Più Europa? No, grazie! Quale sinistra per quale Europa

feb 21st, 2014 | Di | Categoria: Politica interna

 Spartaco A. Puttini

 

La crisi ha mostrato il vero volto del processo d’integrazione europeo. A dispetto di tanta pubblicità, oggi la Ue non gode di grande reputazione presso i popoli europei. Quando si parla di Europa occorre evitare i facili equivoci. L’Unione europea non è infatti l’Europa, ma una sua parte e l’Eurozona è, a sua volta, una parte della Ue. Ciononostante nel linguaggio corrente i termini sono interscambiabili.

Il processo di integrazione europeo si è ammantato di nobili ideali e anche di qualche utopia, rincorrendo il sogno federale degli Stati Uniti d’Europa ma realizzando l’incubo sovranazionale della Ue, cioè dell’Europa degli Stati Uniti.

Europa degli Stati Uniti sia nel senso che ad integrarsi sono stati i paesi di quella parte d’Europa soggetta all’egemonia Usa (significativo che l’allargamento dell’Ue ad est avvenga parallelamente all’espansione ad est della Nato), sia nel senso che la costruzione dell’unione avviene sotto la tutela americana, all’insegna dell’accettazione piena della reazione neoliberista già in voga nel mondo anglosassone e, in definitiva, come ulteriore tappa del processo di mondializzazione[1].

 

Nicola Acocella ha recentemente sottolineato come l’accelerazione che vive il processo di integrazione europeo tra gli anni ’80 e gli anni ’90 avvenga in un clima segnato dall’affermazione del modello neoliberista sulla base dell’obiettivo di completare la costruzione di un mercato unico dei beni, dei capitali, delle persone[2]. Il processo si configura nei fatti sintonizzato alla reazione globale neoliberista, con la sua proposta di finanziarizzazione e libera circolazione dei capitali senza controllo, con la sua richiesta di stato minimo e privatizzazione, con il suo porre l’accento sull’autonomia del mercato e la lotta all’inflazione anziché sullo sviluppo orientato dalla mano pubblica e sulla lotta alla disoccupazione.

 

La spinta ad una maggiore integrazione dell’Europa occidentale, con il salto dalla Comunità all’Unione, avviene proprio in questa temperie, dal vertice di Lussemburgo che sancisce la firma dell’Atto unico europeo nel 1986, a Maastricht. L’intelaiatura e lo spirito della Ue sono caratterizzati e segnati dallo stigma reazionario. La credenza nella capacità di autoregolazione dei mercati e l’ostilità verso l’intervento pubblico spiegano in certa misura la scelta di introdurre una moneta unica soggetta ad un’istituzione bancaria centralizzata e conservatrice ossessionata dalla lotta all’inflazione e spiegano anche “l’incompiutezza istituzionale” in cui versa la Ue. Senza il complemento di altre istituzioni che sovraintendano ad una politica fiscale comune si riteneva scontato che sarebbe stato l’input della politica monetarista a disciplinare l’attività economica dei vari paesi e a far convergere le economie dell’Eurozona. Acocella rileva come “Ciò introduce una tendenza deflazionistica che successivamente accentuerà e prolungherà gli effetti della crisi economica iniziata nel 2007”[3]. Del resto, a sottolineare ulteriormente che una politica di compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori era insita nell’impostazione che l’integrazione si era data era la stessa Commissione europea, che già nel 1990 indicava la strada maestra: “si è progressivamente affermato il convincimento che le divergenze economiche reali che si manifestano in squilibri esterni vanno affrontate di norma con misure di aggiustamento interno, piuttosto che con riallineamenti, cioè con un aggiustamento esterno”[4]. Vale a dire che già alla vigilia di Maastricht la Commissione aveva indicato come gli squilibri di competitività interni all’area della moneta unica non dovessero essere affrontati tramite la leva della svalutazione monetaria (che avrebbe invalidato il principio del cambio fisso su cui l’area stessa veniva costituita) ma tramite la svalutazione interna dei salari. Del resto, l’area valutaria a cambi fissi prima e la moneta unica dopo sono state volute a tutto pro del capitale e della sua possibilità di circolare liberamente senza pagare il pegno delle possibili svalutazioni. In proposito scriveva Padoa Schioppa in tempi non sospetti: “l’euro assume un significato speciale perché porta la creazione di un mercato alla sua conseguenza ultima, che è l’introduzione di una moneta unica”[5].

