggioranza, dato che tale sistema socioproduttivo garantirebbe loro un potere d’acquisto reale superiore di quattro volte rispetto ai loro colleghi socialisti della Russia sovietica. “Bel socialismo della miseria/fame, che avete creato con la vostra grande rivoluzione socialista”, esclamerebbe la “voce operaia” americana nei confronti dell’esperienza dei produttori diretti sovietici.
A loro volta questi ultimi potrebbero invece ribellarsi alle loro miserie (anche se non dovute a sfruttamento) condizioni di vita, ipotizziamo anche con un’insurrezione armata nella (immaginaria) base operaia e navale di Kronstadt, con uno sciopero (quasi) generale nella Pietrogrado del febbraio 1921, ecc.
Terza (e marginale) conseguenza, i comunisti “di sinistra” potrebbero sostenere che nell’ipotetica Russia sovietica non si sarebbe certo realizzato il socialismo, ma solo una forma particolare di capitalismo di stato…
In ogni caso, tranquilli compagni: si è trattato solo di uno scenario ipotetico e fantasioso, di una simulazione socioeconomica frutto solo della nostra fantasia. Oppure forse era la realtà, nel tremendo scenario socioproduttivo sovietico del 1921, ben vivo ed operante Lenin? Il grande storico notò che “la situazione della Russia del 1917 era caratterizzata da un reddito nazionale pro capite molto esigua e da un basso tenore di vita a causa del basso livello della produttività del lavoro. Una tale situazione, a sua volta, dipendeva dal fatto che l’industria era scarsamente sviluppata, mentre la grande maggioranza della popolazione era dedita ai lavori della terra e soprattutto a quei tipi di colture che hanno un basso rendimento in relazione alla manodopera impiegata e alla estensione della superficie coltivata. Al basso rendimento di un’agricoltura ancora allo stato primitivo si aggiunge la sovrappopolazione rurale: eccesso di popolazione in rapporto all’estensione delle aree coltivate e ai mezzi di produzione a disposizione dei coltivatori. In particolare l’industria pesante era scarsamente sviluppata, e la sua passata espansione si era strettamente limitata alle esigenze delle costruzioni ferroviarie.”
Sempre Dobb notò che già durante la seconda metà del 1920 nella Russia sovietica, ben vivo e operante Lenin, all’ottavo congresso dei Soviet “i delegati contadini avevano già avanzato le loro lagnanze; uno di essi per esempio si lamentò dei funzionari e dei comitati dei quali «ne esistono in una sola volost tanti quanti sono le famiglie. Se i comitati fossero messi uno sull’altro, probabil-mente raggiungerebbero il cielo. Essi se ne stanno sul collo indurito del contadino che lavora, le cui gambe vacillano, e presto lo faranno cadere».
Mentre queste parole venivano pronunciate, nelle regioni del Volga e della Siberia occidentale, stava diffondendosi una catena di sollevazioni contadine; contemporaneamente nel governatorato di Tambov e a Saratov i funzionari incaricati della raccolta di viveri venivano assaliti, torturati e uccisi.
La popolazione rurale non era la sola da estraniarsi dal regime.
Le masse degli operai della città cominciavano a sentire un distacco tra sé e l’apparato dello Stato e tra sé e il partito comunista. Un aspetto di questo distacco fu l’antagonismo tra il «centro» e le «provincie» caratteristico di quell’epoca; esso si manifestava nelle provincie in sorde mormora-zioni, anche tra gli stessi comunisti, contro i ben calzati e ben pasciuti commissari provenienti dal centro, come Juri Libedinskij, nella Settimana, fa dire ai suoi personaggi Simchova e Martynov. Tra gli operai delle fabbriche cominciò a diffondersi una crescente sfiducia verso le più alte autorità economiche, che sapevano solo coprirli di un diluvio di ordini e di regolamenti, che li lasciavano in ozio per la mancanza di materiale o di combustibile, che proibivano loro di acquistare generi alimentari sul mercato libero e che non erano capaci di fornire loro nemmeno le pur magre razioni. Cominciò ad infiltrarsi il sospetto che i sindacati, piuttosto che organi rappresentativi degli operai comuni e tutori degli interessi delle masse nei consigli statali, costituissero un apparato il cui compito era quello di assicurare l’acquiescenza degli operai alle direttive governative; i sindacati operai cominciarono ad essere considerati come qualcosa di poco diverso da un qualsiasi ufficio ministeriale.