 

Oggi è sotto gli occhi di tutti il fallimento del modello neoliberista così come lo sono le divergenze crescenti all’interno dell’Eurozona. Assistiamo ad una dinamica segnata da crescenti squilibri a causa dell’aumento del divario tra i paesi centrali dell’Eurozona e quelli periferici e semiperiferici da un lato, e tra le classi sociali, con una netta tendenza alla proletarizzazione da parte di fasce crescenti del ceto medio, dall’altro. Di fronte all’eurocrisi in corso ciascuno può toccare con mano come le ricette di austerità della Commissione europea e della BCE portino a un crescente immiserimento delle classi popolari e ad una brutale regressione dei diritti del lavoro in tutta la Ue, prospettando la formazione di masse di working poor, lavoratori poveri che non riescono a campare del proprio lavoro cui si sommano, nella disgrazia sociale imperante, quote rilevanti di disoccupati.

Ma questo non basta: occorre avere presente il quadro che nelle righe precedenti è stato didascalicamente abbozzato per comprendere che il problema posto dalle attuali politiche promosse dalla Ue risiede nello stesso DNA del processo di integrazione, che è, per così dire, nel manico.

 

-          L’unione monetaria (UEM)

La libera circolazione dei capitali e la costruzione di uno spazio economico integrato richiedevano, per ragioni di stabilità dei cambi, la moneta unica e la devoluzione, da parte degli stati europei, di quote di sovranità in ambito monetario ed economico. La funesta scelta dell’euro appare una conseguenza della scelta a monte di costruire uno spazio integrato a misura di capitale che fosse un ramo della Triade dei paesi capitalistici avanzati. Bisogna in proposito elogiare Padoa Schioppa per la sua schiettezza: “[…] la decisione di completare il mercato unico con una moneta unica prese origine dal riconoscimento di due fatti. In primo luogo, si riconobbe che l’ordine di un mercato unico non poteva essere mantenuto senza stabilità macroeconomica; in secondo luogo, che la stabilità nel suo insieme non poteva essere raggiunta in modo duraturo se ciascun paese continuava ad agire in modo indipendente”[6]. Di conseguenza: “Nel governo dell’economia la creazione del mercato unico europeo ha imposto allo Stato nazionale una drastica limitazione della sovranità, cioè del suo diritto illimitato e della sua capacità di prendere decisioni autonome”[7].

 

Come nella più classica storia dell’imperialismo si verifica così, tramite il processo di integrazione, l’attacco alla sovranità, dapprima in ambito economico, e poi in altri ambiti; fino alla costruzione della piramide che vuole al vertice il diritto comunitario cui in subordine devono essere relegate le costituzioni dei paesi membri. L’attacco alla sovranità è l’attacco agli spazi di democrazia che il movimento operaio si è conquistato nel corso del Novecento tramite dure lotte. Nelle parole di Padoa Schioppa la questione posta dalla democrazia agli imperativi delle forze del capitalismo monopolistico che dirigono il mercato viene liquidata così: “Una concordanza completa e sistematica delle politiche macroeconomiche condotte da gruppi di governi sovrani risulta estremamente difficile per una molteplicità di ragioni. Ciascun governo risponde, in ultima analisi, al proprio elettorato: vi sono assai scarse probabilità … che gli elettori di paesi diversi votino per le stesse politiche nel medesimo tempo […] per evitare conseguenze negative, occorre rafforzare il coordinamento delle politiche in modo indiretto, cioè attraverso l’istituzionalizzazione o l’organizzazione di un mercato europeo dei capitali”[8].