L’atteggiamento tenuto dai sindacati durante il periodo della guerra – la loro collaborazione con l’industria per mantenere la disciplina del lavoro e per reclutare gli eserciti del lavoro e la pratica, divenuta quasi costante, di sostituire le cariche elettive con designazioni dall’alto – contribuì in larga misura al rafforzamento di una tale situazione. Il regime che Trotskij aveva introdotto nelle ferrovie era un esempio di questa tendenza e provocò numerose proteste in ogni settore del mondo sindacale. Inebriato dal successo riportato nell’organizzazione dell’Esercito rosso, Trotskij, fin dall’inizio del 1920, aveva posto mano ad un progetto di coscrizione obbligatoria del lavoro e alla formazione di un esercito del lavoro che permettessero di affrontare i problemi della ricostruzione. Vennero costituiti speciali «battaglioni d’assalto», il cui compito era quello di dare un nuovo slancio produttivo alle aziende «d’assalto»; a mano a mano che le unità dell’Esercito rosso venivano ritirate dal fronte, invece di essere smobilitato, venivano avviate sul fronte del lavoro per fronteggiare la crisi dei combustibili e dei trasporti che in quel momento era nella sua fase più acuta. Secondo questo piano, i sindacati avrebbero dovuto fornire il personale organizzativo che doveva essere nominato dall’alto e posto sotto una disciplina militare. Entro certi limiti il successo arrise all’iniziativa; la raccolta del legname combustibile venne accelerata; gli ingenti lavori di riparazione delle officine ferroviarie e delle strade ferrate principali vennero condotti a termine. Tuttavia, contro l’esiguità dell’incentivo e contro l’esaurimento fisico ben poco
potevano l’organizzazione militare e l’obbligatorietà del lavoro; ben presto si manifestò una reazione contraria. Nella seconda metà del 1920 gli scioperi divennero assai frequenti. L’assenteismo continuò ad aumentare e riunioni di fabbrica cominciarono a votare risoluzioni di opposizione, nelle strade si verificano delle dimostrazioni di protesta; gli operatori governativi vennero fischiati. Quando il precario miglioramento della situazione dei combustibili, dovuto al ritorno sotto il controllo sovietico dei giacimenti petroliferi del Caucaso, accennò a scomparire, nuovi segni di scontento cominciarono a manifestarsi. Questa volta essi si estesero fino a Konstadt, la base navale vicino a Pietrogrado, che fin dai primi giorni di marzo del 1917 era stato il vanto e la gloria della rivoluzione. Questo era particolarmente significativo poiché era il riflesso dello scontento dei contadini, penetrato ormai fin dentro la cittadella del bolscevismo.”[25]
In ogni caso l’analisi relativa al processo di distribuzione-consumo all’interno del “purgatorio-socialismo” sottolinea come anche il calcolo del costo della riproduzione della forza-lavoro, dignitosa e di “buona qualità”, rientri in quel processo di “contabilità” (Marx) che, all’interno del socialismo come nel comunismo sviluppato, “diventa più importante che mai” (Marx). Tale processo di riproduzione di buona qualità della forza-lavoro, sia sul piano produttivo che politico-sociale (si pensi solo alla Konstadt reale del 1921), si rivela come un limite ed una soglia minimale di retribuzione della forza-lavoro, sotto la quale la formazione economico-sociale collettivistica non può né deve andare: sotto pena di scomparire per il peso delle sue contraddizioni interne e incontrando la (sacrosanta) ribellione dei produttori diretti, dopo tempi più o meno prolungati.
Processo collettivo di riproduzione di “buona qualità” della forza-lavoro che non avveniva sicuramente in Cina, ancora nel 1967 e nella zona relativamente privilegiata di Pechino in cui era posto il vicolo di Fanghuzhai, come ha testimoniato anche la figlia di Deng Xiaoping, Deng Rong, quando gli effetti della disastrosa Rivoluzione Culturale allontanarono il padre dal nucleo centrale del potere politico cinese a Zhongnanhai.
“Non saprei in quale altro modo definire il posto in cui stavamo a Zhongnanhai, se non come una sorta di “torre d’avorio”. Qui a Fanghuzhai, invece, eravamo senza alcun dubbio nel mondo reale.
Gli operai e gli impiegati del Gabinetto del Comitato centrale nostri coinquilini ci trattavano abbastanza bene, forse dietro ordine di qualcuno. Appena arrivati, molti ci chiesero se avevamo bisogno di qualcosa. Ci diedero dei porri e della salsa di soia. Avevamo ancora in mente Zhongnanhai e quel posto ci sembrava vecchio e cadente, ma gli operai e gli impiegati erano sempre vissuti là con le loro famiglie.
Non pensavano che ci fosse nulla di sbagliato, e noi iniziammo a capire che la gente comune viveva così. I loro stipendi erano bassissimi – da venti yuan al mese in su. Al massimo, quaranta. E questo stesso doveva bastare per una famiglia di tre generazioni. Molte mogli per arrotondare incollavano scatole di cartone o di fiammiferi. In molte case i letti erano semplici tavole appoggiate su due lunghe panche sulle quali si coricava l’intera famiglia. I pasti consistevano in focaccine di farina di mais e verdure salate. Se c’erano i tagliolini fritti in salsa di soia con un po’ di carne trita era già una festa. I vestiti erano pieni di toppe. I bambini erano quelli che subivano le privazioni maggiori, ed erano fortunati se riuscivano a difendersi dal freddo.
Di che cosa potevamo lamentarci? Non avevamo il diritto di essere insoddisfatti.
Imparammo a vivere come quelle famiglie di operai. Prendevamo l’acqua dal rubinetto in cortile. Usavamo i bagni pubblici nel vicolo. Presentavamo i buoni per comprare le granaglie allo spaccio dei cereali, mostravamo il nostro libricino al deposito di carbone per comprarne. In quegli anni i cereali, il carbone, l’olio commestibile e molti altri prodotti scarseg-giavano ed erano razionati.
Nei periodi festivi, ci mettevamo in coda come gli altri per comprare dei funghetti, dei Fiori Gialli, delle spezie, che nei giorni feriali non si trovavano in vendita. Il formaggio di soia si vendeva una volta alla settimana, e quel giorno dovevamo alzarci alle quattro o cinque del mattino, per metterci in coda al mercato ortofrutticolo”.[26]
Sempre rispetto alla LEU in via d’esame, assume infine un ruolo importante anche il processo di analisi del “socialismo di mercato”, su cui si sono soffermati A. Gabriele e F. Schettino in un loro interessante saggio teorico del 2012.[27]
Il socialismo di mercato si differenzia innanzitutto da quello di matrice sovietica, a partire dagli studi di O. Lange e dall’esperienza jugoslava del 1950/88, perché il processo di formazione dei prezzi dei valori d’uso (mezzi di produzione e mezzi di consumo) viene affidato al suo interno principalmente (ma non solo) al processo di decisione relativamente autonoma delle singole unità produttive, sempre di proprietà collettiva: tale fenomeno si verificò nell’area jugoslava specialmente dopo il 1965 e in Cina dopo il 1979. A partire dal 1980, infatti, si conferì un certo grado di autonomia alle imprese del gigantesco paese asiatico fissando “un contratto tra dirigenti delle imprese” (di stato) “e ministeri, che stabilisce da un lato gli obiettivi produttivi da raggiungere in un orizzonte di 3-4 anni e la quota da conferire allo stato; dall’altro gli obblighi finanziari (tasse)”: nel giro di pochi anni, soprattutto dopo il 1988, le aziende statali cinesi diventarono soggetti in buona parte autonomi sul piano giuridico ed economico.[28]
Inoltre il livello microeconomico/aziendale di matrice socialista acquisisce anche il potere principale (ma non esclusivo) di determinare “quanto e cosa produrre”, a partire dal rapporto tra fondo di consumo dei lavoratori e fondo di accumulazione, oltre che nel processo di selezione concreta di prodotti finali verso cui indirizzare la produzione delle singole unità produttive: nell’esperienza della Jugoslavia uno dei centri principali delle decisioni microeconomiche iniziarono ad essere i collettivi dei lavoratori già a partire dal 27 giugno del 1950.[29]
In terzo luogo e a differenza che nel socialismo ipercentralizzato di matrice sovietica, sussiste e si riproduce nel socialismo di mercato un grado ((variabile) di concorrenza tra le singoli unità produttive che operano nello stesso settore (ad esempio in quello automobilistico): in modo tale che il “mercato”, inteso come l’insieme dei consumatori dei diversi oggetti d’uso (gli acquirenti di automobili, nel caso specifico), decide in via principale – anche se non esclusiva – quale sia l’impresa che produce gli oggetti d’uso migliori in termini di rapporto tra prezzo e qualità rispetto ai “concorrenti”.