 

L’eterogeneità dei paesi che compongono l’Eurozona in presenza di una politica liberale deregolata e del cambio fisso contribuiscono a delineare un centro, costituito essenzialmente dal grande capitale monopolistico tedesco, e delle aree periferiche e semiperiferiche, costituite dai paesi meno sviluppati. Ripropone cioè all’interno dell’Unione europea monetaria (UEM) la dialettica centro-periferia tipica delle relazioni tra i paesi imperialisti e le loro vittime sacrificali dei paesi in via di sviluppo.

 

La politica europea si configura così come volta a trasferire ricchezze dai salari alle rendite, dalle classi popolari lavoratrici e medie alle oligarchie alto-borghesi, dai paesi periferici e semiperiferici al centro tedesco. Il cambio fisso consente ai capitali del centro di affluire alla periferia, dove i più alti tassi d’interesse garantiscono una maggiore remunerazione, senza incorrere nel rischio della svalutazione. Parimenti, la politica di pesante deflazione salariale seguita dalla Germania dopo le riforme del mercato del lavoro attuate dai socialdemocratici all’inizio degli anni 2000 le consente di impostare una politica di feroce concorrenza sui prezzi di costo dei suoi prodotti che la portano a sottrarre quote crescenti di mercato ai suoi partner comunitari. Si delinea così un modello tedesco trainato dalle esportazioni che accumula surplus strutturali nei confronti dei suoi partner europei, che importano dalla Germania (anche grazie alla domanda drogata dall’afflusso di capitali) più di quanto possano esportarvi (altro effetto della politica di deflazione salariale inaugurata dalla socialdemocrazia tedesca). I paesi periferici non possono reagire svalutando la moneta, agganciati come sono al cambio fisso dell’euro-marco, e i prodotti tedeschi non subiscono rivalutazione alcuna per lo stesso meccanismo. In breve i paesi del sud, i PIGS, ingrassano il centro tedesco, e sono spinti ad accumulare deficit strutturali nei suoi confronti[9].

 

La loro situazione peggiora sempre più, a causa degli attacchi speculativi dovuti alla loro manifesta fragilità, evidenziata dall’inclinazione assunta dalla bilancia dei pagamenti. La crisi da debito estero, contratto principalmente dal settore privato, diventa debito pubblico e spiega il differenziale tra i tassi d’interesse dei titoli di Stato di questi paesi nei confronti dei bund tedeschi, perché gli investitori li ritengono a rischio insolvenza, e tale rischio se lo fanno ovviamente pagare profumatamente, alimentando il debito.

I PIGS si trovano di fronte due scelte, non solo a causa delle politiche di austerità imposte loro dalla tecnocrazia europea ma per lo stesso meccanismo insito nell’unione monetaria. Non potendo svalutare la moneta i paesi in deficit sono spinti a svalutare il lavoro, cioè ad operare una drastica deflazione salariale inseguendo la Germania sul suo stesso terreno. Ma è una corsa al massacro, che implica il crollo della domanda interna e la contrazione del Pil (con possibile esplosione della quota di debito sul Pil). Nella fase successiva l’onda della recessione, ormai inevitabile, si abbatte sulla Ue lambendo la stessa Germania, i cui clienti vanno in affanno e riducono la quota di importazione di prodotti tedeschi. Ma i paesi periferici e semiperiferici sono a questo punto sostanzialmente piegati e le loro imprese subiscono una svalutazione reale che li pone in balìa di acquisizioni a basso costo. La desertificazione seguente produce quella che è stata definita una “mezzogiornificazione”[10] delle aree deboli dell’Eurozona che, a quel punto, non possono che offrire le loro braccia, sempre a basso costo, s’intende.