Per quanto riguarda la LEU del costo-lavoro, come nel socialismo di matrice pianificata essa risulta in ogni caso alla base del processo di formazione dei costi dei prezzi anche per il socialismo di mercato: ad esempio l’automobile dell’azienda-socialista costerà infatti in ogni caso un dispendio in termini di erogazione di forza-lavoro, di consumo di materie prime (a loro volta costate una quantità X1 di tempo-lavoro generale), di usura degli impianti e di trasporto degli oggetti d’uso nel luogo di consumo, come del resto avverrà nell’impresa-socialista che risulti concorrente dalla prima, e così via.
E, a sua volta, la quantità di mezzi di consumo (il “salario”) acquisiti mano a mano dalla forza-lavoro impiegata nelle diverse aziende socialiste dipenderà dalla quantità/qualità di lavoro erogata, posta in combinazione dialettica con lo sviluppo qualità del tipo delle forze produttive esistenti nel settore, una volta che siano state effettuate le “detrazioni” previste da Marx nel 1875 (di regola sotto forma di tasse sul prodotto/profitto delle singole aziende) e il processo decisivo sul rapporto tra fondo di consumo e fondo di accumulazione, rispetto al prodotto sociale complessivo a disposi-zione delle singole aziende. Come nel socialismo pianificatore, la forza-lavoro non assumerebbe la forma di merce venduta a determinati prezzi ad acquirenti assolutamente autonomi e privi di qualunque vincolo con la parte venditrice, perché le imprese socialiste appartengono ai produttori diretti anche se il principio dello “scambio tra lavoratori uguali” assomiglia molto alla legge del valore si ha un “contenuto e forma mutati”, perché “niente può diventare proprietà dell’individuo al di fuori dei mezzi di consumo individuale” (Marx).
Potremmo fermarci a questo punto, ma ci consentiamo di “divagare” per poche pagine sull’argomento stimolante del rapporto tra pianificazione e mercato all’interno del socialismo, notando che Gabriele e Schettino avevano sicuramente ragione nell’affermare che “l’esperienza storica ha mostrato che l’alto e sempre crescente grado di complessità dell’economia moderna, legata alla sua continua e stratificata accumulazione di conoscenze da parte di numerosi e diversificati attori, non consente semplicistiche o supercentralizzate soluzioni al problema-chiave della gestione/governance”, mentre proprio l’economia pianificata di tipo sovietico ha mostrato di essere “troppo rigida” per essere in grado di assorbire “l’innovazione” tecnologica e scientifica, di natura autoctona o estera.[30]
Ma altresì è sempre l’esperienza storica che mostra i disastri economici a cui porta il “mercato”, seppur operante con imprese ed unità produttiva di tipo socialista e collettivizzate, se esso viene privato della guida di una seria e vincolante pianificazione sulle linee-guida del processo economico, a partire dal tasso di accumulazione/consumo e dalla dinamica di distribuzione (settoriale e geografica) degli investimenti all’interno del socialismo di mercato.
Il caso jugoslavo del 1950/88 ha provato che il mercato, senza pianificazione, crea inevitabilmente:
- crisi periodiche di sovrapproduzione e fasi recessive, (1974 e 1980/83), come nel capitalismo;[31]
- asimmetrie di sviluppo e potere d’acquisto tra le diverse zone geopolitiche della stessa nazione, oltre a crescenti contraddizioni tra di esse;
- asimmetrie di sviluppo tra i diversi settori produttivi;
- aumento dei prezzi di consumo ed inflazione costante;
- privilegi corporativi nei settori produttivi meglio posizio-nati.[32]
All’interno dell’economia jugoslava, infatti, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, “la libera economia di mercato” basata su aziende socialiste moltiplicò i beni di consumo a disposizione, ma produsse anche l’inflazione.