La seconda scelta consiste nell’emigrazione massiccia di manodopera verso le aree economicamente più dinamiche per riequilibrare le tendenze divaricanti. Una scelta insita nell’afflato degli europeisti a garantire la libera circolazione delle persone, oltre che delle merci e dei capitali, e tipica della dinamica di alta mobilità dei fattori produttivi propria di un’area valutaria ottimale. Ma, ovviamente, le grandi disparità di lingua, cultura etc., che intercorrono tra i paesi europei rendono poco praticabile questa opzione su larga scala, almeno per il momento. Ma il punto è un altro: l’emigrazione massiccia comporta sempre una sconfitta e un dramma per chi se ne va e anche per la propria comunità, mentre la mezzogiornificazione spinge intere nazioni nel terzo mondo, a dispetto dei fiumi di parole spesi da certa stampa in onore al cosmopolitismo, che è sempre borghese e non deve essere confuso con l’internazionalismo.

Il fatto è che in un’unione monetaria, in presenza di shock asimmetrici, il paese che si trova ad accumulare deficit deve garantire un’alta flessibilità e un’alta mobilità della forza lavoro. Quindi chi accetta l’euro si trova giocoforza ad accettare la flessibilità, la deflazione salariale, l’emigrazione. Punto.

 

-          Rompere la gabbia

In definitiva, essendo la reazione liberista insita all’Unione europea, ed essendo l’euro strumento principe dell’impoverimento dei popoli europei e della nuova gerarchizzazione tra i paesi europei, occorre prendere atto che la gabbia va rotta. E’ una sfida vitale. Il “più Europa” è il mantra delle forze che propongono, comunque ammantate, una politica antipopolare di destra.

La sinistra-destra (cioè le forze politiche che si presentano come di sinistra o centrosinistra ma che fanno politiche di destra) pensano di uscire dal rebus con il motto “più Europa”, cioè andando a rotta di collo verso lo stato sovranazionale europeo, delegando ulteriori poteri ad un governo centrale, che per sua natura sarà tecnocratico, visto come la Ue si è venuta costituendo. Chi parla di un’altra Europa è chiamato a chiarire di quale Europa parla. Se parla di un’altra Ue, cioè di una Ue riformata in senso sociale e democratico, sbaglia di grosso e insegue una pericolosa utopia. Non esiste infatti nessun popolo europeo dal quale possa emanare la sovranità, si tratterebbe semplicemente di aumentare di qualche briciola insignificante i poteri dell’europarlamento e mettere un po’ di belletto al processo di integrazione, così come esso è.

 

Aggiustamenti minimi non mi paiono credibili. Innanzitutto perché manca la volontà cooperativa, se ci fosse stata la Germania non avrebbe mai fatto una politica mercantilista così feroce. Quanto all’ipotesi di una redistribuzione di risorse, anche se lo volesse, Berlino probabilmente non potrebbe accollarsi i costi necessari ad operare un così massiccio trasferimento di capitali verso le periferie. Occorre considerare che non si tratta solo di sussidiare la Grecia, ma l’Italia e la Spagna, vale a dire la terza e la quarta economia dell’eurozona! Un costo che la Germania dovrebbe accollarsi per il 70%![11] La Germania è, al solito, abbastanza forte per mettere sotto l’Europa ma non abbastanza per domarla e gestirla. Apparentemente tale soluzione può apparire sempre meglio della situazione attuale, nella quale l’Italia è creditore netto all’interno della Ue(!) e l’interruzione dei trasferimenti di capitali dal centro ha scoperto la realtà dei deficit strutturali accumulati dai PIGS. Ma nei fatti tale politica presupporrebbe un rafforzamento del processo che porta i PIGS a divenire dipendenti e subordinati, mano a mano che il grande capitale tedesco penetra nei loro tessuti socio-produttivi. Ad ogni modo è questa un’ipotesi puramente teorica. Come quella di una reflazione dei salari da parte della Germania. La mancanza di spirito cooperativo taglia la testa ai tanti “se”.

 

A sinistra c’è chi vede la lotta per un’altra Europa come possibile solo nella sua dimensione transnazionale, con lotte compiute su scala Ue. Non ho la fantasia per immaginare lo svilupparsi di un simile processo e del suo sbocco. Per quanto posti di fronte alla stessa sfida i popoli europei vivono in condizioni analoghe ma diverse. E percepiscono molto le loro diversità. La loro appartenenza è quella alle comunità nazionali di riferimento, non ad un’impalpabile ed evanescente società europea, piaccia o meno. Il loro arsenale è depositato nella caserma dello Stato nazionale.

Come ha notato Samir Amin le condizioni per implementare le politiche che servono per uscire dalla crisi “non saranno mai raggiunte contemporaneamente in tutta l’Unione europea. Questo miracolo non accadrà. Occorrerà quindi accettare di cominciare là dove è possibile, in uno o più paesi. Rimango convinto che il processo avviato non tarderebbe a divenire valanga”[12].

 

Gran parte della sinistra radicale ha, al riguardo, una visione distorta del problema, quando non ambigua. E’ il caso della Linke, che al suo ultimo congresso si è dichiarata contraria all’austerità ma non all’euro, come se i due aspetti potessero essere disgiunti, o della stessa Syriza, che ritiene possibile avviare delle trattative con Bruxelles, non si sa bene per finire dove.

 

La proposta formulata da più parti di presentare e sostenere alle prossime elezioni europee una lista che candidi il leader di Syriza, Tsipras, alla guida della Commissione appare caratterizzata da un profilo troppo debole rispetto alla sfida che si trova di fronte. Non affrontare il nodo costituito dall’euro e non tirare le necessarie conseguenze dalla natura e dall’esito del processo di integrazione europeo ipoteca a mio giudizio le più vaste potenzialità che un’iniziativa della sinistra di classe avrebbe potuto produrre se si fosse posizionata con parole d’ordine più coraggiose e con una postura più radicale. Il pericolo che può manifestarsi è quello di imbrigliare una volta di più le forze di sinistra in un cartello elettorale in cui le forze trainanti si basano su un’analisi approssimativa e non aderente ai bisogni popolari e formulano una proposta politica inefficace e fuorviante. Il tentativo di cavalcare questa tigre da parte di Barbara Spinelli, figlia di Altiero, il visionario di Ventotene, e compagna del già più volte citato eurotecnocrate Padoa Schioppa, rappresenta un indubbio peggiorativo, in questo senso. Vorrebbe impelagare la sinistra, che può essere un potenziale serbatoio per la costruzione di una proposta politica lucidamente ostile all’Eurozona e al progetto Ue, fino ad annullarla nel recinto, ben presidiato, di un’ipotetica Europa “altra”, che non corrisponde alla realtà dei fatti e che si pone comunque sullo scivoloso terreno sovranazionale ed eurozonista. Le ipotesi riformiste dei sei generali senza esercito sono destinate a coprire con una foglia di fico le vergogne della Ue, destino di tutte le suggestioni federaliste e terzaforziste coltivate sino ad ora. Sono ipotesi destinate alla compatibilità con il sistema di comando del grande capitale nel vecchio continente. Coloro che a sinistra hanno maturato visioni più mature del problema e formulano aperte critiche all’impostazione della sinistra europea, come buona parte dei comunisti, riusciranno a far sentire la propria voce e a caratterizzarsi in senso diverso rispetto a quello prevalente della lista nella quale hanno deciso di confluire? Sulle prime pare difficile. Colpisce che la componente comunista del Prc appaia incline a favorire ogni aggregazione che non sia l’unità dei comunisti e che su questo punto non riesca a vedere più in là di Ferrero, ed è decisamente poco. Troppo poco.