Alla base della disputa sui vantaggi della programmazione centrale, contro la libera economia di mercato, c’era il conflitto di interessi tra le diverse repubbliche della federazione, tra il Nord, prospero e industrializzato, e il Sud, contadino e impoverito. Il reddito medio della popolazione in Croazia era quasi doppio rispetto al reddito in Bosnia, Montenegro e Macedonia; in Slovenia era due volte e mezzo più alto. La Serbia occupava una posizione intermedia, cui contribuivano la ricca provincia settentrionale della Vojvodina (provincia autonoma, all’interno della Serbia) e il Sud povero di Kossovo e Metohija. Le differenze si accentuarono con l’introduzione dell’economia di mercato: ogni anno, Croazia, Slovenia e Vojvodina diventavano più ricche e Bosnia, Erzegovina, Montenegro, Macedonia, Kossovo e Metohija più povere. Tito era perfettamente consapevole del problema, come disse a Dedijer. “Per molti anni ho lottato in campo internazionale per mettere fine alla pauperizzazione di grandi parti del mondo. I paesi ricchi diventano sempre più ricchi e quelli poveri sempre più poveri, e molto in fretta. Mi dispiace vedere che questo stesso processo ha luogo anche in Jugoslavia.” Dal 1945 “nel nostro paese, le regioni industriali diventano sempre più ricche a spese delle regioni economicamente sottosviluppate.”
Tito era risoluto a elevare il livello di vita nel sud e a crearvi posti di lavoro, ma questo si poteva fare molto meglio mediante la programmazione centralizzata che con la libera economia di mercato.”[33]
Un altro esempio delle proteiformi contraddizioni che possono sorgere tra le imprese socialiste autonome e l’interesse generale della società collettivistica viene fornita dall’esperienza sovietica del 1918, visto che “nella primavera del 1918, cominciò a diffondersi tra i comitati di fabbrica una tendenza sindacalista: essa era un derivato dell’idea che le aziende dovessero essere gestite direttamente dagli operai in esse occupati nel loro esclusivo interesse. Questo fenomeno determinò un abbassamento della produzione e della disciplina in fabbrica; in molti casi fece sorgere tra gli operai un sentimento particolaristico e di possesso nei confronti delle loro fabbriche, che andava a detrimento degli interessi della più vasta comunità e resisteva gelosamente ai tentativi di coordinamento e di direzione dall’alto. “Subentrò un altro proprietario – scriveva uno dei dirigenti del sindacato degli operai metallurgici – che, alla pari del precedente, era individualista ed antisociale ed il nome del nuovo proprietario era comitato di controllo nel bacino di Donez. Le officine metallurgiche e le miniere si rifiutavano reciprocamente di fornirsi il ferro e il carbone a credito, e vendevano il ferro ai contadini, senza alcun riguardo per i bisogni dello Stato”. Un successivo rapporto del Vesenkha riassumeva la posizione assunta da tale organismo durante questo periodo in termini molto franchi. “Il Vesenkha ha chiaramente compreso la necessità di un coordinato piano di nazionalizzazione condotto su linee ben precise. Tuttavia, nel primo periodo esso non ha potuto disporre dell’apparato statistico ed amministrativo, ne stabilire contatti efficienti con le singole località e, per conseguenza, mancando il numero sufficiente di organi locali efficienti e di “quadri” operai, è stato costretto a portare entro i limiti della propria competenza e a cercare di dirigere un numero troppo grande di imprese economicamente deboli: ciò ha reso l’organizzazione della produzione estrema-mente difficile. Il primo tempestoso periodo di amministrazione industriale ha sconvolto ogni organizzazione sistematica dell’industria e della rilevazione economica.”[34]
Proprio basandosi su un’esperienza socioproduttiva ormai quasi secolare, che parte dall’Ottobre Rosso sovietico fino ad oggi, risulta ormai evidente che proprio la combinazione dialettica tra una pianificazione di tipo vincolante a livello strategico e la simultanea azione del mercato/libera concor-renza tra imprese autonome (parzialmente) a livello di decisio-ni microeconomiche, unita all’intervento statale teso a riequilibrare costantemente le asimmetrie via via createsi nei processi di formazione dei prezzi e nella destinazione (sia settoriale che geografica) degli investimenti, si sia dimostrata nei fatti la migliore per ottimizzare il processo di riproduzione allargata del sistema socialista: tesi verificata proprio dalla concreta esperienza cinese del 1978-2013, con le sue luci e ombre, e con le sue “correzioni di tiro” in corso d’opera anche rispetto all’interrelazione dialettica tra piano e mercato, tra prezzi fissati dallo stato, ecc.[35]
Per definire la “coabitazione” tra i due poli dialettici si può utilizzare, usare lo slogan evidenziato dalla pluridecennale pratica cinese, e cioè “il massimo di pianificazione macroeco-nomica compatibile con il mercato a livello microeconomico, e viceversa”, mentre solo la pratica sociopolitica permette di superare le inevitabili contraddizioni tra i due meccanismi di interconnessione/intervento nei processi economici in Cina.