 

Occorre dissipare le illusioni circa questa costruzione europea, ci sono già stati troppi sognatori e troppi venditori di fumo in questa storia. Con una battuta potremmo dire troppi “spinelli”.

Per rompere l’offensiva reazionaria, di cui la Ue e l’euro sono elementi cardinali, occorre uscire dalla moneta unica e provocarne la deflagrazione, recuperando pienamente la sovranità nazionale negli ambiti economici nei quali questa è stata sottratta. Per dare una spada a quelle classi popolari che sono state disarmate dalla reazione liberista in questi decenni. L’uscita non sanerebbe certo tutti i mali, come qualsiasi altra scelta del resto. Ma appare come una mossa sempre più obbligata, i cui possibili costi vanno commisurati con la certezza della dissoluzione e di una grandissima depressione che ci sprofonderebbe nel Terzo mondo. La svalutazione, specie se opportunamente gestita, è comunque meglio di una depressione senza fine.

Vi è una forte corrente euroscettica nell’opinione pubblica. Potenzialmente rappresenta un grimaldello per rompere la gabbia, e non solo un terreno di possibile coltura di minacce reazionarie. Ma questo dipenderà concretamente dalla capacità che i comunisti e la sinistra di classe avranno di posizionarsi strategicamente nella battaglia, ben oltre il limite consentito da queste elezioni europee, per indicare un’uscita da sinistra dall’euro e dalla Ue e avviare un processo di accumulazione di forze e fuoriuscita dalla minorità. Non posso fare a meno di notare che i partiti comunisti avevano sempre combattuto il processo di integrazione europeo, almeno fino a che non hanno iniziato la loro mutazione genetica (si vedano gli esempi del Pci e del Pcf)[13]. Il sogno federalista europeo era appannaggio dei repubblicani, dei liberali, del polo laico. Non per caso. La destra liberista ha due opzioni: restare nell’euro o uscirne a modo suo, scaricando i costi sul proletariato. La sinistra di classe ne ha solo una: uscire a modo suo, con una netta svolta nella politica economica e sociale a favore delle classi popolari e con la riappropriazione della sovranità nazionale alienata, conditio sine qua non per dare corpo ad una politica macroeconomica ed industriale completamente diversa da quella che ci ha condotto a questo punto (svolta che restando nella Ue sarebbe impossibile).

Nell’appello di Spinelli per Tsipras si sostiene che “gli Stati da soli non sono in grado di esercitare sovranità, a meno di chiudere le frontiere, far finta che l’economia-mondo non esista, impoverirsi sempre più. Solo attraverso l’Europa gli europei possono ridivenire padroni di sé”.

Sono tesi che fanno acqua da tutte le parti. Innanzitutto è questa Europa che ha impoverito e impoverisce gli europei e non può essere altrimenti, dato i meccanismi insiti in un’unione monetaria, come abbiamo già accennato. Secondariamente andrebbe tenuto conto che i paesi europei che non hanno adottato l’euro, già prima della crisi, hanno realizzato una crescita superiore a quella media dell’eurozona. Sfugge infine perché un paese sovrano dovrebbe chiudersi all’economia-mondo: al di fuori della Ue sono tutte autarchie? O il senso del rilievo è che per la Spinelli non bisogna toccare la libera circolazione dei capitali? Al contrario, come hanno sostenuto numerosi economisti, un’uscita dall’unione monetaria e una successiva svalutazione, i cui effetti possono essere attutiti con l’indicizzazione dei salari ed altre misure a tutela delle classi popolari, rilancerebbero a breve la crescita. Di fatto, poi, se si ha l’obiettivo di una riscrittura dei trattati è, per forza di cose, dalla dimensione nazionale che bisogna partire, dal confronto e dal concerto tra gli Stati. A volte si ha l’impressione che i sei sostenitori di Tsipras non sappiano con esattezza di cosa stanno parlando.