Lo storico e analista D. Graeber ha notato giustamente che “siamo abituati a pensare che il capitalismo e il mercato siano la stessa cosa, ma, come ha osservato il grande storico francese Fernand Braudel, sotto molti aspetti i due si possono vedere anche come opposti. Mentre i mercati sono delle istituzioni per scambiare merci usando la moneta come mezzo – storicamente, un modo per coloro che avevano un eccedenza di grano di procurarsi delle candele e viceversa (in termini economici, M-D-M’, ovvero merce-denaro-altra merce) –, il capitalismo è prima di tutto l’arte di usare il denaro per produrre altro denaro ( D-M-D’). naturalmente il modo più facile per riuscirci e stabilire qualche tipo di monopolio, ufficiale o de facto. Per questa ragione, i capitalisti di ogni tipo, che si tratti di mercanti, principi, finanzieri o industriali, hanno sempre cercato di allearsi con l’autorità politica per limitare la competizione nel mercato, in modo da essere agevolati e poter guadagnare di più.”[36]
Come meglio evidenzieremo in un prossimo saggio, se il “mercato” precede ed anticipa nei fatti di almeno sette millenni la genesi del capitalismo (Engels, 1894), a sua volta quest’ultimo ha utilizzato con una certa efficacia e su larga scala il meccanismo della pianificazione vincolante a livello strategico fin dall’esperienza concreta dell’“economia di guerra” tedesca del 1914-1918, allora diretta da un geniale organizzatore come il magnate W. Rathenau: bisogna innanzitutto de-ideologizzare la questione del rapporto dialettico tra mercato e pianificazione, evitando sia l’errata ed antistorica identificazione tra il primo elemento ed il capitalismo, che l’altrettanto scorretta ed antistorica equazione fra socialismo e pianificazione omnicomprensiva.
In Jugoslavia ad esempio sussisteva (troppo) poca pianifica-zione ma molti elementi di socialismo, visto che il 4 gennaio del 2003 l’allora ministro serbo dell’economia e delle privatizzazioni, A. Vlahodic, annunciò con fare trionfante che entro l’anno il governo iperliberista di Z. Djndjic sarebbe riuscito a privatizzare il 60% dell’intera economia serba, ben 15 anni dopo l’inizio dell’implosione dell’esperienza jugoslava.
Assai diversa risultava invece la questione, almeno altrettanto importante sul piano politico-sociale, della presenza di un consistente settore capitalista all’interno di una formazione economico-sociale prevalentemente collettivistica ed egemonizzata dal settore produttivo di matrice statale e cooperativo, con il delicato processo di coesistenza-lotta tra il primo (= la “linea nera”) ed il secondo (= la “linea rossa”), che si è materializzata nella dinamica socioproduttiva cinese tra 1978 e il 2014: ma anche su questa stimolante tematica rimandiamo per forza di cose ad un prossimo lavoro ad hoc.
Possiamo invece concludere questo capitolo sottolineando come la LEU del costo-lavoro non costituisca certo l’unico nesso generale e costante che si manifesta all’interno della sfera produttiva del purgatorio-socialismo.
Infatti anche tutte le altre leggi economico universali, già analizzate in precedenza, si manifestano e si rivelano (con le loro rispettive specificità concrete) all’interno del processo di riproduzione economico-sociale della fase (immatura) di sviluppo socialista, che può a determinate condizioni aprire le porte progressivamente, senza un drastico salto di qualità ma con progressivi avanzamenti e “riforme” (quali ad esempio l’introduzione graduale della gratuità nel consumo di beni di prima necessità), al difficile e lungo processo di costruzione del comunismo sviluppato.
Per verificare (o smentire) la loro azione si deve solo riprendere dall’inizio di focalizzazione rispetto alle diverse LEU, a partire proprio dall’indispensabile e costante apporto economico che la Natura fornisce alla praxis produttiva umana, nel socialismo, oltre che alla sua riproduzione sociobiologica.
Certo, si tratta di un’altra sfida ai compagni-lettori: buona critica/ricerca.
[1] R. Sidoli, “I rapporti di forza”, cap. 6/7/8, in www.robertosidoli.net
[2] P. Del Vecchio, “Ora i norvegesi adottano i bambini spagnoli alla fame”, 6/8/2012, Il Secolo XIX, p. 3
[3] A. Buzuev, “Le multinazionali e il militarismo”, p. 36, ed. Progress
[4] A. Buzuev, “Le multinazionali e il militarismo”, op. cit., p. 26; M. Schmidt, in Autori Vari, “Stato ed accumulazione del capitale”, p. 73, ed. Mazzotta
[5] A. Astapovic, “La strategia delle multinazionali”, p. 178-179, ed. Progress
[6] S. Halimi, “Il grande balzo all’indietro”, p. 246-247, ed. Fazi
[7] Op. cit.,
[8] L’Unità, n.3 del 1937, p. 6
[9] M. Salvadori, “La critica marxista allo stalinismo”, in Storia del marxismo, vol. 3/2, p. 128, ed. Einaudi
[10] R. Sidoli, “Logica della storia e comunismo novecentesco”, p. 157, ed. Petite Pleisance
[11] D. Burgio, M. Leoni, R. Sidoli, “Lenin o Isuv?”, in www.lacinarossa.net, dicembre 2011
[12] A. Negri, “Good-bye Mr. Socialism”, p. 36, ed. Feltrinelli
[13] K. Marx, “Critica al Programma di Gotha”, cap. primo
[14] M. Gorkij, “La madre”, p. 362, ed. Fabbri
[15] V. I. Stalin, “Problemi economici del socialismo”, cap. terzo, Editori Riuniti
[16] E. Che Guevara, “Considerazione sui costi di produzione”, giugno 1963
[17] R. Meek, op. cit., p. 252
[18] M. Dobb, “Storia dell’economia sovietica”, pp. 410-413, Editori Riuniti
[19] M. Dobb, op. cit., p. 17-18
[20] R. Meek, op. cit., p. 240-241
[21] K. Marx, “Critica del Programma di Gotha”, op. cit.
[22] V. I. Stalin, “Problem…” op. cit., cap. terzo
[23] “Cuba, terre incolte ai privati”, in www.repubblica.it, 12 luglio 2012
[24] L. Huberman e P. M. Sweerzy”, Le socialism cubain”, p. 152, ed. Anthropos Paris
[25] M. Dobb, “Storia dell’economia sovietica”, op. cit., p. 14, 137 e 138
[26] Deng Rong, “Deng Xiaoping e la Rivoluzione Culturale”, p. 65, ed. Rizzoli
[27] A. Gabriele e F. Schettino, “Market socialism as a distinct socioeconomic formation internal to the modern made of production”, maggio 2012
[28] G. Salvini, “La modernizzazione della Repubblica popolare cinese”, p. 359, in Autori Vari, “La Cina, verso la modernità”, vol. terzo, ed. Einaudi
[29] E. Hosch, “Storia dei paesi balcanici”, p. 263, ed. Einaudi
[30] A. Gabriele F. Schettino, op. cit., p. 28
[31] E. Hosch, “Storia dei paesi balcanici”, op. cit., p. 268-269, ed. Einaudi
[32] J. Ridley, “Tito”, p. 358-363 e 367, ed. Mondadori
[33] Op. cit., p. 341
[34] M. Dobb, “Storia dell’economia sovietica”, op. cit., p. 107 Editori Riuniti
[35] M. C. Berger, “La repubblica Popolare cinese”, p. 265-281, ed. Il Mulino; G. Samarani, “La Cina del Novecento”, p. 313-315, ed. Einaudi
[36] D. Graeber, “Debito”, p. 253, ed. Il Saggiatore