 

Chi, invece, ritiene che nell’attuale situazione internazionale non sia proponibile per l’Italia un’uscita unilaterale ed addita, meritoriamente, l’esempio dell’integrazione cooperativa latinoamericana dell’ALBA dovrebbe tener conto che anche in quel contesto il processo è partito dalla riaffermazione della sovranità di un paese che era fino ad allora tenuto al guinzaglio (il Venezuela) e che il progetto è stato reso possibile dalla cooperazione di governi che avevano un comune intendimento di fronte alle stesse sfide. L’ipotesi di una svolta politica di tale portata in tutti i PIGS appare improbabile ed ignora i riflessi che sul quadro politico interno dei vari paesi ha la legge dello sviluppo diseguale del capitalismo. Appare più probabile l’affermazione di un blocco euroscettico in un singolo paese.  Se questo paese fosse l’Italia, avrebbe la massa critica sufficiente (nonostante tutto) per innescare una reazione a catena nella periferia dell’Eurozona; come affermano numerosi osservatori transalpini per la stessa Francia sarebbe un problema restare legata al carro tedesco con l’Italia fuori dall’euro.

 

Vi è un’area di forze e soggettività che a sinistra e da sinistra ha colto la necessità di uscire dall’euro e dalla Ue. Ma occorre tirare le fila e capire che qualsiasi politica economica che rompa con l’austerità e il liberismo non è possibile nel perimetro dell’eurozona e della Ue.

Come diceva Mao: “abbandoniamo le illusioni, prepariamoci alla lotta”.

 



[1] Samir Amin parla in proposito di “imperialismo collettivo della Triade”, cioè “dei centri dominanti del capitalismo dei monopoli generalizzati”. Si veda: S. Amin, L’implosione programmata del sistema europeo; in: “Marx XXI”, n.1 2013, pp. 15-23

[2] Si veda: N. Acocella, Teoria e pratica della politica economica: l’eredità del recente passato; in: “Rivista di storia economica”, n.2 agosto 2013, pp. 232 e seguenti

[3] Ibidem, p.233

[4] Cit. in: M. Badiale e F. Tringali, La trappola dell’euro; Trieste, Asterios 2012, pp. 37-38

[5] T. Padoa Schioppa, Europa, forza gentile; Bologna, Il Mulino 2001, p. 59

[6] T. Padoa Schioppa, La lunga via per l’euro; Bologna, Il Mulino 2004, p. 57

[7] Ibidem, p. 54

[8] Ibidem, pp. 46-47

[9] “Il surplus commerciale della Germania rispetto alla zona euro rappresenta il 60,5 % delle sue eccedenze totali. … essa realizza il 75% dei propri surplus sui paesi dell’Unione europea. […] dal 2002-2003 [il suo surplus] ha cominciato a ridursi rispetto ai paesi fuori dall’Unione europea, ma è stato compensato con un sovrappiù di competitività nell’eurozona”; si veda: : J. Sapir, Bisogna uscire dall’euro?; Verona, Ombre corte 2012, p. 64

 

[10] Di “mezzogiornificazione” parla Emiliano Brancaccio, che riprende la definizione da Krugman. Si veda: E. Brancaccio, M. Passarella, L’austerità è di destra; Milano, Il Saggiatore 2012

[11] Si vedano le stime compiute da Jacques Sapir: J. Sapir, op. cit., p.105

[12] S. Amin, op. cit.; p. 21

[13] Significativo è il giudizio che su tale questione offre Giorgio Napolitano nella sua autobiografia: “l’approdo del Pci all’europeismo costituì di fatto la più radicale rottura col suo bagaglio ideologico originario, con la sua visione rivoluzionaria di matrice leninista…”; si veda: G. Napolitano, Dal Pci al socialismo europeo. Un’autobiografia politica; Roma, Laterza 2006, p.312

Uscito anche su  “Gramsci Oggi“, n.1 2014

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